Testate tricolori e social media: ancora poca interazione

Ben 11,5 milioni di interazioni su Facebook e Twitter indagate da Blogmeter allo scopo di comprendere il modo in cui i principali quotidiani italiani gestiscono i social media. Poco sfruttate le foto e gli altri mezzi ad alta capacità virale

Quello del giornalismo in tempo di Web 2.0 è un tema destinato a suscitare un dibattito piuttosto acceso, sul quale, alle opinioni discordanti, si aggiunge la difficoltà nel comprendere una situazione in continuo divenire. Si moltiplicano le competenze richieste alle nuove leve, si diversificano i mezzi, si perdono, allo stesso tempo, alcune originali convenzioni, la passione si trasforma, a volte, in copiaincolla e sfruttamento, i ritmi si plasmano su una notizia dalla vita sempre più breve. Le informazioni si preparano a viaggiare lungo canali molto distanti tra loro, la cui integrazione, seppur auspicabile, non sembra essere così semplice. Qual è, allora, la risposta delle principali testate all’avvento delle nuove dinamiche sociali della rete? Come si relazionano i quotidiani italiani alla massa di potenziali lettori che ha ormai da tempo invaso i diversi social media? A simili interrogativi ha provato a offrire una risposta BlogMeter, attraverso un’indagine presentata lo scorso 25 aprile, nel corso del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia (dal 24 al 28 aprile 2013), da Vincenzo Cosenza, social media strategist di BlogMeter. A commentare i risultati della ricerca, sono intervenuti anche Peter Gomez (ilfattoquotidiano.it), Raffaela Menichini (repubblica.it), Marta Serafini (corriere.it) e Daniele Bellasio (social media editor de ilsole24ore.com).
Sfruttando lo strumento di analisi Social Analytics, sono state messe a fuoco 11,5 milioni di interazioni nei primi tre mesi del 2013, sviluppate da 56 pagine Facebook e 38 account Twitter delle maggiori testate giornalistiche italiane, allo scopo di rilevare le performance sul lato social dell’intero settore e di individuare le principali pratiche di gestione.
Si è partiti dall’analisi della piattaforma leader, Facebook: il numero di fan rappresenta solo il punto di partenza per una strategia di presenza efficace, tuttavia esso ci offre un’importante stima circa l’ampiezza della community di riferimento. In base a questa tradizionale metrica, le pagine analizzate possono essere raggruppate in tre gruppi: vi sono cinque pagine che superano i 700 mila fan, tra le quali in cima troviamo la testata all digital Fanpage.it, con oltre 1,4 milioni di fan, pari a oltre 300 mila fan in più rispetto alla seconda classificata, La Repubblica (1.140.234 fan); al terzo posto Il Fatto Quotidiano (897.236), seguito da La Gazzetta dello Sport (857.484) e dal Corriere della Sera (778.034). Al secondo gruppo appartengono le nove pagine che arrivano alla soglia dei 300 mila fan, il terzo raggruppa tutte le altre pagine che si posizionano al di sotto dei 100 mila fan.
Si è passati poi ad indagare il livello di engagement sviluppato da ciascuna pagina, che rappresenta in sostanza la sfida maggiore per ciascun operatore presente nel network. Il total engagement è dato dalla somma dei like, dei commenti, delle condivisioni e dei post spontanei pubblicati dai fan in bacheca. Posizione leader da questo punto di vista spetta a La Repubblica, con quasi 5 milioni di interazioni (4.902.110), seguita da Il Fatto Quotidiano (2.002.230) e da Fanpage.it (1.827.173). Quest’ultima sale al secondo posto se si considera la sola capacità di stimolare le condivisioni, mentre Libero eccelle nel rapporto tra engagement e fan (il cosiddetto Page engagement), riuscendo a sviluppare 186 interazioni per ogni 1000 fan. A sorpresa il quarto posto della classifica del total engagement è occupato dalla free press, con ben 1.523.645 interazioni di Leggo, testata che raggiunge la medaglia di bronzo se si considerano i soli like o i soli commenti.
Altro dato interessante è il livello di engagement per post, cioè la capacità dei contenuti di essere apprezzati e di generare interazioni, viralità. La media del settore si aggira intorno alle 78 interazioni per post, tuttavia La Repubblica distanzia di molto gli altri, ricevendo in media 1.124 interazioni per ogni post; seguono Il Fatto Quotidiano (574 interazioni per post), Il Giornale (316,4), Leggo (244,6) e La Gazzetta dello Sport (190).
Considerando qualitativamente i contenuti, ci si accorge di come le testate tendano a postare principalmente link per rilanciare le notizie e portare dunque traffico al proprio sito web. Meno utilizzate invece le foto e nessuno sembra utilizzare le funzionalità multimediali aggiuntive offerte da Facebook (come album, video o sondaggi). Il paradosso è che sono proprio le foto – com’è facilmente intuibile – il contenuto in grado di essere maggiormente virale; non a caso sono accompagnati da immagine i due post che hanno suscitato, nei tre mesi di indagine, il numero più elevato di interazioni: la prima, dalle file del Corriere della Sera, raffigura la salita al soglio pontificio di Bergoglio (23.392 like, 14.712 condivisioni e 1.215 commenti, per un totale di 39.319 interazioni), la seconda è la raffigurazione un po’ simbolica, apparsa sulla bacheca de La Repubblica, di un fulmine sulla cupola di S. Pietro nel giorno delle dimissioni di Papa Benedetto XVI (11.595 like, 19.743 condivisioni e 1.168 commenti, per un totale di 32.506 interazioni).
