Mercato del benessere: quale crisi?

Oltre 70 mila impiegati nel settore e più di 35 mila imprese, soprattutto in Lombardia, per un giro d’affari annuo pari a 21 miliardi. A fronte dell’interesse crescente per wellness e forma fisica, persistono alcune prassi scorrette e un italiano su due risulta obeso o in sovrappeso. Il moltiplicarsi degli esercizi nasconde l’allarme abusivismo

Raccoglie un giro d’affari annuo di oltre 21 miliardi. Coinvolge più di 70 mila addetti e più di 35mila imprese tra centri benessere, trattamenti estetici e palestre. È la fotografia del mercato del wellness in Italia, basata su dati Aiceb Confesercenti, Censis e Coni e diffusa in occasione dell’ottava edizione di “RiminiWellness”, la manifestazione dedicata al fitness, al benessere e allo sport, svoltasi dal 9 al 12 maggio 2013 a Rimini Fiera, col patrocinio di Regione Emilia-Romagna, Provincia e Comune di Rimini. Sulla scia di un settore che sembra tenere piuttosto bene, malgrado la difficile congiuntura economica, la kermesse ha registrato un’ampia affluenza (244.532 visitatori), superiore di 7 punti percentuali rispetto al 2012, con una massiccia partecipazione di Russia, Est Europeo e Turchia.
Più in particolare, secondo le stime rese note, gli istituti di bellezza rappresentano la quota più ampia e redditizia del settore, con circa il 70% delle imprese totali, pari a ben 21 mila unità. Seguono gli hotel e gli agriturismi (sono 4.200), i centri idrotermali e gli stabilimenti per il benessere fisico (2.500). Le piscine e le palestre sono circa 7 mila e gli stabilimenti balneari attrezzati circa 500. Le performance del settore raggiungono livelli ancor più elevati, se si considerano anche i 3.773 esercizi ricettivi presenti nelle solo località termali, che hanno una disponibilità di 148.918 letti (pari al 3,2% del totale letti delle strutture ricettive in Italia) e permettono un giro di presenze turistiche attorno ai 15 milioni l’anno.
Assumendo una prospettiva globale, pare che il maggior numero di centri per il benessere e di utenti degli stessi si trovi negli Stati Uniti. A seguire incontriamo il Giappone, il Regno Unito e la Germania. Un’incoraggiante quinta posizione spetta all’Italia, seguita dalla Spagna.
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Tornando al focus nazionale, la medaglia d’oro per quantità di imprese dedicate alla cura del corpo, va alla regione Lombardia, che raggruppa il 36,1% delle attività complessive: detta in altri termini, quasi un centro benessere su cinque (18,3%) tra quelli attivi in Italia ha sede nella provincia di Milano.
Alcune stime elaborate e diffuse nei giorni scorsi dalla Camera di Commercio di Milano, sulla base di dati del registro delle imprese 2012 e 2011 ), confermano la posizione di leader nel settore benessere detenuta dalla Lombardia. Un settore che qui cresce, infatti, tra il 2011 e il 2012, dello 0,7%, passando da 24.813 a 24.982 imprese attive. Nella Regione il 72% delle ditte individuali operanti nel benessere ha, inoltre, per titolare una donna e un imprenditore su dieci ha meno di trent’anni. In Lombardia è attivo un sesto delle imprese italiane dell’estetica e del benessere, con 16.802 parrucchieri (+0,2%), 5.569 istituti di bellezza (nel 2011 erano 5.476, +1,7%) e 738 palestre (+0,8%). Milano, Brescia e Bergamo risultano le province con il maggior numero di imprese nel settore, rispettivamente con 7.580 (30,3% del totale regionale), 3.338 (13,4%) e 2.917 (11,7%) unità. I livelli di crescita maggiore si riscontrano invece a Monza e Brianza (+1,5% rispetto al 2011), Pavia (+1,4%) e Como (+1,3%).
Continuiamo a occuparci delle elaborazioni sul wellness diffuse a Rimini, concentrando ora l’attenzione sui consumatori di questo florido mercato. Sono circa 40 milioni gli italiani che praticano più o meno regolarmente l’attività sportiva e quasi 11 milioni quelli che spendono o si dichiarano pronti a spendere fino a 1.200 euro all’anno per prodotti e servizi per il proprio benessere fisico. Il 23% della popolazione frequenta abitualmente un centro fitness, l’8,7% delle strutture per la cura del corpo. La fascia di utenti fitness più ampia (il 32%) è quella dei 18-25enni, seguita dalla fascia 26-35 anni (27%), da quella 36-45 anni (21%), 46-55 anni (14%), infine 56-65 anni (6%). Il 41% dei frequentatori di palestre e centri benessere è single, il 54% è sposato o convive e il 5% è divorziato o separato.
