CASA DOLCE CASA? NON SENZA COLORE

Come dipingere le pareti e come scegliere il colore del pavimento? Ecco cosa c’è da sapere per influenzare in positivo la propria vita.

colori per arredamentoIl più delle volte si tende a sottovalutarne la valenza potenzialmente benefica o dannosa, a non averne reale consapevolezza. Eppure il colore che continuamente ci circonda influenza non poco il nostro umore e il nostro stato d’animo.

• Quando scegliamo di indossare un abito di una certa tonalità non rispecchiamo solo una particolare cerchia sociale di appartenenza, non siamo spinti esclusivamente dal desiderio di seguire determinate mode. Spesso lo facciamo soprattutto per esprimere un nostro personale sentire, per esternalizzare una momentanea inclinazione.

• Se usato nel modo adatto, il colore aiuta a star bene e a ristabilire un equilibrio emozionale, influenza l’atteggiamento e le sensazioni. Non a caso il nostro linguaggio lo utilizza spesso in senso metaforico per esprimere delle risposte emotive: diciamo di avere una fifa blu, di essere verdi d’invidia, rossi di vergogna, neri di rabbia o, ancora, gialli di gelosia.

• Partendo da questa constatazione, è facile comprendere l’importanza, per il proprio benessere, delle scelte cromatiche relative alla propria casa dolce casa, scelte che devono rispondere a esigenze non solo decorative ma anche e soprattutto psicologiche.

COLORE: PERCHÉ È IMPORTANTE NELL’ARREDAMENTO?

Come sottolinea Nadia Palermo – Progettista del colore a Crotone e membro dell’Associazione Italiana dei Consulenti del Colore (IACC) – «l’essere umano nasce in mezzo ai colori ed è, quindi, innaturale privarsene», a maggior ragione nello spazio domestico, dove si trascorre buona parte delle proprie giornate.

• Dipingere la propria casa è un’operazione molto delicata che conduce a «due risultati fondamentali: da una parte serve ad arredare e a dichiarare la personalità dei proprietari, dall’altra a farci stare in armonia con l’ambiente che ci circonda».

• Una progettazione studiata in modo preciso attraverso i colori, permette ai residenti di «cambiare stato d’animo, amare di più la propria casa e sentire più intimo il proprio habitat».

COLORI CALDI O FREDDI?

• Solitamente «i colori caldi aumentando l’attività cardiaca e sono, dunque, eccitanti, mentre i colori freddi rallentando le pulsazioni e sono, quindi, tendenzialmente rasserenanti e tranquillizzanti», evidenzia Nadia Palermo.

• Soggiornare in una stanze dai toni rossi, arancioni o gialli stimola l’allegria, l’energia e le facoltà mentali, favorendo la concentrazione e la socievolezza. Questi toni sono perfetti per il soggiorno, la cucina e l’ambiente studio, considerando, tuttavia, che le varianti troppo accese, usate in superfici estese, possono finire con l’innervosire lo sguardo e la mente (meglio limitarle, dunque, ai particolari di arredamento o agli spazi di transito). L’arancione, in particolare, oltre ad avere effetti antidepressivi, sembra stimolare l’appetito e risulta, quindi, ideale per la sala da pranzo.

• Un ambiente dalle sfumature verdi, celesti o violetta comunica, invece, calma e distensione e risulta quindi ideale per la camera da letto, poiché concilia il sonno e richiama ad una dimensione più spirituale e intima.

COLORI NELL’ARREDAMENTO: ALCUNE ACCORTEZZE

• «Quando si progetta con i colori», avverte l’esperta, «bisogna sempre stare attenti a inserirli nel giusto contesto e a non applicarli secondo principi troppo generali: quando, ad esempio, si dice che il giallo è un colore allegro, bisogna sapere che se lo stesso ha dei toni troppo acidi può risultare fortemente irritante».

• Attenzione a non abusare del bianco, poiché riproduce un ambiente che si allontana molto da quello naturale. Cautela anche per i neri e i grigi, che «spesso rappresentano il lugubre, il passivo e possono perciò avere un effetto deprimente, ma, se utilizzati con sapienza, conferiscono eleganza all’arredamento».

• Per i pavimenti, meglio non scegliere colori troppo chiari, in modo da mantenere una certa coerenza con le superfici presenti in natura, che sfruttano i toni del marrone, del verde, del rossiccio o del giallo.

• Nella progettazione tramite colori «bisogna essere cauti ed esperti in quanto è importante sapere dove applicare i colori, con quali tagli di visuale, valutare il punto di riflessione, l’interazione con la luce naturale e artificiale» evidenzia Nadia Palermo.

I COLORI E LE DIMENSIONI

• Giocare con luce e colori consente di condizionare la visione prospettica della stanza, la percezione della sua forma e della sua estensione. Nel caso di ambienti piccoli, è consigliabile dipingere le pareti e i soffitti con il bianco oppure con tonalità chiare o pastello, che riflettono la luce e danno un senso di maggiore ampiezza. Si può pensare anche di utilizzare degli specchi per dilatare la percezione spaziale e moltiplicare la luminosità. Al contrario, dei toni scuri assorbono la luce e danno l’effetto ottico di uno spazio molto più piccolo.

• È possibile anche “barare” sull’altezza: delle pareti tinteggiate con toni più scuri rispetto a quelli del soffitto faranno apparire la stanza molto più slanciata. Per sottolineare questo effetto, può essere utile rivolgere l’illuminazione proprio verso l’alto. Allo stesso modo, usare della carta da parati o delle tende con delle righe o con altri motivi in direzione verticale permette di incrementare l’altezza percepita.

• Un soffitto e un pavimento scuri abbinati a pareti chiare rendono, per contro, la stanza meno estesa in verticale e più larga e rappresentano, quindi, una soluzione indicata soprattutto per quegli ambienti con soffitti molto alti.

• Per far apparire la stanza non solo più slanciata ma anche molto più profonda, è possibile dipingere il soffitto e la parete di fondo con colori molto chiari e dare alle altre pareti delle tinte scure.

L’IMPORTANZA DELLA LUCE

A influire sulla scelta e l’esperienza cromatica è ovviamente anche il tipo di illuminazione che avvolge la stanza: colori chiari illuminati dalla luce naturale di ampie finestre potrebbero apparire quasi abbaglianti, mentre colori scuri in ambienti poco soleggiati potrebbero risultare tetri.

• Per evitare dei contrasti troppo netti, la parete su cui è collocata la finestra dovrebbe avere una tonalità abbastanza chiara, così come la parete posta di fronte alla fonte di luce, in modo da rendere più luminoso tutto l’ambiente.

• È importante, inoltre, considerare il tipo di luce artificiale da usare nella stanza: le lampadine fluorescenti ad alta efficienza emettono una luce fredda, tendente al verdognolo, anche se si trovano in commercio lampade a fluorescenza con luce calda. Le lampade alogene (e le ormai obsolete a incandescenza) tendono ad avere unaluce calda, mentre quelle a led emettono una luce bianca e molto brillante.

COLORE: L’INFLUENZA DEL SOLE

• Anche la posizione della stanza rispetto al percorso di irraggiamento del sole può influire sulla resa cromatica complessiva: una stanza dipinta di rosa, ad esempio, tenderà all’arancio, nel caso in cui sia esposta a ovest, mentre punterà al violetta, se è orientata a nord.

• Nei vani esposti al nord prevarrà, infatti, una luce più fredda, con una dominante grigio-azzurra, perciò, per compensare e ottimizzare la luminosità, saranno più appropriati colori chiari e caldi, come gialli e rosa. Nei vani orientati a sud, vi sarà una luce forte per periodi più lunghi, capace di rendere icolori particolarmente brillanti e luminosi, per un particolare effetto “energizzante”; malgrado si possano usare tonalità sia fredde che calde, sono comunque preferibili quelle non troppo intense per non stancare l’occhio.

• Quando l’esposizione è a est, la stanza riceverà molte luce e tendenzialmente calda durante il mattino, mentre ve ne sarà poca e più fredda nel pomeriggio; si possono usare sia tinte calde che fredde, ma vanno preferite quelle chiare pastello. Infine, quando l’esposizione è a ovest, i raggi del sole sembreranno più caldi e vicini al rosso, suggerendo l’uso di colori con dominanti fredde oppure tinte calde spente.

LA DIMENSIONE SOGGETTIVA DEL COLORE

Nella scelta di quali tinte utilizzare per arredare la propria casa, rientrano ovviamente anche dei fattori soggettivi: «L’effetto dei colori sul sistema percettivo e sullo stato d’animo è dato dall’esperienza e dai vissuti che il singolo individuo sperimenta nell’arco di tutta la sua vita», rileva la dottoressa Angela Chiericati, Psicologa e Psicoteraputa Costruttivista in formazione a Vicenza.

• Uno stesso colore potrebbe, pertanto, arrivare a suscitare opposte reazioni in due diversi soggetti, richiamando alla mente esperienze «del tutto uniche e influenzate dal contesto socio-culturale all’interno del quale l’individuo è calato e, soprattutto, dal momento biografico che egli sta vivendo».

• Per comprendere a fondo quali siano le combinazioni cromatiche più adatte ad una persona, bisogna «calarsi nella sua speciale e particolare vita per vedere, con i suoi personali occhiali, come costruisce e percepisce il mondo».

COME PERCEPIAMO IL COLORE?

• Questa soggettività dipende dal modo in cui percepiamo i colori: «L’area del cervello responsabile dell’origine e della gestione delle emozioni viene chiamata sistema limbico. Tale sistema è composto da varie formazioni tra cui l’amigdala, una zona a forma di una mandorla in cui confluiscono proprio le informazioni relative alle nostre emozioni», spiega la Psicologa. Essa – prosegue – «svolge una funzione determinante per le nostre reazioni agli oggetti, alle situazioni e ai colori, reazioni che sono finalizzate alla difesa personale».

Articolo realizzato per il settimanale Viversani & Belli del 17 gennaio 2014, con la consulenza di Nadia Palermo, Progettista del colore a Crotone e membro dell’Associazione italiana dei consulenti del colore (IACC) e della dottoressa Angela Chiericati, Psicologa e Psicoteraputa Costruttivista in formazione a Vicenza.

Pubblicità

…PROVIAMO CON UN SORRISO!

Lo sappiamo, è vero: c’è la crisi. Siamo costretti a fare continue rinunce, ad accumulare sconfitte, a fare il pieno di preoccupazioni e a sacrificare la nostra tranquillità sull’altare dell’incertezza. Eppure sembra che tutto questo non riesca ancora ad abbatterci completamente e a impedirci di affrontare le giornate con un bel trionfale sorriso.

