

Pubblicato da robertabarbiero in 5 luglio 2012
https://robertabarbiero.wordpress.com/2012/07/05/investimenti-pubblicitari-boom-per-il-digitale/
Cresce l’Advertising online: il settore è aumentato di 23,2 punti percentuali rispetto al 2010, raggiungendo i 14,9 miliardi di dollari
Tempi d’oro per l’advertising online.
A rivelarlo è lo IAB Internet Advertising Revenue Report, realizzato da PricewaterhouseCoopers (PwC USA) per conto dell’Interactive Advertising Bureau (IAB): si tratta di uno studio sulla pubblicità online, riferito al contesto statunitense e realizzato due volte all’anno al fine di monitorare la situazione di metà e dell’intero anno (in questo caso ci si riferisce ovviamente alla prima metà del 2011); esso si basa su dati rilasciati trimestralmente dallo IAB, l’associazione internazionale dedicata allo sviluppo della comunicazione pubblicitaria digitale interattiva, la quale ha avviato il report nel 1996.
I risultati forniti sono considerati la misura più accurata dei ricavi pubblicitari online, poiché derivano da informazioni fornite direttamente dalle aziende che vendono tale pubblicità virtuale: ad essere inclusi nel rapporto sono, in particolare, i ricavi provenienti da siti web, servizi commerciali online, network pubblicitari e provider di posta elettronica.
Ad uno sguardo preliminare, si nota come – dopo un declino e un temporaneo plateau registrati nel 2009 – i ricavi trimestrali della pubblicità online abbiano conosciuto, a partire dall’ultimo trimestre del 2009, un forte rialzo e, anche se il 2011 sembrava iniziare con una lieve ricaduta, tali ricavi sono notevolmente aumentati nel secondo trimestre 2011.
Entrando un po’ più nel dettaglio, vediamo che, nell’intera prima metà del 2011 e rispetto allo stesso arco temporale riferito allo scorso anno, gli introiti sono aumentati di 2,8 milioni di dollari o, in termini percentuali, del 23,2%, arrivando a stabilire una sorta di record, pari a 14,9 miliardi di dollari. Il trend evidenziato segna, allora, una crescita percentuale più che raddoppiata rispetto al primo semestre del 2010, quando i ricavi pubblicitari si assestarono a 12,1 miliardi di dollari (con un incremento dell’11,3% rispetto al 2009).
Quei 14,9 miliardi rilevati possono essere scomposti, dal punto di vista temporale, in un primo trimestre totalizzante 7,26 miliardi di dollari e in un secondo trimestre che ha accumulato i restanti 7,68 miliardi, segnando un incremento di quasi 6 punti percentuali rispetto al primo trimentre 2011 e un incremento del 24,1% rispetto al secondo timestre 2010 (quando il ricavo era stimato in 6,19 miliardi di dollari).
“La forte crescita della pubblicità online – ha commentato David Silverman, partner, PwC – non si è arrestata nella prima metà del 2011. Ad alimentare questa crescita è la capacità degli inserzionisti di correlare prestazioni e risultati con i dollari che stanno investendo”.
I ricavi del secondo trimestre 2011 sono aumentati su una base percentuale e in dollari: esso rappresenta il trimestre con il più alzo rialzo mai registrato fino ad ora.
Applicando un filtro cronologico alla stima e utilizzando una prospettiva su base annuale, si scopre che la quota di ricavi in pubblicità digitale raggiunta nel primo semestre 2011 potrebbe portare il 2011 ad essere l’anno con la quota più elevata, superando i 26 miliardi raggiunti nel 2010 (il precedente record): “i fattori macroeconomici che hanno iniziato ad influenzare l’intero universo economico a metà anno, potrebbero avere un impatto anche sul secondo semestre”, sottolinea il report.
L’advertising online continua a rimanere appannaggio di quelle 10 principali aziende di vendita pubblicitaria presenti nel mercato, che assieme hanno raggiunto, nel secondo trimestre 2011, il 72% dei ricavi totali, superando quel 70% riferito allo stesso intervallo dello scorso anno.