A livello territoriale chi è solito frequentare palestre e centri fitness abita soprattutto al Nord (il 56%, contro il 25% di chi vive al Centro e il 19% di chi vive al Sud). Più nel dettaglio, le regioni con il tasso più elevato di utenti sono la Lombardia (19%), il Veneto (11%), l’Emilia Romagna, il Lazio (entrambi al 10%) e la Toscana (8%). Al Sud, buone le percentuali registrate da Campania (6%), Puglia e Sicilia (entrambi al 4%).
Alla base delle acque favorevoli su cui naviga il mercato del wellness vi è un’offerta che sembra diversificarsi con grande rapidità e che propone sempre più centri polifunzionali. Si assiste, inoltre, a una polarizzazione dei consumi, che si rivolgono sempre più verso palestre di fascia alta, capaci di offrire molteplici e differenziati servizi o, in alternativa, verso centri dal profilo low cost. Stando al clima respirato e ai dati diffusi in occasione del RiminiWellness, l’interesse degli italiani verso il benessere e la forma fisica sembra essere, quindi, in costante crescita.
Questo nonostante alcuni comportamenti rischiosi continuino a minacciare la salute nella popolazione: stando al quadro delineato recentemente dall’Istat, in collaborazione con il Cnel, attraverso il primo “Rapporto sul benessere degli italiani”, i problemi di sovrappeso e obesità stanno seguendo una linea crescente, colpendo circa il 45% della fascia maggiorenne. L’abitudine al fumo mostra una lieve flessione, che non riguarda tuttavia i più giovani: se nel 2001 i fumatori erano il 23,7% della popolazione di 14 anni e più, dieci anni dopo tale percentuale, stabile dal 2004, è scesa solo di un punto. Sembrano diffondersi pratiche di abuso nel consumo di bevande alcoliche da parte dei giovani e circa il 40% degli adulti non svolge alcuna attività fisica nel tempo libero, perseguendo uno stile di vita sedentario. Oltre l’80% della popolazione consuma, inoltre, meno frutta e verdura di quanto sia abitualmente raccomandato. Più penalizzate, in simili prassi scorrette, sono le persone di estrazione sociale più bassa e quelle abitanti nel Mezzogiorno. L’allarme lanciato da Istat e Cnel riflette la necessità di impedire che queste cattive abitudini si consolidino e finiscano per influenzare in termini negativi anche le generazioni future.
Le tendenze di recente rilevate sembrano, dunque, collidere tra loro, rilevando, da un lato, un italiano pigro e costretto a lottare continuamente con la bilancia, dall’altra un’attenzione crescente per la salute e la forma fisica. I risultati di un’ulteriore indagine possono forse aggiungere nuovi stimoli alla riflessione, delineando un Belpaese che, per soddisfare la propria ricerca di bellezza, ricorre sempre più alla soluzione più rapida e semplice di tutte, il classico “ritocchino”. La Società internazionale di chirurgia plastica estetica (ISAPS), nel suo “Global study of aesthetic cosmetic surgery procedures in 2011“, colloca l’Italia al sesto posto mondiale per numero di interventi di chirurgia plastica e per quantità di professionisti del settore. Si ricorre al bisturi soprattutto per aumentare il seno e si sta diffondendo il lipofilling, ossia il trapianto del proprio grasso.
Il moltiplicarsi di saloni di bellezza, centri estetici, parrucchieri, solarium e altri centri che si occupano di wellness nasconde, infine, un altro fenomeno sul quale si stanno concentrando le preoccupazioni di varie associazioni di categorie. Si tratta dell’abusivismo, che, oltre a mettere in difficoltà gli operatori del settore, rischia di trasformare quelli che in apparenza potrebbero sembrare degli ottimi affari in rischiosi interventi per i vanitosi utenti. A lanciare l’allarme è, tra le altre, anche l’Unione nazionale CNA Benessere e Sanità, che ha di recente diffuso alcuni dati dell’illegalità a Roma: dei 4 mila nuovi centri di estetisti e acconciatori che annualmente spuntano, ben 2 mila sono abusivi e il giro d’affari generato dal nero è di 15 milioni di euro di evasione fiscale e contributiva.
Pubblicato su: PMI-dome
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Immigrati imprenditori votati all’integrazione