Foto di Daniele Padovan, Photographer & Videomaker (www.danielepadovan.com)

Foto di Daniele Padovan, Photographer & Videomaker (www.danielepadovan.com)

• Sempre meno tranquilli, ma ancora sorridenti. In questo piccolo dettaglio risiede forse la forza più autentica e propositiva del Belpaese: ben il 63% degli italiani dichiara di sorridere tutti i giorni e la percentuale sale addirittura al 77% se si considera la sola fascia dei giovani. A rivelarlo è uno studio firmato Future Concept Lab, promosso dall’Osservatorio sull’Igiene Orale di AZ e Oral-B e condotto a settembre 2013 su 600 italiani di età compresa tra i 19 e i 64 anni.

ITALIANI: PERCHÉ SORRIDONO?

Quali sono i motivi di tanta felicità? Medaglia d’oro per i complimenti, che inducono a sorridere ben il 38,2% degli italiani. Labbra all’insù anche grazie alle tenerezze che si ricevono (36,7%), alle battute di spirito che si sentono (34,7%), ai gesti di cortesia (33,7%) e alle chiacchiere in confidenza (34%). L’immagine che ne esce è, dunque, quella di un popolo composto in buona parte da vanitosi, affettuosi e burloni.

• «Per vivere dobbiamo alimentarci non solo con il cibo, ma anche con tenerezze: riceverle e darle agli altri aiuta a costruire quei legami affettivi che ci fanno sentire umani. In fondo un abbraccio vissuto intensamente ha molto più valore, nella nostra memoria, che non dei beni materiali mostrati o condivisi con altri», spiega la dottoressa Antonella Brugnetta, psicologa e psicoterapeuta a Visco (Udine).

LA RICETTA DEL BUONUMORE

• Lo studio ha inteso anche individuare quali siano, secondo i rispondenti tricolori, gli aspetti che, nonostante la crisi, meritano primariamente un sorriso. Ne è emersa una sorta di “ricetta del buonumore”, che ricalca una scala di valori ideali ai quali gli italiani sembrano aggrapparsi in questo periodo. Tra gli ingredienti di questa ricetta, il più importante è risultato essere la salute (81%), subito dopo vengono una famiglia affettuosa (76,3%) e un lavoro soddisfacente (54,7%).

• Si tende, dunque, a «dare più valore a ciò che rappresenta un bisogno primario e a mettere in secondo piano ciò che risulta un bisogno secondario: prima sentiamo il bisogno di sopravvivere (salute), poi di poter contare su qualcuno (famiglia affettuosa) e, solo successivamente, di avere un lavoro soddisfacente», rileva la dottoressa Brugnetta.

BAMBOCCIONI SORRIDENTI

• L’indagine è giunta anche a delineare l’identikit di chi sorride di più: uomo, di classe socio-economica medio-alta, trentenne, laureato ma ancora a casa con i genitori. “Bamboccioni” sì, ma felici, insomma.

• «L’autonomia – e la possibilità di assaporarne i vantaggi – si raggiunge con sempre più fatica. Stare nell’ambiente familiare, oltre a generare sensazioni di protezione, ritarda la crescita e la maturazione dell’essere umano; impone un rallentamento nello sviluppo di molti aspetti che riguardano l’essere adulto, come ad esempio la responsabilità di se stessi nella quotidianità», sottolinea la psicologa. «È come rimanere nel proprio nido, al calduccio, ricevendo tutte le cure possibili. Una situazione di tutto (e apparente) benessere».

• Forse, dunque, la crisi non impedisce ai “bamboccioni” di sorridere così tanto semplicemente perché, costretti a vivere sotto l’ala protettiva dei genitori, essi non sono abbastanza consapevoli delle vere difficoltà imposte dalle urgenze quotidiane.

IL SORRISO È DIGITALE

Quella attuale non è però solo un’epoca segnata da bilanci in rosso e manovre “lacrime e sangue”: a dominare la scena sono anche le tecnologie e le molteplici manifestazioni del web 2.0. Ecco, allora, che una sbirciatina alla rete può contribuire ad alleggerire una giornata di impegni, lavoro o studio, infondendo il buon umore negli intervistati; questo risulta tanto più vero per i giovani di età compresa tra i 19 e i 29 anni, i fruitori per eccellenza di social network, blog, forum e delle varie piattaforme digitali, i quali, nel 19% dei casi, rivelano come tale prassi virtuali aiutino a indossare il sorriso.

PERCHÉ SORRIDERE FA BENE

Sorridere in tempi di crisi aiuta? Medici, psicologi e buon senso sembrano concordi nel sottolineare come affrontare situazioni complesse con uno spirito positivo non possa che essere funzionale al raggiungimento dei propri obiettivi.

• Oltre a migliorare l’umore e a tenere lontane ansia, paura e depressione, sorridere concilia il sonno e contribuisce a migliorare il benessere fisico del corpo. Rilassa i muscoli, migliora la circolazione del sangue, aumentandone l’ossigenazione e rappresenta, per questo, una vera e propria palestra per cuore e arterie, un potente alleato contro le malattie cardiache. Aiuta, inoltre, «a gestire la rabbia, a sentire meno il senso della fatica e a sopportare meglio il dolore fisico», spiega Antonella Brugnetta. Permette poi «l’aumento delle endorfine nel cervello, una sostanza prodotta dal nostro corpo con valore oppiaceo, capace di offrire un senso immediato di benessere».

• Sembra, inoltre, che il sorriso faccia dimagrire, soprattutto quando si trasforma in una risata fragorosa ed energica: secondo una ricerca pubblicata sull’International Journal of Obesity, ridere 15 minuti al giorno può permetter di perdere oltre due chili in un anno. Il potere del gesto sarebbe tale da produrre i suoi effetti positivi anche se stampato forzatamente sul viso (tenendo, ad esempio, una matita in bocca), stando a quanto dimostrato dal neurologo francese Guillaume Benjamin Amand Duchenne, intorno alla metà dell’Ottocento, e ribadito da vari successivi esperimenti.

• Ridere mantiene giovani, poiché rappresenta un importante esercizio per i muscoli facciali (rende la pelle del volto più tonica e luminosa), oltre che per l’addome e per il diaframma.

SORRIDERE FACILITA LE RELAZIONI

• La forza del sorriso non risiede solo nei limiti della dimensione individuale e intima di ciascuno di noi, essa si manifesta con particolare vigore e intensità anche all’esterno, nel nostro relazionarci con gli altri. Sorridere è un’importante risorsa per l’autostima, rende più sicuri di sé e rappresenta un atto contagioso, dunque capace di migliorare l’ambiente che ci circonda. Rappresenta un linguaggio universale, una sorta di calamita che attrae gli altri e che, dunque, facilita i rapporti.

• L’indagine rivela, infatti, come, la prima volta che si incontra una persona, si rimanga colpiti soprattutto dal suo sguardo (41%) e dal suo sorriso (34%). La potenza espressiva del volto non va certo sottovalutata nel dare vita alle proprie relazioni interpersonali.

• «Il sorridere comunica apertura e disponibilità allo stare insieme e a condividere quel momento. Quando sorridiamo comunichiamo all’altro che siamo d’accordo e quando riceviamo un sorriso non sarcastico ci sentiamo bene, le tensioni calano», evidenzia la dottoressa Brugnetta.

ANCHE MENTRE LAVORI, CONCEDITI UN SORRISO!

Per le aziende oltreoceano non è raro assumere degli “smile coach”, capaci di creare un clima di benessere favorevole all’agire imprenditoriale.

• Riducendo le inibizioni e aumentando l’autostima dei lavoratori, l’approccio del sorriso consente di sviluppare la leadership nei partecipanti e di migliorare le relazioni all’interno e all’esterno dell’azienda.

• Permette, inoltre, di tenere sotto controllo lo stress, inducendo uno stato di rilassamento immediato, obbligando la mente a scollegarsi dalle pressioni del mondo fisico, per concentrarsi sulla ricerca di un equilibrio psico-fisico.

• Incoraggia, infine, la creatività nella risoluzione dei problemi e influenza positivamente la produttività, fornendo la giusta energia e motivazione per affrontare al meglio le sfide quotidiane.

Foto di Daniele Padovan, Photographer & Videomaker (www.danielepadovan.com)

Foto di Daniele Padovan, Photographer & Videomaker (www.danielepadovan.com)

QUANDO IL SORRISO DIVENTA ISTITUZIONE…

Così tanti benefici non potevano lasciar indifferente il mondo accademico, il quale si è mobilitato, negli ultimi anni, attivando numerosi corsi di studio e scuole basate proprio sullo studio, la diffusione e l’applicazione dell’energia benefica suscitata dalla risata. Tra gli esempi più prestigiosi, vale la pena ricordare l’Università Harvard a Cambridge e l’Università della Sorbona a Parigi. Ovunque, anche in Italia, si moltiplicano poi corsi di yoga della risata (laughter yoga o hasyayoga) e i club che si riuniscono per praticare questa disciplina importata dall’India.

• «Dal 2010-11 la crisi economica globale ha cominciato a evidenziare anche la crisi di valori e molte persone hanno trovato nello yoga della risata il recupero dei valori di condivisione, empatia, solidarietà e poi la gioia della risata incondizionata», spiega Laura Toffolo, Presidente dell’Associazione nazionale yoga della risata.

• «Inoltre molti hanno cominciato a vederla come opportunità di lavoro, iniziando a vendere servizi ad hoc, o abbinandola ad attività in crisi, per rinvigorirle e dar loro un nuovo appeal: yoga della risata come volano per vendere meglio ciò che era diventato difficile proporre (consulenze, formazione, coach, counseling)». Attenzione però: «Se lo si fa solo per business o quasi proponendo una performance, non porta i cambiamenti dichiarati, non sarà cioè un’esperienza che cambia la vita», avverte Laura Toffolo.

…E TERAPIA

• «Alcune volte anche nella pratica psicoterapeutica, e come obiettivo terapeutico, si utilizza il sorriso per sdrammatizzare, ironizzare e, quindi, allentare degli aspetti caratteriali che la persona ha e che creano problemi nel cambiamento e nel benessere della persona», sottolinea la dottoressa Brugnetta.

• In alcuni ospedali si pratica la “geloterapia”, la terapia del sorriso che intende suscitare allegria nei pazienti: sperimentata per la prima volta in Austria, tale tecnica si è dimostrata capace di produrre delle significative diminuzioni nei valori di pressione arteriosa e risulta, dunque, molto utile nella riabilitazione dopo un ictus.

• L’importanza del sorriso è stata, infine, ufficializzata attraverso l’istituzione del “World Smile Day”, la Giornata mondiale del sorriso, celebrata ogni anno il primo venerdì di ottobre e nata nel 1999 da un’idea di Harvey Ball, l’ideatore dello “smile”, la famosa icona del sorriso. La prima domenica di maggio si festeggia, invece, la “Giornata Mondiale della Risata”, introdotta dal medico indiano Madan Kataria (il “papà” dello yoga della risata) a partire dal 1998.