Le performance dei quotidiani su Facebook sono state poi riassunte in una “Engagement Map”, che mostra sull’asse delle ascisse il numero di fan, nell’asse delle ordinate il total engagement (like, commenti, share e post spontanei) e nell’ampiezza della bolla il numero di post scritti. Tale schema permette di individuare quattro quadranti: il primo in alto a destra è costituito dai “leaders”, cioè da coloro che hanno saputo raccogliere un gran numero di fan e un buon livello di engagement (La Repubblica, Il Fatto Quotidiano, Fanpage.it, seguiti da Corriere della Sera, La Gazzetta dello Sport e Leggo). Il secondo in basso a destra è rappresentato dai “fan collectors”, cioè dai giornali che sono riusciti a raccogliere un buon numero di fan, ma senza sfruttare la viralità del mezzo (L’Unità, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Tuttosport ). In alto a sinistra troviamo gli “engagers”, coloro che hanno ancora pochi fan, ma sono capaci di sviluppare un livello di engagement superiore alla media (Il Messaggero, Il Giornale, Libero, The Huffington Post), dunque con buone potenzialità di sviluppo nel prossimo futuro. La maggior parte delle testate si colloca nel quadrante in basso a sinistra, formato dai ritardatari in termini di fan e di coinvolgimento, i cosiddetti “laggards”.
La disanima si sposta poi su Twitter. Anche qui si parte con la classifica per numero di followers, sempre nella consapevolezza che questa metrica tradizionale, pur non essendo la più rilevante, permette di rilevare il bacino potenziale dell’audience. Al primo posto troviamo La Repubblica, con 787.126 follower, seguita da La Gazzatta dello Sport (728.587), Il Fatto Quotidiano (539.091), Corriere dello Sport (306.712) e Corriere della Sera (275.644).
A conoscere il tasso di crescita maggiore nel periodo analizzato sono La Repubblica, il Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport, con un range che va dai 900 ai 1200 followers nuovi al giorno, grazie agli investimenti pubblicitari e al fatto che gli account di tali testate rientrano tra quelli consigliati da Twitter agli utenti.
Il grado di affezione e awareness (in sostanza l’engagement) su Twitter può essere indagato attraverso il numero di mentions (retweet, reply e citazioni spontanee ricevute). Se La Repubblica e Il Fatto Quotidiano mantengono le posizioni viste nella classifica per followers, il Corriere della Sera guadagna la seconda posizione, La Stampa sale alla quarta e spuntano le testate online (Linkiesta, Il Post e Fanpage.it). Se si considerassero, tra le menzioni, solo i retweet comparirebbe, nella classifica dei top ten, anche Libero, a scapito de Il Giornale.
Per comprendere l’ampiezza effettiva dell’audience, sono stati stimati anche gli autori unici delle menzioni. Al primo posto per singoli utenti che hanno menzionato almeno una volta la testata si trova, anche in questo caso, La Repubblica (72.062 utenti), seguita da Corriere della Sera (49.438) e Il Fatto Quotidiano (39.119). Il confronto tra mention e unique authors permette di capire se si ha di fronte un pubblico ristretto che twitta molto o il contrario: La Stampa, ad esempio, che si collocava all’ottava posizione per followers, sale qui alla quarta posizione, ad indicare degli utenti molto attivi.
L’analisi passa poi a occuparsi dell’engagement sviluppato da ciascun tweet, dato dal rapporto tra menzioni dell’account e tweet prodotti dallo stesso, al fine di apprendere la capacità di ciascun tweet di stimolare retweet e reply, dunque di generare delle interazioni. La media del settore è di sole 3,5 reazioni per cinguettio e la testata che più delle altre riesce a sfruttare la viralità del mezzo è Il Fatto Quotidiano, con 18 reazioni per tweet, seguito da La Repubblica (15), Il Sole 24 Ore (11,2) e Corriere della Sera (8,6).
Un aspetto interessante da valutare su Twitter è l’utilizzo degli hashtag: La Gazzetta dello Sport è il quotidiano che più utilizza questo meccanismo (ricorre soprattutto a #calcio #news e #gds). Il Corriere del Mezzogiono usa spesso #Campania e #Puglia per etichettare le notizie a livello territoriale, Il Fatto Quotidiano #fattotv. Per contro gli utenti preferiscono, nelle interazioni con le testate, ricorrere ad hashtag che fanno riferimento ad eventi raccontati; ciò significa che se le testate riescono a seguire il flusso dell’interazione, possono incrementarne la portata inserendovisi con hashtag pensati proprio in relazione ad eventi particolari.
