Trovare lavoro con i Social Network: la situazione nel Veneto

Pubblico di seguito alcuni dei risultati emersi a termine del sondaggio da me diffuso in tema di lavoro e social network. Quanti fossero interessati a conoscere una versione più ampia di questo resoconto possono inviare una richiesta via mail all’indirizzo robertabarbiero2@gmail.com. Grazie di cuore a quanti hanno generosamente contribuito al mio lavoro, rispondendo al questionario!


Con la precisa intenzione di indagare se e in quale misura il social recruiting fosse diffuso nella regione che da sempre mi accoglie, il Veneto, ho scelto di stilare e diffondere un questionario sul tema. Esso analizza il fenomeno dal punto di vista degli effettivi o potenziali candidati e cerca primariamente di comprendere il livello di consapevolezza o scetticismo vigente in merito alle potenzialità dei Social Network nelle attività di ricerca attiva o passiva di un’occupazione.

Del questionario ho realizzato sia una versione cartacea sia una versione online, affidandone le sorti della diffusione al passaparola, oltre che alla distribuzione diretta.

Il periodo di somministrazione è stato di poco superiore a un mese, dall’8 agosto al 17 settembre 2014 e, per raccogliere maggiori adesioni e per avere più certezze circa la veridicità delle risposte, ho assicurato ai rispondenti il totale anonimato. Nella raccolta ho scelto di concentrarmi sulla fascia d’età che va dai 15 ai 64 anni, allo scopo di analizzare la cosiddetta “forza lavoro” o “popolazione attiva”, cioè quella porzione della popolazione potenzialmente occupata o alla ricerca di un’occupazione Hanno risposto al mio invito a partecipare al sondaggio in 825 persone residenti in Veneto.

Cerchiamo allora di conoscere le principali tendenze emerse, precisando che il mio campione, rispetto alle medie effettive della Regione, ricavate dalle più recenti stime Istat, toglie alcuni punti percentuali di rappresentatività alla fascia più anziana dei 55-64 – e in parte anche a quelle dei 45-54enni e dei 35-44enni – e li consegna direttamente alla fascia dei 25-34enni, denotandosi, allora, come un campione leggermente più giovane rispetto alla media della popolazione reale della Regione. Inoltre il mio è un campione decisamente più istruito rispetto alla media territoriale e da ciò deriva una probabile maggiore alfabetizzazione al mezzo informatico e alle sue manifestazioni più recenti, quali sono appunto le piattaforme di Social Networking. Possiamo anche ipotizzare che il divario rispetto al dato regionale dipenda primariamente dal metodo utilizzato e dai riscontri ottenuti nella rilevazione, che hanno visto protagonista il Web e il suo bacino di utenti.

Attraverso il mio questionario, ho cercato innanzitutto di comprendere quali siano i canali che hanno effettivamente permesso alle persone occupate di trovare lavoro. Le risposte fornite dai partecipanti veneti confermano la tendenza generale delle imprese tricolori a far ricorso, per il reclutamento, soprattutto a canali di tipo informale: il 40% dei rispondenti occupati dichiara di aver trovato lavoro primariamente grazie a parenti e ad amici e il 38% grazie a contatti professionali precedentemente allacciati. Seguono, nella classifica dei canali più efficaci per trovare un’occupazione, gli strumenti tradizionali di contatto con l’azienda (ad esempio comunicazioni via posta, fax, telefono o visite di persona), con un 20% di rispondenti occupati principalmente grazie a questi, i concorsi pubblici (14%), gli annunci online (13%), gli strumenti online più classici di contatto con l’impresa, come l’email o la sezione career del website aziendale (12%), le agenzie per il lavoro e le società di ricerca e selezione (10%). Ancora molto bassa la percentuale di efficacia relativa al canale che questo sondaggio ha inteso esplorare, le piattaforme di Social Network: con un 5%, esso non viene certo promosso nella rosa dei prediletti, ma conquista pur sempre una posizione non trascurabile, nel confronto con gli altri canali. Piuttosto marginale appare, invece, l’utilità degli annunci offline (come quelli presenti su giornali e riviste specializzate o acclamati alla radio e alla televisione, al 3%), dell’Ufficio stage universitario, di Informagiovani e dei Centri per l’impiego (tutte e tre le alternative restano ferme al 2%), infine dei Career day e degli eventi HR (che ottengono appena l’1%).

1_Efficacia dei canali per la ricerca di lavoroPrima di esplorare nello specifico le prassi fruitive degli utenti social, con una particolare attenzione alle loro implicazioni nell’incontro domanda/offerta di lavoro, ho voluto comprendere la reale entità della diffusione del fenomeno Social Network, chiedendo ai partecipanti di indicare se e a quante piattaforme fossero iscritti. Ne è emerso che la metà (pari a 412 persone) è iscritta e utilizza uno o due piattaforme, il 19% (cioè 160 individui) a tre o quattro piattaforme e il 9% (73) addirittura a più di quattro. Il restante 22% (pari a 188 rispondenti) dichiara di non essere iscritto e di non utilizzare alcuna rete sociale online. Declinando i dati relativi alla diffusione delle piattaforme social alle diverse fasce d’età cui appartengono i rispondenti, emerge come quella social sia una febbre che sembra aver colpito tutta la popolazione veneta attiva, pur delineandosi come un fenomeno proprio delle classi d’età più giovani.2_Diffusione dei Social network

 Alla seconda parte del mio sondaggio, quella che entra nel vivo della questione, erano invitati a rispondere i soli iscritti e fruitori di Social Network, al fine di comprendere la reale consapevolezza in capo a questi ultimi circa le potenzialità del mezzo. Vediamo alcune delle evidenze emerse.

Ho innanzitutto cercato di capire quali siano le specifiche piattaforme che raccolgono il maggior favore di pubblico e che risultano, dunque, più diffuse, in via generale: medaglia d’oro per Facebook (utilizzato dall’88% dei fruitori di reti sociali online), argento per LinkedIn (48%) e bronzo per Youtube (33%); appena più in basso troviamo il cinguettante Twitter (32%), seguito da Google+ (28%) e dal gusto un po’ vintage di Instagram (24%). Espansione, infine, piuttosto bassa per Pinterest (7%) e del tutto residuale per Myspace e Xing (entrambi al 2%).

3_Piattaforme Social Network più diffuseMi sono poi concentrata sul tema primario della mia tesi, interrogando direttamente il mio campione in merito all’effettivo utilizzo dei Social Network per la ricerca di lavoro: la maggior parte (il 63%) sostiene di non aver mai sfruttato le piattaforme a tale scopo, ma un buon 37% riporta di averlo fatto almeno una volta.

4_Utilizzo dei Social Network per la ricerca di lavoroTra i motivi di resistenza al ricorso a tali mezzi per cercare lavoro, emerge innanzitutto la scarsa efficacia che si ritiene essi abbiano in questo senso: quasi la metà (44%) di quanti non hanno mai sfruttato i social per trovare un’occupazione riporta di non averlo fatto perché crede siano strumenti poco utili allo scopo, seguiti da un 16% che crede che un utilizzo di questo tipo sia pericoloso per la propria privacy. Un lieve, ma comunque significativo, 11% rivela l’intenzione di farvi ricorso presto, mentre il 6% ammette di non averli usati semplicemente perché non ne è capace. Un frettoloso 7% pone la causa del mancato utilizzo nella scarsità della risorsa tempo, infine un fortunato 38% semplicemente non ha cercato lavoro.

5_Motivi di resistenza all'uso dei Social network per la ricerca di lavoroIl sondaggio ha cercato poi di approfondire il punto di vista di quanti hanno effettivamente usato questi network per favorire l’incontro domanda/offerta di lavoro. A questi è stato innanzitutto chiesto quali fossero le piattaforme impiegate a tale scopo e le risposte hanno visto, come prevedibile protagonista il network professionale LinkedIn (67%), seguito, con uno scarto abbastanza significativo, da Facebook (50%). Ridotto, invece, il ricorso alla piattaforma appartenente al colosso di Mountain View, Google+ (12%) e ai cinguettii di Twitter (8%). Piuttosto irrilevanti anche le percentuali riferite a Youtube (4%), al business Social Network Xing, a Pinterest (entrambi al 3%) e a Instagram (2%). Nessuno ha utilizzato Myspace per scopi professionali.

6_Social Network più usati per la ricerca di lavoroQuali sono, allora, le motivazioni che hanno spinto primariamente i job seekers veneti a cercare lavoro tramite piattaforme di Social Network? In primo luogo troviamo una particolare propensione ad aggiornare il proprio profilo con informazioni professionali e a dare, quindi, visibilità al proprio CV e al proprio percorso formativo e di carriera (52%). In secondo luogo vi è la volontà di costruire una rete di relazioni professionali (38%). Gli aspetti di scambio interpersonale ricorrono anche in quel 23% di rispondenti che sostengono un uso finalizzato al collegamento con un potenziale datore di lavoro o con il responsabile HR aziendale, in quel 15% che vede l’utilità del mezzo nell’opportunità di ottenere un contatto con un selezionatore, infine in quell’ulteriore 15% che punta sullo scambio di opinioni in ambito professionale. Tali risposte, per nulla trascurabili, sono certamente simbolo di un utilizzo – almeno nelle intenzioni – piuttosto evoluto del mezzo, non limitato alla semplice ricerca di annunci di lavoro. Quest’ultima continua comunque ad avere un peso rilevante: il 36% del campione afferma di sfruttare il mezzo sociale per trovare più offerte di lavoro sulle pagine aziendali e il 23% per trovarvi offerte di lavoro più interessanti rispetto a quelle raggiungibili tramite altri mezzi. Un ulteriore dato dovrebbe poi destare particolare attenzione in capo alle aziende del territorio: il 27% dei rispondenti usa i media sociali per recuperare e verificare le informazioni relative all’azienda prima di procedere con l’invio di una propria candidatura; molto importanti possono rivelarsi, allora, le strategie di employer branding poste in essere dalle imprese su queste piattaforme, per diffondere un’immagine positiva del proprio ambiente di lavoro, al fine di attrarre i potenziali talenti. Malgrado l’attenzione primaria data dai job seekers veneti alla diffusione social delle informazioni relative alla propria esperienza lavorativa, solo il 13% di essi dichiara, infine, di servirsi del mezzo per monitorare la propria reputazione professionale online, dimostrando, quindi, una non piena consapevolezza circa la centralità che questa sta assumendo nelle scelte reali dei recruiters.

7_Motivi di utilizzo dei Social Network per la ricerca di lavoro

Arriviamo ora alle stime forse più significative, quelle relative alla concreta efficacia delle reti sociali nel favorire l’incontro tra chi cerca e chi offre un impiego: l’azione di ricerca social dei job seekers veneti arriva al bersaglio-azienda o è destinata a fare un buco nell’acqua? Cerchiamo di comprenderlo: il 16% del campione rivela di aver ottenuto un lavoro anche grazie a queste piattaforme e un minuscolo – ma pur sempre attraente – 1% di averlo ottenuto esclusivamente per loro merito. Si tratta ovviamente di percentuali solo residuali, ma assolutamente non irrisorie, poiché rivelano una tendenza che – seppur in fase ancora embrionale – comincia a farsi strada e a trovare il favore di aspiranti lavoratori e Responsabili HR. Ai dati abbastanza incoraggianti appena riportati, va, inoltre, aggiunto un buon 34% di rispondenti che ha riferito di essere stato contattato da un’azienda raggiunta tramite i Social Network, anche se poi il contatto non si è concretizzato nella stipulazione di un effettivo accordo di lavoro. Buona parte del campione analizzato (più della metà se si sommano le percentuali appena citate) ha, dunque, ottenuto un riscontro da parte delle aziende contattate, aziende che sembrano, allora, avere una presenza forte nelle piattaforme: esse osservano, intuiscono, cercano e rispondono agli utenti. Se si considerano l’attuale mercato del lavoro, che di certo non brilla per opportunità occupazionali, e l’ampia diffusione che i canali prima definiti “informali” hanno nelle prassi di reclutamento aziendale, è possibile ritenere che il social recruiting sia un canale, tutto sommato, abbastanza efficace per l’incontro domanda/offerta lavoro in Veneto. Certo quel restante 49% del campione, che afferma di non aver ricevuto alcun feedback da parte delle imprese contattate col mezzo social, ci ricorda quanto sia ancora lunga la strada da percorrere prima che i Social Network possano elevarsi al rango di protagonisti delle varie fasi che compongo il reclutamento in azienda, tuttavia i segnali che lasciano ben sperare non sono pochi.

8_Efficacia dei Social Network nella ricerca di lavoroA conclusione del mio sondaggio, ho scelto di indagare la percezione che gli utenti hanno circa l’utilità del mezzo social per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. La maggior parte dei rispondenti veneti (44%) afferma di credere nella loro utilità in futuro, relegandoli, nel presente, ad un ruolo solo secondario; un buon 34% si dichiara tuttavia convinto della loro efficacia anche nell’attuale contesto storico, decretando una buon livello di lucidità circa le potenzialità di queste piattaforme. Solo il 9% non crede affatto nella loro utilità, mentre il 13% non è in grado di formulare un’opinione in merito.

9_Percezione dell'utilità dei Social Network per incontro domanda:offerta lavoroA chiusura di questa operazione di indagine, possiamo dire che, anche nel territorio regionale veneto, si conferma l’ampio successo che le piattaforme di Social Networking sembrano avere a livello nazionale e internazionale; in particolare, nel contesto veneto, l’importanza degli aspetti relazionali sottesi alle piattaforme inizia ad essere percepita nelle pratiche di ricerca attiva di un lavoro e questi network non vengono più sfruttati semplicemente come mero moltiplicatore di annunci di lavoro.

Malgrado sia presumibile immaginare che molte persone si siano iscritte ai network sociali semplicemente sulla spinta di una prassi ormai diffusa, per estendere, oltre il lato fisico, la forza dei propri legami reali, per passare il tempo libero, dunque senza particolari pretese per la propria qualità di vita o di carriera, pare che l’evoluzione delle pratiche fruitive stia andando nella direzione di utilizzo sempre più strumentale e funzionale del mezzo. Non sembra, allora, insensato ritenere che, con l’avanzare del tempo, il mondo del lavoro – e in particolare il momento dell’incontro tra chi offre e chi cerca un’occupazione – possa gradualmente conquistare uno spazio sempre più considerevole, orientando le scelte di condivisione degli utenti. Certo è facile prevedere che le aziende italiane faticheranno ad abbandonare i canali informali per le proprie scelte di reclutamento, ma altrettanto certamente un ruolo di estrema rilevanza sembra attendere i Social Network, alla stregua degli annunci online presenti sui portali o delle agenzie per il lavoro.

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Datagate: possiamo proteggere la sicurezza dei dati?