Le aziende collocate, invece, tra l’undicesima e la venticinquesima posizione hanno contribuito per un 10% ai ricavi del secondo trimestre, in calo di due punti percentuali rispetto al 2010 (12%); quelle, infine, che si pongono tra la ventiseiesima e la cinquantesima posizione, hanno raccolto il 7%, contro l’8% dell’anno precedente.
“L’eccellente solidità di performance finora rilevata per l’advertising online – evidenzia Randall Rothenberg, presidente e CEO di IAB – dimostra che sempre più addetti al marketing stanno puntando su digitale per raccontare il proprio marchio. Questa gradita notizia, alla luce della debolezza che avvolge buona parte della restante economia statunitense, conferma l’enorme valore che l’innovazione nel marketing interattivo può trasmettere all’industria e al consumo”.
Il successo crescente deriva primariamente dal fatto che le aziende desiderano sempre più far uscire il proprio brand all’esterno dei confini tradizionalmente posti alla loro attività, vogliono farsi conoscere e, a questo scopo, utilizzano la rete quale veicolo privilegiato di comunicazione, poiché dotata di dimensione universale e capace di raccogliere un pubblico quanto più vasto possibile; si ampliano, di conseguenza, le campagne pubblicitarie poste in essere per raggiungere nuove aree di interesse, si moltiplicano le manifestazioni dell’universo valoriale veicolato dal marchio.
Quali sono, allora, le categorie su cui sembrano maggiormente concentrarsi i profitti finora evidenziati?
In testa, innanzitutto, si collocano le ricerche online correlate da contenuti sponsorizzati e provenienti da diversi circuiti advertising: esse, da sole, producono il 49% del totale ricavi riferito al primo semestre 2011 (in crescita rispetto al 47% stimato nel 2010), pari a circa 7,3 miliardi di dollari (+27% rispetto ai 5,7 milioni di dollari nel 2010), arrivando a riempire il fulcro dell’intero mercato.
Al secondo posto troviamo il cosiddetto “display advertising”, con una quota di mercato che dal 36% (primo semestre 2010) è giunta al 37% (2011), passata, in altri termini, da 4,4 a 5,5 miliardi di dollari (+27%, un tasso di crescita maggiore rispetto al 16% del 2010): tale forma pubblicitaria comprende banner pubblicitari (realizzano il 23% dei ricavi, pari a 3,4 miliardi di dollari), video digitali (6% o 891 milioni), contenuti interattivi (5% o 763 milioni) e sponsorizzazioni (3%, 467 milioni).
Gli annunci online, con 1,2 miliardi di dollari, raccolgono il solo 8% dei ricavi nel primo semestre 2011, percentuale in decrescita rispetto al 2010 (10% con 1,3 miliardi di dollari).
I ricavi della Lead Generation ammontano al 5% nel 2011, pari a 805 milioni di dollari, in aumento di quasi 25 punti percentuali rispetto al 2010, quando essi ammontavano a 642 milioni (5% del mercato).
La posta elettronica occupa, invece, l’ultima posizione della classifica, con solo l’1% dei ricavi totali, corrispondenti a 79 milioni di dollari, in ribasso del 34% rispetto ai 120 milioni riferiti al 2010 (1% del totale ricavi). Sempre meno frequenti, dunque, le campagne pubblicitarie basate sull’invio multiplo di mail, forse a causa della facilità con cui simili comunicazioni possono venire eliminate dal destinatario e dunque cadere inascoltate.
Allargando un po’ la prospettiva temporale, ci si accorge di come quello dell’online search rappresenti il format dominante fin dal 2006 e di come esso abbia conosciuto negli anni una crescita sequenziale; dopo aver perduto nel 2010 parte della propria quota di mercato a favore dei banner pubblicitari, esso ha riconquistato e superato, nel primo semestre 2011, tutte le posizioni perdute. Per un trend positivo, si è costretti, tuttavia, ad evidenziarne uno negativo: ecco, allora, che negli ultimi sei anni si è assistito ad una perdita, per gli annunci online, di oltre metà quota di mercato (da uno share del 18% nel 2006 all’attuale share dell’8%) e, dopo una parziale stabilizzazione nel 2010, si è ritornati al segno meno nel 2011.