Ad aver suscitato il numero maggiore di menzioni sono un tweet de La Repubblica in cui vengono riportate le parole di De Gregorio che ammette di aver preso soldi da Berlusconi per fare cadere Prodi (584 retweet e 79 reply per un totale di 663 interazioni) e un tweet de Il Fatto Quotidiano sulla morte di Jannacci (516 retweet e 73 reply, per un totale di 589).
I risultati sono stati anche in questo caso raccolti in una “Engagement Map”, che allo stesso modo evidenzia nell’asse delle ascisse il numero di followers, in quello delle ordinate il numero di mentions e nell’ampiezza della sfera il numero di tweet pubblicati dalle testate. Il quadrante dei “leader” è popolato da La Repubblica, Corriere della Sera (che su Facebook era meno presente), Il Fatto Quotidiano, La Gazzetta dello Sport, La Stampa, Il Sole 24 Ore (ben più forte su Twitter) e Il Post; tra gli “engagers”, troviamo Linkiesta e Fanpage.it, mentre tra i “follower collectors” Il Giornale, Dagospia, Tuttosport e Corriere dello Sport.
Rispetto allo scorso anno si nota una maggiore attenzione delle testate tradizionali ai social media”, commenta Vincenzo Cosenza, “soprattutto a Facebook, che lo scorso anno risultava un po’ snobbato”. La strategia più evidente è quella di mero presidio dei social media: non si punta al coinvolgimento di fans e followers ma si cerca piuttosto di catturarli per indirizzarli al proprio sito web principale. Si tratta certo di un atteggiamento “figlio delle metriche di valutazione vigenti nel settore”, ma che non consente la fidelizzazione del cliente. Le tecniche tipiche delle piattaforme, le sue potenzialità sono, allora, scarsamente sfruttate (poco usare le foto, l’immagine di copertina viene cambiata solo raramente, non si interagisce nei commenti, non si lanciano materiali esclusivi). Su Twitter buona parte del coinvolgimento “viene demandato alla volontaria capacità dei giornalisti di interagire e portare acqua al molino della testata”. Non poca sembra, in conclusione, la strada che il settore informazione deve ancora percorrere per raggiungere un livello elevato di coinvolgimento e stimolo per il lettore attraverso le piattaforme social, ma non pochi sono i segnali che fanno presagire un possibile imminente sviluppo in tal senso.
Pubblicato su: PMI-dome
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Notizie online: da consumarsi preferibilmente entro il…

Una recente sentenza del Tribunale di Ortona condanna la testata online PrimaDaNoi.it al pagamento di 17mila euro quale risarcimento per aver conservato, nel proprio archivio elettronico, una notizia del 2008 ritenuta lesiva dell’altrui privacy. Ecco la declinazione online del diritto all’oblio

La questione centrale è un conflitto tra diritti ugualmente – almeno in termini astratti – meritevoli di tutela normativa e sociale. Alla base vi è un vuoto legislativo colmabile solo in parte dalla giurisprudenza in materia, costretta a scendere a patti con l’interpretazione e la contestualizzazione. In gioco vi è la libertà di informazione, uno dei capisaldi dell’edificio comunitario, una delle conquiste progressive più bramate dall’opinione pubblica, una delle risorse più tenacemente custodite dalla collettività digitale.
LE SENTENZE
L’ultimo capitolo scritto nella storia dell’informazione made in Italy sembra far emergere ancora una volta l’estrema difficoltà che il legislatore italiano ha nel partorire una stabile regolamentazione della rete e pare aver scosso non poco gli animi di quanti continuamente si battono per offrire ai cittadini la solida garanzia di essere informati, in modo limpido e puntuale, circa fatti e misfatti ritenuti socialmente rilevanti. Protagonista della vicenda è il piccolo ma prestigioso quotidiano abruzzese online PrimaDaNoi.it, condannato dal giudice unico del Tribunale di Ortona, Rita Di Donato, al pagamento di un multa di oltre 17mila euro (tra risarcimento danni e spese legali), per aver conservato, nel proprio archivio elettronico, la notizia relativa a un fatto di cronaca, avvenuto nel 2008, all’interno di un ristorante pescarese, che coinvolse i titolari del locale in una vicenda giudiziaria di natura penale, non ancora conclusa.
Il giudice ha accolto, in sostanza, la domanda dei ricorrenti (i titolari), che chiedevano la rimozione della pagina contenente la notizia, preoccupati per il pregiudizio che la stessa avrebbe potuto recare alla loro reputazione personale e professionale e all’immagine del proprio locale. Sottolinea, infatti, il giudice come “la facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico [pubblicato il 29 marzo 2008], molto più dei quotidiani cartacei tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online, consente di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale [il 6 settembre 2010] sia trascorso sufficiente tempo perché le notizie divulgate con lo stesso potessero soddisfare gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica, e che quindi, almeno dalla data di ricezione della diffida, il trattamento di quei dati [relativi ai titolari del ristorante e al nome dell’esercizio] non poteva più avvenire”. Il persistere del trattamento dei dati personali – prosegue il giudice – “ha determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione, e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati (consultabili semplicemente digitando il nominativo del ricorrente e la denominazione del ristorante sul motore di ricerca Google) e alla natura degli stessi dati trattati, particolarmente sensibili attenendo a vicenda penale”. L’articolo era stato già rimosso – è bene precisarlo – dai motori di ricerca, nel 2011, ma non anche dall’archivio del giornale online.