L’analisi di com’è nato e come si è sviluppato lo scandalo che sta travolgendo l’amministrazione Obama, spinge a riflettere sulle misure che le aziende possono, nel loro piccolo, adottare per salvaguardare le proprie informazioni riservate

Quello alla libertà e alla segretezza delle conversazioni private rappresenta un diritto inviolabile e costituzionalmente garantito (articolo 15) nel nostro ordinamento, tuttavia lo sviluppo della cosiddetta “società dell’informazione” ha complicato non poco la sua effettiva tutela. L’avvento dei mezzi elettronici e la capillare diffusione della rete hanno offerto la ghiotta possibilità di localizzare tecnicamente qualunque comunicazione a distanza, di conoscerne l’ora e la durata, di tracciare il percorso dei dati trasmessi, di conoscerne il contenuto, di identificarne la fonte e la destinazione. Tali informazioni sono ora disponibili e potenzialmente in mano a soggetti pubblici e privati, che possono servirsene per i propri scopi, legati al benessere della cittadinanza o ad esigenze di natura commerciale.
Alla base della questione vi è un conflitto tra diritti ugualmente meritevoli di tutela, che spinge a interrogarsi sulla legittimità o meno di azioni volte a comprimere la riservatezza per garantire il rispetto di altri interessi, non ultimo quello alla sicurezza pubblica. L’acquisizione e il trattamento del traffico dati relativo alle attività svolte dagli utenti possono, infatti, rivelarsi spesso essenziali per la repressione e la prevenzione di comportamenti illegali; allo stesso tempo, però, una simile operazione mette seriamente a repentaglio una parte della sfera dei diritti fondamentali della persona. La legislazione e la giurisprudenza nazionali e internazionali sembrano avere non poche difficoltà nel ristabilire un equilibrio, suscitando, di volta in volta, il malcontento o il plauso dei detentori di opposti diritti.
Nella ribalta mediatica del Belpaese, la discussione che ruota attorno alla privacy è stata spesso legata al tema delle intercettazioni, sulle quali si è scagliato il dito infuocato di parlamentari e pensatori non proprio illuminati, interessati forse più a insabbiare i propri illeciti che a far valere un principio superiore.
Quando, però, a impugnare lo scettro della riservatezza è un cittadino americano di 29 anni, ex collaboratore di CIA (Central Intelligence Agency) e di NSA (National Security Agency), privo – almeno apparentemente – di interessi particolari, costretto, al contrario, a rinunciare alla propria tranquillità e a vivere da fuggitivo per sostenere i propri ideali, ecco allora che si crea un vero e proprio scandalo dalle dimensioni internazionali.
A questo scandalo la retorica giornalistica ha dato il nome di Datagate e alle sue origini vi sono alcune rivelazioni della talpa Edward Snowden, rimbalzate con estreme velocità tra le molte prime pagine cartacee e digitali di tutto il mondo. Negli ultimi quattro anni, Snowden ha lavorato per la NSA, in qualità di dipendente di diverse aziende esterne, tra cui Dell e – ultima – la società di sicurezza privata Booz Allen Hamilton (quest’ultima l’ha licenziato pubblicamente, in seguito alle sue rivelazioni). Lo scorso 20 maggio egli avrebbe scelto di lasciare le Hawaii – dove si trovava proprio per conto della Booz Allen Hamilton – motivando la dipartita ai propri superiori con la necessità di curare l’epilessia. Dopo aver copiato diversi documenti riservati, aver salutato la bellissima fidanzata e aver detto addio a uno stipendio da 200mila dollari l’anno, si sarebbe rifugiato a Hong Kong, dove, a suo dire, vige un forte impegno a tutela della libertà di parola e del dissenso politico.
Dall’hotel nel quale aveva scelto di nascondersi, sarebbe, allora, partita la prima soffiata – originariamente anonima – al quotidiano britannico The Guardian circa l’esistenza di un’ordinanza che imporrebbe alla compagnia di telecomunicazioni Verizon di conservare e rivelare all’FBI tutti i dati sensibili dei propri utenti (come numeri, identificatori unici, durata, orario e luogo in cui avvengono le conversazioni telefoniche), con pesanti ripercussioni in termini di privacy. Come si legge in un documento segreto pubblicato dal quotidiano, l’ordinanza sarebbe stata emessa dalla Foreign Intelligence Surveillance Court lo scorso 25 aprile 2013 e sarebbe valida per soli tre mesi, fino al prossimo 19 luglio. Essa vieta alla Verizon di rendere pubblica la questione e, pur non estendendosi al contenuto dei messaggi o alle informazioni personali degli utenti, permette al governo di tenere sotto controllo il traffico delle telefonate realizzate, all’interno dei confini Usa o tra Usa e altri Paesi, da milioni di cittadini ignari.
Legalmente la richiesta ricade sotto le disposizioni dell’Usa Patriot Act, la discussa legge emanata dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, con lo scopo di intensificare la lotta al terrorismo. Allo stesso tempo essa evidenzia come siano cambiate nel tempo le attività dell’intelligence americana, prima rivolte all’estero e ora decisamente più “domestiche”.
Se questo accesso ai tabulati telefonici risulta recente, lo stesso pare non si possa dire per l’attività di capillare spionaggio relativa alle informazioni e ai dati scambiati online dagli utenti. Un successivo scoop del The Guardian e del The Washington Post ha, infatti, dimostrato l’esistenza, fin dal 2007, di un programma di sorveglianza top-secret denominato PRISM e gestito dalla NSA. Esso consentirebbe al governo statunitense di richiedere ai Big dell’informatica e della rete – tra cui Google, Facebook, Microsoft, Yahoo!, Aol, Apple, Skype (ormai parte del gruppo di Redmond) e PalTalk – l’accesso alle mail, ai video, alle foto, alle chat vocali, alle notifiche di accesso e ad altre informazioni, sotto l’approvazione di un mandato Fisa (il controverso Foreign Intelligence Surveillance Act, che autorizza il governo americano a intercettare telefonate e email all’estero). In molti hanno notato l’assenza di un nome di rilievo, nella lista di chi avrebbe cooperato con Prism, quello di Twitter, già in passato mostratosi particolarmente attento nel difendere i dati personali dei propri utenti.
Nei resoconti giornalistici della vicenda, si sono moltiplicate le voci e le ipotesi circa il reale funzionamento del PRISM: secondo alcuni – tra i quali il The New York Times – l’accesso alle informazioni non sarebbe così diretto, le aziende non fornirebbero un accesso diretto ai propri server, al contrario avrebbero costruito una sorta di casella postale protetta alla quale il governo statunitense può accedere, e dove vengono depositati i soli dati frutto di specifica richiesta Fisa, valutata legittima dagli avvocati aziendali. Nessun invio di massa e automatico, dunque. Dal canto suo, il The Guardian ha pubblicato una diapositiva tratta da una presentazione PowerPoint segreta, interna alla NSA, nella quale si parla di cinque programmi da utilizzare: quattro servirebbero a intercettare i dati “nei cavi in fibra e nelle infrastrutture in cui scorrono”, e l’ultimo, il Prism appunto, prevedrebbe la “raccolta diretta” dai server di aziende statunitensi.
La slide rientrerebbe nel materiale consegnato da Snowden al The Guardian e al The Washington Post, materiale che, tuttavia, risulta per la maggior parte ancora inedito, malgrado la richiesta del 29enne di rendere pubbliche tutte e 41 le slide inviate. Nessuno dei documenti segreti finora pubblicati sembra chiarire realmente se lo spionaggio sia automatico e ampio oppure ristretto e mediato dagli avvocati delle aziende coinvolte.
A ciò si aggiungono le pesanti parole usate dalla “talpa” Snowden nella video intervista pubblicata dal The Guardian in cui rivela la propria identità: “L’Nsa ha costruito un’infrastruttura che le permette di intercettare praticamente tutto. Con la sua capacità la grande maggioranza delle comunicazioni umane è digerita automaticamente senza obiettivi. Se volessi vedere le tue email o il telefono di tua moglie, devo solo usare le intercettazioni. Posso ottenere le tue mail, password, tabulati telefonici, carte di credito. Non voglio vivere in una società che fa questo genere di cose… Non voglio vivere in un mondo in cui ogni cosa che faccio e dico è registrata. Non è una cosa che intendo appoggiare o tollerare”.
In una successiva intervista rilasciata a un giornale di Hong Kong, il South China Morning Post, Snowden ha difeso nuovamente la propria posizione e ha alzato la posta in gioco: “Non sono né un traditore né un eroe, sono un americano”, ha affermato – parlando anche dei timori per le possibili ripercussioni della vicenda sulla sua famiglia – e ha rivelato come la NSA sia solita spiare, con vere e proprie azioni di hackeraggio, le reti informatiche di privati e istituzioni in Cina e ad Hong Kong, almeno fin dal 2009. “Coloro che pensano che ho fatto un errore a scegliere di venire ad Hong Kong equivocano le mie intenzioni”, ha detto infine. “Non sono qui per nascondermi dalla giustizia, ma per rivelare crimini”.
Sono in molti, infatti, a vedere qualcosa di sospetto nella scelta dell’ex colonia britannica per la fuga, dato che essa è sotto l’amministrazione della Repubblica Popolare Cinese dal 1997 ed è stata oggetto di forti accuse da parte della Casa Bianca, in relazione alle presunte operazioni di hackeraggio contro istituzioni, giornali e colossi informatici e finanziari Usa. Tali accuse erano al centro dell’incontro informale tra i Presidenti Obama e Xi Jinping, tenutosi proprio nei giorni in cui lo scandalo è scoppiato.
In una successiva chat con i lettori del The Guardian (l’hashtag per rivolgergli delle domande era #AskSnowden), Snowden ha, tuttavia, smentito le accuse di complicità con Pechino: “Non ho avuto contatti con il governo cinese… io lavoro solo con i giornalisti”, ha detto. Il mio, ha proseguito, “è un paese per il quale vale la pena di morire”. “Le rivelazioni daranno ad Obama l’opportunità di tornare alla ragionevolezza, alla politica costituzionale e alla legalità”. “Il governo americano” – ha concluso profetico – “non potrà insabbiare le cose uccidendomi o mettendomi in prigione. La verità sta arrivando e non può essere fermata”.
Gettando altra benzina sul fuoco, il Financial Times ha poi riferito che l’amministrazione Obama, due anni fa, chiese e ottenne dalla Commissione Europea di eliminare, dalle norme Ue sulla protezione dei dati, una misura che avrebbe complicato all’intelligence americana il compito di spiare i cittadini europei. Tale misura, nota come Anti-Fisa clause, avrebbe reso nulla qualsiasi richiesta Usa alle società di telecomunicazione e di tecnologia europee di consegnare dati relativi ai propri utenti.
I giganti della rete coinvolti hanno inizialmente negato di conoscere il programma PRISM e di aver offerto all’intelligence americana una porta aperta sui loro data center, salvo poi fare dietrofront e sferrare il contrattacco (http://daily.wired.it/news/internet/2013/06/12/datagate-rapporto-facebook-microsoft-google-426758.html#?refresh_ce), chiedendo al governo USA il permesso di pubblicare tutti i dati relativi ai loro rapporti con l’Nsa, per dimostrare una maggiore trasparenza circa il regime di sorveglianza cui sono sottoposti.
 In base a quanto dichiarato dalle stesse aziende, nel secondo semestre del 2012, Facebook avrebbe ricevuto tra le 9 mila e le 10 mila richieste da parte dell’intelligence americana, relative agli account di 18-19 mila utenti; nello stesso periodo, Microsoft ne avrebbe ricevute 6-7 mila per 31-32 mila account. Tra il primo dicembre 2012 e il 31 maggio 2013, Apple avrebbe poi ricevuto tra le 4 e le 5 mila richieste relative a 9-10 mila account, mentre Yahoo!  fra le 12 e le 13 mila. Si tratta comunque di statistiche che fanno poca chiarezza, mescolando le domande che riguardano reati comuni e quelle che hanno a che fare con la sicurezza nazionale, dato che per legge le società coinvolte non possono rivelare quali richieste ricadono nell’ambito del FISA, dunque nel programma di sorveglianza Prism. Google attende il via libera della NSA per poter effettuare la distinzione e pubblicare le informazioni relative alle sole richieste per sicurezza nazionale; al momento nel suo Transparency Report sottolinea comunque di aver ricevuto 8438 domande da parte di autorità locali, federali e nazionali degli Usa durante l’ultimo semestre dell’anno scorso (ha risposto nell’88%-90% dei casi rispetto al 94% di tre anni prima).
Dal canto suo, l’amministrazione Usa ha ammesso l’esistenza del Programma PRISM, spiegando che le informazioni cui l’FBI ha accesso riguardano solo i cittadini non americani o che vivono fuori dagli Stati Uniti, allo scopo di garantire la sicurezza nazionale da nemici esterni. Il Presidente Barack Obama ha subito evidenziato come il programma non fosse segreto, ma “riservato” e, allo stesso tempo, “legale e limitato”, autorizzato più volte dal Congresso, a partire dal 2007, con sostegno bipartisan, al solo scopo di prevenire il terrorismo.
Il Direttore della National Intelligence James Clapper ha sottolineato come le inchieste del The Guardian e del The Washington Post siano “riprovevoli” e piene di errori, mentre il Direttore dell’FBI Robert Mueller, in un’udienza al Congresso, ha ribadito il fatto che la sorveglianza delle comunicazioni da parte delle agenzie di sicurezza Usa è avvenuta nel pieno rispetto della legge e ha fatto sapere di aver avviato un’inchiesta penale nei confronti di Snowden, poiché le sue rivelazioni avrebbero causato “significativi danni” al Paese e alla sua sicurezza.
In una successiva intervista al canale Pbs, il Presidente Obama ha difeso l’operato della Casa Bianca: “Il sistema è trasparente, per questo le autorizzazioni dipendevano dal Foreign Intelligence Surveillance Act”; nel contempo ammette: “Dobbiamo trovare modi per garantire alle persone la presenza di controlli ed equilibri, la sicurezza che le loro telefonate non sono ascoltate e che i loro messaggi e mail non sono letti da un Grande Fratello”. Obama ha quindi annunciato di aver dato vita ad una Commissione per la difesa della privacy e delle libertà civili formata da cittadini indipendenti, per avviare un dialogo nazionale sulla questione. “Ritengo che il mio lavoro” – ha detto – “sia di proteggere il popolo americano, e anche di proteggere lo stile di vita americano, che comprende la nostra privacy”.
Le ultime rilevanti dichiarazioni sono quelle fatte dal Direttore della NSA Keith Alexander, nel corso di un’audizione davanti all’House Permanent Select Committee on Intelligence: egli ha rivelato come, grazie al programma PRISM, siano stati sventati oltre 50 complotti terroristici contro gli Stati Uniti, messi a punto dopo l’11 settembre. Gli attentati avrebbero riguardato più di 20 Paesi e, tra la decina pianificata nel territorio degli Stati Uniti, almeno due erano indirizzati a New York (uno alla metropolitana e uno a Wall Street).
Alexander ha anche spiegato quali siano i tipi di dati raccolti dalla NSA e in virtù di quali leggi: la sezione 215 del Patriot Act permette di raccogliere i dati relativi alle telefonate dalle compagnie, non, quindi, i dati relativi alle transazioni con carte di credito come inizialmente diffuso (che potrebbero però essere raccolti dall’Fbi), mentre la sezione 702 del Fisa permette la raccolta di dati relativi a chat, email e indirizzi Ip. Le informazioni relative al traffico telefonico – ha sostenuto ancora il capo della NSA – resterebbero a disposizione dell’agenzia per cinque anni e la loro raccolta non servirebbe ad analisi di data minging generiche, ma, al contrario, sarebbe limitata a specifici numeri di telefono. Le interrogazioni sui database telefonici, infine, possono essere richieste solo da un ventina di persone alla NSA.
La repentina giustificazione dell’amministrazione americana, che ha sottolineato come PRISM fosse rivolto esclusivamente ai cittadini esteri, è parsa a molti come una sorta di gaffe diplomatica verso il resto del mondo, suscitando non poche reazioni, anche in Italia. Lo scandalo spinge, a questo punto, a riflettere anche sulla reale capacità delle aziende italiane di proteggere i dati scambiati in rete, nei limiti, ovviamente, del proprio raggio d’azione.
Come noto, l’uso di antivirus, anti-spyware e altri strumenti classici di protezione è un requisito essenziale per la difesa dai pericoli esterni. Un’ulteriore forma di protezione potrebbe essere l’utilizzo di una rete VPN (Virtual Private Networks): essa tipicamente permette a computer ubicati in sedi fisiche diverse di stabilire un collegamento tramite Internet, ma, a differenza delle reti pubbliche, consente di crittografare i dati e inviarli solo a un computer o a gruppo di computer specifici. Ad essa possono accedere solo gli utenti autorizzati, poiché si crea una sorta di “tunnel” virtuale attraverso il web. Queste reti private vengono tipicamente usate dalle aziende per comunicare con le loro sedi remote o con i dipendenti che si lavorano fuori sede e che magari si collegano ad una rete Wi-Fi pubblica, tuttavia esse rappresentano una forma sicurezza in più anche quando si lavora su di una rete sicura locale.
La capillare diffusione delle piattaforme di Social Netwok ha poi posto nuove problematiche in tema di sicurezza, riconducibili, in particolare, a due categorie principali: da una parte i rischi derivano dai contenuti potenzialmente malevoli che possono essere scaricati dagli utenti attraverso link, file o applicazioni presenti nel canale (Malware Intrusion); dall’altra parte vi è il pericolo che alcuni dati di proprietà dell’azienda vengano divulgati in contesti e modi non conformi alla policy aziendale, causando potenziali problemi alla reputazione e alla proprietà intellettuale dell’azienda (Data Extrusion o Data Leakage).
L’utilizzo di piattaforme social non sembra essere più limitato alla sfera personale, sempre più esse rappresentano un canale informativo e commerciale; per questo la decisione di bloccare l’accesso ai Social da parte dei dipendenti, se da una parte elimina alcuni problemi di sicurezza, dall’altra persegue un modello di business piuttosto chiuso e impedisce di beneficiare dei potenziali vantaggi del web 2.0. Spetta alla specificità di ogni singola realtà valutare l’opportunità o meno di adottare simili misure, tuttavia nessuna azienda può prescindere dal definire policy aziendali capaci di indottrinare i dipendenti circa l’uso corretto dei Social Network e dall’utilizzare specifici strumenti di prevenzione.
Le minacce del tipo Malware Intrusion possono essere, ad esempio, affrontate partendo dal perimetro della rete aziendale, eliminando all’ingresso eventuali malware veicolati attraverso la connessione al Social Network (tipicamente sistemi di Network Intrusion Prevention, Network Antivirus, Content Filtering…), fino a tecnologie di protezione degli host (es. Host Antivirus, Host Intrusion Prevention). Le minacce di Data Extrusion si combattono, invece, applicando controlli di sicurezza il più vicino possibile ai dati, sugli host o analizzando i flussi di traffico in uscita per intercettare e bloccare le informazioni confidenziali.
Da qualche anno si assiste poi ad un’ampia espansione nell’utilizzo del cloud in azienda. Accanto agli ovvi benefici in termini di produttività, flessibilità e costi, si pone l’onere di adottare qualche livello di sicurezza in più per evitare che dati sensibili o riservati possano finire sotto lo sguardo di persone non autorizzate. I principali servizi di cloud storage  assicurano che i file caricati sono crittografati e protetti, tuttavia essi mantengono il controllo delle chiavi di crittografia reali, quindi non garantiscono pienamente di essere protetti da attacchi provenienti dall’esterno (ad esempio dagli stessi gestori del servizio); inoltre sui computer usati per accedere al cloud tramite specifica applicazione, i file rimangono visibili ad altre persone che accedono a quegli stessi computer. Da qui deriva l’importanza di crittografare i dati, rendendoli inaccessibili agli estranei, attraverso l’utilizzo di specifici software.
Pubblicato su: PMI-dome