Articolo realizzato per il settimanale Viversani & Belli del 10 gennaio 2014, con la consulenza della dottoressa Antonella Brugnetta, psicologa e psicoterapeuta a Visco (Udine) e della dottoressa Laura Toffolo, Presidente dell’Associazione nazionale Yoga della risata, Master Teacher e Ambassador Laughter Yoga International

Foto di Daniele Padovan, Photographer & Videomaker (www.danielepadovan.com / Pagina Facebook)

Stitichezza: quanta confusione!

Medici e pazienti non sempre parlano la stessa lingua e ciò appare tanto più evidente quando l’oggetto di discussione è la stitichezza. A questa sconfortante conclusione sono giunti i ricercatori dell’Aigo, l’Associazione italiana gastroenterologici ed endoscopisti ospedalieri, al termine di uno studio multicentrico, presentato a Berlino, nel corso della 21° United European Gastroenterology Week.

Medici e pazienti non sempre si capiscono. Soprattutto quando si parla di un problema che ha così tanti aspetti ed è vissuto in modo così soggettivo

Medici e pazienti non sempre si capiscono. Soprattutto quando si parla di un problema che ha così tanti aspetti ed è vissuto in modo così soggettivo

• Su 1914 soggetti coinvolti nell’indagine, sono ben 661 (pari al 34,5%) coloro che pensano di essere costipati. Tra questi, il 13% non presenta, tuttavia, i criteri che i medici considerano necessari per la diagnosi di stipsi; viceversa, tra i soggetti che sostengono di non avere alcun problema intestinale, il 19% sembra, in realtà, possedere le caratteristiche richieste per questa diagnosi.

STIPSI: PERCHÉ TUTTA QUESTA CONFUSIONE?

Da una parte si tende, dunque, a sovrastimare il fenomeno, dall’altra a trascurarlo: l’errata percezione sembra dipendere, innanzitutto, dall’estrema varietà delle manifestazioni legate all’irregolarità intestinale e, parallelamente, dalla soggettività con cui si tende ad auto-valutare tali manifestazioni.

• «Vi è probabilmente un equivoco di fondo», spiega il dottor Massimo Bellini, Responsabile dell’Ambulatorio per i disturbi funzionali dell’Unità operativa di Gastroenterologia universitaria di Pisa e coordinatore dell’indagine: «Molto spesso il medico considera la stipsi semplicemente come un disturbo della frequenza dell’evacuazione, mentre il paziente, in maniera forse più corretta, dà molto più peso al livello di soddisfazione e gratificazione» legato alla propria esperienza in bagno.

• «La stitichezza rappresenta un sintomo che è il paziente stesso a riferire: a differenza di altre problematiche, come il tumore del colon o l’ulcera gastrica, che è possibile fotografare con l’endoscopio o altri strumenti oggettivi, qui c’è un problema relativo a come il paziente auto-percepisce la normalità sulle sue abitudini defecatorie».

• Allo stesso modo, alcuni parametri direttamente osservabili e misurabili dal paziente non sempre sono sufficienti di per sé: non andare di corpo ogni giorno non significa necessariamente soffrire di stitichezza, proprio come andarci più volte al giorno non vuol dire per forza esserne immuni.

• Nello sfasamento della percezione rientrano poi ovviamente anche dei fattori di ordine psicologico: «Se un paziente costruisce un modello mentale secondo il quale dovrebbe andare di corpo tutti i giorni, verrà ovviamente condizionato da tale modello nella sua valutazione della problematica. Qui rientra anche una componente di ossessività e di iper-precisione». Dito puntato anche su ansia e stress che «molto spesso influenzano il comportamento intestinale e portano a non dedicare il tempo necessario alla defecazione».

CRITERI DI ROMA III

• La diagnosi di stipsi non può essere formulata solo sulla base del numero ridotto di evacuazioni, ma richiede una valutazione più ampia e rigorosa da parte del gastroenterologo. Per individuarne la forma più comune, quella cronica (non, dunque, una forma transitoria dovuta a cambiamenti nelle abitudini alimentari e nello stile di vita) e funzionale (non riconducibile, cioè, a cause organiche, farmacologiche o metaboliche), si può fare ricorso ai criteri di Roma III, frutto di una standardizzazione internazionale e utili non solo a fini scientifici ma anche gestionali e pratici.

• Stando a tali criteri si parla di stitichezza qualora ricorrano queste condizioni, negli ultimi tre mesi (ma con esordio da almeno sei mesi):

1- Sono presenti due o più dei seguenti disturbi, in almeno un quarto delle defecazioni:
– sforzo evacuativo;
– feci piccole, bozzolute e dure;
– sensazione di evacuazione incompleta o addirittura di ostruzione, blocco ano-rettale;
– necessità di manovre manuali per facilitare la defecazione (massaggiarsi la pancia, sollevare le natiche, usare il dito per disimpattare);
– meno di tre evacuazioni alla settimana.

2- Le feci liquide sono rare, se non nel caso in cui siano stati usati dei lassativi.

Pazienti – e anche medici – tendono spesso a confondere la stitichezza con l’intestino irritabile a impronta stitica che comporta, invece, in aggiunta, anche dolore o fastidio addominale ricorrente almeno tre giorni al mese e che è associato ad almeno due tra: miglioramento dopo la defecazione oppure insorgenza con un cambio di frequenza della defecazione oppure ancora insorgenza con un cambio di forma o apparenza delle feci.

UN PROBLEMA DI LINGUAGGIO

Il problema è, quindi, anche di linguaggio, da ricondurre alla difficoltà che i pazienti hanno a definire con esattezza i confini del disturbo.

• La stipsi rappresenta, infatti, un grande “ombrello” semantico sotto il quale possono nascondersi diverse problematiche: «Potrebbe essere il sintomo di un intestino irritabile oppure potrebbe trattarsi di una stipsi da rallentato transito (fortunatamente non così frequente), in cui il colon non si svuota mai poiché è presente un problema nell’innervazione o nell’azione della muscolatura del colon», spiega Massimo Bellini.

• Vi è poi, ancora, la defecazione dissinergica, che – prosegue il dottore – «colpisce soprattutto le donne e che si caratterizza per la mancanza di coordinazione e sinergia, durante l’evacuazione, tra la spinta data con i muscoli dell’addome e l’apertura dello sfintere (è come spingere il dentifricio fuori dal tubetto senza aver tolto il tappo)».

• Si pensi, infine, anche a tutte le forme di stipsi secondaria, «come quelle legate all’assunzione di farmaci, molto frequenti tra gli anziani».

MEDICI E PAZIENTI: UN RAPPORTO COMPLICATO

• Questa lontananza linguistica rischia di compromettere il rapporto stesso tra camici bianchi e pazienti. «Il medico non può rifiutarsi di curare un soggetto perché non rientra nei criteri di Roma III, è necessario capire i motivi dei disagi lamentati e dare comunque delle risposte», sottolinea il dottor Bellini.

• Indagini come quella presentata dall’AIGO potrebbero rivelarsi, allora, particolarmente utili per comprendere la centralità di questo momento d’incontro: «Per via della crisi, il personale è sempre di meno e con sempre più mansioni, tuttavia è importante che il gastroenterologo ascolti il paziente con molta attenzione: troppo spesso etichettiamo in maniera sbagliata il problema, per poi proseguire con lo stesso errore nel corso dell’intera cura».

• A questa accortezza devono poi fare seguito «delle campagne educazionali del paziente, capaci di offrire tutte le regole e i consigli, in fondo molto semplici, per delle buone abitudini. Se questi non dovessero bastare, si può far ricorso anche ai farmici, l’ideale è un approccio a step successivi».

STITICHEZZA: LE BUONI ABITUDINI

Per facilitare il buon funzionamento dell’intestino, vi sono molteplici norme comportamentali che è consigliabile seguire. Innanzitutto è bene non reprimere mai lo stimolo ad andare in bagno, stabilire, quando possibile, un’ora precisa per la defecazione e mangiare lentamente, masticando con cura gli alimenti. L’ideale sarebbe – suggerisce Massimo Bellini – «sincronizzare la defecazione al mattino, quando il passaggio dalla posizione sdraiata a quella eretta, unita ad una colazione abbondante, aiuta il colon a produrre delle onde peristaltiche che conducono il contenuto fecale verso il retto».

• Praticare un’attività fisica regolare contribuisce poi a mantenere un buon tono della muscolatura intestinale e favorisce la riduzione del tempo di transito intestinale.

• Bere un litro e mezzo o due litri di acqua al giorno può aiutare ad evitare la formazione di feci troppo dure. Superare questa quantità appare, tuttavia, inutile, poiché «il nostro colon e il nostro intestino sono pensati per riassorbire una quantità di liquidi superiore ai 10 litri al giorno», rivela il dottore.

• Potrebbe risultare utile anche aumentare l’assunzione di fibre vegetali (presenti, ad esempio, nella crusca, nel frumento, nelle carote, nei broccoli, nelle mele, nelle arance, nel succo di prugna), arrivando a circa 30 grammi al giorno. Attenzione però alle controindicazioni: l’eccesso di fibre può portare alla comparsa di fenomeni sgradevoli quali distensione addominale e flatulenza.

• Sconsigliati i formaggi elaborati, il cioccolato, la carne, il fegato, il riso e la farina raffinata.

L’IMPORTANZA DI UNA DIAGNOSI PRECISA

Solo una piccola parte (5%) dei pazienti che si ritengono stitici si rivolge al gastroenterologo, gli altri ripiegano su soluzioni fai te, affidandosi ai consigli degli amici, dell’erborista, del farmacista o della pubblicità.

• «Un passato studio sulla normalità auto-percepita dal paziente ha evidenziato come il 10-12% dei soggetti intervistati, che non avevano particolari problemi intestinali, assumesse un lassativo almeno una volta al mese, ritenendo che il semplice fatto di purgarsi, di tanto in tanto, potesse fare bene», rileva il dottor Bellini. «Questo rappresenta un vecchio retaggio della cultura popolare: attorno al problema della stipsi circolano decine di falsi miti e leggende metropolitane».

• I lassativi sono tra i farmaci maggiormente utilizzati come automedicazione, ma, se impiegati in modo scorretto, possono provocare un’inutile e pericolosa assuefazione soprattutto di tipo psicologico.

• La forte confusione semantica rilevata dietro la stessa parola “stipsi” suggerisce quanto sia fondamentale sviluppare una diagnosi precisa per trovare il trattamento idoneo e non rischiare di ignorare quelli che potrebbero essere i sintomi di problemi ben più seri.

Articolo realizzato per il settimanale Viversani & Belli del 3 gennaio 2014, con la consulenza del dottor Massimo Bellini, Responsabile dell’Ambulatorio per i disturbi funzionali dell’Unità operativa di Gastroenterologia universitaria di Pisa

I capelli rinascono in laboratorio!