Accolta pure la richiesta di ottenere un risarcimento danni poiché – si legge nella sentenza – il trattamento dei dati personali si è protratto per un periodo di tempo superiore a quello necessario agli scopi – esercizio del diritto di cronaca giornalistica – per i quali i dati sono stati raccolti e trattati”.
Invocando il cosiddetto “diritto all’oblio”, il giudice sembra, dunque, far prevalere la tutela della privacy sul diritto di cronaca, nonostante la notizia diffusa fosse – lo stesso provvedimento lo evidenzia – vera, corretta nella forma e non diffamatoria e nonostante in Italia non esista alcuna legge che formalizzi le condizioni di applicabilità di tale diritto all’oblio. Egli ha imposto, in sostanza, una scadenza alla notizia (pari a due anni e mezzo, nella fattispecie).
La sentenza, datata 16 gennaio 2013, ricalca in realtà una precedente pronuncia da parte del giudice Rita Carosella, dello stesso Tribunale, datata 20 gennaio 2011. In quell’occasione, a suscitare la reazione dei due coniugi ricorrenti era stata la notizia, riportata dal giornale abruzzese, relativa al loro arresto per tentata estorsione continuata in concorso. La posizione dei due era stata poi archiviata e l’articolo, datato originariamente 23 marzo 2006, era stato più volte aggiornato nel corso degli anni, per dare conto dell’intero iter giudiziario, dunque anche dell’archiviazione della vicenda. Per far valere il diritto alla tutela della propria riservatezza, i coniugi avevano scelto in primis di rivolgersi al Garante della Privacy, il quale, tuttavia, si era espresso a favore della permanenza online dell’articolo, considerando che il trattamento dei dati personali era stato effettuato “nel rispetto della disciplina di settore per finalità giornalistiche”. Diversa invece era stata la pronuncia del Tribunale, che impose al giornale di cancellare la notizia e di sborsare 5 mila euro (più le spese legali) ai coniugi per i danni subiti, vista la “durata, gravità e modalità dell’illecito”.
Il giudice Carosella aveva allora sottolineato come, alla data della richiesta di cancellazione da parte dei ricorrenti (circa quattro mesi dopo l’ultima modifica dell’articolo), fosse trascorso tempo sufficienteperché le notizie potessero soddisfare gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica, informare la collettività, creare opinioni, stimolare dibattiti, suggerire rimedi” e come, di conseguenza, il trattamento dei dati non potesse avvenire, se non con “lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza e alla reputazione, stante la peculiarità dell’operazione di trattamento, sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati, e stante la natura degli stessi dati trattati, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale”. Anche in questo caso la sentenza sembra voler offrire una durata temporale – basata su soggettive valutazioni – e una relativa scadenza all’esercizio del diritto di cronaca. Essa consentiva, inoltre, “a costituire memoria storica della collettività”, la conservazione di “una copia cartacea dell’articolo nell’archivio della testata, archivio che tuttavia – come sottolinea PrimaDaNoi.it e come era facile immaginare in tempi di villaggio globale e informazione 2.0 – non esiste.
COME NASCE UNA NOTIZIA
Le soluzioni individuate nascondono non poche ambiguità e fanno emergere perplessità e dubbi interpretativi. Per comprendere meglio la questione, facciamo, allora, per un attimo, un passo indietro e cerchiamo di capire come nasce una notizia. La giurisprudenza ha, nel corso degli anni, elaborato tre requisiti al cui rispetto dev’essere subordinato il legittimo esercizio del diritto di cronaca da parte dei giornalisti: dev’esservi innanzitutto un interesse pubblico e attuale alla conoscenza del fatto oggetto di notizia; la verità di questo stesso fatto deve, inoltre, essere oggettiva, o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca (da qui la necessità di verificare accuratamente le fonti e al contempo la rilevanza assunta dalla buona fede del giornalista, il quale, pubblicando notizie che egli crede vere dopo le relative verifiche, mantiene la propria condotta nei limiti del diritto di cronaca); infine la notizia deve rispettare la cosiddetta “continenza espositiva”, la correttezza cioè formale nell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo, improntata a un ideale di obiettività, priva di un preconcetto intento denigratorio e comunque rispettosa della dignità altrui.
Il diritto di cronaca è, come quello di critica e di satira, un diritto di rilevanza costituzionale, protetto da quell’ampio cappello che è l’articolo 21 delle nostra Costituzione (che prevede, in poche parole, la libertà di manifestazione del pensiero). I tre requisiti elaborati sono il frutto della volontà di bilanciare tale garanzia costituzionale con il diritto alla tutela della propria persona, della propria reputazione e della propria riservatezza, anch’essi costituzionalmente previsti.
