In questa brillante intervista, Pierluigi Ceola e Claudio Pigozzo ci raccontano la loro sfida imprenditoriale, frutto di dedizione e voglia di mettersi in gioco. Un progetto che affonda le proprie radici nella storica città di Noale, in provincia di Venezia, e che ha portato loro ad essere produttori d’eccellenza
“Perché la birra ci piace”. Una spiegazione semplice, quasi banale, verrebbe da dire.
Circondati, come siamo, da innumerevoli stimoli e momentanee tendenze, finiamo spesso per sottovalutare la forza propositiva e la valenza concreta del piacere. Eppure è proprio partendo da questa “banale” dimensione del piacere che sembrano nascere le idee più innovative e che si sviluppano delle professionalità eccellenti. Ed è qui che si colloca anche la sfida imprenditoriale di Pierluigi Ceola e Claudio Pigozzo. Età, caratteri, abitudini e percorsi di vita diversi per questi due maestri del palato, destinati ad incontrarsi in quel terreno fertile che è la passione. Passione per la birra, innanzitutto. Non quella mainstream, solitamente accompagnata da payoff frizzanti e dall’aggettivo “dissetante”. Una produzione limitata e pregiata, che nasce dalla nicchia tipicamente riservata alla qualità, ma che aspira a farsi sapore comune, nel segno della convivialità e dell’educazione al gusto.
Quella che cercheremo di conoscere è, allora, la storia di due uomini che, ad un certo punto, hanno scelto di fare una scommessa, investendovi tempo, risparmi, aspettative, sorrisi e nodi alla gola, motivati appunto da quel fatale “ci piace”. Una storia fatta di luoghi, materie prime raffinate e insolite, pigli creativi e voti all’eccellenza. La storia di un successo imprenditoriale tutt’altro che scontato, costretto continuamente a fare i conti con le ridotte dimensioni, gli alti rischi e le resistenze di pubblico, dunque con le molte difficoltà imposte dalle premesse stesse su cui tale successo si fonda.
C’era una volta la
Birra tempesta, così comincia questa storia, che cercheremo di raccontarvi attraverso le parole stesse di chi ha impiegato tutte le proprie forze nello scrivere un simile incipit e che, come nella migliore tradizione, ci auguriamo terminerà con un “per sempre felici e contenti”.
Un progetto estremamente settorializzato, che consiste nell’ideazione, produzione artigianale e vendita di birre esclusivamente ad alta fermentazione, in stile inglese (ale). Un disegno che affonda le proprie radici nel territorio e lo fa a partire dal nome, scelto in onore della famiglia Tempesta; la stessa che, a partire dal XII secolo, fece di Noale il centro di una signoria rurale, scegliendo come sede del proprio potere la Rocca, simbolo passato e attuale della città veneziana dalla quale provengono Pierluigi e Claudio.
Prima di leggere il testo dell’intervista che i due produttori d’eccellenza ci hanno concesso, vi consigliamo di seguire
questo link ad un articolo di approfondimento sullo stato dell’arte del settore birra in Italia.
Inoltre potrete vedere la video intervista direttamente a
questo link.
Partiamo con una domanda semplice: spiegaci cos’è Birra Tempesta e com’è nato il progetto.
Pierluigi: Birra Tempesta è nata il 2 novembre del 2010. All’inizio era una sfida, un gioco, una voglia di provare qualcosa di nuovo, una passione che voleva realizzarsi. In realtà siamo degli alcolisti anonimi, bere costava troppo e abbiamo cominciato a produrre la nostra birra. Scherzi a parte, il tutto è nato proprio come un gioco, volevamo realizzare una birra che rispecchiasse i nostri gusti: siamo appassionati di birre inglesi, uno stile di birra che si beve per far festa, in grandi quantità (mai senza esagerare ovviamente, questo per par condicio bisogna dirlo) e con piacere. Così abbiamo scelto di fare una prova; avevamo un amico che produceva birra già autonomamente, gli abbiamo chiesto se potevamo produrre anche noi la nostra e ci ha dato il via libera. È partita così la prima cotta, ovviamente in modo molto artigianale, partendo dalla ricetta (all’inizio non sapevamo niente su come si produceva) fino alle etichette, fatte al computer (siamo andati a stamparle in un centro grafico alle tre del mattino per poterle avere il giorno dopo alle sette). Perciò tutto molto rustico, alla mano, on the road, come piace a noi. La prova è venuta bene o, meglio, ci hanno detto essere venuta bene. Noi ci abbiamo creduto e abbiamo fatto un’altra cotta. I litri all’inizio erano 250 – che è veramente pochissimo rispetto a quello che facciamo adesso – però li abbiamo bruciati in un mese, complice un po’ il periodo di festa (la prima birra che abbiamo fatto era la Tempesta di Natale). Il gioco ha, quindi, preso piede per bene e abbiamo scelto di continuare: da una sola birra prodotta nei primi tre mesi di attività, siamo passati a 5 birre nel 2012.