Con riferimento ai settori industriali coinvolti, il report di IAB e PwC evidenzia come gli inserzionisti del retail continuino a rappresentare la categoria più ampia per spesa in advertising, avendo raggiunto una percentuale del 23% nella prima metà del 2011 (pari a 3,5 miliardi di dollari), in crescita rispetto al 20% (2,5 miliardi) rilevato nel 2010.
Le aziende di telecomunicazioni hanno invece rappresentato, nel primo semestre 2011, il 14% (2,1 miliardi di dollari) dei ricavi in pubblicità online, con un leggero aumento dal 2010, quando l’ammontare dei ricavi era di 1,7 miliardi di dollari (configurante, comunque, il 14% del totale).
Gli inserzionisti del settore finanziario hanno contribuito, poi, per il 13% nel 2011 (pari a 1,9 miliardi di dollari), quelli del comparto automobilistico per l’11% (1,7 miliardi): entrambi hanno guadagnato posizioni rispetto al 2010, quando il primo coinvolgeva 1,5 miliardi di dollari (12%) e il secondo 1,3 miliardi (comunque 11%).
Il settore dei prodotti informatici costituisce il 10% dei ricavi in advertising nel 2011, cioè 1,5 miliardi, in aumento rispetto al 2010, quando la stima era di 1,2 miliardi di dollari (anche in questo caso il 10% del totale).
Il comparto dei viaggi per svago (biglietti aerei, hotels e resorts) ha coperto l’8% dei ricavi nel 2011 (1,2 miliardi), contro il 7% (841 milioni di dollari) del 2010.
I beni di consumo, ancora, rappresentano il 6% del mercato pubblicitario online, pari a 866 milioni di dollari, in diminuzione rispetto al 2010, quando rappresentavano l’8% (980 milioni). L’entertainment occupa il 4%, con 556 milioni, in leggero aumento rispetto ai 508 milioni del 2010 (quando costituiva sempre il 4%).
Settore media e settore farmaceutico-sanitario raggiungono, infine, nel 2011, entrambi una quota di mercato del 4%, il primo con 660 milioni e il secondo con 608 milioni di dollari e con un leggero incremento rispetto al 2011, quando si erano attestati rispettivamente a 498 milioni (sempre 4%) e 576 milioni (5%).
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 16 novembre 2011
https://robertabarbiero.wordpress.com/2011/11/16/i-soldi-veri-sono-sul-web/
Il nuovo approccio alla pubblicità in rete prevede l’utilizzo delle tracce relative alla nostra navigazione, con inevitabili ripercussioni a livello di privacy
“Non stai pagando per il prodotto che usi perché il prodotto sei tu”: era questo il messaggio lanciato qualche settimana fa da un’inchiesta condotta da Stefania Rimini per la trasmissione televisiva “Report”. I toni erano parsi a molti un po’ troppo allarmistici, e probabilmente lo furono, tuttavia ciò che si era colta è una questione di estrema importanza, da non sottovalutare quando si parla di navigazione in rete. Il riferimento era a come le più famose e diffuse piattaforme virtuali siano interessate ad ottenere informazioni su di noi e sulle nostre abitudini per sfruttare tali informazioni a vari scopi, primo fra tutti quello pubblicitario.
Nell’esperire il mezzo virtuale, lasciamo traccia di tutto ciò che facciamo e da questa traccia deriva, dunque, la descrizione degli interessi, delle consuetudini, dei modi di essere e di pensare che ci sono propri; una simile descrizione è dotata di un potenziale economico piuttosto rilevante per molte aziende, le quali, avvalendosi, allora, di un potentissimo strumento come Internet, cercano di analizzare il mercato per poi captare nuovi possibili consumatori e instaurare con loro relazioni di business. Il limite raggiunto da questa prassi ormai diffusa è rappresentato dalla cosiddetta “pubblicità comportamentale”, o “behavioural advertising”, e dall’intento di puntare su un target ben ristretto, selezionato e fortemente interessato che lo contraddistingue, il “behavioural targeting”.
