Agenzia delle Entrate: spinta all’informatizzazione e calo dei rimborsi e delle compensazioni

Complessivamente considerati ammontano a 39,5 miliardi i rimborsi e le compensazioni erogati nel 2010, con una riduzione, rispetto al 2009, del 20% e con un risparmio di 6,6 miliardi dalle compensazioni indebite

Circa 39,5 miliardi nel 2010, contro i 49,4 miliardi nel 2009: sono queste le cifre riferite all’ammontare complessivo dei rimborsi e delle compensazioni erogati dall’Agenzia delle Entrate.

Registrato, quindi, un calo pari a circa 20 punti percentuali in un solo anno, fenomeno legato, da una parte, alla riduzione nell’ammontare dei crediti da rimborsare, dall’altro, alle misure poste in essere per contrastare le compensazioni illecite, grazie alle quali sono stati risparmiati ben 6,6 miliardi di euro.

A tutto questo si aggiunga il fatto che l’Agenzia segnala di aver portato nelle casse dell’Erario più di 10,6 miliardi di euro nel 2010, contro i 9,1 miliardi del 2009. In un comunicato ufficiale si parla, in particolare, di “strategia vincente del Fisco sulla strada del recupero dell’evasione” e si sottolinea come, aggiungendo ai soli “incassi derivanti direttamente dall’attività di accertamento e di liquidazione delle dichiarazioni, anche i 480 milioni di riscossioni da ruolo relative a interessi di mora e maggiori rateazioni”, l’importo complessivo delle somme rese disponibili ai conti pubblici e sottratte all’evasione raggiunge gli oltre 11 miliardi di euro.

Si è dimostrato particolarmente fiducioso Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate, nel corso della puntata di ieri di Sky Tg 24 Economia, evidenziando come nel 2011 i risultati della lotta all’evasione fiscale potrebbero essere addirittura migliori di quelli ottenuti con riferimento al 2010. «Più che una previsione – ha spiegato – è un augurio perché siamo all’inizio dell’anno. Ma i segnali sono positivi». «Nei primi due mesi e mezzo stiamo confermando i risultati del 2010 e forse riusciremo a fare qualcosa di più».

Nei giorni scorsi Befera, con riferimento al risultato ottenuto sulle compensazioni, aveva sottolineato, inoltre, come esso fosse «frutto del grande lavoro condotto dalla task force dell’Agenzia che ha potuto contare anche sul contributo dei professionisti». Pure Claudio Siciliotti, Presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili (Cndcec) sottolineava la rilevanza del contributo di natura professionale: «C’è stata una vera e propria cooptazione dei commercialisti, affinché attestino nell’interesse dello Stato la conformità delle dichiarazioni Iva dei contribuenti che chiudono a credito con la sottostante documentazione. I risultati evidenziati da Befera testimoniano la validità della scelta operata dall’amministrazione».

Un altro elemento di grande novità, che emerge dai dati rilevati dall’Agenzia, riguarda lo slancio verso l’informatizzazione nel rapporto tra l’Agenzia stessa e i contribuenti. Nel 2010 sono state circa 43 milioni le dichiarazioni fiscali inviate online, 2,5 le cosiddette “altre comunicazioni telematiche”, 2,8 milioni gli atti pubblici registrati digitalmente, e 172 mila i contratti di locazioni che hanno viaggiato nel web.

Con riferimento, poi, ai versamenti eseguiti tramite modello F24, si rileva come, ad usare il cartaceo, siano state 36,6 milioni di unità a fine dello scorso anno, contro gli 85 milioni del 2001; i modelli inviati telematicamente sono stati, invece, nel 2010, 87,2 milioni, contro l’1,3 milioni del 2001. In particolare è a partire dal 2006 – quando è diventato obbligatorio per alcune categorie di contribuenti (come le società di capitali, gli enti pubblici e privati che esercitino attività commerciali) l’utilizzo del modello F24 telematico – che si è registrato un forte incremento nell’utilizzo della forma digitale, passando da 6,1 milioni di unità nel 2005, ai 14,3 milioni. Successivamente, nel 2007, quando l’obbligo dell’F24 telematico è stato esteso a tutti i contribuenti titolari di partita Iva, si è passati a ben 71,7 milioni unità, e nel 2008, quando l’estensione ha coinvolto le PA titolari di conti di tesoreria presso la Banca d’Italia, si sono raggiunti gli 84,2 milioni. Parallelamente è cresciuto anche il numero di utenti abilitati ai servizi telematici Fisconline, dedicato alle persone fisiche e alle piccole imprese, ed Entratel, cui si rivolgono i professionisti e le medie e grandi imprese: mentre nel 2001 gli iscritti ai due canali erano poco meno di 87 mila, nel 2010 si è passati a ben 1,5 milioni.