L’utilità e il rilievo sociale dell’informazione (in sostanza il primo dei requisiti cui prima si faceva riferimento) è, allora, fondamentale affinché questo conflitto tra diritti di pari dignità possa essere in qualche modo superato. Per valutare l’interesse pubblico alla diffusione della notizia non si può ovviamente prescindere dal contesto: esso dipende dal pubblico cui ci si rivolge, dal giornale e dalla pagina in cui si scrive, dal momento storico in cui ci si trova. L’interesse pubblico deve sussistere nel preciso momento in cui si scrive. Esso è il presupposto che impone ad un fatto privato (dunque tutelato dalla privacy) di diventare oggetto legittimo di cronaca, tuttavia una volta che la comunità ne sia stata informata con correttezza, esso ha esaurito la sua funzione e torna alla sua originaria dimensione di fatto privato. Riproporlo sulla ribalta mediatica sarebbe non solo inutile per la collettività, ma addirittura dannoso per i protagonisti in negativo del fatto. In questo meccanismo rientra il “diritto all’oblio”: si tratta di un diritto creato dalla giurisprudenza della Cassazione, tipicamente collocato tra i diritti inviolabili citati da quella norma dinamica che è l’art. 2 della Costituzione. È in sostanza il diritto, che ognuno di noi ha, a non essere più ricordato dalla stampa e dagli altri canali di divulgazione per fatti che in passato sono stati oggetto di cronaca. Un ulteriore fondamento legislativo di tale diritto è stato rinvenuto nell’art. 27, comma 3, della Costituzione, che prevede la funzione rieducativa della pena, la necessità cioè di favorire il reinserimento sociale del condannato.
Vi sono, tuttavia, alcuni fatti ritenuti particolarmente gravi, per i quali l’interesse pubblico alla loro pubblicazione non viene mai meno (si pensi, ad esempio, a fatti che hanno inciso sul corso della storia, come Tangentopoli o l’attentato al Papa).
Parallelamente può succedere che, a distanza di anni, sorga nuovamente un interesse pubblico alla riproposizione della notizia: ciò avviene, in particolare, quando si crea un certo nesso, un collegamento, tra un fatto di cronaca attuale e uno passato sul quale si era in già posato il diritto all’oblio. È il caso del condannato di stupro che, uscito di galera e, dunque, scontata la pena, commette una nuova violenza sessuale, legittimando il giornalista a far riferimento alla precedente condanna nel resoconto dell’evento.
A far scattare il diritto all’oblio non è, allora, il trascorrere di un determinato numero di anni dal verificarsi del fatto (come le sentenze sopra descritte potrebbero lasciare intendere): esso può essere fatto valere nel momento in cui tale fatto passato esaurisce la propria valenza pubblica e non possiede alcun rapporto diretto con la notizia all’ordine del giorno. Se scrivo di una donna dedita alla prostituzione in casa propria, non potrò, ad esempio, ricordare che la precedente proprietaria dell’immobile esercitava, magari vent’anni prima, la stessa professione: se quest’ultima avesse, nel frattempo, cambiato completamente vita e si sentisse turbata dal vedere il proprio nome accostato ad un nuovo fatto di cronaca in cui non c’entra nulla, potrebbe a ragione fare causa al giornalista poco saggio.
… E PER IL WEB?
Il Web sconvolge ovviamente l’intera logica appena descritta, dovendo fare i conti con un’infrastruttura digitale che, per natura, tende a mantenere traccia di ogni singola manifestazione. Nel Web l’informazione può essere decontestualizzata, frammentata, copiata e incollata.
Il fatto di dare una scadenza temporale alla notizia, giustificando la cosa proprio con le peculiarità del mezzo informatico, sembra essere una soluzione non molto illuminata e ben si presta a diventare terreno fertile per le critiche di quanti si battono per la libertà d’informazione. Quanti anni o mesi dovrebbero poi trascorrere prima che si realizzi tale scadenza?
Oggi siamo stati condannati [… ] per aver scritto notizie vere e senza errori. Siamo stati condannati perché ci hanno detto che quello che scriviamo ha una data di scadenza ma nessuno sa dirci qual è questa data”, lamenta la redazione di PrimaDaNoi.it.
In un sistema legislativo che cerca esasperatamente di codificare il comportamento umano in ogni situazione, restringendo quanto più possibile la funzione interpretativa e applicativa della norma (diversamente da quanto avviene nei sistemi “common law”), si determina la strana condizione in cui l’attenzione, in fase di pronuncia, cade più sul cavillo da aggirare che non sul principio da rispettare.
I giudici delle sentenze analizzate dimostrano scarsa sensibilità e padronanza verso il mondo dell’informazione ai tempi del Web. Declinare il diritto all’oblio a simili fattispecie online risulta una forzatura, una storpiatura: stando ai principi enunciati dal Tribunale abruzzese, tutti gli archivi storici delle principali testate italiane e internazionali dovrebbero essere rimossi, poiché inevitabilmente essi conterranno notizie sgradite a qualcuno.