Un approccio diverso al problema della calvizie che consente di creare follicoli piliferi partendo dalle cellule della persona

Adriano D'Amico. Lo stile rasato dona all'ingegnere biomedico uno sguardo più intenso e affascinante.

Adriano D’Amico. Abbandonate i timori: come dimostra questo primo piano, lo stile rasato e la “pelata” possono rendere lo sguardo più intenso e affascinante.

Risulta una vera e propria ossessione per molti uomini, preoccupati all’idea di invecchiare e di perdere fascino e virilità. Non di meno rappresenta uno spauracchio per tutte le donne desiderose di mantenere una chioma voluminosa e lucente.

• Le forme in cui la calvizie può colpire sono moltissime, si passa dal leggero diradamento al caso più grave di perdita totale dei capelli. Guardarsi allo specchio e accettarsi – affrontare, insomma, una vita “a fronte alta” – sembra essere la soluzione più efficace tra quelle concesse, fino a questo momento, dai confini dell’universo scientifico.

• Eppure, nelle ultime settimane, alcune sorprendenti scoperte oltreoceano hanno inevitabilmente riacceso le speranze. Arriva, infatti, da un gruppo di ricercatori del Columbia University Medical Center (CUMC) un nuovo approccio alla cura della calvizie che, se avallato da ulteriori studi e sperimentazioni, potrebbe consentire di risolvere, in via definitiva, uno dei problemi maggiormente sentiti da ambo i sessi.

LA NOVITÀ DEL NUOVO METODO

Il rivoluzionario metodo è stato presentato in uno studio pubblicata su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences, la rivista scientifica ufficiale dell’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti) e consente di superare i limiti dei sistemi attualmente utilizzati per il rinfoltimento della capigliatura.

• Le soluzioni anticalvizie proposte sinora dalla medicina e dalla cosmetica si basano, infatti, sul semplice trapianto di capelli da una zona a un’altra della testa (di solito dalla parte posteriore alla parte anteriore) oppure sul cercare di stimolare la crescita e ritardare, quindi, la caduta dei peli già esistenti. L’innovativo sistema potrebbe, invece, permettere di creare follicoli piliferi “ex novo” a partire dalle cellule del paziente.

CALVIZIE: UN PROBLEMA DIFFUSO

Le stime più recenti parlano di ben 18 milioni gli italiani che soffrono di diradamento e calvizie: tra questi, 12 milioni sono uomini (di cui 6 milioni nelle forme più radicali) e 6 milioni sono donne.

• Alla base della caduta vi possono essere semplici fattori genetici ereditari o di sesso (gli uomini tendono a perdere più capelli rispetto alle donne), ma spesso ad influire sono anche la stagionalità (in primavera e in autunno la perdita aumenta), l’inquinamento ambientale, le condizioni di salute, l’assunzione di particolari farmaci, gli scompensi di funzione della tiroide e lo sbilanciamento nei livelli ormonali.

• Pure delle scorrette abitudini alimentari (la carenza, in particolare, di vitamine e ferro), il ricorso a dei trattamenti cosmetici aggressivi e delle condizioni di eccessivo stress o di depressione possono alterare il naturale ciclo di ricambio dei capelli.

• La possibilità di perdere i capelli rappresenta uno dei peggiori incubi per gli italiani, i quali – in base ai risultati di una recente indagine di GfK Eurisko – indicano di temere il presentarsi di questa situazione nel 60% dei casi, al pari della caduta dei denti (66%), ma molto più della perdita del tono muscolare (43%) o dell’elasticità del viso (34%).

CALVIZIE: QUANDO OCCORRE PREOCCUPARSI?

• «Da sempre si afferma che la caduta dei capelli fisiologica (fase telogen), per essere ritenuta normale, non deve superare gli 80-100 capelli al giorno. In realtà questo dato può essere variabile, in relazione alla dotazione di capelli di partenza di ogni individuo», spiega la dottoressa Elena Guarneri, medico chirurgo ed estetico a Brescia, Milano e Cremona.

• Quando ci si deve, dunque, iniziare a preoccupare? Sicuramente in presenza di «una caduta sensibilmente più copiosa di quella abituale, soprattutto se accompagnata da altre manifestazioni cliniche come diradamento, stempiatura, miniaturizzazione dei capelli (assottigliamento e impoverimento dei fusti), prurito, desquamazioni o irritazioni del cuoio capelluto (follicoliti), comparsa di chiazze ovalari o tondeggianti completamente prive di capelli (alopecia areata)».

• Manifestazioni di questo tipo sono spesso sottovalutate dagli stessi medici, tuttavia – avverte ancora la dottoressa – «spesso costituiscono la spia di patologie di varia natura (endocrina, metabolica, carenziale, psichica, immunologica). Il primo passo, quindi, da parte del paziente, è la presa di coscienza del problema». A questo deve fare seguito una «visita tricologica accurata, con attenta ricostruzione della storia clinica del soggetto e valutazione del cuoio capelluto e dei fusti capilliferi. Esistono anche numerosi esami tricologici mirati, che ci aiutano a ricostruire la causa di caduta e diradamento, e che quindi orientano fortemente la diagnosi e la terapia».

LE TECNICHE ATTUALMENTE PIÙ EFFICACI

• «La scienza applicata alla medicina costituisce una grande alleata per trattare e sconfiggere questo problema, tanto diffuso», evidenzia Elena Guarneri. Tra le tecniche più efficaci, purché non in presenza di calvizie totali, spicca l’intradermoterapia distrettuale, «una procedura ambulatoriale e non dolorosa che consente al medico di sfruttare l’azione di un cocktail di principi attivi veicolati direttamente nella struttura dermica del cuoio capelluto».

• Si tratta di un trattamento relativamente semplice, che può avvenire con sedute settimanali o quindicinali, non richiede anestesia e consente la ripresa immediata delle abituali attività sociali e lavorative, senza effetti collaterali.

• La soluzione più innovativa e soddisfacente contro calvizie e diradamenti è comunque la PRP HT (Platelet Rich Plasma Hair Therapy), un sistema importato dalla Florida che «sfrutta i fattori di crescita presenti naturalmente nelle piastrine del sangue»: attraverso un prelievo, si utilizza il sangue stesso del paziente, opportunamente lavorato al fine ottenere un composto ricco di piastrine, elementi aventi la funzione di auto-riparare il corpo.

• Si tratta di una tecnica ambulatoriale che richiede circa 30-45 minuti, «è assolutamente priva di rischi e si può applicare a pazienti di entrambi i sessi, a qualsiasi età e sofferenti di tutte le forme di alopecia» non cicatriziale. «Consente di stimolare direttamente la rigenerazione delle cellule staminali della papilla dermica del bulbo capillifero (sede di nascita e crescita del capello) e quindi di porre un freno alla caduta e indurre la ricrescita nonché l’incremento di calibro del fusto del capello».

IL NUOVO METODO: COM’È NATO

La nuova tecnica sviluppata dal CUMC prevede, in sostanza, di sfruttare le cellule delle papille dermiche (delle strutture alla base dei follicoli piliferi, ricche di vasi sanguigni e terminazioni nervose), come fossero delle vere e proprie “fabbriche di capelli”.

• Si tratta, in realtà, di un’idea piuttosto vecchia, ma la difficoltà nel metterla in pratica era dovuta al fatto che questo tipo di cellule, una volta messe in coltura in laboratorio, perdono la propria specializzazione e diventano delle semplici cellule del derma.

• Il salto di qualità nella sperimentazione si è avuto con l’osservazione del mondo animale: a differenza di quanto avviene nell’uomo, nei roditori queste papille dermiche tendono, dopo un trapianto, ad aggregarsi spontaneamente in grumi tridimensionali e a mantenere la loro funzionalità, facendo ricrescere il bulbo pilifero.

• L’équipe composta da ricercatori dell’Università della Columbia (Stati Uniti) e dell’Università di Durham (Gran Bretagna) ha, quindi, dedotto che potessero essere proprio queste aggregazioni a stimolare la pelle a produrre nuovi follicoli e che, spingendo la papilla dermica umana ad aggregarsi allo stesso modo, si sarebbe potuti giungere ad una creazione spontanea di nuove formazioni pilifere, così come avviene nei roditori.

LA SPERIMENTAZIONE

Per verificare l’ipotesi, gli studiosi hanno raccolto le cellule delle papille dermiche di sette donatori, le hanno clonate e coltivate in vitro, in modo da formare delle strutture tridimensionali. Gli aggregati risultanti sono stati trapiantati tra il derma e l’epidermide di pelle umana innestata sul dorso di sette topi da laboratorio.

• Dopo cinque settimane di attesa, in cinque casi su sette i bulbi piliferi hanno dato origine alla crescita di capelli e la successiva analisi del Dna ne ha confermato la natura umana e la corrispondenza al codice genetico dei donatori.

• Affinché il metodo possa essere utilizzato direttamente sulla cute umana, saranno ovviamente necessarie ulteriori verifiche sulla qualità dei capelli e sull’interazione tra le nuove cellule e la pelle che le ospita, tuttavia i ricercatori sembrano guardare con ottimismo al più prossimo futuro.

MIRACOLO O MIRAGGIO?

A trarre particolare beneficio dall’introduzione del nuovo metodo sarebbero, innanzitutto, le donne, se si considera che, stando a quanto riportato dagli stessi promotori dello studio, circa il 90% di quante subiscono, oggi, la caduta dei capelli non può realizzare un trapianto, poiché non possiede una quantità sufficiente di follicoli ancora attivi.

• Allo stesso modo, i vantaggi sarebbero evidenti per qualunque altra circostanza in cui il trapianto non sia possibile, come nel caso di alopecia cicatriziale (il processo irreversibile di perdita definitiva del pelo, senza possibilità di ricrescita), di ustioni o ferite.

• Tuttavia, sottolinea la dottoressa Guarneri, «è da molti anni che si lavora sulla clonazione dei capelli da applicare ai pazienti tricologici, ma per ora siamo ancora fermi alla sperimentazione animale (ahimè, poveri animali innocenti) e quindi lontani da un’applicazione a breve termine della stessa sull’uomo».

Articolo realizzato per il settimanale Viversani & Belli del 20 dicembre 2013, con la consulenza della dottoressa Elena Guarneri, medico chirurgo specialista in chirurgia generale e medico estetico a Brescia, Milano e Cremona (www.elenaguarneri.it)

Nella foto: Adriano D’Amico, IL BELLO.

