Sono oltre 112.000 le firme in Italia, ma solo il 45% ha una posizione contributiva attiva all’Inpgi e solo 1 su 5 ha un contratto di lavoro dipendente, guadagnando così 5 volte più di un freelance e 6,4 volte più di un Co.co.co. Approvata la legge sull’equo compenso, si auspica ora una riforma sostanziale della professione
Lo scorso 4 dicembre il voto unanime della
commissione Cultura alla Camera ha approvato, dopo mesi di tira e molla, la
Legge sull’equo compenso per i giornalisti freelance e i collaboratori autonomi, che intende porre fine al moltiplicarsi, soprattutto in tempi di multicanalità e interattività, degli episodi di sfruttamento tra i professionisti della parola e del pensiero. Si tratta, come si legge all’articolo 1 della stessa legge, della “
corresponsione di una remunerazione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione nonché della coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria”. In pratica significa
essere pagati tanto quanto si lavora, nel rispetto della propria professionalità e dignità.
“La schiavitù è abolita per legge” ha tuonato dal proprio sito l’Ordine dei giornalisti, sottolineando l’importanza di quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, un ulteriore passo verso l’auspicata riforma della professione, dopo l’approvazione del DPR 7 agosto 2012, n. 137, che ha inteso revisionare trasversalmente tutti gli ordinamenti professionali – prevedendo, ad esempio, l’obbligo di formazione permanente e l’istituzione di Collegi di disciplina che si facciano garanti della tutela deontologica della professione – senza tener conto delle specificità e criticità proprie del giornalismo. Che non sono, a ben vedere, così poche e così facilmente superabili: i giornalisti in Italia sono tanti, probabilmente troppi, soprattutto se si accetta il confronto con gli altri paesi; il gap tra le retribuzioni delle firme dipendenti e quelle di autonomi e Co.co.co appare in continuo aumento; sempre più numerosi sono i capelli bianchi nel settore, mentre si riduce il numero dei rapporti professionali.
Questi e altri trends sono stati rilevati, in particolare, dal rapporto
“La fabbrica dei giornalisti” di
Lsdi (Libertà di stampa e diritto all’informazione), aggiornato con i dati relativi al 2011 e presentato lo scorso 30 novembre in un convegno alla
Federazione Nazionale della Stampa a Roma.
In controtendenza rispetto a gran parte dei paesi occidentali, in Italia il numero dei giornalisti continua ad aumentare, contando, a inizio ottobre 2012, ben 103.036 professionisti (che diventano oltre 112.000 se si considerano anche gli iscritti all’elenco speciale e gli stranieri), contro i 102.656 del 31 dicembre 2011 e i 100.487 dell’anno precedente. Essi sono il triplo di quelli presenti in Francia (37.286) e quasi il doppio di quelli in Gran Bretagna (circa 50.000) e Stati Uniti (cica 60.000).
Tuttavia, a fine 2011, solo il 45% delle complessive 102.656 firme italiane (pari a 46.243 unità) risultava effettivamente attiva, cioè dotata di una posizione contributiva attiva all’Inpgi (l’ente previdenziale dei giornalisti nel Belpaese); si tratta di una percentuale di mezzo punto superiore a quella registrata nel 2010, quando i giornalisti attivi erano il 44,5% (44.906 su 100.487 iscritti all’Ordine), e di quasi un punto superiore a quella del 2009 (44,1%, cioè 43.300 iscritti).

Di questi 46.243 giornalisti attivi, 19.639 operano con un rapporto di lavoro subordinato e 26.524 sono invece autonomi e parasubordinati (i cosiddetti Co.co.co). È, in particolare, il peso crescente di questi ultimi a determinare gli incrementi registrati. Nel lavoro dipendente le posizioni attive (presso l’Inpgi1) sono calate, infatti, dalle 20.087 del 2009 (46,4% dei 43.300 giornalisti attivi), alle 19.895 del 2010 (44,3% di 44.906), fino alle 19.639 del 2011 (42,6% su 46.243); nel lavoro autonomo, invece, le posizioni attive (presso l’Inpgi2) sono passate dalle 23.213 del 2009 (53,6%), alle 25.011 del 2010 (55,7%), fino alle 26.524 del 2011 (57,4%). Tra il 2010 e il 2011, dunque, i lavoratori autonomi attivi sono aumentati di 6,05% (l’incremento era stato invece del 7,7% nel 2010), mentre quelli subordinati sono scesi dello 0,94%.