Certo il Web non può essere – d’altro canto – una giustificazione a fare del cattivo giornalismo, eludendo il rispetto delle fondamentali norme deontologiche che regolano la professione. Nei processi comunicativi sottesi alla notizia, i meccanismi temporali hanno un’importanza fondamentale: la notizia diffusa per prima rimarrà sempre quella considerata “vera”, le notizie che seguiranno verranno inevitabilmente percepite dal pubblico come semplici giustificazioni. La notizia di una sentenza di assoluzione a termine di un processo show, rimbalzato da una ribalta televisiva all’altra, non cesserà di mantenere vivi i sospetti sui protagonisti in negativo della vicenda. Proprio per questo il giornalista ha una forte responsabilità, nel valutare l’opportunità o meno di pubblicare nomi, dettagli e retroscena e il modo in cui pubblicarli. I toni sensazionalistici e lo scoop a orologeria non si addicono all’ideale di giornalismo come strumento di informazione e di garanzia per l’opinione pubblica. E tuttavia queste sono questioni più ampie, che coinvolgono l’etica professionale, non riguardano solo la Rete. Solo partendo dai precetti deontologici si potranno risolvere le difficile controversie dell’informazione online, tenute presenti le specificità del mezzo e l’equo bilanciamento tra diritti.
Questa sentenza ci condanna per aver voluto difendere il diritto di ogni cittadino di conoscere e di sapere […]. Ci spiace per i giudici , ma la storia, i fatti, la memoria non si cancellano a colpi di sentenze”.
Pubblicato su: PMI-dome

Giornalisti tricolori: troppi, sempre più vecchi, pochi i subordinati

Sono oltre 112.000 le firme in Italia, ma solo il 45% ha una posizione contributiva attiva all’Inpgi e solo 1 su 5 ha un contratto di lavoro dipendente, guadagnando così 5 volte più di un freelance e 6,4 volte più di un Co.co.co.  Approvata la legge sull’equo compenso, si auspica ora una riforma sostanziale della professione

Lo scorso 4 dicembre il voto unanime della commissione Cultura alla Camera ha approvato, dopo mesi di tira e molla, la Legge sull’equo compenso per i giornalisti freelance e i collaboratori autonomi, che intende porre fine al moltiplicarsi, soprattutto in tempi di multicanalità e interattività, degli episodi di sfruttamento tra i professionisti della parola e del pensiero. Si tratta, come si legge all’articolo 1 della stessa legge, della “corresponsione di una remunerazione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione nonché della coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria”. In pratica significa essere pagati tanto quanto si lavora, nel rispetto della propria professionalità e dignità.
La schiavitù è abolita per legge” ha tuonato dal proprio sito l’Ordine dei giornalisti, sottolineando l’importanza di quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, un ulteriore passo verso l’auspicata riforma della professione, dopo l’approvazione del DPR 7 agosto 2012, n. 137, che ha inteso revisionare trasversalmente tutti gli ordinamenti professionali – prevedendo, ad esempio, l’obbligo di formazione permanente e l’istituzione di Collegi di disciplina che si facciano garanti della tutela deontologica della professione – senza tener conto delle specificità e criticità proprie del giornalismo. Che non sono, a ben vedere, così poche e così facilmente superabili: i giornalisti in Italia sono tanti, probabilmente troppi, soprattutto se si accetta il confronto con gli altri paesi; il gap tra le retribuzioni delle firme dipendenti e quelle di autonomi e Co.co.co appare in continuo aumento; sempre più numerosi sono i capelli bianchi nel settore, mentre si riduce il numero dei rapporti professionali.
Questi e altri trends sono stati rilevati, in particolare, dal rapporto La fabbrica dei giornalisti” di Lsdi (Libertà di stampa e diritto all’informazione), aggiornato con i dati relativi al 2011 e presentato lo scorso 30 novembre in un convegno alla Federazione Nazionale della Stampa a Roma.
In controtendenza rispetto a gran parte dei paesi occidentali, in Italia il numero dei giornalisti continua ad aumentare, contando, a inizio ottobre 2012, ben 103.036 professionisti (che diventano oltre 112.000 se si considerano anche gli iscritti all’elenco speciale e gli stranieri), contro i 102.656 del 31 dicembre 2011 e i 100.487 dell’anno precedente. Essi sono il triplo di quelli presenti in Francia (37.286) e quasi il doppio di quelli in Gran Bretagna (circa 50.000) e Stati Uniti (cica 60.000).
Tuttavia, a fine 2011, solo il 45% delle complessive 102.656 firme italiane (pari a 46.243 unità) risultava effettivamente attiva, cioè dotata di una posizione contributiva attiva all’Inpgi (l’ente previdenziale dei giornalisti nel Belpaese); si tratta di una percentuale di mezzo punto superiore a quella registrata nel 2010, quando i giornalisti attivi erano il 44,5% (44.906 su 100.487 iscritti all’Ordine), e di quasi un punto superiore a quella del 2009 (44,1%, cioè 43.300 iscritti).