Un’indagine del CNEL rivela il profilo socio-demografico degli imprenditori immigrati in Italia, valutando le implicazioni economiche e sociali della loro forte presenza

In barba a facili luoghi comuni e a fedi politiche tanto passionali quanto illogiche, pare che gli imprenditori immigrati siano piuttosto diffusi in tutto il territorio nazionale, non solo nelle aree dei distretti industriali del Nord, siano ben integrati con le piccole imprese italiane, assumano personale e collaboratori autoctoni, siano motivati, propensi al rischio e, soprattutto, alla crescita, vista come via preferenziale per il superamento della crisi.

A rivelarlo è stata l’indagine pluriennale titolata “Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori”, condotta dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, CNEL – attraverso l’Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri e il Dipartimento di studi sociali e politici – e dalle Università di Milano, Pavia e Catania, grazie anche al coinvolgimento, a livello locale, delle principali associazioni di rappresentanza degli interessi degli artigiani e della piccola impresa (Confartigianato e CNA).

Presentata lo scorso 28 novembre presso la sede romana del CNEL, la ricerca ha intesto coniugare approccio quantitativo e qualitativo e ha concentrato, in particolare, la propria attenzione su sei aree locali dove la presenza di imprese di immigrati è più diffusa e caratterizzata settorialmente; in questa sede ci interessa, tuttavia, riportare alcune riflessioni di carattere generale circa le tendenze e le evidenze emerse.

L’Italia rappresenta il Paese con la maggior diffusione assoluta di piccola imprenditorialità in Europa: secondo dati Eurostat, su un totale di 20,9 milioni di Small and Medium Enterprises, SME (definite a livello europeo come le imprese indipendenti con meno di 250 addetti ovvero meno di Euro 50 milioni di fatturato e suddivise in medie imprese, dai 249 ai 50 dipendenti, piccole imprese, dai 49 ai 10 dipendenti, micro imprese, con meno di 10 dipendenti e imprese individuali con nessun dipendente), presenti in Europa (pari al 99,8% del totale imprese), l’Italia contribuisce con ben 3.947.000 unità, di cui il 94,5% sono micro-imprese; in altri termini, le imprese italiane rappresentano il 19% circa del totale imprese stimato nei 27 Pesi facenti parte dell’Unione Europea. La diffusione delle micro imprese rappresenta una peculiarità del contesto italiano, le cui cause sono state individuate nelle caratteristiche strutturali della nostra economia e nelle barriere istituzionali colpevoli di imporre costi crescenti al superamento di certe soglie dimensionali; tale peculiarità, in ogni caso, ha rappresentato nel tempo un terreno fertile per l’insediamento e lo sviluppo dell’imprenditorialità immigrata: è stata, infatti, dimostrata una forte correlazione tra diffusione di imprese autoctone e di imprese facenti capo ad immigrati, in un regime di complementarietà tra le due (che non esclude comunque alcuni casi di concorrenza diretta) e di parziale condivisione dei fattori che ne determinano la presenza e le difficoltà.