Blogger made in Italy: quando un’opinione diventa una risorsa aziendale

Imageware indaga la blogosfera tricolore e delinea i contorni di un mondo eterogeno, fatto di personalità e professionalità sempre più influenti, capaci di indirizzare il gusto dei consumatori. Nel rapportarsi ad esse le imprese devono imparare a comprenderne le specificità, costruendo comunicazioni mirate

Degli interlocutori sempre più influenti, votati all’indipendenza d’opinione e interessati a stringere relazioni solide, floride e personalizzate con le aziende. È questa la fotografia essenziale scattata dall’Osservatorio Imageware sui blog italiani, attraverso un questionario online di 15 domande, somministrato ai principali blog italiani (individuati in base al numero di utenti unici o alla qualità dei contenuti) nei primi mesi del 2013. A rispondere sono stati in 125 su 325 invitati.
I promotori dell’indagine si sono innanzitutto prodigati nel mappare la blogosfera tricolore: i temi maggiormente trattati sono la moda (in 63 tra i rispondenti, pari al 50,4%) e il lifestyle (29, pari al 23,2%), seguiti da tecnologia (23, cioè 18,4%), food & wine (16, 12,8%), bellezza & salute (15, 12%), interior design (12, 9,6%), ambiente (8, 6,4%), automobilismo (5, 4%) ed energia (2, 1,6%). In molti, tuttavia, ritengono che la propria attività non possa ricondursi a nessuna di queste categorie, perché il proprio blog tratta argomenti assai diversi tra loro oppure perché l’argomento trattato è alquanto particolare.
Si è poi cercato di comprendere il modo in cui gli intervistati considerano il proprio ruolo, la percezione che essi hanno della propria attività virtuale. La maggior parte (ben 94 appartenenti al campione, pari al 75,2%) si definisce un “blogger”, in 14 “giornalisti” (su 27 giornalisti che complessivamente compongono il campione), pari all’11,2% (appartenenti per la maggior parte alla categoria del food & wine), in 3 (2,4%) “opinionisti”. Quest’ultima definizione, seppur adottata da un numero limitato di rispondenti, evidenzia un aspetto molto importante dell’attività di chi gestisce una vetrina virtuale, l’offrire, cioè, opinioni su particolari argomenti. Altro fulcro di tale attività è la condivisione delle conoscenze, alla base di alcune definizione libere offerte dai rispondenti (“Sono una persona che lavora e condivide le conoscenze del suo lavoro con altri”). A completare la rosa delle diverse anime che dimorano nei blog italiani, vi sono quanti si vedono come semplici “appassionati”, “pseudo blogger”, “amanti”, “specialisti” e “mediattivisti”. Non un approccio unico, non un ruolo definito e inquadrabile, dunque, ma una pluralità di espressioni che impongono di essere approfondite singolarmente.
Con riferimento alle fonti d’informazione utilizzate, emerge come la maggioranza dei rispondenti trovi spunto, per i propri post, dall’esperienza e dai pensieri personali (84%), palesando una certa vocazione all’indipendenza. Alcuni, in particolare, raccolgono idee nel corso della propria attività lavorativa, grazie all’interazione con i protagonisti del settore che occupano. Anche la ricerca su Internet sembra avere un ruolo di primo piano (62,4%), soprattutto per chi si occupa di tecnologia, così come i comunicati stampa e i prodotti inviati dalle aziende o dalle agenzie (53,6%, percentuale che quasi si annulla se si considerano i soli rispondenti che si occupano di food & wine); nel 40,8% dei casi, invece, l’ispirazione per la trattazione proviene da comunicati stampa e prodotti ricercati personalmente . Altre fonti sono poi i libri o gli articoli (42,4%), gli eventi organizzati specificamente per i blogger (33,6%), i post e le conversazioni intercorse con i propri lettori (20,8%). Meno rilevante il contributo di televisione e radio (11%).
A spingere verso la creazione di un blog vi sono innanzitutto una forte passione e la volontà di esprimersi liberamente, per stimolare un confronto interattivo, una discussione o per condividere le proprie esperienze e i propri pareri, fornendo magari informazioni approfondite, difficilmente recuperabili in altro modo in rete. C’è anche chi considera il blog semplicemente un hobby, avendo iniziato il progetto quasi per gioco. Per contro alcuni vedono in simili attività l’opportunità di una crescita professionale.
Interrogati in merito al proprio ruolo, gli intervistati confermano l’importanza primaria attribuita al blog come mezzo per esprimersi (52%), per condividere esperienze e sentimenti personali (38,4%), per trattare le informazioni in maniera aperta e onesta (37,6%) e, in parte, provocare dibattiti (2,4%). Ben 27 sono giornalisti che utilizzano i nuovi media a integrazione della loro professione (21,6%) e non pochi sono gli imprenditori che sfruttano le piattaforme per fare business (17,6%) o marketing (16%).
La comunità dei blogger sembra essere piuttosto unita: l’88% degli intervistati segue altri blog, il 60,8% vi interviene con commenti, il 41,6% inserisce link di altri blog nel proprio (pratica in uso soprattutto tra gli esperti di food & wine). I blogger mantengono i contatti tra loro attraverso la rete (68,8%) e spesso anche personalmente (57,6%).
Quali sono, a questo punto, gli obiettivi di chi gestisce un blog? Sulla scia di quanto detto finora, il 73,6% del campione dichiara di avere come scopo la condivisione di informazioni, conoscenze e pensieri. Emerge, allo stesso tempo, una forte spinta professionale, soprattutto per chi scrive di bellezza e salute (e, in seconda battuta, per chi si occupa di tecnologia e lifestyle): il 60% cerca uno sviluppo professionale, il 36% vorrebbe diventare blogger a tempo pieno, il 30,4% guadagnare denaro. Sono i successi stessi della propria vetrina che spingono verso simili ambizioni, laddove un progetto nato spesso solo come hobby finisce per trasformarsi in una professione vera e propria.
Come guadagnano i blogger italiani? Al di là delle soddisfazioni personali e dei riscontri positivi di pubblico, quali vantaggi materiali si possono ottenere dall’offrire agli altri le proprie conoscenze e il proprio punto di vista? Poco più della metà del campione (51,2%) dichiara di guadagnare attraverso la propria attività di blogger, contro il restante 48,8% che non percepisce alcun privilegio economico. Non stupisce poi il fatto che la pubblicità rappresenti la fonte principale di guadagno (65,1%); molto importanti sono però anche i prodotti ricevuti in regalo (42,9%, destinati principalmente a chi tratta moda, lifestyle, bellezza e tecnologia) e i link inseriti nel proprio sito (31,7% dei blogger viene pagato per questi, soprattutto tra chi si occupa di moda e lifestyle). L’11,1% guadagna attraverso Google marketing e solo il 9,5% riceve un compenso. Il 27% è invitato a eventi e presentazioni (da tale pratica sembrano essere esclusi quanti si occupano di interior design, ambiente ed energia) e al 14% vengono rimborsate le spese di viaggio.
C’è infine chi guadagna indirettamente, grazie alle consulenze offerte alle aziende o ai privati.
Oltre il 91% dei blogger dichiara di essere in contatto con aziende o agenzie che informano o inviano loro prodotti utili alla stesura dei propri post. Tali contatti sembrano essere piuttosto costanti, soprattutto per chi si occupa di moda e tecnologia: la maggioranza del campione (41,9%) riceve quotidianamente email, telefonate o visite da rappresentanti di queste aziende o agenzie e il 28,6% più volte in una settimana. Solo il 19% intrattiene invece contatti saltuari (una volta o meno al mese).
Come avviene il contatto tra blogger e aziende? La maggior parte di queste ultime invia inviti per eventi (78,1%, a cui si aggiunge un 57,1% di aziende che inviano inviti ad eventi dedicati specificatamente ai blogger), informazioni o materiali di marketing (76,2%), prodotti da testare, verificare, assaggiare o commentare (70,5%, soprattutto indirizzati a chi si occupa di vino, tecnologia, bellezza e salute). Il 68,6% dei blogger riceve in anticipo notizie su prodotti in arrivo sul mercato ed è di conseguenza chiamato a dare il proprio parere su di essi, in vista del lancio ufficiale.
Quale legame si crea tra penne del web e aziende? Anche in questo caso a prevalere è un certo spirito di indipendenza, dato che l’81,9% del campione dichiara di mantenere una grande libertà di scelta e di opinione sui contenuti trattati e nessuno afferma di sentirsi obbligato a scrivere una volta invitato a un evento o ricevuta un’informazione. L’attitudine dei blogger verso le aziende è comunque positiva, se si considera che ben il 48,3% di essi ritiene sia un bene mantenere rapporti con queste realtà e il 39,7% desidera ricevere maggiori contatti e informazioni. Solo il 6,9% afferma di avere molti dubbi riguardo alle informazioni che riceve dalle aziende e solo 2 blogger preferiscono non essere contattati. Emergono tuttavia anche alcune criticità nel rapporto con le aziende, che riguardano primariamente la ricerca di pubblicità a costo zero o l’inutilità di alcune informazioni fornite da queste; a ciò si aggiunge un 13,8% del campione che sostiene di ricevere troppo materiale, auspicando una maggiore selezione alla base degli invii. Sono, in particolare, i blogger del food & wine i meno propensi ai contatti con le aziende.
Malgrado il 78,5% del campione creda che i blog abbiano una credibilità maggiore o uguale ai media tradizionali, l’11,3% afferma che oggi è ancora la stampa tradizionale il mezzo più credibile. Interrogati sul futuro della blogosfera, la maggior parte dei partecipanti al sondaggio (68,1%) sostiene che molto dipenderà dalla serietà e professionalità di chi gestisce questi spazi digitali. Per il 55,2% i blog manterranno un ruolo diverso e alternativo ai media tradizionali e per il 33,6% essi aumenteranno la loro popolarità e credibilità (contro un misero 2,6% che ritiene che tale credibilità, al contrario, diminuirà).
Per le aziende riuscire ad avere visibilità nei blog sembra essere oggi sempre più importante. Si tratta di una sfida piuttosto complessa, che impone di dare priorità alle relazioni su ogni altra cosa. Per ottenere una menzione, una recensione e la sperata attenzione è necessario riuscire a mantenere nel tempo buoni rapporti e comprendere la logica del blog cui ci si rivolge, attraverso messaggi mirati. Abbandonare l’abitudine alla standardizzazione e abbracciare la logica della condivisione: questo dovrebbe essere l’imperativo per quanti si prodigano a trovare uno spazio per la propria azienda nella blogosfera. Il feedback che deriva da questi spazi virtuali è da molti ritenuto più potente e duraturo rispetto a quello della mera pubblicità, ciò in primis per la credibilità e il seguito che il blogger notoriamente detiene tra i suoi lettori. Chi nelle imprese si occupa delle relazioni con i media deve prestare particolare attenzione ad ogni singola piattaforma cui si indirizza, selezionare solo quelle che sembrano poter trarre beneficio dalla comunicazione che si intende inviare, in modo da non incorrere nel pericolo di venire considerati banale rumore di fondo, fastidioso, inutile e per questo scartato. Allo stesso tempo non ci si deve dimenticare nemmeno dei blogger meno popolari, soprattutto perché la rete della blogosfera appare piuttosto fitta, fatta spesso di menzioni e link tra una vetrina e l’altra. Conoscere, quindi, in modo approfondito l’universo cui si intende rivolgere la propria comunicazione aziendale è una premessa assolutamente imprescindibile. A differenza di altri professionisti mediatici, i blogger trattano solitamente solo argomenti che riguardano loro da vicino e per i quali hanno un forte interesse: le risposte fornite a Imageware rendono chiaro quanto la loro attività non possa essere orientata e piegata a logiche prettamente commerciali e quanto dietro ogni penna virtuale vi sia una forte personalità o professionalità, che è stata capace di guadagnarsi il rispetto del pubblico.
I blogger hanno contribuito a cambiare radicalmente le pratiche di ricerca delle informazioni degli utenti, rivelando l’importanza crescente attribuita da questi ultimi all’opinione degli altri utenti piuttosto che alla carta patinata della pubblicità. I blog sono in grado di orientare il gusto e dunque la propensione all’acquisto dei propri lettori, grazie all’arma della condivisione e del commento libero da condizionamenti. La raccomandazione di un blogger può essere considerata alla stregua di quella di un amico, dato che egli è in grado di raccogliere attorno a sé una folta schiera di fedelissimi, che lo seguono costantemente. Solo aggrappandosi a simili consapevolezze le aziende potranno costruire solide e floride relazioni con il mondo dei blog e, di conseguenza, con gli internauti-consumatori ad esso legati.
Pubblicato su: PMI-dome

Mercato del benessere: quale crisi?