Pubblicato su: PMI-dome

Pubblicità

Il DPCM 2 marzo 2011 e la conservazione sostitutiva di documenti con rilevanza fiscale

Il provvedimento attuativo del CAD prevede che si continuino a far valere le indicazioni previste dal DM 23 gennaio 2004

 

Attraverso il D.P.C.M. 2 marzo 2011, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 25 marzo, si precisa il fatto che, per la conservazione sostitutiva dei documenti con rilevanza tributaria, continuano a valere le regole previste dal D.M. 23 gennaio 2004.

Questo nonostante la previsione dell’articolo 20, comma 5-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, Codice delle amministrazioni digitali (CAD) – recentemente modificato dal decreto legislativo 30 dicembre 2010 , n. 235 – secondo il quale “gli obblighi di conservazione e di esibizione di documenti previsti dalla legislazione vigente si intendono soddisfatti a tutti gli effetti di legge a mezzo di documenti informatici, se le procedure utilizzate sono conformi alle regole tecniche dettate ai sensi dell’articolo 71”.

Il D.P.C.M. in questione rappresenta il primo provvedimento attuativo per la disciplina di casi particolari, così come previsto dall’articolo 2, comma 6 del CAD: “[…] con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, tenuto conto delle esigenze derivanti dalla natura delle proprie particolari funzioni, sono stabiliti le modalità, i limiti ed i tempi di applicazione delle disposizioni del presente Codice alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché all’Amministrazione economico-finanziaria”.

Per la conservazione dei documenti informatici di natura tributaria si parte, allora, dalla loro memorizzazione e si arriva alla sottoscrizione elettronica e all’apposizione della marca temporale, diversamente dal riferimento temporale richiesto dalle regole tecniche DigitPa, Ente nazionale per la digitalizzazione della pubblica amministrazione (prima Cnipa, Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione).

Per quanto riguarda, invece, la conservazione informatica di documenti analogici rilevanti ai fini fiscali, si procede con la digitalizzazione di tali documenti tramite scanner e il risultato di tale operazione sarà un’immagine che seguirà un processo identico a quello usato per i documenti informatici.

Il processo di conservazione deve essere realizzato almeno ogni quindici giorni, con riferimento alle fatture di tipo elettronico, o annualmente, con riferimento, invece, a tutti gli altri documenti. Il responsabile della conservazione o il soggetto eventualmente interessato ad estendere la validità dei documenti conservati in via sostitutiva deve dare comunicazione, attraverso la rete, all’Agenzia delle Entrate circa l’impronta dell’archivio informatico conservato, la relativa sottoscrizione elettronica e la marca temporale, il tutto entro il quarto mese successivo alla scadenza dei termini stabiliti per la presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi, all’Irap e all’Iva.

In ambito tributario, inoltre, continueranno ad essere usate delle logiche autonome nella gestione delle dinamiche connesse alla sicurezza informatica, alla privacy e allo scambio comunicativo (l’utilizzo di PEC rimane obbligatoria per tutte le PA ma non per l’ambito in questione, anche se l’amministrazione finanziaria potrà notificare propri atti impositivi, quali avvisi di accertamento e di rettifica o liquidazione, alla casella di PEC conosciuta): Fisconline e Entratel saranno ancora canali privilegiati di dialogo tra Fisco e contribuenti od intermediari abilitati.

Pubblicato su: PMI-dome

Semplificazione burocratica del rapporto tra imprese e p.a.