Pesce in gravidanza? Sì, senza timori

Una recente ricerca rassicura: è un cibo prezioso per il corretto sviluppo del feto e con alcuni accorgimenti si evita il rischio mercurio

Foto di Nadia Di Falco, wedding photographer (www.fotografamatrimoni.it)

Foto di Nadia Di Falco, wedding photographer (www.fotografamatrimoni.it)

Assieme al pancione, alla pelle luminosa, alle nausee mattutine e agli sbalzi d’umore, ogni gravidanza porta inevitabilmente con sé anche l’insorgere di una serie di dubbi circa cosa sia giusto fare o non fare per garantire il benessere del nascituro. Banditi fumo e alcool, sconsigliati tacchi alti e saune, resta aperta la discussione sulle corrette abitudini alimentari da seguire.

• Dall’Inghilterra arriva ora il via libera degli esperti al consumo di pesce: uno studio realizzato dall’Università di Bristol e pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Health Perspectives dimostra come tale alimento non solo non vada evitato, ma sia assolutamente raccomandabile, visti i molti benefici per la crescita del feto e per lo sviluppo dell’infante. Viene, dunque, ufficialmente contraddetta la credenza, ormai consolidatasi, secondo la quale il mercurio, presente in grande quantità nel pesce e nei frutti di mare, potrebbe trasferirsi al bambino, con ingenti danni per la sua salute.

LO STUDIO

• Esaminando i campioni di sangue appartenenti a 4.484 donne gravide e ben 103 tipi di cibi e bevande da queste consumati, l’indagine ha evidenziato come l’assunzione di pesce abbia effetti positivi sia sul quoziente intellettivo sia sulla capacità visiva del bambino, a causa della presenza di iodio e acidi grassi Omega-3.

• Il rischio mercurio sembra essere, allora, del tutto marginale rispetto ai benefici per il bambino, soprattutto se si considera che – in base a quanto emerso – pesce bianco, pesce azzurro, crostacei e molluschi contribuiscono, nel loro insieme, solo in minima parte (meno del 7%) ai livelli di questo metallo presenti nel sangue delle future mamme. Allo stesso tempo, il mercurio sarebbe contenuto anche in altri alimenti prima considerati insospettabili, quali birra, vino, alcol e tisane.

PESCE: PERCHÉ FA BENE?

«Il lattante ha un fabbisogno di lipidi elevato, in particolare di alcuni acidi grassi essenziali fondamentali nello sviluppo del sistema nervoso e della retina. Tra questi risalta il Dha (acido docosaesaenoico): è importante disporre di una fonte addizionale per assicurarne il corretto apporto, includendo, quindi, il pesce nella dieta della gestante», spiega la dottoressa Barbara Berton, biologa nutrizionista a Mestre e Martellago (Venezia).

• «Durante la gravidanza bisogna poi dedicare una speciale attenzione all’assunzione di iodio», presente in abbondanza nel pesce: un’eventuale carenza potrebbe «provocare gravi problemi al feto, soprattutto al sistema nervoso con conseguenti deficit intellettuali».

PESCE: QUALE SCEGLIERE?

Solitamente – approfondisce la dottoressa – «i pesci predatori più grandi (pesce spada, verdesca, tonno), vivendo anche più a lungo, hanno la tendenza ad accumulare maggiori quantità di mercurio nei propri tessuti, per questo è meglio tenerne sotto controllo il consumo, limitandolo a una volta a settimana». Da preferire, i pesci di taglia media e piccola: «Via libera (due o tre volte a settimana) a salmone, merluzzo, sardine e spigola».

• Da evitare, invece, i pesci conservati sott’olio o in salamoia, così come i molluschi e i crostacei. Per gli amanti del sushi, niente paura: il pesce crudo non presenta rischi particolari in gravidanza, sempre che sia di alta qualità, controllato e abbattuto, per evitare infezioni da Anisakis e da altri parassiti.

L’IMPORTANZA DELLA VARIETÀ

I ricercatori sottolineano ovviamente anche l’importanza fondamentale di una dieta equilibrata, mista e bilanciata, nel corso dei nove mesi (così come nel periodo precedente al concepimento e in quello successivo di allattamento), capace di assicurare al bambino tutti i nutrienti di cui ha bisogno per il suo sviluppo. «La dieta mediterranea assolve appieno tale ruolo», rassicura Barbara Berton. Tuttavia è bene tener presente che, oltre a quello di lipidi, aumenta anche il fabbisogno di vitamine (A, D, C, B6, B12), acido folico e sali minerali.

• «Esiste una relazione diretta tra qualità dell’alimentazione seguita dalla madre nel periodo pre-parto e la condizione fisica del neonato», avverte la dottoressa. «Gli errori nutrizionali in gravidanza (eccesso di peso, insufficienza ponderale, carenze di vitamine e minerali) si ripercuotono sulla salute della madre e del neonato durante questo periodo e nel prosieguo della vita di entrambi».

• In tavola non dovrebbero mai mancare la frutta, la verdura, i carboidrati presenti in pane, pasta, riso, orzo e patate, le proteine del pesce, della carne, dei legumi e delle uova, il latte e i suoi derivati (formaggi, yogurt). Anche le fibre «devono essere incluse per regolare la funzionalità intestinale e prevenire, quindi, gli episodi di stipsi: cereali integrali, frutta e verdura di stagione (ricche anche di minerali e vitamine)».

EDUCAZIONE NUTRIZIONALE

È importante seguire delle corrette abitudini alimentari non solo per soddisfare le necessità nutritive della madre, ma anche – riferisce Barbara Berton – per permettere «una corretta crescita del feto, preparare l’organismo materno al parto e promuovere il futuro allattamento naturale».

• È buona prassi scegliere di frazionare in cinque pasti la propria dieta giornaliera (tre principali e due spuntini leggeri), per mantenere costante la glicemia e per facilitare la digestione, consentendo al proprio organismo di assumere tutto il nutrimento necessario, senza appesantire eccessivamente lo stomaco, già provato dal nuovo assetto ormonale e dalla pressione esercitata dal bimbo.

• «La colazione deve essere sempre consumata e, per evitare fastidiosi gonfiori addominali, le future mamme devono cercare di mangiare senza fretta, stando sedute e masticando lentamente», consiglia la dottoressa.

• «È importante variare i metodi di cottura (al vapore, alla piastra, al forno)», bere abbondantemente (almeno due litri d’acqua, preferibilmente oligominerale) durante tutta la giornata e preferire gli alimenti freschi, che mantengono inalterato il contenuto di vitamine e minerali. «Il fabbisogno proteico aumenta e la metà delle proteine deve essere di alto valore biologico: pesce e carne magra, legumi (se cotti più digeribili), latticini pastorizzati».

LE COSE DA EVITARE

• Non sono poche le rinunce che il pancione impone. «L’alcol influenza l’assorbimento, il metabolismo e l’escrezione di vari nutrienti (ferro, magnesio, rame, zinco) e quindi il suo consumo può compromettere lo stato nutrizionale oltre ad essere responsabile di aborti», avverte Barbara Berton. Allo stesso tempo, «il consumo di tabacco rallenta lo sviluppo fetale ed è correlato con la nascita di bambini di scarso peso».

• Meglio evitare, inoltre, gli alimenti precotti o conservati in scatola (contenenti additivi nocivi), le pietanze fritte, i condimenti particolarmente elaborati, i cibi di origine animale crudi o poco cotti e gli insaccati.

• Sconsigliati anche caffè, aspartame e altri dolcificanti, bibite zuccherate, caramelle, cioccolato e dolci di pasticceria. Moderare l’uso del sale, preferendo comunque sempre quello iodato, e l’assunzione di grassi animali, contenuti in burro, lardo, strutto e sego. «L’unico condimento permesso è l’olio d’oliva a crudo», chiarisce la dottoressa.

• «Il classico “si deve mangiare per due” non è vero o perlomeno lo è solo in parte», prosegue. «Non si devono aumentare le quantità di cibo da ingerire ma arricchire i volumi nutritivi degli alimenti assunti, cioè in un uguale volume di cibo ci devono essere maggiori quantità di nutrienti».

• Fondamentale è, avverte infine la dottoressa, «mantenere e controllare la crescita ponderale: l’eccesso di peso è un importante fattore di rischio, da considerare per molte complicazioni; anche un peso inferiore alla norma è ugualmente da evitare».

LA GIORNATA TIPO

Colazione
200 g latte (intero se non si è in presenza di eccesso di peso) con orzo
45 g pane integrale o 4-5 fette biscottate con 10 gr di marmellata senza zucchero
1 frutto o 1 bicchiere di spremuta
Acqua e limone

Spuntino
100 gr latte parz. scremato o uno yogurt

Pranzo
1 primo piatto (50 g di pasta o un piatto di minestrone)
150 g di carne, pollo o coniglio. Contorno di verdure
1 frutto fresco
25 g olio evo. Poco sale (meglio iodato); preferire erbe aromatiche.
Acqua

Merenda
1 yogurt naturale magro con cereali o 3-4 biscotti secchi
1 frutto fresco

Cena
Insalata di riso (riso, pomodoro, carote, zucchine, noci, olive, mais)
125 g di pesce al forno o alla griglia con contorno di verdure
Coppetta di macedonia o frutta al forno
20 g olio evo
Acqua

Prima di dormire (facoltativo)
1 bicchiere di latte, 1 yogurt o 125 g di formaggio fresco

Articolo realizzato per il settimanale Viversani & Belli del 29 novembre 2013, con la consulenza della dottoressa Barbara Berton, biologa nutrizionista a Mestre e a Martellago (Ve)

Foto di Nadia Di Falco, wedding photographer (www.fotografamatrimoni.it) / Profilo Facebook)

Latin lover o speedy gonzales? Identikit del sesso tricolore

 Sesso tricolore

C’è quella scadenza imposta dal vostro capo. C’è lo studio, ci sono i figli e gli hobby. C’è pure quel maledetto conto corrente che rischia perennemente di tingersi di rosso. Moltissime sono le urgenze che quotidianamente ci tormentano e sembrano assorbire la totalità del nostro tempo e dei nostri pensieri. Moltissime, certo, ma non abbastanza da impedirci qualche focosa evasione sotto le lenzuola.

• Che lo si faccia per amore o per puro piacere, il sesso rappresenta, infatti, un vero chiodo fisso per gli italiani, i quali consumano ben 108 rapporti all’anno (contro una media mondiale ferma a 103), pari a 9 amplessi al mese, quindi a circa uno ogni 3 giorni. A rivelarlo è un’indagine svolta da DoxaPharma, su iniziativa della Società italiana di urologia (Siu) e dell’Associazione ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi), che ha coinvolto un campione di 3mila uomini e donne, aventi un’età compresa tra i 18 e i 55 anni.

PERCHÉ SI FA COSÌ SPESSO?

«Il dato, pur rappresentando una novità, rispecchia in parte una tendenza ormai consolidata, propria della tradizione italiana», sottolinea il dottor Davide Arcaniolo, Dottorando di ricerca in Scienze Urologiche all’Università Federico II di Napoli.