Oltre 70 mila impiegati nel settore e più di 35 mila imprese, soprattutto in Lombardia, per un giro d’affari annuo pari a 21 miliardi. A fronte dell’interesse crescente per wellness e forma fisica, persistono alcune prassi scorrette e un italiano su due risulta obeso o in sovrappeso. Il moltiplicarsi degli esercizi nasconde l’allarme abusivismo

Raccoglie un giro d’affari annuo di oltre 21 miliardi. Coinvolge più di 70 mila addetti e più di 35mila imprese tra centri benessere, trattamenti estetici e palestre. È la fotografia del mercato del wellness in Italia, basata su dati Aiceb Confesercenti, Censis e Coni e diffusa in occasione dell’ottava edizione di “RiminiWellness”, la manifestazione dedicata al fitness, al benessere e allo sport, svoltasi dal 9 al 12 maggio 2013 a Rimini Fiera, col patrocinio di Regione Emilia-Romagna, Provincia e Comune di Rimini. Sulla scia di un settore che sembra tenere piuttosto bene, malgrado la difficile congiuntura economica, la kermesse ha registrato un’ampia affluenza (244.532 visitatori), superiore di 7 punti percentuali rispetto al 2012, con una massiccia partecipazione di Russia, Est Europeo e Turchia.
Più in particolare, secondo le stime rese note, gli istituti di bellezza rappresentano la quota più ampia e redditizia del settore, con circa il 70% delle imprese totali, pari a ben 21 mila unità. Seguono gli hotel e gli agriturismi (sono 4.200), i centri idrotermali e gli stabilimenti per il benessere fisico (2.500). Le piscine e le palestre sono circa 7 mila e gli stabilimenti balneari attrezzati circa 500. Le performance del settore raggiungono livelli ancor più elevati, se si considerano anche i 3.773 esercizi ricettivi presenti nelle solo località termali, che hanno una disponibilità di 148.918 letti (pari al 3,2% del totale letti delle strutture ricettive in Italia) e permettono un giro di presenze turistiche attorno ai 15 milioni l’anno.
Assumendo una prospettiva globale, pare che il maggior numero di centri per il benessere e di utenti degli stessi si trovi negli Stati Uniti. A seguire incontriamo il Giappone, il Regno Unito e la Germania. Un’incoraggiante quinta posizione spetta all’Italia, seguita dalla Spagna.
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Tornando al focus nazionale, la medaglia d’oro per quantità di imprese dedicate alla cura del corpo, va alla regione Lombardia, che raggruppa il 36,1% delle attività complessive: detta in altri termini, quasi un centro benessere su cinque (18,3%) tra quelli attivi in Italia ha sede nella provincia di Milano.
Alcune stime elaborate e diffuse nei giorni scorsi dalla Camera di Commercio di Milano, sulla base di dati del registro delle imprese 2012 e 2011 ), confermano la posizione di leader nel settore benessere detenuta dalla Lombardia. Un settore che qui cresce, infatti, tra il 2011 e il 2012, dello 0,7%, passando da 24.813 a 24.982 imprese attive. Nella Regione il 72% delle ditte individuali operanti nel benessere ha, inoltre, per titolare una donna e un imprenditore su dieci ha meno di trent’anni. In Lombardia è attivo un sesto delle imprese italiane dell’estetica e del benessere, con 16.802 parrucchieri (+0,2%), 5.569 istituti di bellezza (nel 2011 erano 5.476, +1,7%) e 738 palestre (+0,8%). Milano, Brescia e Bergamo risultano le province con il maggior numero di imprese nel settore, rispettivamente con 7.580 (30,3% del totale regionale), 3.338 (13,4%) e 2.917 (11,7%) unità. I livelli di crescita maggiore si riscontrano invece a Monza e Brianza (+1,5% rispetto al 2011), Pavia (+1,4%) e Como (+1,3%).
Continuiamo a occuparci delle elaborazioni sul wellness diffuse a Rimini, concentrando ora l’attenzione sui consumatori di questo florido mercato. Sono circa 40 milioni gli italiani che praticano più o meno regolarmente l’attività sportiva e quasi 11 milioni quelli che spendono o si dichiarano pronti a spendere fino a 1.200 euro all’anno per prodotti e servizi per il proprio benessere fisico. Il 23% della popolazione frequenta abitualmente un centro fitness, l’8,7% delle strutture per la cura del corpo. La fascia di utenti fitness più ampia (il 32%) è quella dei 18-25enni, seguita dalla fascia 26-35 anni (27%), da quella 36-45 anni (21%), 46-55 anni (14%), infine 56-65 anni (6%). Il 41% dei frequentatori di palestre e centri benessere è single, il 54% è sposato o convive e il 5% è divorziato o separato.
A livello territoriale chi è solito frequentare palestre e centri fitness abita soprattutto al Nord (il 56%, contro il 25% di chi vive al Centro e il 19% di chi vive al Sud). Più nel dettaglio, le regioni con il tasso più elevato di utenti sono la Lombardia (19%), il Veneto (11%), l’Emilia Romagna, il Lazio (entrambi al 10%) e la Toscana (8%). Al Sud, buone le percentuali registrate da Campania (6%), Puglia e Sicilia (entrambi al 4%).
Alla base delle acque favorevoli su cui naviga il mercato del wellness vi è un’offerta che sembra diversificarsi con grande rapidità e che propone sempre più centri polifunzionali. Si assiste, inoltre, a una polarizzazione dei consumi, che si rivolgono sempre più verso palestre di fascia alta, capaci di offrire molteplici e differenziati servizi o, in alternativa, verso centri dal profilo low cost. Stando al clima respirato e ai dati diffusi in occasione del RiminiWellness, l’interesse degli italiani verso il benessere e la forma fisica sembra essere, quindi, in costante crescita.
Questo nonostante alcuni comportamenti rischiosi continuino a minacciare la salute nella popolazione: stando al quadro delineato recentemente dall’Istat, in collaborazione con il Cnel, attraverso il primo “Rapporto sul benessere degli italiani”, i problemi di sovrappeso e obesità stanno seguendo una linea crescente, colpendo circa il 45% della fascia maggiorenne. L’abitudine al fumo mostra una lieve flessione, che non riguarda tuttavia i più giovani: se nel 2001 i fumatori erano il 23,7% della popolazione di 14 anni e più, dieci anni dopo tale percentuale, stabile dal 2004, è scesa solo di un punto. Sembrano diffondersi pratiche di abuso nel consumo di bevande alcoliche da parte dei giovani e circa il 40% degli adulti non svolge alcuna attività fisica nel tempo libero, perseguendo uno stile di vita sedentario. Oltre l’80% della popolazione consuma, inoltre, meno frutta e verdura di quanto sia abitualmente raccomandato. Più penalizzate, in simili prassi scorrette, sono le persone di estrazione sociale più bassa e quelle abitanti nel Mezzogiorno. L’allarme lanciato da Istat e Cnel riflette la necessità di impedire che queste cattive abitudini si consolidino e finiscano per influenzare in termini negativi anche le generazioni future.
Le tendenze di recente rilevate sembrano, dunque, collidere tra loro, rilevando, da un lato, un italiano pigro e costretto a lottare continuamente con la bilancia, dall’altra un’attenzione crescente per la salute e la forma fisica. I risultati di un’ulteriore indagine possono forse aggiungere nuovi stimoli alla riflessione, delineando un Belpaese che, per soddisfare la propria ricerca di bellezza, ricorre sempre più alla soluzione più rapida e semplice di tutte, il classico “ritocchino”. La Società internazionale di chirurgia plastica estetica (ISAPS), nel suo “Global study of aesthetic cosmetic surgery procedures in 2011“, colloca l’Italia al sesto posto mondiale per numero di interventi di chirurgia plastica e per quantità di professionisti del settore. Si ricorre al bisturi soprattutto per aumentare il seno e si sta diffondendo il lipofilling, ossia il trapianto del proprio grasso.
Il moltiplicarsi di saloni di bellezza, centri estetici, parrucchieri, solarium e altri centri che si occupano di wellness nasconde, infine, un altro fenomeno sul quale si stanno concentrando le preoccupazioni di varie associazioni di categorie. Si tratta dell’abusivismo, che, oltre a mettere in difficoltà gli operatori del settore, rischia di trasformare quelli che in apparenza potrebbero sembrare degli ottimi affari in rischiosi interventi per i vanitosi utenti. A lanciare l’allarme è, tra le altre, anche l’Unione nazionale CNA Benessere e Sanità, che ha di recente diffuso alcuni dati dell’illegalità a Roma: dei 4 mila nuovi centri di estetisti e acconciatori che annualmente spuntano, ben 2 mila sono abusivi e il giro d’affari generato dal nero è di 15 milioni di euro di evasione fiscale e contributiva.
Pubblicato su: PMI-dome

Le dinamiche della domanda-offerta lavoro in tempi di crisi e Web 2.0

I candidati italiani consultano gli annunci per un posto dietro ai fornelli, ma le maggiori opportunità sono tra le scrivanie di un ufficio. Sempre più importante l’online reputation nel processo di reclutamento, il 12% dei selezionatori ha scartato nominativi dopo aver informazioni raccolto in rete