Entriamo un po’ più nel vivo del progetto imprenditoriale che sta dietro “Birra Tempesta”: quante persone in tutto vi lavorano e quali sono i suoi caratteri distintivi (Sistema produttivo e distributivo)?
Pierluigi: Siamo partiti – ripeto – con 250 litri, mentre adesso, che siamo entrati a pieno regime, sono 1300 litri a cotta, mediamente una volta al mese (può capitare anche di più). Le persone che ci lavorano sono due, io e il mio socio. Credo che, con i tempi che corrono, l’idea di azienda perfetta sia questa: sii imprenditore, ma di te stesso; quindi rimboccarsi le maniche e fare quando c’è bisogno di fare. Lo spirito per costruire qualcosa di proprio dev’essere proprio questo, fare in prima persona, con le proprie mani. Io lavoro nella ristorazione da tanto tempo, in sala, nasco come sommelier però la mia passione è la birra. Il mio socio è un cuoco, anche lui è nella ristorazione, forse lui più di me aveva questa idea di creare e io l’ho abbracciata appieno, insomma era quello che volevo fare anch’io. Noi ci arrangiamo praticamente in tutto, partendo dalle ricette delle birre, che cerco sempre di seguire io in prima persona, dalla fase di progettazione, fino poi alla fase di produzione vera e propria. Seguo anche tutto ciò che ci sta dietro: imbottigliare la birra, tapparla, etichettarla, metterla nei cartoni, portarla a casa e venderla. Questa è un po’ l’idea di azienda di Birra Tempesta. Home made – diciamo – craft project. Per la vendita, abbiamo uno sbocco fantastico che è quello del Cortivo [il frequentatissimo locale di Noale in cui lavorano i due birrai, ndr], però abbiamo distribuito qualcosina anche in giro. Pochi amici perché crediamo che questo tipo di birra, essendo comunque una produzione limitata, debba essere valorizzata per quello che è, cioè un prodotto di qualità che ha un costo, purtroppo, non irrisorio e perciò ha bisogno di essere venduto con uno spirito diverso da quello tipicamente usato per le birre di un qualsiasi altro birrificio industriale. Questo è un po’ il nostro credo. Una distribuzione limitata ai pochi in cui noi crediamo… anzi loro credono in noi, forse questa è la cosa più giusta da dire. Le grafiche le realizzo io, anche se le pensiamo sempre assieme io e il mio socio. Sempre fifty-fifty, sia nel bene che male.
Prova a fare una rassegna veloce delle birre che producete, aggiungendo un commento strettamente personale su quale sia la tua preferita.