Di questi 46.243 giornalisti attivi, 19.639 operano con un rapporto di lavoro subordinato e 26.524 sono invece autonomi e parasubordinati (i cosiddetti Co.co.co). È, in particolare, il peso crescente di questi ultimi a determinare gli incrementi registrati. Nel lavoro dipendente le posizioni attive (presso l’Inpgi1) sono calate, infatti, dalle 20.087 del 2009 (46,4% dei 43.300 giornalisti attivi), alle 19.895 del 2010 (44,3% di 44.906), fino alle 19.639 del 2011 (42,6% su 46.243); nel lavoro autonomo, invece, le posizioni attive (presso l’Inpgi2) sono passate dalle 23.213 del 2009 (53,6%), alle 25.011 del 2010 (55,7%), fino alle 26.524 del 2011 (57,4%). Tra il 2010 e il 2011, dunque, i lavoratori autonomi attivi sono aumentati di 6,05% (l’incremento era stato invece del 7,7% nel 2010), mentre quelli subordinati sono scesi dello 0,94%.
Il bacino dei giornalisti retribuiti ufficialmente continua a ingrandirsi, nonostante lo stato di crisi di molte testate, i prepensionamenti e il sostanziale blocco del turn over (i praticanti sono scesi da 1.306 del 2009 a 868): questo proprio grazie alla sola crescita degli autonomi e parasubordinati. Solo il 19,1% degli iscritti all’Ordine – meno di un giornalista su 5 – ha, infatti, un contratto di lavoro dipendente.
Completano il profilo degli iscritti all’Ordine i pensionati, che a fine 2011 erano 6.128 (di cui 5.206 dipendenti con posizione Inpgi1 e 922 autonomi con posizione Inpgi2, complessivamente pari al 6%), e i 50.365 giornalisti senza alcuna posizione Inpgi, pari al 49% del totale.
Com’è noto l’albo dei giornalisti tenuto da ogni Ordine regionale o interregionale è suddiviso in due elenchi principali (oltre agli elenchi speciali): quello dei professionisti, che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione, e quello dei pubblicisti, che svolgono l’attività in modo non occasionale e retribuito, anche se contestualmente ad altre professioni e impieghi. Con riferimento, allora, alla composizione degli attivi, nell’ambito del lavoro subordinato, nel 2011 i professionisti sono passati da 16.193 a 15.908 (-285 unità), diventando il 56,9% dei 27.960 professionisti iscritti all’Ordine, mentre i pubblicisti sono passati da 3.348 a 3.434 (+86 unità), raggiungendo quota 4,7% dei 73.030 iscritti all’elenco pubblicisti.
Fra gli autonomi, invece, i professionisti attivi sono passati dai 4.781 del 2010 (il 17,4% di tutti i professionisti) ai 5.201 del 2011, pari al 18,6% di tutti i professionisti, mentre i pubblicisti sono saliti a 20.260 (il 27,4% di tutti i pubblicisti) da 19.428 (27,3%).
Oltre alla composizione interna, le differenze profonde tra i due diversi segmenti del giornalismo professionale si notano anche a livello di retribuzione: mentre la media annua delle retribuzioni lorde dei giornalisti dipendenti è pari a 62.228 euro, il reddito lordo medio degli autonomi è di 12.456 euro e quello dei parasubordinati è di 9.703 euro. In altre parole, il reddito medio dei giornalisti dipendenti è 5 volte maggiore rispetto a quello degli autonomi e 6,4 volte superiore a quello dei Co.co.co.
Sul piano del lavoro subordinato, se i rapporti di lavoro diminuiscono in termini numerici e nelle fasce più basse peggiorano sul piano del reddito, si registrano, per contro, dei lievi miglioramenti nei compensi delle fasce medio alte. Tanto che, stando ai dati Inpgi1, la retribuzione media lorda dell’intero settore lavoro dipendente sarebbe in crescita sia sul 2009 (quando era pari a 61.620 euro) che sul 2010 (61.865 euro), anche come conseguenza dei miglioramenti contrattuali. Pure le stime Casagit (la cassa che assicurare ai giornalisti e ai loro familiari un sistema integrativo dell’assistenza prestata dal Servizio Sanitario Nazionale con una copertura delle spese sanitarie che prosegue anche dopo il pensionamento e senza limiti d’età) confermano in parte questo trend, mostrando, nel 2011, un lieve aumento (+0,8%) nell’ammontare del contributo medio versato dai giornalisti contrattualizzati.
Una certa stabilità nel lavoro giornalistico dipendente è comprovata anche dallo stato di buona salute del Fondo di previdenza complementare (che si affianca, con adesione volontaria, al regime pensionistico obbligatorio di base dell’Inpgi, attraverso la capitalizzazione individuale delle risorse): si nota – sottolinea Marina Cosi, Presidente uscente del Fondo – “un discreto ricambio demografico (nuovi iscritti stanno rimpiazzando i vecchi contribuenti che lasciano il lavoro, quindi il Fondo) e l’ esistenza di una discreta quantità di lavoratori, soprattutto nella fascia di età fra i 40 e i 50 anni, che girano una parte consistente (anche il 6-7%) del loro salario alla previdenza complementare”.