• Ad influire sull’elevata frequenza dell’attività sessuale potrebbe essere, innanzitutto, «l’anticipazione del primo rapporto sessuale, cioè il fatto che l’età in cui, oggi, si inizia ad avere rapporti è sicuramente più bassa di un tempo, con varie problematiche legate ad una mancata educazione sessuale e ad una scarsa consapevolezza».

• A incidere è poi anche la «ricerca di un maggior benessere per la coppia e di una certa stabilità per la famiglia». Con un leggero azzardo, si potrebbe dire che il sesso rappresenta una forma di collante e di consolidamento per le relazioni, in un’epoca segnata da tasche vuote e apparente crisi di valori.

LA VARIABILE GEOGRAFICA

La tendenza – precisa ancora il dottor Arcaniolo – «andrebbe comunque contestualizzata e analizzata anche dal punto di vista geografico, poiché ci sono delle differenze importanti tra nord e sud Italia: in un Paese che è praticamente a crescita zero, sono le nascite del Sud a tenere alta la media nazionale, altrimenti abbattuta dal Nord. Alla base vi sarebbero fattori di ordine culturale, che conducono ad una particolare precocità nel rapportarsi al sesso, per il Meridione».

• L’indagine DoxaPharma conferma il particolare ardore dei maschi del Sud: Calabria, Basilicata e Campania sono, infatti, le regioni più attive sessualmente, assieme alla Sicilia, che ottiene la medaglia d’oro non solo per il numero di rapporti (più di tre a settimana nel 60% dei casi) ma anche per la soddisfazione erotica delle coppie.

NON C’È IL RICHIO DI FARLO TROPPO?

«L’attività sessuale non è mai troppo frequente», spiega Davide Arcaniolo. Se è svolta in modo regolare «è utile per il benessere del corpo e per l’apparato genitale, fa bene in particolare alla prostata e all’apparato cardiovascolare. Essa mantiene alte le concentrazioni di testosterone nell’uomo, un ormone importante non solo per la sessualità, ma per la salute in generale».

• Nessun urologo, insomma, si sognerebbe di sconsigliare il sesso, purché, precisa l’esperto, «venga fatto in maniera consapevole e con le dovute precauzioni: l’eccessiva promiscuità sessuale potrebbe, ad esempio, condurre alla trasmissione di determinate malattie».

• Dello stesso parere anche la dottoressa Monica Cappello, Psicologa e Consulente in Sessuologia Clinica a Torino: «Un’intensa attività sessuale solitamente non ha ripercussioni negative. L’importante è che non diventi l’unico modo di relazionarsi con il proprio partner, per nascondere difficoltà di altro tipo, nella coppia. Il dialogo è fondamentale per esplicitare disagi e difficoltà emotive della vita quotidiana».

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA

Il primato tricolore individuato da DoxaPharma nasconde, tuttavia, un amaro retroscena, che non risparmia nemmeno il Sud: per una coppia su quattro il rapporto sessuale non dura più di due minuti e ben sette intervistati su dieci ammettono di sentirsi piuttosto insoddisfatti della propria intimità con il partner.

• Con simili premesse, il rischio infedeltà e rottura appare piuttosto elevato per gli amanti del Belpaese, arrivando a coinvolgere ben 800mila coppie. Non a caso la metà delle donne confessa di pensare a un altro uomo durante l’atto e una su cinque di essere passata, dopo un anno, dalla semplice fantasia al tradimento effettivo o addirittura alla rottura, proprio a causa della frustrazione sessuale.

ITALIANI: LATIN LOVERS O SPEEDY GONZALES?

«Le cause dell’eiaculazione precoce sono ormai considerate di tipo costituzionale, spesso l’uomo ha questo tipo di disfunzione fin dalla nascita e, quindi, fin dai primi rapporti», precisa il dottor Arcaniolo. «Si pensa addirittura ad una trasmissione famigliare di questo tipo di alterazione, è qualcosa di congenito nella popolazione, per questo è probabile che in alcune zone, tra cui appunto l’Italia, si possa rilevare un numero elevato di soggetti coinvolti».

• Sono circa 4 milioni gli italiani che soffrono di questo disturbo, che in realtà «deriva da un “banale” deficit di un neurotrasmettitore a livello centrale ed è per questo perfettamente trattabile».

RETROSCENA PSICOLOGICI

A incidere sulla breve durata dei rapporti possono essere anche dei fattori di natura psicologica: «L’eiaculazione precoce è causata spesso dall’ansia da prestazione e dalla scarsa frequenza dei rapporti», spiega la dottoressa Cappello. «Le donne sono sempre più esigenti e gli uomini con una personalità più vulnerabile, temendo di non riuscire a soddisfare la propria partner, vivono il rapporto sessuale come un esame, da superare assolutamente “a pieni voti”. Si tratta di soggetti ansiosi e con un alto livello di eccitazione, che difficilmente riescono a gestire».

SESSO: ANCORA UN TABÙ?

Malgrado l’intenzione dichiarata di voler migliorare la situazione, solo una minima parte (il 10%) si rivolge al medico o sa che esistono soluzioni efficaci per i molti problemi legati alla sessualità. Molti ripiegano su soluzioni “fai da te” ricercate in internet oppure – rileva Monica Cappello – «preferiscono andare con donne a pagamento, con le quali spesso l’eiaculazione precoce non si presenta, poiché non hanno ansia da prestazione, ma in realtà in loro rimane una grandissima frustrazione».

• «Mentre, pian piano, si sta un po’ sdoganando la problematica della disfunzione erettile, che rappresenta un problema non secondario per il benessere della coppia e spinge, quindi, il maschio a consultare uno specialista, il campo dell’eiaculazione precoce rimane ancora molto inesplorato. L’uomo, tutto sommato, raggiunge la sua soddisfazione e, se non è la donna a dare questo tipo di allarme, non sente la necessità di rivolgersi a un medico», evidenzia il dottor Arcaniolo.

UNA NUOVA PROSPETTIVA

• Le difficoltà derivano, in parte, anche dalla mancanza di una solida spalla: «Mentre la donna, fin dalla prima età, va con la madre dal ginecologo, l’uomo non ha una figura di riferimento, non vede nell’andrologo o nell’urologo il proprio riferimento, non ha qualcuno che lo accompagna nel vivere la sua sessualità», fa notare Davide Arcaniolo.

• Gli esperti sembrano comunque abbastanza fiduciosi. «Il fatto che lo si faccia di più potrebbe spingere più coppie a rivolgersi ad uno specialista», commenta Arcaniolo. «Fortunatamente qualcosa sta cambiando», incalza la dottoressa Cappello: «Molti uomini, spesso sollecitati dalle compagne, decidono di farsi aiutare, anche se solitamente questa consapevolezza avviene dopo diversi anni dall’inizio del disturbo». «Le recenti campagne pubblicitarie sull’eiaculazione precoce e sulla disfunzione erettile» – evidenzia – hanno proprio l’obiettivo di sensibilizzare maggiormente le persone che vivono un profondo disagio a vincere timore e imbarazzo, a non sentirsi soli e a farsi aiutare da un esperto».

OLTRE LA STATISTICA

• Alcune perplessità circa l’attendibilità dei dati diffusi da DoxaPharma sono espresse, infine, dalla dottoressa Cappello: «Dalla mia esperienza clinica, non mi risulta che le coppie italiane abbiano rapporti così frequenti, anzi la maggior parte delle persone si lamenta per la scarsa frequenza. La crisi, le difficoltà economiche e lavorative, lo stress e le tensioni emotive conducono solitamente ad un calo del desiderio sessuale».

• Inoltre, prosegue, «chi soffre di eiaculazione precoce, molto spesso, tende ad evitare i rapporti sessuali, innescando un circolo vizioso, che conduce alla cronicizzazione della disfunzione». Quindi, conclude Monica Cappello «risulta un’incongruenza nei risultati espressi da questa ricerca, che sono forse frutto della non completa sincerità da parte dei soggetti intervistati».

Articolo realizzato per il settimanale Viversani & Belli dell’8 novembre 2013, con la consulenza del dottor Davide Arcaniolo, Dottorando di ricerca in Scienze Urologiche all’Università Federico II di Napoli e della dottoressa Monica Cappello, Psicologa e Consulente in Sessuologia Clinica a Torino.

 

Smemorata, lamentosa e analogica: ecco i tratti della mezza età

Sei già nella mezza età?

Sei già nella mezza età?

Computer, smartphone, tablet, pagamenti online vi mettono a disagio e vi disorientano? Non riuscite a rinunciare alla pennichella pomeridiana? Sempre più cose vi infastidiscono e vi fanno borbottare? Dimenticate spesso nomi delle persone? Se le vostre teste stanno, più o meno consapevolmente, annuendo, preparatevi a salutare l’imminente arrivo della cosiddetta e così ampiamente temuta “mezza età”.

• A studiarne, di recente, le principali manifestazioni è stata la Benenden Health, società non-profit inglese di assistenza sanitaria, compilando una lista di ben 40 segnali dell’avvicinarsi alla fatidica soglia, sulla base delle risposte fornite da un campione di 2.000 cittadini britannici over 50. Risposte che sembrano suggerire come la mezza età rappresenti più uno stato d’animo che una vera e propria tappa, dato che ben l’84% del campione sostiene che si diventa vecchi solo quando ci si inizia a considerare tali.

Cinquantenni evergreen

L’ingresso nei 50 anni non fa più paura come un tempo: rispetto al passato, è cambiato il modo di affrontare questo delicato momento della vita. Le intense trasformazioni fisiche ed emotive conducono a dei cambiamenti, nei desideri e nelle prospettive, di certo non facili da gestire, tuttavia si può contare oggi su un bagaglio di risorse sempre più ampio da cui attingere. Le rughe portano con sé anche una maggiore stabilità e una piena consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti, liberando da precedenti condizionamenti e permettendo così di formulare delle scelte migliori per la propria realizzazione personale.

• I progressi della medicina e l’attenzione crescente verso abitudini e pratiche salutiste hanno poi innalzato la speranza di vita media, spostando in avanti il momento di ingresso nella mezza età. Tanto che quasi la metà (43%) degli ultracinquantenni partecipanti al sondaggio di Benenden Health ha dichiarato di non aver ancora sperimentato questa fase e il 53% si è detto addirittura convinto che essa non esista ormai più.

Tecnologia canaglia

Se il mezzo del cammin di nostra vita non rappresenta più una selva oscura, ciò non significa, tuttavia, che non sia possibile individuare alcuni sintomi dell’inesorabile avanzare degli anni. Tra quelli elencati dagli aderenti al sondaggio, troviamo la difficoltà nello stare al passo con l’evoluzione tecnologica. Pare cioè che si diventi impermeabili all’utilizzo dei nuovi mezzi di informazione, ostacolati da barriere non solo fisiche (vista e manualità limitate, ridotte capacità di apprendimento), ma anche psicologiche e attitudinali, legate alla minore alfabetizzazione agli strumenti informatici e alla diffidenza tipica che ne deriva.