Quelli attuali non sono certo tempi d’oro per il mercato del lavoro. Pochi giorni fa il Ministero del Lavoro ha evidenziato come, nell’arco del 2012, i licenziamenti – sia quelli collettivi sia quelli singoli, per giusta causa o giustificato motivo – abbiano superato quota un milione (1.027.462), con un aumento del 13,9% sul 2011 (quando furono 901.796) e a fronte di 200 mila assunzioni in meno. Nel solo ultimo trimestre si sono registrati 329.259 licenziamenti, in incremento del 15,1% rispetto allo stesso periodo 2011. Nell’intero 2012 sono stati attivati circa 10,2 milioni di rapporti di lavoro, contro i quasi 10,4 milioni complessivamente cessati, tra dimissioni, pensionamenti, scadenze di contratti e licenziamenti. L’ANSA, elaborando gli archivi Istat, ha, inoltre, rilevato come sia aumentato nel 2012 il numero degli scoraggiati nel Belpaese, stimati in 1,6 milioni di unità. Si tratta di coloro che non cercano più lavoro perché sono convinti di non riuscire a trovarlo. Essi rientrano nella categoria degli inattivi (che non fanno parte della forza lavoro, poiché non classificati come occupati o in cerca di occupazione), che comprende anche studenti, casalinghe e pensionati. Se gli inattivi sono, nel complesso, diminuiti del 3,9%, a causa della crisi, gli scoraggiati sono invece aumentati del 5,3%; tale crescita ha coinvolto soprattutto le fasce d’età più alte (+13,3% tra i 45-54enni e +23,1% tra i 55-64enni) e le donne (+8,6%, giungendo a quota 1 milione 96 mila unità). Tra gli scoraggiati, 1 milione e 150 mila ha un’età compresa tra i 35 e 64 anni (+10,1%).
In un contesto così drammaticamente mutato, si rinnova la struttura stessa del gioco domanda-offerta lavoro e si evolvono, di conseguenza, i processi di reclutamento. Su questi ultimi si sono, in particolare, concentrate due interessanti indagini, promosse recentemente da due realtà che basano la propria intera attività sul cercare di far incontrare esigenze lavorative con posti vacanti. I risultati possono aiutarci a comprendere meglio la portata del cambiamento in atto.
INDAGINE SUBITO.IT
Subito.it – il famoso portale di annunci per la compravendita e il lavoro – ha evidenziato, a inizio 2013, un’inattesa crescita nelle richieste di personale, pari al 17% rispetto a inizio 2012. Parallelamente sale, tuttavia, anche il numero degli annunci di candidati alla ricerca di lavoro, che raggiungono quota 200mila, registrando un +37% sul 2012. Finisce così per accentuarsi lo scarto tra candidature spontanee e posizioni aperte: se a febbraio 2012 le prime superavano le seconde del 134%, nello stesso periodo di quest’anno la percentuale sale al 175%.
Un ulteriore scostamento si rileva anche dal punto di vista qualitativo, con riferimento alle posizioni aperte e quelle invece più ambite da chi è in cerca di occupazione: le maggiori opportunità (52%) sono nell’ambito del “lavoro d’ufficio” (responsabili commerciali e agenti di vendita, specialisti IT, programmatori, grafici, manager e operatori di call center) e, a seguire, nel campo del turismo e della ristorazione (7%), infine nel commercio o all’interno di vari negozi (6%); per contro le oltre 670 mila ricerche di lavoro (in crescita di 24 punti percentuali sul 2012) sembrano più orientate ai fornelli. I candidati italiani recuperano le proprie tradizioni gastronomiche e ambiscono primariamente ad una professione nel settore Food & Beverage o nella ristorazione: il 16% circa di coloro che navigano su Subito.it alla ricerca di lavoro aspira alla posizione di chef/cuoco (27,50%), aspirante tale (5,57%), barman (21,15%), pizzaiolo (20,38%) o, ancora, pasticcere, gelataio, fornaio, lavapiatti e maître di sala.
Al secondo posto tra le figure più ambite troviamo quella dei collaboratori domestici, che occupa il 13,4% delle ricerche di occupazione, suddivisa tra le posizioni di badante (52,13%), dama di compagnia (0,44%), baby sitter (29,19%), colf/domestico (16,51%) e dog sitter (1,30%). Quest’ultima categoria è stata, in particolare, oggetto di ben 2500 candidature spontanee (quasi la metà distribuite, nell’ordine, tra Lombardia, Lazio e Piemonte), trasformando quella che nasce come passione in una vera e propria professione.
In terza posizione troviamo gli aspiranti autisti (7%).
Gli aumenti individuati possono essere in parte spiegati con “la crescita dell’utilizzo di Internet che, nel periodo considerato, è stata di circa il 7% (dati Audiweb)” – come ha sottolineato l’Amministratore Delegato di Subito.it, Daniele Contin – e che ha imposto agli utenti un’evoluzione nei modelli di fruizione del mezzo. I segni più riflettono, dunque, una tendenza più generale, ciononostante è importante notare come “a fronte di una contrazione generale del mercato” del lavoro, la Rete venga sempre più considerata come “strumento immediato e affidabile di ricerca di opportunità professionali e di business, sia dal lato della domanda che dell’offerta”.
L’analisi di Subito.it si spinge poi all’individuazione di alcune differenze di ordine territoriale. Assumendo una prospettiva regionale, si nota una sostanziale omogeneità nella distribuzione delle opportunità professionali: al primo posto per numero di posizioni aperte si colloca la Lombardia (16%), subito seguita da Campania (13%) e Lazio (11%). Le sproporzioni più elevate tra offerte di lavoro sul sito e annunci dei candidati (a sfavore, come abbiamo visto, delle prime) si hanno in Sardegna (310%), in Sicilia (270%) e in Piemonte (229%), mentre quelle più basse si rilevano in Umbria (88%), Calabria (79%) e Basilicata (73%).
Dal punto di vista provinciale, la posizione di cuoco o chef è in assoluto la più ambita ad Ancona, Genova, Palermo e Trieste. Quella di autista è la più ricercata a Milano (11%, seguita da badante al 10% e cuoco al 5%), a Roma (10%, seguita da cuoco al 7% e segretaria al 6%) e a Firenze (14,5%, seguita da badante al 5% e operaio al 5%).
A Torino si cercano soprattutto lavoro come badante (13%), operatore specializzato (12% tra operai, muratori, elettricista, saldatori, fresatori, serramentisti, imbianchini) e autista (7%). Qui chi offre lavoro si orienta invece più sul personale specializzato in ambito IT o vendite.
A Palermo le aziende cercano poi soprattutto personale qualificato per lavori “di ufficio”, mentre i potenziali candidati aspirano a fare il cuoco (9%), la badante (8%) e, a pari merito, il baby sitter e l’autista (6%).
A sorpresa, il pizzaiolo è una delle posizioni più ambite in laguna: a Venezia è al terzo posto tra le più ricercate (6%) e a Padova addirittura al secondo (8%).
INDAGINE ADECCO ITALIA
Sempre più il Web assume, quindi, un ruolo di primo piano nella dinamica dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro e sempre più le relazioni sociali costruite online sembrano influire sulle probabilità di trovare un’occupazione. Avere una rete ricca e integrata di rapporti, tanto nell’offline quanto nelle diverse piattaforme di social network, permette di incrementare il proprio “capitale sociale integrato”. Ciò significa avere la possibilità di allacciare nuove relazioni con persone di status superiore, di rafforzare, allo stesso tempo, la frequenza e la stabilità dei legami già esistenti e, di conseguenza, di intercettare più facilmente tutte le informazioni utili a trovare lavoro. Tale capitale sociale integrato viene ormai considerato un aspetto fondamentale da parte dei responsabili risorse umane, incaricati del processo di reclutamento.
È questa una delle principali evidenze emerse nell’indagine 2013 “Il lavoro ai tempi del #socialrecruiting e della #digitalreputation” condotta sotto forma di sondaggio online da Adecco Italia, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, tra novembre 2012 e febbraio 2013. Giunta alla terza edizione, la rilevazione ha inteso far emergere il ruolo che i legami personali hanno, in tempo di Web 2.0, nella ricerca di una posizione professionale. A essa hanno partecipato 13.283 candidati e 479 selezionatori, dei quali si è cercato innanzitutto di costruire un identikit.
I responsabili HR hanno un’età distribuita in modo piuttosto omogeneo tra le diverse fasce, con una prevalenza di 36-45enni (37%), e risiedono prevalentemente al Nord (73%, contro il 15% che risiede al Centro e il 12% al Sud). Quest’ultimo dato riflette il fatto che molte aziende abbiano il proprio dipartimento HR a Milano, soprattutto quando si tratta di realtà di grandi dimensioni. Singolare, a tal proposito, è l’evidenza che la maggior parte dei responsabili intervistati (57%) appartenga a grandi aziende (con più di 250 addetti), nonostante il tessuto imprenditoriale italiano sia composto in prevalenza da PMI; ciò potrebbe, in parte, essere dovuto allo svolgimento online del sondaggio, dunque dalla potenziale esclusione da parte delle realtà meno digitalizzate.
Tra i candidati prevale la fascia dei 26-35enni (36%), con un 21% di giovanissimi (18-25enni) e un 25% di 36-45enni; bassa risulta la percentuale degli over 45 alla ricerca di lavoro (15%), probabilmente a causa della modalità online del sondaggio. Anche la maggior parte dei candidati si trova al Nord (ma il tasso di concentrazione è meno elevato, essendo pari al 54%, contro il 19% situato al Centro e il 27% al Sud).
Sia tra i responsabili HR sia tra i candidati, la presenza di donne e uomini è pressoché omogenea, con una leggerissima prevalenza di donne.
L’utilizzo dei social network è molto diffuso tra i selezionatori che vi ricorrono per uso personale e professionale nell’88% dei casi (percentuale che sale al 94% se si considerano anche gli utilizzi come azienda). Meno rilevante è invece l’uso di questi strumenti per la ricerca di lavoro da parte dei candidati (53%), nonostante il 99% di essi vi ricorra in generale, anche per altri scopi. Più nel dettaglio, Linkedin sembra essere il canale privilegiato dei recruiter per trovare nuovi profili, con il 42% delle preferenze, seguito da Facebook (29%) e da Twitter (9%), mentre tra i candidati la ricerca di lavoro in Rete avviene prevalentemente attraverso i siti di lavoro (94%), le App (39%) e Facebook (30%); solo il 26% usa Linkedin e solo il 5% Twitter.
Quali sono i vantaggi che derivano dall’utilizzo di questi canali online? Per chi è alla ricerca di un’occupazione, questi risiedono nella possibilità di trovare un maggior numero di offerte (44%), poi nell’opportunità di dare maggiore visibilità al proprio CV (38%) e di trovare offerte di lavoro più interessanti (32%) specialmente all’interno delle pagine aziendali; solo il 16% considera l’importanza nel creare relazioni professionali e solo il 6% è interessato a monitorare in questo modo la propria reputazione online. I responsabili HR ricorrono invece agli strumenti di recruiting online principalmente per allargare il bacino dei candidati (16%) e verificare la completezza e la solidità dei CV ricevuti (16%), oltre che per trovare profili più mirati (15%), per informarsi sulle relazioni professionali del candidato (14%) e per controllare i contenuti da questo pubblicati (10%).
Adecco passa poi ad analizzare la valutazione che selezionatori e candidati danno circa l’utilità di alcune piattaforme online. In linea con le proprie prassi fruitive, i primi apprezzano principalmente Linkedin (78% valutazioni positive) e i siti di matching (72%). I candidati mettono invece al primo posto per utilità i siti (70%) e al secondo Linkedin, che, nonostante raggiunga solo il 29% delle valutazioni positive, conquista comunque una posizione di estremo rilievo, che non trova corrispondenza nelle scelte di utilizzo prima descritte: in sostanza chi cerca lavoro considera Linkedin più utile di Facebook (29% contro 20%), ma sfrutta primariamente – e paradossalmente – quest’ultimo come canale per la ricerca.
Stando a quanti un lavoro l’hanno trovato, la formula più efficace per trovare un posto è quella di utilizzare un mix di differenti strumenti che comprenda in primo luogo gli annunci online (40%), le agenzie per il lavoro (34%) e la rete di parenti e amici (32%).
Per il 50% dei responsabili risorse umane i social media hanno reso più facile la ricerca di candidati e il 34% ha effettivamente utilizzato questi strumenti  per assumere. Per contro il 75% dei candidati sostiene che i social non sono stati d’aiuto e solo un misero 2% dice di aver trovato lavoro esclusivamente attraverso essi (su un 30% che ha inviato la propria candidatura e un 8% che è stato in seguito contattato), ma – a giudicare dalle precedenti risposte – ciò potrebbe dipendere da un uso scorretto e poco ragionato del mezzo.
La forza di questi strumenti risiede soprattutto nel potere delle relazioni. Il 50% di chi ha trovato lavoro attraverso i social network dispone di una rete sociale ricca, contro il 27% di chi lo ha trovato tramite i centri per l’impiego, il 30% di chi si è rivolto alle agenzie per il lavoro e il 33% di chi si ha sfruttato reti sociali tradizionali (amici e famiglia). Usare queste piattaforme semplicemente per recuperare nuovi annunci rappresenta un’operazione piuttosto sterile; la vera utilità sta nella possibilità di allargare e rafforzare la propria rete di contatti professionali. “Questi risultati sono molto interessanti”, ha commentato Ivana Pais, docente di Sociologia economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, “perché mostrano il valore delle relazioni che si stabiliscono e si alimentano attraverso la Rete. In particolare, l’uso di social network si rivela molto efficace nella fase di ricerca di un lavoro in quanto consente di facilitare i flussi informativi tra persone già in contatto tra loro, di entrare in relazione con persone chiave nei processi selettivi e di abbattere alcune barriere comunicative rendendo più diretta e veloce la comunicazione”.
L’importanza della digital reputation viene comunque percepita sia dai recruiter sia dai candidati. Il 70% di questi ultimi verifica le informazioni personali che circolano online “googlando” il proprio nome, lo stesso fa il 77% dei recruiter con i nominativi dei candidati. Due sono, infine, i dati che hanno fatto particolarmente discutere: il 12% dei selezionatori dichiara di aver escluso dei candidati proprio per le informazione reperite su di essi in Rete; il 5% sostiene di aver chiesto al candidato di accedere al proprio profilo Facebook, con una evidente lesione della privacy (pratica confermata però solo dall’1% dei candidati).
“Il problema è che con la carenza di lavoro che c’è, i recuiter si trovano ad avere una sovrabbondanza di profili validi, e la presenza sui social media e il loro uso corretto diventano un ulteriore filtro per scremarli”, ha spiegato Silvia Zanella, Marketing e Communication Manager di Adecco Italia. “Quello che infastidisce di più è la mancata corrispondenza fra ciò che si scrive sui profili social e il Cv in mano al selezionatore; molti fingono, esagerano…”. Curare i propri profili può rivelarsi, allora, utile anche ai fini di una possibile assunzione. Ciò non significa scadere nell’autopromozione smaccata, al contrario ogni voce digitale deve essere comprovata da fatti reali. Condividere, partecipare, allacciare nuovi rapporti permette di curare la propria online reputation, con effetti benefici anche nell’offline.

 

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Federsanitas: quando l’imprenditore indossa il camice bianco

Cerchiamo di conoscere meglio la giovane associazione che rappresenta, all’interno di Confesercenti, le società di gestione di servizi e mezzi in ambito sanitario, attraverso le parole del suo Presidente, Mauro Tomasella

Si chiama Federsanitas e rappresenta l’associazione delle società di gestione di servizi e mezzi in ambito sanitario. Nasce primariamente come espressione degli interessi – un tempo privi di megafono istituzionale – tipici di quell’area dell’odontoiatria che viene gestita da società e che molto spesso ha come investitori di capitali degli odontotecnici. Essa aspira, tuttavia, a rappresentare qualsiasi tipologia di società di servizi sanitari, anche quelle più complesse che inglobano diversi professionisti appartenenti a vari campi della medicina.
Costituitasi il 21 maggio 2012 a Roma, la Federsanitas opera all’interno di Confesercenti e, in particolare, della Federbiomedica, quella macroarea che raggruppa trasversalmente tutte le associazioni di categoria aderenti a Confesercenti e attive nel campo della sanità pubblica e privata. Oltre a Federsanitas, rientrano in Federbiomedica anche Anpi (Associazione nazionale delle parafarmacie italiane), Assosanità (che ingloba quei soggetti di natura privata operanti nel campo dell’assistenza sanitaria), Cio (Collegio italiano odontotecnici), Fio (Federazione italiana ottici), e Fios (Federazione italiana ortopedie sanitarie). Compito di Federbiomedica è assicurare un maggior peso politico alle singole associazioni, coordinando l’attività delle imprese e dei professionisti del comparto bio-medicale e promuovendo l’integrazione tra tutte le esperienze in campo.
Grazie alla Federsanitas, numerosi laboratori d’analisi, cliniche, centri di fisioterapia, ambulatori, poliambulatori, centri dentali, e tutte le altre società di natura privata che offrono assistenza di tipo sanitario attraverso la fornitura di mezzi o servizi, possono ottenere la giusta rappresentanza e la necessaria assistenza in campo legislativo. Gestire simili strutture impone, infatti, il rispetto di precise norme, non sempre facili da interpretare e – cosa ancora più importante – spesso non conosciute da commercialisti e notai, incapaci di offrire una consulenza così specifica. Quanti hanno costituito una società di gestione di servizi, o hanno anche solo avviato il procedimento burocratico per l’apertura di una di queste, possono ora avvalersi della consolidata competenza e dell’accreditata esperienza dei due specialisti messi a disposizione dall’associazione (l’avvocato Silvia Stefanelli  e il dottor Dino Malfi), per comprendere quale sia la forma giuridica più idonea ad esercitare le proprie funzioni, per allineare il proprio statuto alla realtà in cui concretamente si opera e per avere certezze circa adempimenti, termini e scadenze imposte dal legislatore.
Le società di gestione di servizi e mezzi sanitari rappresentano un ottimo strumento a disposizione di molti camici bianchi, per una gestione più snella ed efficiente della propria attività professionale, sotto il profilo amministrativo e fiscale. Esse sfidano la logica tipicamente individualista che caratterizza il settore dei servizi odontoiatrici (e sanitari in generale) e rappresentano forse la risposta interna alla penetrazione e proliferazione in Italia di società gestite da operatori stranieri e caratterizzate da strutture multiprofessionali.
Non pochi sono gli obiettivi dichiarati dall’associazione in sede di costituzione. Vi è, innanzitutto, la volontà di garantire agli iscritti la tutela dei loro legittimi interessi, nei rapporti con il Ministero della Salute, con le Regioni e con le Aziende Sanitarie presenti sul territorio, al fine di giungere ad una sostanziale condivisione del processo decisionale. Si ritiene, infatti, che scelte unilaterali e rappresentative solo di alcune parti abbiano, in passato, finito spesso per penalizzare il settore nel suo complesso.
Si intende poi offrire un quadro di generale eguaglianza nelle opportunità di tutti gli operatori sanitari, rafforzando il ruolo e le prospettive delle realtà meno strutturate e ridimensionando gli iniqui vantaggi derivanti da anacronistiche rendite di posizione. Parallelamente si rincorre una maggior trasparenza nello sviluppo di un nuovo modello di accreditamento, capace di condurre ad una semplificazione delle procedure e ad un utilizzo oculato delle risorse pubbliche.
La Federsanitas si prefigge ovviamente anche l’obiettivo di valorizzare il ruolo dei soggetti privati nel settore sanitario, cercando di far comprendere all’opinione pubblica quanto questi possano risultare fondamentali per garantire l’idonea assistenza ai cittadini in una fase di necessaria accortezza nell’utilizzo del patrimonio pubblico.
In questo senso si vuole consentire lo sviluppo commerciale delle imprese aderenti, favorendo la sottoscrizione di accordi e convenzioni con soggetti rientranti, a vario titolo, nella Confesercenti e facendo pressioni alle istituzioni affinché intervengano per la difesa e la promozione di queste realtà.
L’associazione ha, inoltre, avviato un ciclo di incontri allo scopo di consentire agli interessati un aggiornamento costante circa la normativa del settore, il management e il marketing aziendale. L’ultimo meeting si è svolto a Roma il 4 febbraio scorso e ha riguardato la “Gestione delle problematiche inerenti le ispezioni delle autorità di controllo negli ambulatori”.
Presidente di Federsanitas è attualmente Mauro Tomasella, odontotecnico specializzato, contitolare della Dentalprotesi S.r.l., centro dentale con sede a Conegliano, in provincia di Treviso. A lui abbiamo rivolto alcune domande per cercare di comprendere meglio le motivazioni alla base dell’iniziativa e i traguardi che si intende raggiungere.
Cosa vi ha spinto verso la creazione di Federsanitas? Quale o quali lacune del sistema vi hanno fatto avvertire questa necessità?
La ragione principale è che abbiamo constatato come in tutto il territorio nazionale i commercialisti (chi più chi meno naturalmente) non siano in grado di risolvere correttamente tutte le varie problematiche relative alla gestione. Essi spesso non sono al corrente della legislazione che regolamenta tali particolari soggetti operanti nel campo dell’assistenza sanitaria.
Da chi proviene l’idea e come si è sviluppata? Chi sono i principali promotori?
Il progetto è nato all’interno dell’associazione Cio (Collegio Italiano Odontotecnici) – Confesercenti – Federbiomedica. La sede nazionale si trova a Roma in via Nazionale 60, quindi all’interno della stessa sede nazionale di Confesercenti.
Ovviamente il Cio è costituito da odontotecnici, dunque da soggetti che sono in alcuni casi titolari di un cosiddetto “centro dentale”: si entra, di fatto, in quell’area odontoiatrica che viene gestita da società che molto spesso hanno come investitori di capitali gli odontotecnici.
L’idea è venuta appunto dalla categoria degli odontotecnici e ha ottenuto subito l’appoggio del presidente di Federbiomedica, il signor Alberto Battistelli. Riscontrando le lacune suddette abbiamo pensato di costituire la Federsanitas e, per farlo, ci siamo appoggiati a due professionisti del settore, l’avvocato Silvia Stefanelli, e il dott. Dino Malfi, i quali sono ufficialmente i consulenti dell’associazione, seguendo tutti gli aspetti legislativi e normativi.
Qual è il contributo effettivo di Confesercenti per il raggiungimento degli obiettivi che l’associazione si prefigge?
Il contributo di Confesercenti è soprattutto politico e strutturale, nel senso che possiamo avvertire il peso di questa grande associazione. Abbiamo, inoltre, l’opportunità di utilizzare gli uffici Confesercenti di tutta Italia per esercitare in maniera effettiva.
 