Pierluigi: Come dicevo prima produciamo birre in stile inglese, ad alta fermentazione (“ale”, per chi parla un po’ il “birrese”). Cerchiamo di rispettare sempre i canoni delle birre inglesi, che sono a basso grado alcolico (la birra che, tra le nostre, ha più gradi arriva a 7, a parte quelle speciali che non rientrano nella linea base). Le nostre birre sono cinque, partendo dalla “bambina”, dalla pale ale che rappresenta, secondo noi, un po’ la base che può piacere a tutti: è la Ultra, una birra da 4,5 gradi, amabile, non troppo amara, beverina, poco gas, con profumi floreali e un gusto erbaceo bello spiccato. Una birra che si può bere tranquillamente in qualsiasi momento e può berla chiunque senza spaventarsi. Passiamo a quella un po’ più “grande”, che, pur avendo meno gradi alcolici, è più caratteriale dell’altra: è la Secca, una birra da 3,8 gradi, con un corpo molto secco, un gusto amaro spiccatissimo e profumi, anche qui, molto importanti. Si tratta però di profumi molto diversi, che tendono ai frutti tropicali, all’ananas, alla papaya, con addirittura qualche sfumatura di cocco. È una birra molto particolare. Di nuovo, poco gas perché lo stile lo richiede. Noi solitamente cerchiamo di servire sempre tutte le nostre birre in pompa inglese, secondo tradizione, senza utilizzo di gas; le facciamo ovviamente tutte anche in bottiglia perché il mercato richiede, però lo stile perfetto per le nostre birre, l’esecuzione perfetta, si ha con la pompa inglese. “Sorella maggiore” della Secca è la Nemesi, una IPA (India Pale Ale) da 5,5 gradi, ambrata, anche questa molto profumata, per una luppolatura spiccata come la precedente. Cambiano nuovamente i profumi, qui tendiamo un po’ di più all’agrumato, alla buccia d’arancia, con delle bellissime sfumature di resina che la rendono molto particolare. In bocca c’è una parte più morbida, più caramellata, in realtà è molto più amara dell’altra, ma l’amaro è meno percettibile perché è equilibrato dal dolce. Passiamo alla Nera, che è una Oatmeal Stout, entrando nel particolare una stout con una piccola percentuale di avena che produce una birra un po’ più rotonda. Anche questa è una birra molto leggera, di 4,5 gradi. I profumi qui non sono dati dal luppolo ma dal malto tostato. Si sentono profumi di liquirizia, caffè (più di tutti) e cioccolato. Questa è forse una birra un po’ più difficile, per chi è un profano dello stile inglese, non è una birra semplicissima, non è da tutti. Passiamo all’ultima birra, che è la Rocca. Si tratta di una birra speciale che è l’evoluzione della prima da cui siamo partiti, la Tempesta di Natale. La classifichiamo come “specialità”, in realtà lo stile è strong ale. Abbiamo aggiunto delle spezie, la buccia d’arancia amara e il coriandolo. È rifermentata con del miele di tiglio, un miele biologico non pastorizzato, non trattato, perciò, un prodotto che vuole essere un po’ di nicchia e avere un occhio particolare alla salute. Sette gradi per questa birra: a richiedere una gradazione più elevata è il corpo stesso della birra. Si tratta, infatti, di un prodotto po’ più complesso e strutturato (ci sono malti caramellati, c’è una parte di malto tostato, si crea un equilibrio vario e importante) che perciò ha bisogno di una struttura anche in bocca. Una birra del genere, senza un po’ di corpo, cadrebbe subito in bocca, perciò perderebbe la sua importanza totale. Facciamo anche qualcosa di più particolare, come la Suicide Zar, una imperial russian stout (è una nera molto particolare che storicamente veniva esportata in Russia), attuale fiore all’occhiello, secondo me, della nostra produzione. Nove gradi, profumi di caffè, cioccolata e liquirizia, è una birra che merita. Tra quelle che produco la mia birra preferita rimane e rimarrà sempre la Secca, servita in pompa: amara, beverina, profumata, 3,8 gradi, è acqua praticamente, però non lo è nel carattere.
Come si giunge alla combinazione finale di una birra? Quando capite che è quella giusta?
Pierluigi: Ne beviamo tanta e ci aspettiamo un resoconto dalla gente che la beve: noi facciamo le birre seguendo il nostro gusto, ma un’azienda deve anche vendere, quindi uniamo un po’ il lato dilettevole a quello che dev’essere poi l’utile. Il prodotto deve piacere a te che lo fai, ma anche agli altri, altrimenti lo fai a casa o te lo bevi. Ribadisco il concetto: qui [al Cortivo, ndr] abbiamo un bacino di utenza molto ampio, quindi ci confrontiamo con parecchi gusti, parecchi pareri e con livelli molto diversi di conoscenza della birra. Abbiamo perciò la possibilità di avere un feedback quasi a 360 gradi che ci permette di capire cosa cambiare e cosa mantenere. Solitamente per affinare una birra ci vogliono dalle 2 alle 3 cotte, a volte anche 4, per quelle un po’ più particolari. Si parte con un’idea, si assaggia. C’è una piccola parentesi da aprire: essendo artigianali, non pastorizzate e non filtrate, le nostre birre sono in evoluzione costante, da quando vengono imbottigliate a quando vengono bevute. Questo comporta un cambiamento della birra nel tempo, a volte un miglioramento, a volte una degradazione, per quanto minima. Dobbiamo anche valutare questo: la birra è buona quando offre subito delle buone sensazioni e le mantiene anche nel tempo. Questa è un po’ la cosa più difficile perché, ovviamente, non è facile prevedere come evolverà una birra.