Il peso delle imprese immigrate nelle economie provinciali sembra essere maggiore nel Nord e nelle aree dei distretti industriali (con qualche eccezione in alcune provincie del Nord-Est) e i fattori che determinano questo peso sembrano essere principalmente tre: il livello di benessere economico provinciale, misurato attraverso il PIL locale pro capite; il grado di integrazione locale degli immigrati, stimato attraverso l’indice di integrazione sociale pubblicato annualmente dal CNEL; infine la dotazione locale di capitale sociale, misurata attraverso una serie di indicatori elaborati nel corso del Progetto ministeriale di rilevante interesse nazionale, PRIN. Tali indicatori di successo – riconducibili, come si nota, solo in parte alla sfera economica e facenti capo in gran parte alla dimensione sociale – sono, di fatto, gli stessi previsti per qualsiasi attività imprenditoriale autoctona.

L’indagine del CNEL è stata condotta nel corso del 2010 su un campione di 200 immigrati imprenditori, provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo, dai paesi dell’est europeo (anche paesi neo-comunitari come la Romania), dai paesi dell’Africa sub-sahariana e dai paesi asiatici (Cina e il sub-continente indiano), dunque da quei paesi che maggiormente hanno espresso capacità imprenditoriale; essa ha coinvolto, accanto ad imprenditori propriamente detti, anche un sottocampione di titolari di imprese individuali e i settori considerati sono stati quelli in cui maggiore è la presenza di immigrati (nell’ordine: edilizia, commercio, industria metalmeccanica, industria tessile e abbigliamento, servizi). Lo studio arriva, allora, a delineare il profilo socio-demografico dell’imprenditore immigrato: un uomo (solo nel 10% dei casi si ha avuto a che fare con imprenditrici, concentrate quasi esclusivamente tra gli immigrati cinesi) giovane, di circa 41 anni, inserito in nuclei di convivenza (risulta sposato l’85% degli intervistati, alcuni dei quali, soprattutto egiziani, con italiane) con più figli rispetto all’omologo italiano (l’80% ha figli) ed una formazione scolastica discreta, generalmente maturata nel paese d’origine, seguita da un iter lavorativo che vede delle prime esperienze in qualità di dipendente sempre nel paese d’origine, emigrazione in Italia attorno ai 24 anni, lavoro generico alle dipendenze in Italia e avvio dell’attività imprenditoriale attorno ai 33 anni.

Tra le motivazioni all’immigrazione troviamo innanzitutto il desiderio di promozione (41%), probabilmente grazie a delle condizioni economiche originali tendenzialmente favorevoli (il 37% degli intervistati proviene da famiglie di commercianti, dirigenti, piccoli imprenditori e professionisti, il 18% da famiglie di tecnici o impiegati, l’82% proviene da ambienti sociali urbani abbastanza privilegiati e il 91% dichiara di aver goduto di condizioni economiche originarie superiori o in linea con la media). Persistono, tuttavia, anche motivazioni economiche dettate da un peggioramento della propria situazione (43%); infine il 26% degli intervistati imputa la scelta di spostarsi alla personale propensione al rischio e all’avventura (26%).

La decisione di mettersi in proprio non rappresenta, poi, solitamente, una via d’uscita dalla disoccupazione (condizione che coinvolgeva solo il 12% del campione) o un’induzione da parte del precedente datore di lavoro, ma sembra essere stata libera, dettata dalla volontà di guadagnare di più, di essere autonomo e di valorizzare le proprie capacità e conoscenze nel settore; il 77% degli intervistati ha fondato l’azienda, il 21% l’ha rilevata e il 2% l’ha ereditata.

Fondamentale il ruolo della famiglia nella fondazione e gestione dell’attività (come per la piccola imprenditoria autoctona, del resto): il 58% degli intervistati dichiara di avere un parente a sua volta titolare dell’impresa, nel 19% dei casi i familiari hanno contribuito a fornire il capitale iniziale, un terzo degli imprenditori immigrati coinvolge i parenti nell’attività aziendale e il 30% dell’occupazione totale generata riguarda familiari.