Il bacino dei giornalisti retribuiti ufficialmente continua a ingrandirsi, nonostante lo stato di crisi di molte testate, i prepensionamenti e il sostanziale blocco del turn over (i praticanti sono scesi da 1.306 del 2009 a 868): questo proprio grazie alla sola crescita degli autonomi e parasubordinati. Solo il 19,1% degli iscritti all’Ordine – meno di un giornalista su 5 – ha, infatti, un contratto di lavoro dipendente.
Completano il profilo degli iscritti all’Ordine i pensionati, che a fine 2011 erano 6.128 (di cui 5.206 dipendenti con posizione Inpgi1 e 922 autonomi con posizione Inpgi2, complessivamente pari al 6%), e i 50.365 giornalisti senza alcuna posizione Inpgi, pari al 49% del totale.

Com’è noto l’albo dei giornalisti tenuto da ogni Ordine regionale o interregionale è suddiviso in due elenchi principali (oltre agli elenchi speciali): quello dei professionisti, che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione, e quello dei pubblicisti, che svolgono l’attività in modo non occasionale e retribuito, anche se contestualmente ad altre professioni e impieghi. Con riferimento, allora, alla composizione degli attivi, nell’ambito del lavoro subordinato, nel 2011 i professionisti sono passati da 16.193 a 15.908 (-285 unità), diventando il 56,9% dei 27.960 professionisti iscritti all’Ordine, mentre i pubblicisti sono passati da 3.348 a 3.434 (+86 unità), raggiungendo quota 4,7% dei 73.030 iscritti all’elenco pubblicisti.
Fra gli autonomi, invece, i professionisti attivi sono passati dai 4.781 del 2010 (il 17,4% di tutti i professionisti) ai 5.201 del 2011, pari al 18,6% di tutti i professionisti, mentre i pubblicisti sono saliti a 20.260 (il 27,4% di tutti i pubblicisti) da 19.428 (27,3%).
Oltre alla composizione interna, le differenze profonde tra i due diversi segmenti del giornalismo professionale si notano anche a livello di retribuzione: mentre la media annua delle retribuzioni lorde dei giornalisti dipendenti è pari a 62.228 euro, il reddito lordo medio degli autonomi è di 12.456 euro e quello dei parasubordinati è di 9.703 euro. In altre parole, il reddito medio dei giornalisti dipendenti è 5 volte maggiore rispetto a quello degli autonomi e 6,4 volte superiore a quello dei Co.co.co.
Sul piano del lavoro subordinato, se i rapporti di lavoro diminuiscono in termini numerici e nelle fasce più basse peggiorano sul piano del reddito, si registrano, per contro, dei lievi miglioramenti nei compensi delle fasce medio alte. Tanto che, stando ai dati Inpgi1, la retribuzione media lorda dell’intero settore lavoro dipendente sarebbe in crescita sia sul 2009 (quando era pari a 61.620 euro) che sul 2010 (61.865 euro), anche come conseguenza dei miglioramenti contrattuali. Pure le stime Casagit (la cassa che assicurare ai giornalisti e ai loro familiari un sistema integrativo dell’assistenza prestata dal Servizio Sanitario Nazionale con una copertura delle spese sanitarie che prosegue anche dopo il pensionamento e senza limiti d’età) confermano in parte questo trend, mostrando, nel 2011, un lieve aumento (+0,8%) nell’ammontare del contributo medio versato dai giornalisti contrattualizzati.

Una certa stabilità nel lavoro giornalistico dipendente è comprovata anche dallo stato di buona salute del Fondo di previdenza complementare (che si affianca, con adesione volontaria, al regime pensionistico obbligatorio di base dell’Inpgi, attraverso la capitalizzazione individuale delle risorse): si nota – sottolinea Marina Cosi, Presidente uscente del Fondo – “un discreto ricambio demografico (nuovi iscritti stanno rimpiazzando i vecchi contribuenti che lasciano il lavoro, quindi il Fondo) e l’ esistenza di una discreta quantità di lavoratori, soprattutto nella fascia di età fra i 40 e i 50 anni, che girano una parte consistente (anche il 6-7%) del loro salario alla previdenza complementare”.
Si consideri poi il fatto che ben 7.812 dei 19.639 giornalisti subordinati (il 40%) attivi hanno anche un reddito da lavoro autonomo, che non entra nel calcolo della media annua della loro retribuzione come dipendenti, ma che di fatto allarga ancor di più il divario con la condizione reddituale del lavoro autonomo e parasubordinato.