• Secondo la professoressa Erika Borella – esperta in psicologia dell’invecchiamento e docente presso la Scuola di Psicologia dell’Università degli Studi di Padova – tale avversità tecnologica sarebbe, tuttavia, solo una «falsa credenza: le persone over 50 sono degli utilizzatori di tablet e di Facebook». A incidere molto sull’inclinazione verso simili mezzi sono soprattutto «variabili socioeconomiche e demografiche, per cui le persone più tecnologiche sono anche quelle più esposte a determinati tipi di ambiente e con certi tipi di motivazione».

Il gap generazionale

L’incapacità di seguire l’evolversi dei tempi è alla base anche di altri segnali di mezza età individuati dal campione, come il non conoscere le canzoni presenti nella top ten dei singoli più ascoltati, il non ricordare il nome dei gruppi musicali moderni e il ritrovarsi del tutto impreparati a comprendere di cosa e come parlino i giovani. I nuovi teenagers digital native mutuano molte espressioni dalle proprie routine relazionali, fatte di sms, chat e social network, creando neologismi impenetrabili per chi non padroneggia le medesime abitudini. Alla base del disagio avvertito vi sarebbe, dunque, una sorta di scontro con una generazione lontana da quella di appartenenza, che usa uno slang e possiede gusti musicali piuttosto differenti dai propri.

• È bene comunque sottolineare – evidenzia la dottoressa Borella – che «il gap intergenerazionale proviene da entrambe le parti, dai giovani rispetto alle persone più adulte e viceversa». Gli sforzi delle istituzioni sono comunque concentrati nel superare queste barriere che si creano: «Ad oggi l’Unione Europea, così come il mondo della ricerca, sta promuovendo dei programmi per favorire lo scambio tra generazioni. Anche in molti ambienti lavorativi si stanno attuando simili programmi, importanti visti i molti cambiamenti in atto a livello pensionistico. La persona più adulta dovrebbe, infatti, essere vista come una ricchezza e una risorsa a disposizione, utile per trasmettere preziose competenze a livello sociale e lavorativo».

L’età degli smemorati

I nomi delle band musicali non sono certo l’unica cosa che i capelli grigi tendono a dimenticare. Altri inequivocabili sintomi dell’avanzare degli anni sono il non ricordarsi il nome delle persone che si incontrano o si conoscono e il non sapere dove si sono messi gli occhiali, la borsa, le chiavi dell’auto e via dicendo. Alle increspature del volto, si accompagnano, dunque, quelle della mente, che rendono più sbadati, distratti e smemorati.

• «Non esiste un solo tipo di memoria, ma diversi sistemi di memoria che sono diversamente sensibili all’avanzare dell’età, alcuni certamente declinano, mentre altri si mantengono anche in età molto avanzata», chiarisce Erika Borella. «Già a partire dai 25 anni alcune delle nostre abilità di memoria cominciano a diminuire, però, quando si è giovani, nel momento in cui non ci si ricorda qualcosa, si tende ad attribuire la colpa ad altri fattori, ai troppi impegni, allo stress e così via. Sicuramente la persona di mezza età fa più fatica a recuperare certe informazioni perché alcuni sistemi di memoria risentono dell’avanzare degli anni, però si tratta di un processo che caratterizza l’intero arco della vita da adulti». Inoltre, rassicura la professoressa, «ci sono interventi di potenziamento della memoria che permettono di sopperire a questi cambiamenti».

L’arte del “Piove, governo ladro!”

Stando agli intervistati, il passare degli anni spingerebbe poi a lamentarsi per un numero sempre maggiore di cose, dalle piccole circostanze quotidiane, ad alcune manifestazioni tipiche della contemporaneità, come i video musicali, considerati talmente spinti da lasciare sconcertati, o i palinsesti televisivi, così ricchi di trasmissioni spazzatura. Ciò sembra essere legato ad un abbassamento del livello di sopportazione e di condiscendenza, che condurrebbe ad abbracciare posizioni estremiste e ben poco tolleranti. Non a caso, un ulteriore indizio di mezza età è l’essere rimproverati per opinioni politicamente scorrette.

• Tuttavia, secondo la professoressa Borella, «invecchiando diventiamo solo quello che siamo: chi da giovane è stato, ad esempio, una persona polemica, andando avanti con l’età accentuerà questo tratto». Al contrario, «è da evidenziare come, con l’avanzare dell’età, si tenda a privilegiare le emozioni positive e a gestire in maniera differente i conflitti, risolvendo cioè internamente determinate problematiche».

Gli acciacchi e i chili di troppo

Ci si lagna ovviamente anche dei propri acciacchi, i quali balzano nella pole position degli argomenti di conversazione quotidiana. Ciò è legato soprattutto al fatto che le trasformazioni tipiche della mezza età coinvolgono in primis l’aspetto fisico. Ecco, allora, che, nella top 40 dei segnali di “maturità”, rientrano anche il sentirsi rigidi, l’avvertire le ossa scricchiolare quando ci si abbassa, l’avere più peli nel naso o nelle orecchie e il non riuscire più a perdere tre chili in due giorni.

• «Si verificano dei cambiamenti a livello fisico legati alla muscolatura e alla struttura ossea, con una riduzione della resistenza muscolare, dimensione, massa e peso», spiega la dottoressa Borella. Con l’avanzare degli anni, «cambia tutto il sistema gustativo, anche i muscoli digestivi funzionano più lentamente e si riduce la produzione di acidi. Le persone di una certa età dovrebbero ridurre la quantità di calorie assunte, cosa che non sempre viene fatta. Si possono creare così situazioni di sovrappeso, dovute a cattive o non mutate abitudini alimentari, associate a cambiamenti ormonali e a un’assente attività fisica. Non a caso, per le donne, una delle caratteristiche della menopausa è proprio l’aumento di peso».

Soluzioni anti-age

Crema antietàAumenta, secondo i rispondenti, la sensazione di stanchezza e il bisogno del riposino pomeridiano, muta il proprio rapporto con l’alcol, vista la tendenza ad addormentarsi dopo un buon bicchiere di vino e la consapevolezza dichiarata del proprio limite alcolico. Non si pensi, comunque, ad un’accettazione inerme del declino fisico. Al contrario i capelli brizzolati partecipanti al sondaggio preferiscono camminare invece di poltrire a letto la domenica e spendono sempre più soldi per creme viso e prodotti anti-età.

• «Una buona attività fisica può promuovere nuovi contatti sociali, mantenere la persona attiva e favorire anche una maggiore ossigenazione a livello cerebrale, permettendo a tutto il sistema di funzionare meglio», sottolinea Erika Borella. Più difficile è interpretare il riscorso a prodotti anti-age, che potrebbe, a volte, nascondere la difficoltà ad accettare la propria mutata condizione: «È importante curare l’aspetto fisico, accettando però che non si è più quelli di una volta. La nostra immagine interna dovrebbe, ad ogni età, e particolarmente in età adulta avanzata, essere congruente con quella esterna per riuscire a invecchiare bene e serenamente».

Comportamenti agé

Cambiano le abitudini e gli atteggiamenti, si modificano le inclinazioni e gli interessi, accordando la propria preferenza per quelle situazioni in cui domina una certa tranquillità e compostezza: nell’età di mezzo si arriva a detestare i pub rumorosi, a privilegiare una serata a base di giochi in scatola piuttosto che un’uscita in città e a scegliere una crociera – meglio se “child free” – come meta delle vacanze. Nella scelta di vestiti e scarpe ci si scopre molto meno attenti a mode e tendenze momentanee e decisamente più attratti dalla comodità. Pure il fatto di ricevere e gradire delle babbucce da notte come regalo di Natale rappresenta un’avvisaglia dell’avanzare degli anni.

• Si cerca di instaurare un rapporto più solido con la natura, dedicandosi, in modo quasi ossessivo, alla cura del giardino, al dar da mangiare agli uccelli, al riciclo e alla raccolta differenziata dei rifiuti. Zappare, potare le piante, spingere la carriola, annaffiare, seminare, annusare: fare giardinaggio migliora non poco lo stato di benessere fisico ed emotivo, «significa avere un’attività, un hobby e quindi favorisce il sentirsi ancora attivi e impegnati in qualche cosa che può dare anche risultati (i frutti di una pianta, ad esempio). Permette, inoltre, di avere un momento per sé in cui si pensa a se stessi e, allo stesso tempo, è un’attività fisica e quindi mantiene un buon stato di salute», spiega infine la professoressa Borella.

Servizio realizzato per il settimanale Viversani & Belli del 4 ottobre 2013, con la collaborazione della professoressa Erika Borella, esperta in psicologia dell’invecchiamento e docente presso la Scuola di Psicologia dell’Università degli Studi di Padova

Sole, sport e niente fornelli: ecco la ricetta dell’amore moderno

Foto di Nadia Di Falco, wedding photographer (www.fotografamatrimoni.it)

Foto di Nadia Di Falco, wedding photographer (www.fotografamatrimoni.it)

Crema solare, ampio cappello, occhiali scuri. Vi aiuteranno certo a proteggervi dal sole in queste ultime piacevoli giornate di vacanza, ma nulla potranno contro il vero pericolo in agguato sotto l’ombrellone: il colpo di fulmine! Nel caso poi in cui abbiate superato i quarant’anni, utilizziate i mezzi pubblici e siate degli sportivi, il rischio di trovarvi invischiati in un’appassionante storia d’amore aumenta ancor di più.

• A sostenerlo è lo staff di Eliana Monti, il club per single alla ricerca dell’anima gemella, che ha condotto una serie di sondaggi tra i membri della propria community, utili a tracciare alcune dinamiche vincenti all’interno delle coppie tricolori.

La stagione dell’amore

Se quest’estate, tra un aperitivo sulla spiaggia, un’escursione in montagna e un’abbuffata alla fiera paesana, vi è capitato di accendere la fiamma della passione con un nuovo incontro, molto probabilmente dovrete attendere un bel po’ prima di poterla spegnere. Pare, infatti, che siano proprio gli amori sbocciati in estate quelli più duraturi, solidi e coinvolgenti.

• Liberi da pressanti impegni lavorativi, alleggeriti da ritmi più pacati e desiderosi di immergersi nell’energia vitale della calda stagione, gli italiani abbandonano remore e preconcetti e sembrano essere più predisposti ad allacciare nuovi legami sentimentali. La magia dell’estate sta, appunto, in questa sorta di paradosso: non si ricerca una storia seria, ma si finisce col trovarla. Almeno così è stato per oltre il 40% dei partecipanti all’indagine.