Ci spieghi un po’ meglio quali sono le società che rientrano in Federsanitas e cosa le distingue dalle altre strutture tipiche dell’assistenza sanitaria. 
La Federsanitas offre uno spazio, prima inesistente, all’area odontoiatrica gestita da società che possono essere ambulatori, poliambulatori, centri dentali. La forma migliore è sicuramente la S.r.l. Il fatto che, ad esempio, la società sia gestita da odontotecnici può rappresentare un grande vantaggio, perché si va ad instaurare un solido lavoro di equipe, un’unione più stretta tra medico ed odontotecnico, che, al giorno d’oggi, è, secondo noi, imprescindibile per l’ottenimento di un risultato clinico protesico adeguato alle esigenze del paziente.
In che modo pensate sia utile valorizzare il ruolo di soggetti privati nell’ambito della tutela della salute (una tutela di rilevanza pubblica)? Non si rischia di trasformare l’attività medica in un business, dove a prevalere è più la logica dei costi e dei ricavi che non la salute del paziente?
Penso ciò possa portare solamente a dei vantaggi, sia per i vari professionisti che operano in ambito sanitario, sia per il cittadino-paziente. Gestire una parte della sanità in forma privata dovrebbe comportare soprattutto una maggiore qualità dei servizi volti agli utenti, poiché gli operatori possono svolgere il loro lavoro specialistico con la massima trasparenza e usufruendo concretamente di tutti gli strumenti tecnologici a disposizione.
È chiaro che vengono svolte in questa forma solo alcune attività sanitarie, di solito quelle più specializzate, che quindi non possono andare a coprire totalmente la domanda sul territorio.
Noi non intendiamo dare un profilo utilitaristico alle nostre attività, ma questo non ci può preservare da eventuali realtà – che tutt’oggi sono presenti – in cui si tende a sfruttare la situazione, se non addirittura a esercitare esclusivamente in funzione del denaro. Non si può scherzare con la salute, questo per noi di Federsanitas è un imperativo ed è per questo che vogliamo avere al nostro interno solo persone responsabili e veramente impegnate nel perseguire questo modo di pensare e di agire.
Qual è la posizione degli ordini professionali rispetto a questa associazione e alle realtà che essa tutela? 
Non abbiamo avuto, al momento, nessuna particolare lamentela, anzi, la partecipazione e le richieste di iscrizione sono arrivate e molto numerose, considerando che l’associazione è nata il 21 maggio 2012.
Incontrate alcune particolari difficoltà, diffidenze o resistenze (magari anche di natura culturale)?
Assolutamente no. Sotto tutti i punti di vista, abbiamo avuto solamente attestati di stima per aver pensato di creare questa associazione.
Un’informazioni di servizio: come ci si può iscrivere alla vostra associazione?
Per avere delle informazioni di carattere generale, gli interessati possono telefonarmi al numero 3204189175 oppure scrivermi una mail all’indirizzo mtomasella67@gmail.com. Dopodiché ci si dovrebbe recare alla sede Confesercenti più vicina e chiedere di effettuare l’iscrizione.
Voi offrite garanzie agli iscritti. Cosa vi aspettate in cambio da loro? Quale contributo auspicate da parte degli associati? 
Sono convinto che il miglior contributo da parte di un associato per la propria associazione sia quello di partecipare attivamente alla stessa, portare nuove idee, creare contatti interessanti, promuovere iniziative che diano la possibilità di aggiornamenti costanti sulle normative, il management, il marketing, proporre alle istituzioni nuovi modelli di rappresentatività.
Chi sono i professionisti che fungono da consulenti per gli iscritti? Riesce brevemente a fornirci delle “referenze”?
Come accennavo prima, i due consulenti ufficiali sono il dott. Dino Malfi e l’avvocato Silvia Stefanelli. Con entrambi abbiamo creato una “convenzione”, in forza della quale tutti gli associati Federsanitas possono rivolgersi a loro per avere indicazioni a livello legislativo e normativo. Giusto per fare un paio di esempi, l’iscritto che voglia avere informazioni precise o ricevere indicazioni sul proprio statuto, può rivolgersi all’avv. Stefanelli, mentre, se si cercano delucidazioni sulle normative che regolano la scelta degli spazi per le varie attività all’interno della società di servizi, si può interrogare il dott. Malfi
La Stefanelli è un avvocato cassazionista esperto in diritto sanitario e legislazione da prodotto. Il dott. Malfi è un esperto sulla consulenza nelle normative tecniche.
A quasi un anno dalla costituzione, è in grado di offrirci una stima circa il numero di iscritti e circa i principali traguardi raggiunti?
Ad oggi contiamo circa sessanta società iscritte e abbiamo già organizzato due incontri ufficiali a Roma, presso la sede nazionale. Il primo è stato fatto con la Stefanelli e Malfi ed era titolato “La società di gestione di servizi sanitari in ambito odontoiatrico, aspetti legali”, il secondo trattava la “Gestione delle problematiche inerenti le ispezioni delle autorità di controllo negli ambulatori”. Stiamo organizzando un nuovo incontro, per poter effettuare il quale ci siamo rivolti direttamente a un colonnello della Guardia di Finanza: si preannuncia essere davvero molto interessante e prevediamo già un’ampia partecipazione anche di società di servizi sanitari polifunzionali.
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San Valentino 2013: il cuore batte la crisi

Convenienza e velocità fanno sì che la Rete sia sempre più apprezzata per l’acquisto diretto del regalo da destinare alla propria dolce metà, oltre che per trovare spunti originali, mentre per i single italiani il 14 febbraio sarebbe una festa prettamente commerciale

Attesa dagli inguaribili romantici, bollata dai più come “elogio del consumismo”, snobbata dagli scapoli affezionati alla propria indipendenza, temuta da ex e single un po’ meno convinti. Quella di San Valentino rimane, nel bene o nel male, una delle ricorrenze più note al mondo, probabilmente la sola capace di creare un moto di oscillazione pendolare tra umori contrapposti, di sicuro l’unica che, spogliandosi dell’originale dimensione religiosa, sembra voler dare voce alle mille manifestazioni di quel sentimento che si è soliti chiamare “amore”.
È la festa degli innamorati, delle coppie storiche e di quelle appena nate, dei biglietti ritagliati e scritti a mano, delle frasi melense ripetute sempre uguali, dei giuramenti, dei “per sempre”, dei fiori e dei cioccolatini, del regalo “qualsiasi basta che sia rosso e a forma di cuore”, delle farfalle sullo stomaco, infine – perché no – delle gemme e dei carati.
In vista del 14 febbraio, si moltiplicano le proposte regalo, le offerte e i deal consigliati dai molti portali di e-commerce. Gli internauti innamorati navigano alla ricerca di soluzioni, che – più o meno originali e più o meno convenienti – possano sorprendere il proprio partner. La tradizionale caccia al pacchetto sembra essere – a quanto pare – irrinunciabile, pure in tempi di crisi e pure con la piena consapevolezza di quanto inadeguato sia offrire esiti commerciali ai festeggiamenti del sentimento. Tradizione e costruzione – ancora una volta – fungono da grotta rassicurante, nella quale rifugiarsi finché piovono debiti, tasse e redditometri.
A evidenziare la sostanziale tenuta di celebrazioni e doni a San Valentino è – ultimo – il network di social shopping Saldiprivati.com (proprietà della web company Banzai), che ha diffuso, pochi giorni fa, i risultati di un sondaggio rivolto ai propri utenti sul tema, potendo contare su ben 2 milioni di iscritti alla newsletter. La maggior parte degli intervistati ha, infatti, dichiarato che non rinuncerà a festeggiare il 14 febbraio e che, per acquistare il regalo da destinare alla propria dolce metà, utilizzerà il web, ma solo su un e-shop fidato (65%). Il ruolo della rete, tuttavia, non si esaurisce qui: per il 37% del campione essa funge da fonte privilegiata per ottenere spunti e idee sui regali.
Con riferimento ai budget di spesa previsti, gli innamorati del 2013 sembrano, tuttavia, costretti a scendere a compromessi con delle tasche sempre meno gonfie; il 63% degli utenti non pensa, infatti, di spendere per l’occasione cifre esorbitanti e non teme pertanto – ci dicono i promotori – di cadere sotto la lente del fisco.
Semplicità e tradizione sembrano poi essere le parole chiave nella formula di festeggiamento scelta per l’imminente data. Il 65% degli utenti di Saldiprivati.com non intende organizzare appuntamenti in grande stile, preferendo, piuttosto, orientarsi su una semplice cena con la persona amata o su piccoli pensieri fatti con il cuore (quel cuore che non sono convinta riuscirà a soddisfare proprio tutte le Valentine d’Italia).
La crisi si percepisce, quindi, tuttavia non abbastanza da far cambiare radicalmente abitudini agli italiani, nemmeno sotto la rassicurante giustificazione dello stop allo spreco e del riciclo consapevole: l’80% del campione dichiara, infatti, che non riutilizzerebbe mai un regalo ricevuto per risparmiare qualche euro. Meglio ridimensionare le pretese, dunque, ma con un’idea e un regalo originali, non di seconda mano.
Molte sono le motivazioni che spingono gli italiani a preferire l’acquisto online a quello tradizionale: il 35% degli intervistati apprezza la convenienza, il 36% la velocità e il 27% ritiene che l’esperienza di shopping sul Web sia più divertente.
L’esperienza d’acquisto offline – il vedere e toccare con mano – rimane comunque prediletta per regali di una certa consistenza economica e simbolica: il 51% dei rispondenti sostiene che non comprerebbe mai sul Web l’anello di fidanzamento, trattandosi di un oggetto troppo personale e prezioso.
Con riferimento, infine, a cosa regalare per fare colpo, il 59% degli interpellati non ha dubbi, concentrando le proprie mire su un viaggio in posti esotici con la propria anima gemella, un vero regalo da sogno, per dirla alla Briatore di Crozza. Da evitare, invece, gli elettrodomestici per la casa, le pentole e gli attrezzi da cucina, considerati banali e poco adatti dal 47% degli utenti.
In una simile esplosione di romanticismo e baci in bianco e nero, c’è una categoria sociale che merita un’attenzione e un rispetto particolari. Stiamo parlando dei single italiani, coloro che ancora non hanno trovato una metà cui destinare dolci frase d’amore e che per l’ennesima volta dovranno accontentarsi di venerare un ben poco consolatorio San Faustino. A indagare il loro atteggiamento nei confronti della festa più amata e odiata dell’era moderna, è Meetic, il più grande sito d’incontri in Italia, presente in ben 16 Paesi europei, con una media dichiarata di oltre 300 storie d’amore 2.0 avviate settimanalmente tra le file virtuali del suo network.
Meetic ha di recente commissionato, all’istituto di ricerca TNS, l’indagine Lovegeist, basata su un campione di 10.561 single adulti di età compresa tra 18 e 65 anni, provenienti da diversi paesi europei (le interviste realizzate in Italia sono state complessivamente 1.514) e interpellati dal 29 ottobre al 23 novembre 2012, allo scopo di mettere in luce comportamenti e atteggiamenti di scapoli e zitelle d’Europa. La ricerca indaga su molti aspetti relativi al dating – si evidenzia, tra le altre cose, come gli italiani siano, nel panorama europeo, i più propensi a ricercare una nuova relazione (56%), soprattutto gli uomini, più attivi delle donne (60% contro 51%, con una media di 2,4 appuntamenti al mese per i primi, contro 1,6 appuntamenti per le seconde) – e un focus particolare è destinato all’approccio dei single a questa data importante.
A sorpresa – si fa per dire – emerge come, nel contesto europeo, gli uomini siano più desiderosi di festeggiare San Valentino, rispetto alle donne, ritenendola una buona occasione per esprimere i propri sentimenti (70% contro il 64% femminile) e una data particolarmente romantica per un appuntamento (55% contro 47%).
Nel nostro contesto nazionale, il 14 febbraio viene visto dalla maggioranza dei single come una festa prettamente commerciale (32% si dichiara molto d’accordo con questa affermazione, percentuale che si innalza al 77% se si considerano anche coloro che sostengono di essere “abbastanza d’accordo”) e solo il 12% ritiene che sia un bel modo per esprimere i propri sentimenti verso qualcuno. Il 53% degli intervistati è, tuttavia, d’accordo sul fatto che la ricorrenza possa costituire un’occasione suggestiva per un primo appuntamento.
Come festeggiano poi i single europei? Ci si divide sostanzialmente tra tradizionalisti, che organizzano cene a lume di candela e gite fuori porta, e menti un tantino più originali, che preferiscono fare qualcosa di insolito.
Nel Belpaese si è meno propensi a considerare la ricorrenza come un’occasione per dichiarare esplicitamente il proprio amore e manifestare, quindi, la volontà che la relazione appena avviata prosegua: solo il 7% degli italiani lo fa, preferendo piuttosto l’idea di fare un viaggio assieme nel weekend, come modo meno esplicito per rivelare le proprie intenzioni (17%). Si sceglie, di conseguenza, di trascorrere San Valentino facendo qualcosa di originale (46%) o non festeggiando affatto (29%).
Sia che siate fidanzati sia che siate single, una cosa comunque è certa: le soluzioni per regali e celebrazioni che i vari brand e le istituzioni propongono per l’occasione sono moltissime e per tutti i gusti. Dalle classiche “idee perfette per lui e per lei”, ai festival e tour cittadini a tema. Dalle proposte volo+hotel per due particolarmente convenienti, all’offerta “Speciale 2×1” di Trenitalia. Dall’iniziativa “Innamorati dell’arte” del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che consente l’accesso a musei e altri luoghi d’arte statali, pagando un solo biglietto a coppia, alle applicazioni mobile che aiutano a dire “ti amo” in modo low cost, fino ad arrivare alle performance sonore di Sviolinati , il servizio che permette di prenotare online una serenata a domicilio, ad opera di violinista Valerio D’Ercole.
E se siete particolarmente legati alla tradizione e non sapete rinunciare a un bel mazzo di fiori, la Federazione dei florovivaisti di Confagricoltura consiglia una soluzione anti-crisi (del settore): “Per il 14 febbraio” – sostiene Francesco Mati, presidente della Federazione – “se tutti gli innamorati italiani regalassero un bouquet made in Italy, non solo aiuterebbero il settore, ma darebbero un alto valore aggiunto al regalo, in termini di bellezza e durata”.
Ai classici mazzi di rose, meglio allora preferire anemoni, ginestre e primule, che nascono e crescono sotto la luce del sole tricolore e che sono per questo destinati “a durare molto sotto gli occhi della persona cara”.