Il 35,5% del campione ha assunto la forma di lavoratore autonomo, privo di dipendenti, il restante 64,5% possiede un’impresa che coinvolge un’occupazione media di 3,7 addetti, con un intervallo che va da 1 a 28 dipendenti (se si aggiungono le varie collaborazioni parasubordinate, stagionali e le varie consulenze, l’occupazione media sale di un punto, con un range da 1 a 36 addetti).

Dal punto di vista dell’innovazione tecnologica, le imprese di immigrati non sembrano essere particolarmente all’avanguardia: solo nel 38% dei casi (39,5% tra gli imprenditori e 35,2% tra gli autonomi) si usa la posta elettronica e nel 15% (18,6% imprenditori contro 8,5% autonomi) si ha a disposizione un sito internet. Il 19% ricorre alla pubblicità (24,8% contro 8,5%) e il 16,5% (24,0% contro 2,8%) utilizzo un marchio che richiama la nazionalità del titolare.
Come avviene per gli imprenditori autoctoni, anche per gli imprenditori immigrati la buona riuscita dell’attività imprenditoriale dipende, in buona parte, dalla capacità di accedere alle tre principali forme di capitale: capitale economico (che consiste nella “disponibilità di risorse monetarie, che possono essere investite”), capitale culturale (che rappresenta l’insieme “delle conoscenze e delle esperienze che l’imprenditore ha acquisito mediante programmi di formazione formale o informale e mediante l’apprendimento delle pratiche decisionali e dei comportamenti appropriati per la soluzione di problemi riguardanti l’attività”) e capitale sociale (la “dotazione individuale di relazioni sociali relativamente stabili e basate sulla reputazione, un grado di essere mobilitate dal soggetto per raggiungere i propri scopi”).
Con riferimento, innanzitutto, al capitale economico, si nota un’elevata capacità di autofinanziamento tra gli immigrati che decidono di dare avvio ad un’impresa, possibile grazie ad un precedente periodo di “accumulazione” alle dipendenze di qualcuno: il 66,8% degli intervistati non ha avuto bisogno di capitali di terzi e il 10,6% coinvolge familiari e parenti nel rischio di impresa. Il sistema creditizio locale si dimostra, poi, particolarmente capace nel sostenere gli investimenti di avvio, per questo motivo gli imprenditori immigrati riescono ad ottenere prestiti dalle banche in misura maggiore rispetto ai prestiti da familiari e parenti (9,0% contro 8,5%). L’accesso al credito iniziale non sembra costituire un problema forse anche perché molte tra le attività avviate non richiedono un’elevata dotazione di capitale iniziale (considerazione vera per il piccolo commercio, ma non per l’attività industriale metalmeccanica o dell’abbigliamento).

Superata la fase iniziale, nel corso del suo sviluppo, le aziende sembrano tuttavia aumentare la propria domanda di capitale: il 69,5% degli intervistati ha richiesto prestiti e nel 30,5% dei casi si sono rivolti a banche o ad associazioni di categoria.

Per quanto riguarda il capitale culturale, emerge che la preparazione scolastica media dei soggetti è di 12,4 anni di studio, con un titolo conseguito per la maggior parte dei casi nel paese di origine. Il 16% degli intervistati risulta laureato. L’anzianità dell’attività imprenditoriale, indicativa della specifica esperienza maturata, è di oltre 7 anni e la conoscenza delle lingue – dell’italiano in particolare – risulta fondamentale, anche se esistono esempi (come la realtà imprenditoriale cinese di Prato) in cui si colma questa mancanza attraverso l’assunzione di personale autoctono.

Infine vediamo la dotazione di capitale sociale. Si evidenzia come l’ampiezza della rete di relazioni sia maggiore nelle aziende di più ampie dimensioni, tra gli imprenditori piuttosto che tra i lavoratori autonomi e tra le imprese che hanno meglio resistito alla crisi in termini di fatturato.