Il Gruppo di lavoro istituito in virtù dell’articolo 29 della direttiva 95/46/CE (l’organo consultivo indipendente dell’UE per la protezione dei dati personali e della vita privata), in un parere adottato il 22 giugno 2010 allo scopo di offrire un quadro giuridico di riferimento per la materia, ha definito la pubblicità comportamentale come quella basata “sull’osservazione del comportamento delle persone nel tempo”: essa intende “studiare le caratteristiche del comportamento delle persone attraverso le loro azioni (frequentazione ripetuta di certi siti, interazioni, parole chiave, produzione di contenuti online, ecc.) al fine di elaborare un profilo specifico e quindi inviare messaggi pubblicitari che corrispondano perfettamente agli interessi dedotti”.
Offrendo agli inserzionisti un quadro estremamente dettagliato dell’attività online svolta dall’interessato (siti web e pagine specifiche visitate, durata di permanenza, ordine di visualizzazione dei vari elementi, ecc.), la pubblicità comportamentale si differenzia da quella contestuale, molto diffusa in rete, la quale, al contrario, si fonda su delle informazioni “istantanee” relative alla navigazione, cioè sui contenuti visualizzati in quel preciso momento: con riferimento ai motori di ricerca “il contenuto puo? essere dedotto dalle parole chiave della ricerca effettuata, dalla ricerca precedente o dall’indirizzo IP dell’utente (se indica la probabile ubicazione geografica dell’utente)”. Altro metodo usato per creare messaggi promozionali mirati in rete è la pubblicità segmentata, cioè “selezionata in base a caratteristiche note dell’interessato (eta?, sesso, ubicazione, ecc.), fornite dallo stesso nella fase di registrazione a un sito”.
La pubblicità comportamentale, in sostanza, distingue gli utenti tra quelli potenzialmente interessati alla sua azione promozionale e quelli sui quali tale azione cadrebbe presumibilmente inascoltata. Per farlo utilizza delle forme di elaborazione lato client, tipicamente dei marcatori detti “tracking cookie”: si tratta di un breve testo alfanumerico che viene archiviato, e successivamente recuperato, da un fornitore di rete pubblicitaria, nell’apparecchiatura terminale dell’utente che visita una particolare pagina rientrante nella sua rete, consentendo, in questo modo, al fornitore di creare un profilo del visitatore, profilo che verrà usato per trasmettere messaggi pubblicitari personalizzati. C’è da dire che la maggior parte dei browser web offre la possibilita? di bloccare tali cookie o di attivare sessioni private di navigazione che in automatico eliminano i cookie; per questo i fornitori di rete pubblicitaria hanno iniziato a sostituire quelli tradizionali con i “flash cookie”, che non possono essere cancellati attraverso le normali impostazioni di privacy previste dal browser web (pratica chiamata“respawning”). Di particolare interesse, proprio in materia di cookie, risulta un documento ufficiale redatto da ENISA, l’Agenzia Europea per la sicurezza delle informazioni e della rete, dal titolo “Bittersweet cookies. Some security and privacy considerations“.
Come si può facilmente intuire, il problema principale connesso ad una simile tecnica promozionale è rappresentato dall’implicita lesione della privacy per l’utente, spesso del tutto inconsapevole dell’elevata invasività nel tracciamento dei propri comportamenti. Stando all’interpretazione fornita nel parere del Gruppo di lavoro articolo 29 – teso a sottolineare come “tale pratica non debba essere attuata a spese del diritto della persona al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati” – i fornitori di reti pubblicitarie sono vincolati all’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche, la “direttiva e-privacy” (2002/58/CE), modificata dalla direttiva 2009/136/CE che avrebbe dovuto ricevere (ma non ha ricevuto) attuazione nel territorio italiano entro il 25 maggio 2011; secondo le indicazioni fornite dalla direttiva, si renderebbe necessario il consenso preventivo ed informato dell’interessato, per poter memorizzare od accedere ad informazioni archiviate nella sua apparecchiatura terminale. L’obbligo è riferito alla generica protezione di un aspetto della vita privata, perciò si applica a qualunque tipo di informazione, non solo ai dati di natura personale. Ad ogni modo, poiché la pubblicità comportamentale si basa “sull’uso di identificatori che consentono la creazione di profili utente molto dettagliati, considerati nella maggior parte dei casi dati personali”, si dovrebbero adottare in aggiunta anche i dettami della “direttiva privacy” (95/46/CE), relativi ai diritti degli interessati, alla qualità dei dati, alla sicurezza dei trattamenti ed ai limiti per il trasferimento internazionale dei dati. Nell’ordinamento italiano il riferimento è ovviamente al cosiddetto “Testo Unico sulla privacy”, il D.Lgs. 196/2003.