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La politica dei tweet: timidi tentativi tricolori

Dall’iniziativa #MontiLive al flop di @sapevicheSilvio, passando per l’#opencamera di Sarubbi, la ricerca del consenso passa ormai, anche in Italia, per i cinquettii. I politici in larga parte subiscono il social, ma non mancano piccoli traguardi

Sempre più la rete diventa sede privilegiata per il dibattito politico. Cresce la community dei cosiddetti cives.net, di coloro, cioè, che navigano per informarsi sui vari quotidiani online o per discutere di politica su blog, forum e piattaforme social, sfruttando le moltissime opportunità del Web come luogo di coinvolgimento civico. A confermare, nei giorni scorsi, la tendenza è stato l’Osservatorio Demos-Coop, che ha inteso tracciare il profilo sociodemografico e l’orientamento politico di questi cittadini 2.0. Se nel 2010 essi rappresentavano il 24,8% dei cittadini, la loro portata quantitativa sembra essersi ulteriormente rafforzata negli ultimi due anni, consolidandosi al 28,9% nel 2012, contro una percentuale del 14,3% (piuttosto stabile) per gli infonauti (quanti cioè si limitano a informarsi attraverso i quotidiani online e non partecipano alle discussioni politiche in rete) e una percentuale del 15,1% (in leggera crescita) per gli internauti (coloro che navigano per varie ragioni, non per informarsi o discutere di politica).
I cives.net sono persone particolarmente interessate alla politica, molto attive anche nell’offline e con un orientamento principale a sinistra. È, tuttavia, un “non-partito”, il MoVimento 5 Stelle, a catalizzare il maggior numero di cives.net nella propria base elettorale (47,7%, ai quali si aggiunge una percentuale del 12,5% riferita agli infonauti che aderiscono al movimento), dimostrando, quindi, i limiti dell’etichetta “antipolitica” spesso affidata ai sostenitori di Grillo.
Sono lontani, dunque, i tempi in cui le varie personalità coinvolte nella scena politica mondiale potevano lanciare ammonimenti e puntare dita contro la rete o limitarsi a considerarla una scocciatura da tenere semplicemente sotto controllo. La potenza del leader si misura oggi anche attraverso la sua influenza virtuale, rendendo quanto meno auspicabile una presenza diretta – o almeno presunta tale – nel rinnovato villaggio globale. Nell’elaborata macchina che porta alla creazione del consenso collettivo, un ruolo sempre più cruciale è giocato dai social ed è sufficiente evocare la foto del famoso abbraccio tra Obama e Michelle (la più retweettata di sempre) per rendersene conto.
A dicembre 2012 ben il 75% dei capi di stato e dei primi ministri mondiali (164 i Paesi analizzati) usavano Twitter come strumento di comunicazione politica, secondo uno studio realizzato dall’istituto di ricerca politica Digital Policy Council. Appena nel 2011 la percentuale era del 42%. Al primo posto tra i più potenti del cinguettio vi sarebbe proprio il Presidente degli Stati Uniti d’America (oltre 25 milioni di follower, twitta dal 3 maggio 2007), seguito a distanza dal Presidente venezuelano Hugo Chávez (3,8 milioni di follower e una presenza su Twitter dall’aprile 2010), e dal Presidente turco Abdullah Gul (2,5 milioni, sulla piattaforma dal settembre 2009).
Grandi assenti, nella classifica, i leader italiani, banalmente anche a causa della loro età media, decisamente più alta rispetto a influencer come la regina di Giordania, Rania (al quarto posto, con 2,4 milioni di follower), la presidente argentina Cristina Kirchner (al settimo posto, con 1,4 milioni di follower), il presidente dell’Ecuador Rafael Correa (al quindicesimo posto), i primi ministri australiano e canadese Julia Gillard e Stephen Harper (rispettivamente al ventesimo e ventunesimo posto).
In realtà, negli ultimi giorni, Twitter pare entrare a gamba tesa nella campagna elettorale per le prossime elezioni politiche italiane, ma i toni finora rilevati nel Belpaese sono molto lontani da quelli tipicamente previsti dall’apparato comunicativo della piattaforma e poco funzionali alla logica collaborativa e sociale ad essa sottesa. I politici italiani sembrano più “subire” il famoso uccellino che non sfruttarlo per un proprio tornaconto in termini di immagine e, in definitiva, di voti.
I “volontari digitali” fedeli a Silvio Berlusconi hanno aperto il 6 dicembre un nuovo account @Berlusconi2013, sulla cui credibilità si sono concentrati non pochi sospetti, data la crescita esponenziale e improvvisa di followers, saliti a Capodanno, in sole 24 ore, da 7 mila a oltre 70 mila; essi sono aumentati ulteriormente nei giorni successivi, per poi ridimensionarsi ieri a poco più di 64 mila unità. “Semplice abbiamo eliminato quelli generati da bot rilassatevi please”, ha cinguettato infine lo staff del Cavaliere per giustificare la tendenza altalenante. Nella serata di domenica si erano moltiplicati poi i malumori per quel presunto tweet postato dal profilo contro Rai3 che “fa cagare… La Gabbanelli [Gabanelli, ndr] sembra la Bindi.. Servi della sx e delle banche… Le porcate della sinistra mai eh? #schifo #tipisinistri”. L’eliminazione del tweet e la smentita dei volontari digitali, subito pronti a gridare allo scandalo e al fotomontaggio, pare non sia stata sufficiente a frenare l’ondata di screenshot, rimbalzata con toni ironici e canzonatori da una vetrina digitale all’altra. Rimanendo sullo stesso schieramento politico, anche Paolo Bonaiuti e Gianni Letta hanno inaugurato lunedì la propria presenza su Twitter, salvo le successive prese di distanza da parte dei diretti interessati: “Non è mio quel profilo, non è mio quel cinguettio demenziale”, ha dichiarato un irritato Letta a TgCom, sottolineando come si tratti di “un falso ignobile e mortificante per chi lo ha fatto, per chi lo ha raccolto e per chi lo ha diffuso”. Parole d’accusa rilanciate in parte anche da Bonaiuti, mortificando, dunque, anche quanto di positivo poteva essere colto dalla creazione di un account certo fake, ma pur sempre a sostegno della propria causa.
Per non parlare poi dell’autogol realizzato dallo staff comunicativo del Cavaliere, attraverso l’account autocelebrativo @sapevicheSilvio, che nelle intenzioni doveva riportare le gloriose gesta del suo passato governo, ma che, nella pratica, è diventato oggetto di una esilarante raffica di tweet amaramente divertenti, riportanti l’hashtag #losapevichesilvio.
Berlusconi ha dovuto così presto dismettere i panni dell’entusiasta comunicatore digitale, indossati poco meno di un mese fa per inaugurare la campagna elettorale, e dichiarare le proprie perplessità verso Twitter: “Useremo le reti, le sto già usando, non so se su Twitter… Perché su Twitter noto anche molte cattiverie inutili e credo che un’affermazione su Twitter potrebbe scatenare un universo di risposte negative”, ha affermato lunedì, nel corso di un’intervista a TgCom.
Il premier tecnico uscente, Mario Monti, ha aperto il proprio account @SenatoreMonti solo il 23 dicembre scorso, dopo le dimissioni, in vista della propria “salita” in campo. Grande eco ha suscitato, in particolare, la sua scelta di confrontarsi in maniera diretta con i potenziali elettori, proprio attraverso il sito di microblogging: nel corso del #MontiLive di sabato scorso, Monti, grazie al suo staff, ha cercato di dare risposta, in 90 minuti, a 16 domande, selezionate tra le molte twittate dagli utenti. In tanti hanno apprezzato il tentativo di apertura, ma non sono mancate le critiche, legate innanzitutto alla scelta di privilegiare, quali soggetti cui rispondere, influencer (@tigella, @nomfup, @daw_blog), esperti (@pierani, @iabicus), giornalisti (@annamasera, retwittata), testate (@tg1online) e associazioni (@progettoRENA), escludendo i cittadini comuni e vanificando, dunque, gli sforzi per una reale partecipazione.
A infastidire sono state pure le scelte stilistiche, in particolare l’uso esagerato di emoticons e di punti esclamativi, probabilmente allo scopo di creare un legame di empatia con i lettori. Esagerato più che altro perché incoerente rispetto alla figura piuttosto impostata di Monti, cui televisione e altri media ci hanno da sempre abituato.
Qualcuno ha criticato anche l’autocelebrazione (un solo retweet usato per un complimento e un “WOW!!” finale rivolto al numero crescente di followers) e l’ostentazione dell’iniziativa, vista l’eccessiva diffusione, da parte dello staff, di foto che ritraevano Monti davanti al computer, intento a twittare.
Dita puntate anche contro quel video storto di 90 gradi e di pessima qualità, presto rimosso. Infine il tempo trascorso tra una risposta e l’altra è stato giudicato eccessivo e il contenuto delle risposte non particolarmente originale.
Al di là degli errori e delle goffaggini, a una figura mediaticamente forte come Monti va certo il merito di aver posto l’accento su una modalità nuova di fare politica, possibile, con molta pratica, anche in Italia. Non messaggi a senso unico, ma partecipazione attiva. E il tentativo sembra anche aver dato alcuni frutti: il profilo ha collezionato ben 1.112 domande, 9.746 retweet, 7603 reply e 1861 tweet e, in sole due ore, è stato raggiunto da 5 mila nuovi followers (superando quota 100.000), ai quali il Professore potrà ora indirizzare i propri messaggi, in vista delle elezioni.
Presentandosi come “Papà di Sofia, Luigi, Luce e Giovanni. Marito di Giovanna. Amante dell’Italia. Ministro della Repubblica” da lunedì è su Twitter anche Corrado Passera, il quale sembra aver esordito rilanciando – in modo, direi, meno goffo – l’iniziativa di Monti, quasi trainato dalla sua scia. Ha ringraziato e interagito direttamente con i followers, sfruttando, in particolare, la risposta data a uno di loro (@LucaTaschin) per lanciare un messaggio – quasi una strizzatina d’occhio – a Oscar Giannino (@OGiannino), il quale ha, a sua volta, rivolto un sguardo virtuale complice al Ministro. Mi pare questa possa, almeno in parte, definirsi comunicazione politica 2.0, capace di fare notizia guardando in termini collaborativi e partecipativi ai cittadini.
Si pensi poi alla figura di Andrea Sarubbi, primo deputato (ora “scaduto” come si autodefinisce, in seguito alla scelta del Pd di non inserirlo nelle liste dei candidati al Parlamento per la prossima legislatura) a raccontare le sedute della Camera in diretta su Twitter, all’interno dell’hashtag #opencamera e occupato spesso a rispondere ai propri follower.
Si tratta – è vero – di una tendenza tutt’altro che consolidata: certo non mancano le presenze apparentemente attive di politici italiani su Twitter (Bersani, Alfano, Casini, Renzi, che ha fatto del Web quasi un mantra della propria campagna per le primarie), ma il livello di interazione con i followers è sempre piuttosto ridotto, il mezzo viene utilizzato come cassa di risonanza per il proprio messaggio propagandistico. Una ribalta alternativa, dunque, a quella televisiva o cartacea. Anche Grillo, che del Web ha fatto il proprio principale campo d’azione, si limita spesso a offrire su Twitter semplici rimandi al proprio blog, chiudendo, di conseguenza, la comunicazione, rifiutando lo scambio reale con sostenitori e oppositori.
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Le scelte giuste per il futuro!

La laurea è certamente l’investimento più importante per i giovani. Ecco quali settori richiedono la specializzazione

Parallelamente a previsioni negative per il nostro tessuto imprenditoriale, alcuni indizi rilevati da Unioncamere Ministero del Lavoro cercano di delineare una nuova strada allo sviluppo occupazionale. Dopo aver intravisto nel settore cultura la nuova strada per il rilancio, i due enti sembrano ora lanciare un nuovo appello ai giovani italiani, incoraggiandoli a collocarsi in una posizione strategica, nelle proprie scelte di formazione.
Studiare continua ad essere l’investimento più importante per i giovani per contrastare sia la disoccupazione, sia il precariato”, è, infatti, l’invito del presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello: “Pur in un momento difficile come quello che stiamo vivendo, tante imprese mostrano di voler continuare a puntare sulla qualità. Senza l’apporto di risorse umane competenti, infatti, è difficile innovare, accrescere la produttività, essere competitivi”.
Sottolinea Unioncamere come la crisi stia portando ad un incremento della competizione aziendale, inducendo molte imprese a investire sempre più nella qualità dei prodotti e servizi da immettere sul mercato. Aumenta, di conseguenza, per l’anno in corso, il peso che la laurea ha sul totale delle assunzione programmate dalle imprese. Ciò non toglie che anche i “dottori” italiani saranno costretti a subire la generale tendenza di riduzione nelle assunzioni previste, con 15.000 unità in meno rispetto allo scorso anno.
Delle 407.000 assunzioni a carattere non stagionale complessivamente programmate dalle imprese per il 2012 (contro le 595.000 del 2011), 59.000 riguardano, allora, laureati (il 14,5% del totale, pari a 2 punti percentuali in più rispetto al 2011), 166.000 diplomati (il 40,9%, percentuale prossima a quella dello scorso anno, 41%), 50.000 qualifiche professionali (il 12,3%, in diminuzione di 1,2 punti sul 2011) e circa 132.000 persone prive di un titolo di studio specifico (il 32,3%, pari a -0,7% sul 2011).
Per quanto riguarda i laureati, il titolo di studio più ricercato dalle imprese, nella propria programmazione di assunzioni, è quello in Economia (più di 17.000 posti di lavoro previsti per i laureati in questa disciplina), seguito da quello in Ingegneria elettronica e dell’informazione (più di 7.000 posti richiesti, anche se, considerando tutti i diversi indirizzi di ingegneria, si superano addirittura i 15.000 posti), dagli indirizzi sanitari-paramedici e da quelli diretti all’insegnamento e alla formazione (circa 5.000 assunzioni previste in entrambi i casi). Con riferimento alla tipologia contrattuale, al 51,7% dei laureati le imprese intendono offrire un contratto a tempo indeterminato, al 7,7% l’apprendistato di alta formazione recentemente riformato, al 2,9% il contratto di inserimento e al 36,7% un contratto a tempo determinato.
Tra gli indirizzi più ricercati nelle previsioni di assunzioni di diplomati, troviamo quello amministrativo-commerciale (quasi 40.000 posti), quello meccanico (più di 15.000) e quello turistico-alberghiero (oltre 9.000), confermando il podio dello scorso anno. Sale l’indirizzo socio-sanitario (quasi 7.000 assunzioni previste, 1.000 in più del 2011), che “scalza” quello informatico (4.600 assunzioni previste) e quello elettrotecnico (oltre 4.000). Il 39,7% dei diplomati sarà assunto con contratto a tempo indeterminato, il 12,3% con apprendistato, l’1,8% con inserimento e il 43,8% con tempo determinato.
Gli indirizzi di qualifica professionale, infine, più richiesti dalle imprese sono quello turistico-alberghiero (più di 10.000 posti), quello socio-sanitario (circa 8.500 posti), quello meccanico (circa 7.600) e quello edile (circa 5.500 assunzioni previste). Al 40,4% dei giovani in possesso di qualifica professionale verrà offerto un contratto a tempo indeterminato, al 12% contratto di apprendistato, allo 0,6% contratto di inserimento e al 43,8% contratto a tempo determinato.
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Cultura, la nuova via per lo sviluppo occupazionale

Analizzando i dati Istat e Unioncamere, è possibile individuare le più recenti tendenze relative all’andamento occupazionale italiano. Diminuiscono le previsioni di assunzione per gli stranieri, mentre crescono quelle provenienti dalle imprese della cultura