Fare birra è o non è un lavoro per tutti? Quali particolari attitudini sono necessarie per intraprendere un simile percorso?
Pierluigi: Penso che fare birra, prima di essere un lavoro, debba essere una passione. Nasce come passione e come gioco, diventa un lavoro, però ci devi sempre mettere amore. Io credo che debba essere per tutti, perché, essendo un prodotto molto personale, è importante quello che può fare ogni persona, ovviamente con un minimo di consapevolezza su cosa si sta facendo, dove si vuole andare e cosa si vuole fare. Io adoro assaggiare sempre birre nuove. Ho tanti amici che incoraggio a mettersi in gioco, perché a me piace il confronto, soprattutto con chi ne sa, è sempre qualcosa di costruttivo e credo che, se vuoi andare avanti, devi avere anche un minimo di confronto critico – basta sia ovviamente costruttivo – con altri produttori. Spero, allora, che fare birra sia per tanti, ma che poi siano i pochi che riescono a trovare una vera ragione d’essere a sopravvivere. Incoraggio a provare, anche per capire cosa c’è dietro al mio lavoro.
“Birra Tempesta” è una birra che, nel concept, è radicata nel territorio. Parliamo però di materie prime e proviamo ad unirvi un concetto molto caro agli esperti di marketing, la sostenibilità. Voi dove recuperate le materie prime? È possibile e auspicabile una birra “a km zero”? E quanta percentuale di queste materie prime viene “sprecata” nel corso del processo produttivo? Fare birra artigianale può essere, in definitiva, considerata un’operazione “ecologica” o l’imperativo assoluto è il gusto, la qualità organolettica?
Pierluigi: Credo che fare birra possa essere sostenibile a livello ecologico. Purtroppo, per quello che è il mercato della produzione di birra in Italia adesso, siamo ancora nel momento dell’esplosione, della crescita. Stanno nascendo un sacco di piccole aziende che producono malti e luppoli. Per quanto riguarda i lieviti, il discorso è un po’ più difficile e delicato, ci vuole una cultura un po’ più solida per produrre qualcosa di valido commercialmente. Per adesso purtroppo – o per fortuna, questo lo diremo più avanti – prendiamo tutta la materia prima dall’Inghilterra. Tutti i malti li prendiamo dall’Inghilterra, i luppoli in realtà da tutto il mondo, perché c’è una grandissima produzione. L’estero è molto più avanti di noi su questo, l’America ormai da 15-20 anni produce luppoli importanti, esportati ovunque, il Giappone è un’altra realtà forte, da pochi anni ha iniziato a produrre anche la Nuova Zelanda. C’è una crescita mondiale della cultura della birra. L’idea di una birra a km zero ci è sempre piaciuta e ci auguriamo che sia realizzabile nel più breve tempo possibile. C’è un’azienda qui vicino, a Scorzè, che prima produceva frutta e verdura, poi si è messa a produrre luppoli e da quest’anno produrrà anche malti. Volendo, nella produzione della birra non si butta via niente: la trebbia dell’orzo esausto usato per fare la birra può essere usata in mille modi, noi ad esempio la riutilizziamo per fare i biscotti al malto di birra, ma può essere anche data da mangiare agli animali. Il problema dello spreco è nell’acqua: purtroppo per fare 100 litri di birra ce ne vogliono quasi 200 di acqua. Ci sono molte aziende che, però, si stanno ingegnando per ridurre al minimo questo sprechi e si spera che, anche nelle piccole realtà, possano essere applicati questi nuovi metodi. Porto un esempio (che da una parte è valido e dall’altra un po’ meno): la Heineken utilizza l’acqua dell’evaporazione per i vari cicli del raffreddamento o del mantenimento dell’acqua calda, cercando di mirare al massimo risparmio. Il costo vivo della produzione della birra non è in realtà tanto la materia prima quanto poi la tassazione da parte dello Stato, che non aiuta per niente. Idealmente questo è il costo più pesante, la materia prima incide ma in misura mai superiore al 60% della spesa totale.