Le impostazioni dei browser e i meccanismi di opt-out attualmente messi a disposizione non sembrano essere adeguati, trasmettendo “il consenso soltanto in circostanze assai limitate”; l’auspicio è che i fornitori di reti pubblicitarie provvedano alla creazione di meccanismi di opt-in preliminare che “richiedano un’azione positiva dell’interessato” dalla quale “risulti la volontà di ricevere cookie o dispositivi analoghi e di accettare il conseguente monitoraggio del comportamento di navigazione ai fini della trasmissione di pubblicità personalizzata”. Sembra essere, inoltre, insufficiente, dal punto di vista dell’obbligo informativo, la semplice menzione dell’uso della pubblicità comportamentale all’interno delle condizioni generali del sito o dell’informativa sulla privacy, rendendosi, piuttosto, necessario comunicare agli utenti in modo semplice e chiaro tutti i dettagli del trattamento.
Lo scorso 14 aprile lo IAB, l’Associazione internazionale dedicata allo sviluppo della comunicazione pubblicitaria interattiva, ha varato un autoregolamento assieme ad alcune tra le principali aziende mondiali che si servono della pubblicità comportamentale (ad esempio Google, Yahoo, Aol, Yell, assente importante Facebook), imponendo loro di comunicare agli utenti se e quando utilizzino tale modalità promozionale. Ad affiancare l’iniziativa, fu creato anche un sito chiamato youronlinechoices, all’interno del quale gli utenti possono trovare facili spiegazioni e chiarimenti in merito al behavioural advertising e dove è possibile anche disattivare la pubblicità comportamentale delle società iscritte all’autoregolamentazione.
L’augurio è, allora, che si trovi il modo migliore per offrire una connotazione limpida ad una forma di comunicazione promozionale certamente positiva per molti aspetti, essendo ritagliata sull’utente, ma potenzialmente lesiva della volontà di riservatezza di questo utente, per non vederci costretti a protegger la nostra privacy ricorrendo a soluzioni tanto drastiche quanto paradossali, come lo è stato il Seppukoo, o suicidio virtuale…
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 25 luglio 2011
https://robertabarbiero.wordpress.com/2011/07/25/behavioural-advertising-ti-proponiamo-solo-cio-che-ti-interessa/
Una ricerca di McKinsey & Company, realizzata per conto di Iab Europa, rivela come l’insieme dei servizi gratuiti erogati nella rete e finanziati dall’online advertising generino un valore di 100 miliardi di euro
Stando ad uno studio realizzato da McKinsey & Company – l’autorevole società statunitense di consulenza manageriale e strategica – e commissionato da Iab Europe, il potenziale valore dei servizi fruiti nella rete a titolo non oneroso sarebbe monetizzabile in 100 miliardi di Euro, corrispondenti a circa 40 Euro per ogni singola utenza domestica.
In particolare, l’indagine è stata estesa ai mercati, piuttosto maturi, di Gran Bretagna, Francia, Spagna, Italia e USA e ha inteso esplorare quello che viene comunemente definito il “consumer surplus”: si tratta della dimensione economica generata da tutti i servizi web gratuiti, al netto dei costi legati a tali servizi, come ad esempio quelli di connessione e accesso alla rete, tenendo comunque sempre ben presente il fenomeno dell’“advertising disturbance”.