In questi mesi l’economia italiana è stata caratterizzata dal perdurare di alcune criticità e debolezze, che si sono inevitabilmente riversate sulle dinamiche del mercato del lavoro. È scattato l’allarme occupazionale tra i giovani, soprattutto tra quelli residenti nel Mezzogiorno, sono diminuite le previsioni di assunzione per i lavoratori stranieri, si è lamentato un forte immobilismo nelle scelte occupazionali delle imprese, frutto in primis dell’incertezza e della sfiducia per gli esiti delle decisioni del governo in materia di politica economica e sociale.
Eppure alcuni indizi permettono di delineare una nuova strada per lo sviluppo nazionale. Collocarsi strategicamente in questa nuova strada nel corso delle proprie scelte di formazione e di professione potrebbe rappresentare una sorta di salvezza, nella speranza che intervengano presto anche interventi consapevoli dall’alto.
Cerchiamo però di andare con ordine e di analizzare nel dettaglio, dati alla mano, tutte le più recenti tendenze individuate nell’andamento occupazionale italiano.
Occupati e tasso di occupazione
Gli ultimi dati certi resi disponibili dall’Istat riguardano il secondo trimestre 2012, quando il numero degli occupati in Italia ha registrato, rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno, una diminuzione dello 0,2%, pari a -48.000 unità (passando da circa 23.094.000 a 23.046.000 occupati). Il dato è dovuto principalmente a un calo dell’occupazione maschile (-1,5%, cioè -199.000 unità), diffuso in tutto il territorio nazionale e compensato solo in parte dal protrarsi, soprattutto al Nord e nel Mezzogiorno, di un andamento positivo per l’occupazione femminile (+1,6%, pari a 151.000 unità).
Per la fascia compresa tra i 15 e i 64 anni, il tasso di occupazione (dato dal rapporto tra gli occupati e la popolazione di riferimento) si attesta, allora, nel secondo trimestre 2012, al 57,1%, calando di 0,1 punti percentuali rispetto al secondo trimestre 2011, con intensità leggermente più ampia nel Mezzogiorno (-0,2 punti percentuali, dove il tasso si posiziona al 44,2%) e con riferimento agli uomini (-1,1%, pari a un tasso del 66,8%); sale parallelamente al 47,5% il tasso di occupazione femminile (+0,8%).
Diminuisce l’occupazione giovanile, con un tasso che scende dal 45% del secondo trimestre 2011 al 43,9% del secondo trimestre 2012, per i 15-34enni, e dal 19% al 18,9% per i 15-24enni. Al calo dell’occupazione per i più giovani e per i 35-49enni, si contrappone l’aumento per gli over 50, soprattutto per quelli a tempo indeterminato.
Confrontando il secondo trimestre 2012 con quello 2011, il tasso di occupazione degli stranieri segnala una significativa riduzione (dal 63,5% al 61,5%), a fronte di un intenso calo per gli uomini (dal 77,5% al 72,7%) e di un contenuto accrescimento per le donne (dal 50,9% al 51,5%).
Tuttavia, considerando le stime su base annuale, se da una parte prosegue la significativa riduzione dell’occupazione italiana, con -133.000 unità (anche in questo caso pesa in primis la componente maschile, con -196.000 unità), dall’altra cresce quella straniera (+85.000 unità).
Alla modesta crescita delle posizioni lavorative dipendenti si contrappone il persistente calo di quelle autonome. Con riferimento ai diversi settori, si nota come l’agricoltura abbia registrato una crescita del numero di occupati nelle posizioni lavorative dipendenti e autonome del Nord e nelle sole posizioni alle dipendenze del Mezzogiorno. L’industria ha conosciuto una nuova e più robusta riduzione (-2,2% nel secondo trimestre 2012, rispetto allo stesso periodo del 2011, pari a -104.000 unità) su tutto il territorio e coinvolgendo sia dipendenti che indipendenti, soprattutto nelle imprese di medio- grande dimensione; anche nelle costruzioni l’occupazione continua a diminuire (-5,1%, pari a -98.000 unità), soprattutto per i dipendenti residenti nel Centro e, ancor più, nel Mezzogiorno. Il terziario riporta, infine, un moderato aumento (+0,6%, pari a 101.000 unità), dovuto esclusivamente all’aumento dell’occupazione dipendente, in particolare della componente più adulta (55 anni e oltre) e di quella a tempo parziale.
Calano, nel secondo trimestre 2012, le figure lavorative a tempo pieno (-2,3%, pari a -439.000 unità rispetto al 2011), soprattutto tra i lavoratori autonomi (-3,8%, pari a -196.000 unità) e tra quelli dipendenti a tempo indeterminato (-1,9%, pari a -236.000 unità), a fronte della sostanziale stabilità tra quelli a tempo determinato.
Aumentano parallelamente gli occupati a tempo parziale (del 10,9% su base annua, segnando un +391.000 unità), anche se si tratta principalmente di part-time involontari, accettati, cioè, in mancanza di alternative full-time.
Continua poi a crescere il numero dei dipendenti a termine (+4,5% pari a 105.000 unità), ma esclusivamente nelle posizioni a tempo parziale, coinvolgendo per circa i due terzi lavoratori di età inferiore a 35 anni e soprattutto nell’agricoltura, negli alberghi e ristorazione, nella sanità.
Disoccupati e tasso di disoccupazione
Cresce in modo considerevole, nel secondo trimestre 2012, il numero di disoccupati in cerca di occupazione (+38,9% rispetto allo stesso periodo del 2011, pari a +758.000 unità), fenomeno che coinvolge sia uomini sia donne e l’intero territorio nazionale, con un picco, in termini assoluti, a Sud, dove sono stati individuati 339.000 disoccupati in più, contro i 288.000 in più al Nord e i 132.000 in più al Centro (in termini percentuali è invece il Nord ad aver visto l’aumento più alto della disoccupazione, pari a +43,8%, seguito rispettivamente da Centro e Sud). I disoccupati in Italia si attestano, così, a 2.705.000 (1.475.000 sono uomini e 1.231.000 sono donne).
Circa la metà di tale aumento della disoccupazione è da ricondursi a persone con almeno 35 anni, mentre sono 586.000 i disoccupati tra i 15 e i 24 anni (152.000 in più rispetto al secondo trimestre 2011), pari al 9,7% della popolazione totale appartenente a questa fascia di età
Si amplia anche la disoccupazione straniera, con +58.000 uomini e +34.000 donne alla ricerca di lavoro, su base annua.
L’incremento dei disoccupati riguarda soprattutto persone che hanno perso la precedente occupazione (+48,1% nel secondo trimestre 2012 in confronto all’anno prima, pari a 448.000 unità), le quali arrivano a rappresentare il 51% del totale dei disoccupati. Sembra, tuttavia, innalzarsi pure il numero degli inattivi che, in possesso di passate esperienze lavorative, sono ora nuovamente alla ricerca di una professione (+32,6%, pari a 150.000 unità) e il numero delle persone alla caccia del primo impiego (+28,8%, pari a 159.000 unità).
Aumenta anche la disoccupazione di lunga durata (dodici o più mesi), che sale dal 52,9% del secondo trimestre 2011 all’attuale 53,1%.
Il tasso di disoccupazione (dato dal rapporto tra le persone in cerca di un lavoro e la corrispondente popolazione di riferimento, esclusi gli inattivi) risulta allora in crescita di 2,7 punti percentuali rispetto allo scorso anno, assestandosi al 10,5% (dal 6,9% del 2011 all’attuale 9,8% per gli uomini e dal 9% all’11,4% per le donne).
Al Nord la crescita percentuale del tasso di disoccupazione (dal 5,2% al 7,3%) è dovuta principalmente alla componente maschile, al Centro (dal 6,6% all’8,9%) le differenze di genere non appaiono rilevanti, infine nel Mezzogiorno l’incremento coinvolge soprattutto gli uomini (dall’11,6% al 16%), ma in misura significativa anche le donne (dal 15,6% al 18,9%).
Cresce il tasso di disoccupazione per gli stranieri (del 10,9 del 2011 al 13,6% del 2012), sia uomini (dall’8,5% al 12,1%) che donne (dal 14,1% al 15,4%).
Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni sale dal 27,4% del secondo trimestre 2011 al 33,9% del 2012, con un picco del 48% per le giovani donne del Mezzogiorno.
Inattivi e tasso di inattività
Rispetto al 2011, si riduce del 4,9% il numero degli inattivi (cioè i non occupati che non sono alla ricerca di un lavoro) tra i 15 e 64 anni, pari a -729.000 unità, frutto di un forte decremento della componente italiana (-809.000 persone, la maggior parte delle quali, 501.000, donne), solo in parte compensato dall’incremento di quella straniera (+80.000 unità). In base agli ultimi dati certi disponibili, si attestano a quota 14.288.000 gli inattivi in Italia.
La riduzione dell’inattività riguarda in misura maggiore le donne e, in termini assoluti, coinvolge principalmente il Mezzogiorno (– 334.000 unità pari a -4,9%) e il Nord (- 268.000 unità, cioè -4,8%), meno il Centro (-127.000 unità, comunque pari a -4,9%).
Diminuiscono soprattutto quanti non cercano e non sono disponibili a lavorare e, in quattro casi ogni dieci, si riducono gli inattivi della fascia tra i 55 e i 64 anni, rimasti presumibilmente nell’occupazione a causa dei vincoli sempre maggiori per l’accesso alla pensione.
Con riferimento alle motivazioni date per la mancata ricerca del lavoro, si rileva una crescita dello scoraggiamento (+15,3%, pari a 221.000 unità) e dei motivi non compresi tra quelli indicati (+6,5%, pari a 102.000 unità) e, per contro, una flessione dei motivi di studio (-2,6%), di quelli familiari (-8%, pari a -197.000 unità), di coloro che attendono l’esito di passate ricerche (-11,2%) e soprattutto delle persone non interessate a trovare un lavoro (-14,6%, pari a -675.000 unità).
Il tasso di inattività si attesta, allora, nel secondo trimestre 2012, tra i 15-64enni, al 36,1%, riducendosi di 1,8 punti percentuali sul 2011. Il calo coinvolge in misura maggiore le donne (dal 48,6% al 46,3%) rispetto agli uomini (dal 27% al 25,8%) e il Mezzogiorno (dal 48,8% al 46,6%). Il trend in discesa riguarda poi anche le donne straniere (dal 40,7% al 39,1%), mentre gli uomini stranieri conoscono un aumento del tasso di inattività (dal 15,3% al 17,2%).
Dati Unioncamere-Ministero del Lavoro: previsioni occupazionali
Se i dati pubblicati nei giorni scorsi dall’Istituto nazionale di statistica lasciano intravedere ben pochi spiragli di ripresa per l’occupazione nazionale, le stime riferite ai prossimi mesi e diffuse recentemente da Unioncamere e Ministero del Lavoro non fanno che confermare il difficile scenario, soprattutto per le più deboli economie meridionali.
Il clima di preoccupazione e instabilità che attualmente contraddistingue l’economia italiana – sostengono i promotori dell’indagine – spinge le imprese a improntare alla massima cautela i propri programmi di assunzione. In termini assoluti, sono, infatti, poco più di 631.000 le assunzioni di dipendenti che le imprese prevedono di effettuare nel 2012, cioè il 25% in meno rispetto al 2011. Allo stesso tempo si evidenzia una riduzione delle uscite attese (-18%), ferme a quota 762.000, denotando un contesto di crescente staticità occupazionale per le imprese, frutto probabilmente dell’incertezza per l’esito della riforma del mercato del lavoro. Il tasso di entrata (5,5%) risulta comunque inferiore rispetto a quello di uscita (6,7%), per questo il saldo occupati previsto per il 2012 risulta negativo per 130.510 unità. Si tratta – è bene sottolinearlo – di una contrazione occupazionale per i dipendenti relativamente più ridotta rispetto a quella registrata nel 2009-2010, quando si determinarono saldi negativi rispettivamente di 213.000 e 178.000 posti di lavoro. L’allarme occupazionale – ci dice ancora Unioncamere – sembra essere più forte al Sud, dato che sulle 70 province nelle quali il calo dell’occupazione dipendente andrà al di sotto della media nazionale (-1,1%), 35 sono del Meridione, partendo da Enna, Ragusa e Siracusa (che superano o si aggirano intorno al -3%) e finendo con Avellino (-1,3%). Unica eccezione sembra essere Napoli (-0,8%).
Prospettive d’assunzione per gli stranieri
Stime in negativo sono state poi registrate, sempre da Unioncamere e Ministero del Lavoro, anche con riferimento alle prospettive occupazionali degli immigrati nell’industria e nei servizi: nel 2012 le imprese prevedono infatti di assumere 22.420 stranieri in meno rispetto al 2011 (saldo tra i 60.570 posti messi a disposizione quest’anno e gli 82.990 dell’anno scorso, pari al -27%) e il calo si concentrerà maggiormente nelle imprese con meno di 50 dipendenti presenti al Nord. Ciononostante i dati confermano quanto quella immigrata sia ormai una componente fondamentale e strutturale della forza lavoro nazionale: nel 2012 dovrebbe, infatti, aumentare la quota dei lavoratori immigrati sul totale delle assunzioni (passando dal 16,3% dello scorso anno al 17,9% di quest’anno), poiché la domanda di lavoro rivolta al personale italiano dovrebbe calare in misura maggiore rispetto a quella rivolta al personale straniero.
Imprese della cultura dimostrano una tenuta occupazionale
Eppure, affianco a valutazioni e previsioni così poco incoraggianti, Unioncamere e Ministero del Lavoro intravedono anche qualche segnale di ripresa dal punto di vista occupazionale, identificando la strada della cultura come fondamentale per il rilancio. Le imprese che competono grazie alla qualità e alla cultura sembrano, infatti, dimostrare una particolare tenuta occupazionale: il numero di occupati del settore è cresciuto, dal 2007 al 2011, a un ritmo medio annuo dello 0,8% (circa 55.000 posti di lavoro in più complessivamente), a fronte di una flessione media annuale dello 0,4%; anche quest’anno, pur arretrando sotto i colpi della crisi, l’occupazione in queste imprese delinea una resistenza maggiore (-0,7%, pari a -4.900 dipendenti sul 2011) rispetto all’insieme delle altre imprese (-1,2%, pari a -125.600 unità). Le assunzioni stimate dalle imprese della cultura per il 2012 sono, in termini assoluti, 32.250 (di cui 22.880 non stagionali e 9.370 stagionali), pari al 5,6% del totale.
L’occupazione creata dalle imprese della cultura risulta orientata principalmente verso le professioni high-skill (costituiscono il 48,2% del totale assunzioni non stagionali previste, contro il 20% delle altre imprese). Forte attenzione viene posta, di conseguenza, al titolo di studio, ritenuto molto o abbastanza importante da parte di quasi due terzi delle imprese della cultura, a fronte di meno della metà nel caso delle altre aziende: la laurea è richiesta per il 28% delle assunzioni in programma (contro il 13,7% riferito alle altre imprese).
Gli indirizzi di studio più richiesti dalle imprese del sistema produttivo culturale sono quelli dall’elevato contenuto scientifico, tecnologico, e tecnico. Tra i primi cinque indirizzi di laurea richiesti, ad esempio, tre sono legati all’ingegneria (Ingegneria elettronica e dell’informazione è il più richiesto, pari al 36,7% del totale assunzioni di laureati previste), poi vi sono quello scientifico-matematico (6,5%) e quello economico (21,8%).
Le professioni culturali più ricercate sono gli “analisti e progettisti di software” (22%), seguiti dagli “operatori di apparati per la ripresa e la produzione audio-video” (8,8%) e dai “cuochi in alberghi e ristoranti” (6,6%). Elevata attenzione anche a figure in grado di studiare il mercato: previste oltre mille assunzioni non stagionali tra “tecnici della vendita e della distribuzione”, “tecnici del marketing” e “specialisti nei rapporti con il mercato”.
Ancor più importante viene considerata poi l’esperienza: la ritiene importante ai fini dell’assunzione il 63,6% delle imprese della cultura, contro 53,4% della media delle imprese.
Cercando personale altamente qualificato, competente e con esperienza, le imprese della cultura lamentano maggiori difficoltà nel reperire le figure di cui necessitano rispetto alle altre imprese, difficoltà legate principalmente alla carenze di preparazione nei candidati (o alla carenza dei candidati stessi, con riferimento ai profili low-skill richiesti, segno del declino di alcune professioni tra i più giovani).
Infine le imprese della cultura sembrano offrire una maggiore stabilità contrattuale rispetto alle altre imprese (le assunzioni a tempo indeterminato sono circa il 43%, contro il 41%).
Di fronte a simili considerazioni, ci si stupisce di come in Italia manchi “un quadro organico di politiche economiche basate sul potenziale produttivo del settore culturale”, come ha evidenziato Ferruccio Dardanello, presidente Unioncamere, in occasione della presentazione dei risultati. “È ancora diffusa l’idea” – ha proseguito – “che con la cultura non si mangi, ma i successi del Made in Italy, di cui tanta parte discende proprio dalla nostra cultura del fare e del vivere, vengono da questo patrimonio inesauribile”.
Utile sarebbe concentrare proprio sulle molte opportunità che si delineano nell’industria culturale gli sforzi di rinnovamento delle politiche sociali ed economiche del Belpaese. Le imprese italiane sembrano pronte a tendere le braccia a un nuovo paradigma di crescita, fondato sulla qualità, sulla creatività, sul giusto connubio tra innovazione e valorizzazione dei saperi locali. L’importanza strategica della cultura è stata spesso sottovalutata e sacrificata sull’altare dell’urgenza di sanare il debito pubblico. Delineare modelli di sviluppo capaci di comprendere pienamente la tendenza in corso sembra essere allora, in conclusione, la vera grande sfida da rivolgere al sistema politico italiano.
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