Appartengono a questo network di relazioni in primis italiani (39,6%), seguono familiari e parenti (37,4%), connazionali (18,9%) e stranieri non connazionali (solo 4,1%). Del resto i buoni rapporti con gli autoctoni sono dichiaratamente considerati fondamentali per avere successo negli affari, molto più importanti dei rapporti con connazionali e familiari. Le relazioni interpersonali sono, poi, considerate più rilevanti rispetto all’adesione formale a qualsiasi associazione di categoria (con riferimento a quest’ultima, si nota come gli imprenditori immigrati privilegino le associazioni italiane di categoria, piuttosto che quelle tra connazionali).

Il rapporto ha inteso valutare, inoltre, il grado di integrazione economica e sociale degli imprenditori immigrati.
Con riferimento al primo parametro, si evidenzia come il 66,5% dei clienti siano italiani e come nella metà dei casi si abbia a che fare con un numero di clienti non superiore ai 5. Il 77,3% degli intervistati si rivolge a fornitori italiani, mentre le reti co-etniche di subfornitura interessano soltanto l’11,1% dei casi e soprattutto le imprese con dipendenti (15,7%, contro un 2,8% riferito ai lavoratori autonomi). Le funzioni contabili, amministrative e di applicazione della normativa vengono implementate attraverso la strategia del make or buy: solo le competenze informatiche provengono dall’interno, le altre tendono ad essere esternalizzate, con il ricorso prevalentemente a consulenti italiani (fattore che incrementa il mercato delle consulenze aziendali), ma anche ad associazioni imprenditoriali locali.
Dunque l’integrazione economica passa attraverso il rapporto diretto con operatori italiani e si fa in parte subalterna per i lavoratori autonomi, che spesso “dipendono” da un solo cliente, ma cercano riscatto attraverso l’ala protettiva associazionista.

Con riferimento all’integrazione sociale, emerge che il 14% degli intervistati ha ottenuto la cittadinanza italiana, il 4,5% vive con un partner di nazionalità italiana e, tra coloro che hanno famiglia, l’83,9% ha figli; quasi la metà (47,7%) ha almeno tre figli (dato superiore alla media italiana). Da questi dati deriva, dunque, un buon livello di radicamento sociale. Il 6,6% degli imprenditori intervistati ha, inoltre, assunto dipendenti italiani (percentuale che sale al 22,2% se si considera l’intera vita aziendale) e il 5,1% si avvale di rapporti di collaborazione con italiani.
Al di là di alcune questioni tipicamente legate alla loro condizione – corsi di italiano e di formazione per la gestione, semplificazione amministrativa per il permesso di soggiorno, diritti politici e previdenziali (pensione fruibile anche nel Paese d’origine), discriminazione e diffidenza di istituzioni e singoli – gli immigrati condividono con gli autoctoni numerose problematiche legate all’attività imprenditoriale: richiesta di riduzione delle tasse e di agevolazioni finanziarie e creditizie, richiesta di maggiori controlli per evitare comportamenti sleali, richiesta di aiuto nel recupero dei crediti.
Al pari delle aziende autoctone, inoltre, quelle immigrate considerano la reputazione sul mercato il principale fattore di forza dell’attività, con la conseguente necessità di puntare più sulla qualità che sul prezzo; esse, poi, considerano la concorrenza con le altre imprese straniere e la dipendenza da pochi clienti le principali fonti di debolezza.
Il 16% degli intervistati, infine, mantiene rapporti d’affari con il Paese d’origine (soprattutto cinesi e senegalesi), acquistando beni e servizi o vendendo i propri prodotti o facendo investimenti.

I risultati della ricerca mostrano, allora, in conclusione, che “gran parte degli imprenditori intervistati ha conquistato la cittadinanza economica ed è stato incluso in modo irreversibile nel tessuto delle piccole imprese che operano in Italia, con l’auspicio che queste piccole imprese diventino progressivamente medie imprese”; “il percorso verso la cittadinanza sociale […] è più lungo e forse coinvolgerà la seconda generazione, quella dei figli nati in Italia”: “per essi indugiare ulteriormente nel riconoscimento dei diritti politici nuocerebbe anzitutto a noi italiani”.