La stagionalità come influenza – se influenza – la vostra produzione?
Pierluigi: La stagionalità influenza la produzione ma in maniera non eccessiva. Le birre più alcoliche e più forti tendono ad essere consumate di più d’inverno, le birre più leggere e beverine hanno, invece, più motivo d’esistere in estate. Essendo, però, la nostra una produzione comunque abbastanza piccola, tendiamo ad avere un riciclo molto veloce, riusciamo a far susseguire una cotta al mese da 1300 litri e in tre quattro mesi riusciamo a finirla.
Come comunicate il vostro prodotto? Su quali valori e su quali mezzi puntate maggiormente? Quanto conta il marketing nel decretare il successo di una birra?
Pierluigi: Il marketing ha sempre un certo riscontro, forse, però, più a livello nazionale per le grandi industrie e per grandi aziende. Noi ci crediamo, più che per vendere di più, per divertirci di più. Comunichiamo a costo zero, utilizzando Internet, Youtube, Facebook… Idealmente sono i mezzi su cui dovrebbero puntare tutte le aziende, vista la crisi, vista la mancanza di fondi per la comunicazione del proprio prodotto. Abbiamo sviluppato una campagna di video che produciamo mensilmente, creando un’immagine divertente attorno alla birra, che rispecchi il valore della birra stessa: bere la nostra birra significa sì bere bene e di qualità, ma anche bere per divertirsi e comunicare uno stato d’animo particolare, legato alla birra e soprattutto alla gente che fa la birra. Io prendo sempre il Cortivo come punto di riferimento perché è casa mia: qui creiamo serate in cui, partendo da qualche birra, si arriva a concerti con batterie e bassi improvvisati, fino all’alba. La nostra birra è un collante per quello che è il divertimento e la condivisione sociale. Facebook e Youtube io credo siano il futuro, per quanto riguarda la comunicazione a costo zero. Internet in generale dovrebbe essere lo strumento del futuro. Noi ci crediamo e ci affidiamo all’esempio di un’azienda scozzese [Brewdog, ndr] che allo stesso modo ci ha creduto, comunicando un prodotto di qualità in maniera a volte anche esagerata, ottenendo grande presa in Internet e tra i giovani, che rappresentano poi il nostro principale target di riferimento.
Brand naming: come avviene il processo di scelta dei nomi (sia dell’intero progetto “Tempesta” sia delle varie birre prodotte)?
Pierluigi: Birra Tempesta… siamo a Noale e, per chi non lo sapesse, chi ha fondato nel medioevo l’odierna Noale è proprio la famiglia Tempesta, perciò abbiamo voluto offrire questa dimensione un po’ casalinga alla birra. Per quanto riguarda i nomi delle birre, la scelta è abbastanza casuale o meglio – a parte “la Rocca” che è sempre legata territorio di Noale – si tratta di omaggi fatti alle nostre passioni (a volte una caratteristica della birra, a volte il nome di una canzone che ci piace…); non abbiamo un’idea fissa di come dare il nome alla birra: la facciamo, la assaggiamo e creiamo un nome assieme, non abbiamo regole, non ci piacciono gli schemi e cerchiamo di fare birre buone che piacciano a noi e che rispecchino anche noi nel carattere.
Parlaci dell’approccio verso il packaging. Quale formato prediligete? Credete nella forza comunicativa del contenitore e nella sua capacità di influenzare la propensione all’acquisto da parte del pubblico?