• «Il nostro cervello è molto sensibile alla luce, componente essenziale per un buon funzionamento psichico e dei neurotrasmettitori, tra cui la serotonina, l’ormone della felicità», spiega la dottoressa Antonella Rocchi, psicoterapeuta a Venezia. «Il sole e la bella stagione ci predisporrebbero ad essere più aperti all’altro e a mostrare la parte “migliore” di noi, quella legata al buonumore, e dunque all’essere più disponibili, comunicativi e divertenti».

• Con simili presupposti, il momento di avvio della relazione – prosegue la dottoressa – «si radicherebbe poi nella memoria come un ricordo positivo delle risorse di sé e di coppia, da cui ripartire semmai comparissero momenti di difficoltà». Possiamo, dunque, dire addio al noto luogo comune che vede la bella stagione come sede privilegiata di intense, ma pur sempre passeggere, attrazioni. «Tutto sommato, anche in amore, vale il detto: “Chi ben comincia, è a metà dell’opera”».

Cupido è brizzolato

Chi l’ha detto che il vero amore non ha età? A quanto pare ce l’ha eccome ed è quasi certamente over 40. La maggiore stabilità economica ed emotiva, da una parte, e la coscienza più intensa di se stessi e di ciò che una relazione comporta, dall’altra, sembrano rappresentare il mix vincente per stringere relazioni sentimentali solide e durevoli. L’intesa tra uomo e donna si nutre sempre più della consapevolezza derivante da esperienze passate, siano esse dei successi o dei fallimenti.

• In età giovanile spesso ci si lascia condizionare da fattori fuorvianti nella scelta del partner e di come porsi nei suoi confronti. In una fase più matura, quando molti problemi pratici (lavoro, casa, figli) sono stati superati e il bisogno di gratificazione professionale è stato appagato, si è maggiormente liberi di vivere una storia d’amore piena, con una persona realmente affine.

• «L’amore è un’esperienza di affetto e relazione con qualcun altro che l’essere umano sperimenta lungo tutto il ciclo della vita» con forme diverse, chiarisce Antonella Rocchi. «Dalla dipendenza simbiotica del bambino con i genitori, si passerebbe poi all’idealizzazione e alla passione romantica propria della giovinezza, fino a giungere ad una consapevolezza di sé e dell’altro reale dell’età adulta, basata su una “mutualità coniugale”, su un rapporto fatto di protezione e cura reciproca, che poi culminerebbe nella genitorialità». Questo legame di interdipendenza con l’altro sembra, allora, trovare piena attuazione dopo i 40 anni, semplicemente per «l’allungarsi oggi della fase adolescenziale che tarderebbe fino ed oltre i 25 anni, complici gli studi universitari e la ricerca di un lavoro più o meno stabile».

L’amore è pendolare

Arriva come un treno e ti travolge in modo inatteso e sorprendente. Mai una metafora fu tanto efficace: l’amore supera la dimensione retorica e sempre più sceglie i mezzi pubblici per manifestarsi. Il 38,9% degli interpellati afferma di aver conosciuto il proprio compagno su un treno, su un autobus o su un tram, catturato da un complice gioco di sguardi, capace di superare pure l’arcinota frenesia del “timbra, sali, scendi, cambia”.

• Per il 26,3% la cornice del primo incontro sono stati, invece, locali, bar o discoteche, grazie all’atmosfera spensierata e conviviale che qui si respira, ricorrendo magari ad un buon cocktail per superare le difficoltà dell’approccio iniziale.

• «Questi luoghi sono in primis le situazioni sociali con la più alta percentuale di gente diversa e variegata che possiamo incontrare. Il che significa che si alzano di gran lunga le possibilità di entrare in contatto con persone che possono rispondere alle nostre esigenze affettive», rileva la dottoressa Rocchi.

• L’essere, inoltre, «sottoposti ogni giorno alle regole e ai linguaggi verbali standard dei social network (“mi piace”, “condividi”, “commenta”, ecc.), se da una parte ci dà la possibilità di appartenere ad un gruppo sociale, dall’altra invece ci fa riflettere sul fatto che l’amore è un fatto privato e reale, basato su ciò che a ciascuno di noi individualmente piace e primariamente su un linguaggio non-verbale tipico del nostro corpo». Lo stesso corpo che funge, appunto, da tramite per la conoscenza in questi ambienti sempre così affollati.

L’amore è un lavoro di squadra!

Quando la freccia di cupido colpisce dietro una scrivania, le probabilità di trovare il grande amore aumentano notevolmente. Condividere lo stesso ambiente di lavoro sembra, infatti, innalzare il livello di complicità e di empatia della coppia, decretandone il successo di lunga data. Ben il 53% dei rispondenti ha dichiarato di aver avuto una relazione importante proprio con un collega, sottolineando come l’aver messo in comune le proprie vicende professionali abbia contribuito a mantenere alta la passione, il dialogo, l’intesa e la comprensione reciproca. • «Il lavoro, soprattutto nella società moderna, rappresenta il luogo dove passiamo la maggior parte della nostra vita», commenta Antonella Rocchi. Considerando poi le ore necessarie per il sonno, «il tempo libero che ci rimane è ben poco per dividerlo tra i tanti interessi che abbiamo, tra cui l’amore. La nostra vita acquisisce sapore solo quando c’è qualcuno che la arricchisce con la sua presenza, con riti quotidiani, ossia appuntamenti, consuetudini, ricorrenze fisse, che pian piano ci “addomesticano” all’altro», incalza la dottoressa. «Una condizione, quest’ultima, che è più facile avere sul posto di lavoro per l’alto tasso di frequentazione a cui due persone sono sottoposte giornalmente».

L’intesa è sportiva

L’amore richiede fatica e un duro allenamento. Letteralmente. Non a caso sono sempre più le coppie che scelgono di fare sport assieme e considerano questa la chiave della loro intesa. Il 49% dei rispondenti indica la condivisione dell’attività fisica (jogging, bicicletta, free climbing) come il fattore principale per mantenere viva la fiamma della passione e aumentare coinvolgimento e feeling.

• «Fare sport libera le endorfine, dei potenti antidepressivi naturali che hanno lo scopo di favorire il buonumore e la capacità di focalizzarsi più sugli aspetti positivi della coppia che su quelli negativi», commenta la dottoressa Rocchi.

• Allo stesso tempo, un esercizio costante permette di mantenere lo stato di buona salute del proprio corpo, «base importante per l’attrazione fisica e l’autostima di entrambi i componenti della coppia». Il benessere emotivo si affianca, dunque, a quello fisico, alimentato dalla complicità che deriva dalla condivisione di qualcosa al di fuori delle mura domestiche.

Il battibecco scatta tra i fornelli

Si sa, l’amore non è bello se non è litigarello. Quali sono, allora, i principali motivi di contrasto in una coppia? Medaglia d’oro alla cucina: sulla scia del successo mediatico di molte trasmissioni televisive dedicate ai piaceri della tavola, sempre più uomini sentono il desiderio di sperimentare ricette più o meno complesse, minando così la tradizionale struttura dei ruoli domestici, frutto di anni e anni di consolidata convenzione sociale.

• Il 41% degli intervistati ha, infatti, ammesso di essersi conteso il dominio della cucina con il proprio partner. Alla faccia della tanto agognata emancipazione, le donne italiane sembrano non accogliere di buon grado il fatto di essere spodestate dal proprio regno di fornelli, infastidite, forse, dall’idea che il proprio compagno viva come un gioco un’attività che per loro rappresenta un vero e proprio lavoro. Alcuni dissapori si creano anche nel momento in cui si deve scegliere la meta di un viaggio (24%), quando sembra difficile riuscire a conciliare i rispettivi gusti e le diverse esigenze.

• «Assistiamo sempre più al fenomeno della equiparazione dei ruoli maschili e femminili, con conseguente risultato che oggi gli uomini sono molto più autonomi in cucina rispetto ad una volta, e sono tanto bravi a cucinare quanto lo sono le donne», evidenzia Antonella Rocchi. Allo stesso modo, la destinazione delle vacanze «oggi può essere stabilita da entrambi», vista la crescente «autonomia economica della donna, che diventa così sempre meno soggetta al “dominio” dell’uomo su di lei».

• Si bisticcia, infine, per colpa dei suoceri (35%), la cui presenza, all’interno della coppia, è spesso avvertita come indiscreta, invadente e competitiva. Tagliare il cordone ombelicale sembra essere piuttosto difficile, molti genitori non si limitano a dare supporto o consigli, ma cercano piuttosto di imporre il proprio volere anche su decisioni che non dovrebbero riguardarli.

• «Se è vero che uomini e donne stanno diventando sempre più autonomi da un punto di vista economico, lo sono sempre meno da quello relazionale, soprattutto con le proprie famiglie di origine», spiega la dottoressa. Questo accade «per la paura di alcuni figli di una ipotetica disarmonia familiare, quando invece basterebbero pochi “paletti” tra la vecchia famiglia e quella nuova per creare un clima di sincera compagnia e rispetto di tutti».

Mogli e buoi dei paesi tuoi

Con i loro sorrisi da copertina e le loro pubbliche manifestazioni di idillio, le felici coppie miste dello showbiz sembrano dimostrarci come l’amore a cavallo tra due culture possa essere vincente e invidiabile. Calando, tuttavia, il sipario del mondo dello spettacolo e voltando lo sguardo alla gente comune, si intuisce come le leggi del cuore abbiano, in realtà, dei confini territoriali ben definiti.

• In un contesto sempre più globalizzato e multietnico, gli italiani continuano a preferire il fascino latino dei conterranei: il 43% del campione interrogato a tal proposito dichiara di avere non poche remore nell’avviare una relazione con persone di differente nazionalità. L’ostacolo più difficile da superare sembra essere la differenza di lingua e di cultura, considerata una potenziale causa di incomprensione e di scarsa affinità. A ciò si aggiunge un 20% di rispondenti che, pur essendo favorevole a una relazione multietnica, teme il parere dei propri familiari, spesso incapaci di accogliere a braccia aperte il nuovo arrivato di provenienza straniera.

• Analogamente gli ultimi dati Istat (l’Istituto nazionale di statistica) parlano di una riduzione nel numero matrimoni misti celebrati in Italia e di un parallelo aumento nel numero dei divorzi tra coppie multietniche. Il tessuto sociale ed economico sempre più internazionale spinge, dunque, gli italiani a rifugiarsi nella restrittiva ma rassicurante ala della tradizione.

Servizio realizzato per il settimanale Viversani & Belli del 13 settembre 2013, con la consulenza della dottoressa Antonella Rocchi, Psicoterapeuta a Venezia per problemi di coppia e ansia (www.antonellarocchi.it, e-mail antorocchi@yahoo.it)