Si consideri poi il fatto che ben 7.812 dei 19.639 giornalisti subordinati (il 40%) attivi hanno anche un reddito da lavoro autonomo, che non entra nel calcolo della media annua della loro retribuzione come dipendenti, ma che di fatto allarga ancor di più il divario con la condizione reddituale del lavoro autonomo e parasubordinato.
Nel campo del lavoro autonomo alcuni segnali positivi nel 2011 vi sono: la media retributiva dei ‘’liberi professionisti’’ cresce di 2,9 punti percentuali, da 12.187 a 12.586 euro, quella dei Co.co.co del 14,1%, passando da 8.505 a 9.703 euro, infine scende dal 62% al 55,8% la percentuale di denunce sotto i 5.000 euro annui lordi. Una percentuale, quest’ultima, comunque ancora elevata (coinvolge 14.800 giornalisti autonomi). Un lavoratore autonomo su 4 (il 24,4%: 3.663 liberi professionisti e 2.568 Co.co.co) dichiara inoltre redditi compresi fra lo 0 e i 1500 euro. Anche i dati sulle prime pensioni da lavoro autonomo, malgrado i lievi miglioramenti, non sembrano essere troppo rassicuranti: le pensioni sopra il 1.000 euro annui, ad esempio, sono 228 nel 2011 (il 24,2%), con una crescita del 40% rispetto al 2010 (quando erano 162).
Nel 2011 il livello di disoccupazione rimane abbasta stabile (1514 i giornalisti che percepivano l’assegno di disoccupazione, contro i 1527 del 2010), ma cresce in modo esponenziale il ricorso agli altri ammortizzatori sociali, tanto che la spesa dell’Inpgi è cresciuta del 18,9% rispetto al 2010 (+29% per la solidarietà, +144,7% per la cassa integrazione straordinaria)
Il numero dei rapporti di lavoro cala in modo costante dal 2008, passando dai 22.197 di quell’anno ai 21.069 del 2011 (-5,1% e -0,94% solo nel 2011). Gli sgravi contributivi per le aziende che assumano o trasformino rapporti di lavoro a termine o Co.Co.Co in contratti a tempo indeterminato hanno condotto all’instaurazione di soli 207 rapporti di lavoro, supplendo solo lievemente la tendenza in negativo rilevata.
Tendenza confermata anche in questo caso dalla Casagit, che ha visto, dal 2008 al 2011, un calo dei soci attivi di 1.350 unità, dei quali circa 750 soci contrattualizzati e 600 giornalisti professionisti e pubblicisti autonomi che aderivano alla Cassa in forma volontaria. Se nel 2008 i soci con contratto in Casagit erano 17.500, sono passati nel 2011 a 16.819. Solo nel 2011 essi sono diminuiti di 150 unità (nel 2010 erano 16.969), pari a un calo dello 0,8% (comunque meno marcato di quello dell’anno precedente, quando fu del 3%).
La maggiore contrazione riguarda il settore dei contratti Fieg-Fnsi (quelli che producono la parte più consistente della massa retributiva), scesi a 14.951 (pari al 70,1% di tutti i rapporti di lavoro) rispetto ai 15.172 (71,3%) del 2010 (diminuzione dell’1,46%).
Affianco alla riduzione dei soci con contratto di lavoro giornalistico, la Casagit ha rilevato, tra il 2008 e il 2011, un aumento dei soci pensionati di circa 1.200 unità (da 6.362 a 7.533), pari al 18,4%: se nel 2008 essi erano il 22%, oggi sono il 27% di tutti i soci.
Anche all’Inpgi il rapporto fra attivi e pensionati continua a scendere, passando dal 2,58 del 2010 al 2,45 del 2011.
Emerge, dunque, un progressivo invecchiamento della professione giornalistica, determinato, appunto, dalla diminuzione del numero di rapporti, dal sostanziale blocco del turn over, dalla progressione degli stati di crisi e dal flusso costante di prepensionamenti.
Rimane l’incognita sui giornalisti cosiddetti “invisibili”, quelli, cioè, iscritti all’Ordine ma privi di una posizione Inpgi e che, stando agli ultimi dati aggiornati al 1^ ottobre scorso, sarebbero il 46,8% di tutti gli iscritti (escludendo elenco speciale e stranieri), pari a 48.206 unità: “possiamo supporre” – affermano i promotori del report – “che in questa grossa fetta del giornalismo italiano ci sia un’ampia fascia di precariato”, “una miriade di giovani (e meno giovani) inseriti in qualche modo nella macchina della produzione e della distribuzione dell’informazione giornalistica – soprattutto nel segmento dell’ online – che premono verso l’alto nella speranza di raggiungere almeno il traguardo di uno sbocco nel pubblicismo”.
L’auspicio finale è, allora, che si arrivi presto ad una riforma sostanziale della legge istitutiva dell’ordine (una legge che il prossimo anno compirà cinquant’anni, la Legge 3 febbraio 1963, n. 69), capace di superare l’attuale distinzione tra professionisti e pubblicisti, considerata obsoleta, e capace di offrire garanzie certe alle firme italiane e, di conseguenza, agli stessi cittadini, i quali devono poter contare su un’informazione libera, consapevole e trasparente.
Pubblicato su: PMI-dome