Pierluigi: Una piccola parentesi prima di rispondere: siamo in Italia e l’Italia è il paese del vino. Per antonomasia la bottiglia del vino è da 75 cl. Vedo molte aziende italiane usare questo formato, ma la birra non è vino, per come la vedo io. Il formato da 33 cl lo usiamo poco, però crediamo sia valido per determinate birre, per birre importanti come la nostra da 9 gradi, ad esempio, per le quali avrebbe poco senso usare il formato da 50 cl. Quello da 33 cl è un formato più coccolo, dà un po’ l’idea della chicca e quindi lo usiamo in questi particolari eventi. Per quanto riguarda la distribuzioni all’esterno del nostro locale, il formato da mezzo litro rappresenta lo standard minimo (se bevi una birra piccola sei una persona immorale, altamente immorale). Ripeto, proviamo sempre a proporre l’utilizzo della pompa inglese, il metodo di spillatura per eccellenza delle birre ad alta fermentazione in stile inglese: non si usa anidride carbonica e ne esce una birra che, il più delle volte, non è piatta ma quasi, ha pochissimo gas, una birra leggera, che può essere bevuta senza particolari effetti collaterali. Se possiamo, siamo in giro con le pompe, è un sistema un po’ più macchinoso per servire la birra, però ci crediamo fermamente. Abbiamo regalato una pompa a uno dei locali che serve più spesso la nostra birra, proprio perché vogliamo che il prodotto sia buono, come piace a noi. Questo è, secondo noi, il format che per le nostre birre è vincente.
Bel ragazzo, giovane, uno stile particolare… Forse non c’è miglior veicolo, per comunicare il prodotto, di chi il prodotto lo realizza! Quanto conta nella vendita delle vostre birre il rapporto diretto che riuscite ad instaurare con la clientela?
Pierluigi: Conta al 100%. Chi sei e cosa fai è importantissimo, lo trasmetti anche solo dalla luce che hai negli occhi. Quello che faccio e vendo io in prima persona ha un sapore tutto diverso, perché io ci credo. Un po’ di esperienza nel vendere ce l’ho, ma non vendo solo birra vendo anche poesia, anche un po’ di passione. A parte il “bel ragazzo”, che è discutibile, lo stile può servire, ma credo che se tu metti la tua passione dentro la bottiglia, oltre alla birra buona, e poi la proponi tu in prima persona, difficilmente non piacerà. Credo sia essenziale, se credi in quello che fai e vuoi trasmettere qualcosa, essere sempre in prima linea. Questo locale, che è il cuore, il fulcro di birra Tempesta, lavora molto e bene, qui c’è un giro di gente molto vario e ampio e tutta la settimana ho la possibilità di spiegare alla gente cosa faccio e cosa vendo. In tutti i target ho un riscontro sempre molto positivo. Ognuno ha le sue preferenze, ma nessuno ha mai denigrato la mia birra o quello che faccio. Perciò sì, è importante l’immagine di chi fa, ma più importante ancora è l’anima che si mette dentro la bottiglia. Anche perché il mio socio è bruttissimo, posso dirlo perché non c’è!
Dall’ideazione alla comunicazione, avete un pubblico ideale al quale vi rivolgete? Aspirate ad essere conosciuti dalla massa, dunque a diffondere la qualità, o pensate sia più proficuo continuare a guardare alla nicchia e dunque ad un pubblico ristretto e “che ne sa”?
Pierluigi: Siamo partiti volendo rivolgerci un po’ a tutti e vogliamo ancora rivolgerci un po’ a tutti, con la cultura generale di quello che è birra e di quello che secondo noi è la birra buona. Tendiamo, però, essendo limitati i volumi di produzione, a rivolgerci soprattutto a chi ci crede, quindi a un pubblico un po’ più piccolo di quello relativo al mercato globale e anche italiano degli altri microbirrifici (1300 litri di birra al mese per un microbirrificio non sono niente). Stiamo puntando, soprattutto in questo ultimo periodo, sulla qualità. Realizzeremo una serata tra un po’ – in giugno, se non sbaglio – in un ristorante stellato, perciò in una realtà di ristorazione importante (che tradizionalmente non è tanto legata alla birra quanto piuttosto al vino): abbiamo conosciuto un ragazzo giovane al quale è piaciuta la nostra birra e col quale ci siamo trovati d’accordo su una serie di discorsi, lui ci ha detto di questa manifestazione che organizza ogni anno e che punta sui giovani e ci ha proposto di partecipare. Noi siamo giovani, con un prodotto di qualità e ben venga se 200 milioni di persone domani bussano alla porta e mi chiedono la birra; ma non ce l’avrò per tutti e preferisco darla a chi la capisce. Non è la voglia di arricchirsi a spingerci in questa impresa, è la voglia di trasmettere un messaggio attraverso il nostro prodotto.