Nel campo del lavoro autonomo alcuni segnali positivi nel 2011 vi sono: la media retributiva dei ‘’liberi professionisti’’ cresce di 2,9 punti percentuali, da 12.187 a 12.586 euro, quella dei Co.co.co del 14,1%, passando da 8.505 a 9.703 euro, infine scende dal 62% al 55,8% la percentuale di denunce sotto i 5.000 euro annui lordi. Una percentuale, quest’ultima, comunque ancora elevata (coinvolge 14.800 giornalisti autonomi). Un lavoratore autonomo su 4 (il 24,4%: 3.663 liberi professionisti e 2.568 Co.co.co) dichiara inoltre redditi compresi fra lo 0 e i 1500 euro. Anche i dati sulle prime pensioni da lavoro autonomo, malgrado i lievi miglioramenti, non sembrano essere troppo rassicuranti: le pensioni sopra il 1.000 euro annui, ad esempio, sono 228 nel 2011 (il 24,2%), con una crescita del 40% rispetto al 2010 (quando erano 162).
Nel 2011 il livello di disoccupazione rimane abbasta stabile (1514 i giornalisti che percepivano l’assegno di disoccupazione, contro i 1527 del 2010), ma cresce in modo esponenziale il ricorso agli altri ammortizzatori sociali, tanto che la spesa dell’Inpgi è cresciuta del 18,9% rispetto al 2010 (+29% per la solidarietà, +144,7% per la cassa integrazione straordinaria)
Il numero dei rapporti di lavoro cala in modo costante dal 2008, passando dai 22.197 di quell’anno ai 21.069 del 2011 (-5,1% e -0,94% solo nel 2011). Gli sgravi contributivi per le aziende che assumano o trasformino rapporti di lavoro a termine o Co.Co.Co in contratti a tempo indeterminato hanno condotto all’instaurazione di soli 207 rapporti di lavoro, supplendo solo lievemente la tendenza in negativo rilevata.
Tendenza confermata anche in questo caso dalla Casagit, che ha visto, dal 2008 al 2011, un calo dei soci attivi di 1.350 unità, dei quali circa 750 soci contrattualizzati e 600 giornalisti professionisti e pubblicisti autonomi che aderivano alla Cassa in forma volontaria. Se nel 2008 i soci con contratto in Casagit erano 17.500, sono passati nel 2011 a 16.819. Solo nel 2011 essi sono diminuiti di 150 unità (nel 2010 erano 16.969), pari a un calo dello 0,8% (comunque meno marcato di quello dell’anno precedente, quando fu del 3%).
La maggiore contrazione riguarda il settore dei contratti Fieg-Fnsi (quelli che producono la parte più consistente della massa retributiva), scesi a 14.951 (pari al 70,1% di tutti i rapporti di lavoro) rispetto ai 15.172 (71,3%) del 2010 (diminuzione dell’1,46%).
Affianco alla riduzione dei soci con contratto di lavoro giornalistico, la Casagit ha rilevato, tra il 2008 e il 2011, un aumento dei soci pensionati di circa 1.200 unità (da 6.362 a 7.533), pari al 18,4%: se nel 2008 essi erano il 22%, oggi sono il 27% di tutti i soci.
Anche all’Inpgi il rapporto fra attivi e pensionati continua a scendere, passando dal 2,58 del 2010 al 2,45 del 2011.
Emerge, dunque, un progressivo invecchiamento della professione giornalistica, determinato, appunto, dalla diminuzione del numero di rapporti, dal sostanziale blocco del turn over, dalla progressione degli stati di crisi e dal flusso costante di prepensionamenti.
Rimane l’incognita sui giornalisti cosiddetti “invisibili”, quelli, cioè, iscritti all’Ordine ma privi di una posizione Inpgi e che, stando agli ultimi dati aggiornati al 1^ ottobre scorso, sarebbero il 46,8% di tutti gli iscritti (escludendo elenco speciale e stranieri), pari a 48.206 unità: “possiamo supporre” – affermano i promotori del report – “che in questa grossa fetta del giornalismo italiano ci sia un’ampia fascia di precariato”, “una miriade di giovani (e meno giovani) inseriti in qualche modo nella macchina della produzione e della distribuzione dell’informazione giornalistica – soprattutto nel segmento dell’ online – che premono verso l’alto nella speranza di raggiungere almeno il traguardo di uno sbocco nel pubblicismo”.
L’auspicio finale è, allora, che si arrivi presto ad una riforma sostanziale della legge istitutiva dell’ordine (una legge che il prossimo anno compirà cinquant’anni, la Legge 3 febbraio 1963, n. 69), capace di superare l’attuale distinzione tra professionisti e pubblicisti, considerata obsoleta, e capace di offrire garanzie certe alle firme italiane e, di conseguenza, agli stessi cittadini, i quali devono poter contare su un’informazione libera, consapevole e trasparente.