È, infatti, proprio grazie all’online advertising che viene garantita la mancanza di una esposizione economica diretta, da parte dell’utente, per l’utilizzo dei servizi web: ad ogni Euro speso dalle aziende in advertising, corrispondono dei servizi erogati valutabili in 3 Euro e, di conseguenza, il valore dei servizi gratuiti è stimato essere cinque volte superiore al costo dei servizi a pagamento. L’online advertising rappresenta poi il 17,65% del totale speso dalle aziende in media advertising e la cifra identificata come valore del web free si avvicina notevolmente al dato relativo alla spesa annuale sostenuta per la sottoscrizione di abbonamenti Internet (120 miliardi). Più di tre quarti degli utenti interpellati considerano il valore dei servizi gratuiti utilizzati due volte superiore al disturbo che deriva dalle pubblicità (e dalle problematiche sulla privacy ad esse legate), quantificando addirittura tale valore come cinque volte superiore alla cifra sborsabile per eliminare il disturbo causato dalla pubblicità. Lo studio ha inoltre confermato come solo il 20% degli utenti internet utilizzi dei servizi a pagamento.
Entrando più nel dettaglio, capiamo, allora, come la ricerca abbia voluto mettere a confronto il “consumer surplus” con il “producer surplus”, cioè il profitto reale realizzato dai fornitori (provider) dei servizi, stimabile in circa 20 miliardi di Euro. La conclusione, decisamente sorprendente, del ragionamento porta a inquadrare i consumatori della rete come i maggiori beneficiari (per circa l’85 %) del surplus complessivo generato dai servizi web. Non è finita qui: la prospettiva individuata è di una crescita annuale costante del 13% per il fenomeno del “consumer surplus”, che raggiungerebbe, così, i 190 miliardi di Euro nel 2015.
Lo studio prende in esame anche l’ipotesi di risolvere lo svantaggio dei fornitori attraverso una conversione di strumenti gratuiti in strumenti a pagamento: la conseguenza sembra essere una notevole riduzione nell’utilizzo della rete da parte di un buon 40% degli utenti, il che si tradurrebbe, per usare un tecnicismo, in un “negative consumer surplus”. Il rapporto tra servizi gratuiti e a pagamento si trova, infatti, attualmente, in una sorta di equilibrio e la crescita degli utenti disposti a pagare sarebbe possibile esclusivamente attraverso un considerevole abbassamento dei prezzi.
Arrivando ad auspicare un immediato confronto con la Commissione Europea in merito alle politiche da adottare per uno sfruttamento positivo dell’online advertising, Alain Heureux, Presidente e CEO di Iab Europe, ha sottolineato come tale forma di finanziamento “giochi un ruolo di fondamentale importanza nel permettere l’erogazione di servizi e nel favorire lo sviluppo e la distribuzione di contenuti, oltre ad avere primaria importanza nel sostenere l’industria creativa. Il report permette inoltre di osservare come i consumatori di oggi siano capaci di fare scelte ragionate in merito all’utilizzo dei servizi web gratuiti e quando sia invece opportuno pagare – a dimostrazione che regole troppo ferree in merito all’utilizzo della rete correrebbero il rischio di avere solamente effetti negativi sull’uso della rete in generale”.
Ribadisce poi Roberto Binaghi, Presidente di Iab Italia, che “l’advertising online è una grande risorsa per il web e per tutti gli utenti del mondo, che proprio grazie agli introiti che derivano dalla pubblicità possono usufruire di contenuti e servizi completamente gratuiti”; egli è convinto che “il ruolo centrale dell’advertising online, anche nel nostro Paese, dovrà essere qualcosa di cui tenere conto nelle sedi di dibattito istituzionale, quando dovranno essere prese delle decisioni in merito ai possibili sviluppi del settore, come avverrà nei prossimi mesi in ambito di recepimento del c.d. ‘Pacchetto Telecom’ che rischia di rallentare – senza apportare gli auspicati benefici alla privacy – lo sviluppo del mercato”.
Pubblicato su: pmi-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 23 settembre 2010
https://robertabarbiero.wordpress.com/2010/09/23/advertising-online-il-valore-miliardario-del-free-web/