Quanto costa fare la birra? Quale voce pesa di più? “Sfidare” il mercato e specializzarsi serve in tempi di crisi? Il vostro può essere classificato come successo o è un’impresa “in negativo”, dal punto di vista strettamente economico?
Pierluigi: Fare birra costa. Nel nostro caso il costo è ancora più elevato, perché affittiamo un impianto, non ne siamo i possessori. Rende, questo sì, altrimenti ci saremmo fermati da tempo. Non sono però – ripeto – le rendite che servono per arricchirsi, sono le rendite da affiancare a quelle di una realtà già esistente. La produzione sta diventando una realtà a sé, ma siamo partiti da qui [dal Cortivo, ndr] e grazie al locale abbiamo potuto cominciare a produrre in maniera importante. Lo ripeto, la materia prima, anche se di prima qualità, non va ad incidere troppo sul prezzo, la manodopera è gratis, perché è nostra, non ci paghiamo quanto dovremmo. La tassazione non aiuta, credo sia una coscienza comune dell’Italia che lo Stato non aiuta, soprattutto le piccole imprese. Speriamo ci sia qualche cambiamento positivo su questo fronte. Al di là della mera materia prima, ci sono altre spese di gestione impianto, consumi, però sempre fino ad un certo punto.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontrate nella vostra attività? Ci sono alcuni aspetti della filiera che va dall’ideazione alla vendita che rendono particolarmente ardua la vostra impresa?
Claudio [che nel frattempo ci ha raggiunto]: Nella produzione della birra artigianale, oggi abbiamo anche delle difficoltà nella reperibilità della materia prima. Quest’anno non a caso abbiamo fatto degli acquisti mirati, per avere una continuità sui luppoli e su certi tipi di malto utilizzati. La birra artigianale viene spesso ritenuta incapace di mantenere uno stesso standard e questo è dovuto alla difficoltà che si ha nel reperire certi luppoli, capaci di dare quella sfumatura particolare che differenzia la produzione di ogni birrificio da quella degli altri. L’anno scorso siamo stati un po’ altalenanti, ora per avere una certa continuità si tende a fare degli acquisti mirati che hanno un panorama annuale e non più mensile o semestrale.
Una domanda orientata al futuro: avete intenzione di cavalcare qualche particolare tendenza del settore o avete in mente dei cambiamenti da apportare al vostro sistema produttivo e distributivo (collaborazioni, nuovi stili di birra, contaminazioni…)? Vedremo un canale e-commerce?
Pierluigi: Il futuro è qualcosa di oscuro e ignoto. Ovviamente ci piacerebbe fare mille cose, provare birre nuove, stringere collaborazioni con qualche birrificio importante, anche internazionale. Chi vivrà vedrà, dicono. Intanto concentriamoci sul continuare a produrre la nostra birra di qualità. Vogliamo espandere quello che è il circolo della vendita, puntando su coloro che credono nel prodotto. E-commerce: per ora non vendiamo in Internet, c’è una piccola presentazione delle bottiglie nel sito, però credo sia una cosa per noi abbastanza irrilevante. Per ora non abbiamo avuto riscontri, abbiamo provato (non era proprio un e-commerce), ma il tentativo non ha mai sortito un grande effetto sul pubblico.
Claudio: cerchiamo di interpretare sempre, nelle birre, un gusto di tendenza, di seguire quello che la gente vuole, in questo momento, bere; fermo restando che il nostro stile resta il nostro stile, quindi non produciamo e non produrremo mai fuori dal nostro stile, ma interpretiamo la contemporaneità dei gusti. A noi piace questo determinato comparto del panorama birrario, cerchiamo di interpretarlo al meglio, un po’ in chiave moderna, però senza allontanarci troppo dallo stile classico che hanno le birre inglesi e dalle loro caratteristiche, che sono per noi la religione.