Inizieranno presto ad essere operative alcune delle indicazioni del DPR 7 settembre 2010, n. 160, con la previsione di un unico soggetto pubblico territoriale di riferimento per le imprese e con l’informatizzazione delle procedure

 

L’iniziativa economica privata è libera” – lo afferma l’art. 41 della nostra Costituzione da oltre sessant’anni – ma non è certo esente da impicci e pasticci burocratici, legati alla pluralità di interlocutori ai quali tale attività è costretta a rivolgersi e capaci di dilungare o addirittura rendere incerti i tempi d’avvio della stessa attività economica.

Il progetto Burocrazia: diamoci un taglio!, avviato il 25 novembre 2009 dal Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione in collaborazione con Linea Amica (il “contact center multicanale della P.A. italiana” realizzato da Formez PA, che “fornisce ai cittadini informazioni e assistenza nei rapporti con la P.A”) nasceva proprio con l’obiettivo dichiarato di raccogliere le libere segnalazioni e proposte dei cittadini, per arrivare a individuare i principali aspetti delle complicazioni burocratica nel contesto italiano e ad intervenire, di conseguenza, con azioni idonee a risolverle. Il processo di ricerca in direzione di una maggiore semplificazione burocratica sembra essersi accompagnato, allora, alla richiesta di un contributo diretto da parte dei cittadini, delle imprese e delle loro associazioni, contributo che spesso si è manifestato con proposte di informatizzazione o di accentramento delle procedure.

Con riferimento al mondo dell’imprenditoria, c’è stato, ad esempio, chi ha auspicato la realizzazione di “uno sportello telematico per le imprese che assicuri davvero all’imprenditore la possibilità di avere tutte le autorizzazioni necessarie senza essere costretti a rivolgersi a tante amministrazioni diverse”; un non meglio identificato dipendente privato veneto ha sottolineato come non abbia senso “che il cittadino debba farsi carico di informare tutti (e sono tanti) gli enti pubblici delle proprie iniziative portando nelle varie sedi niente altro che copie degli stessi dati”; un imprenditore del Lazio, ancora, ha raccontato di aver dovuto attendere settimane prima di avviare la propria attività, costretto ad “aspettare la visita di un impiegato dell’ASL per ottenere l’autorizzazione” e ad attendere il successivo invio della stessa autorizzazione su carta. La risposta del Ministero a tali segnalazioni è stata l’approvazione in via definitiva dei regolamenti che prevedono la realizzazione di uno Sportello Unico per le Attività Produttive (SUAP): un unico punto di riferimento telematico, sia a livello informativo, sia operativo, cui le imprese possono rivolgersi per le pratiche burocratiche che sono costrette ad assolvere nel corso della loro intera esistenza.

Cerchiamo, allora, di entrare un po’ più nel dettaglio e di capire in cosa consista tale sportello. Esso rappresenta fondamentalmente “uno strumento di semplificazione amministrativa che utilizza a sua volta altri strumenti di semplificazione (conferenza di servizi, SCIA, silenzio assenso, accordo tra amministrazione e privati ecc.) al fine di snellire i rapporti tra Pubblica Amministrazione (P.A.) ed utenza”, come si evidenzia su www.impresainungiorno.gov.it, il portale pensato proprio per imprese e SUAP, evoluzione di www.impresa.gov.it, e corrispondente ad un preciso modello di amministrazione, capace di gestire per via telematica gli adempimenti a carico delle imprese nel corso del loro rapporto con le pubbliche amministrazioni.

Lo Sportello Unico era stato inizialmente previsto e disciplinato dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 447 del 20 ottobre 1998 – “regolamento recante norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l’ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione d’impianti produttivi, per l’esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché la determinazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi, a norma dell’articolo 20, comma 8, della Legge 15 marzo, n. 59” – e successive modifiche, il quale prevedeva un unico ed esclusivo canale tra imprenditore e amministrazione, con conseguente eliminazione delle ripetizioni nell’attività istruttoria e nella produzione documentale. Tuttavia un simile canale non ha trovato attuazione, presumibilmente per il difficile collegamento tra amministrazioni di diverse competenze e dunque disomogenee tra loro, per la mancanza di una precisa definizione e precisazione dei servizi erogabili e per l’incertezza circa le tempistiche di realizzazione.

A riordinare la materia c’ha pensato poi l’articolo 38, comma 3, del decreto legge 25 giugno, n. 112, recante “disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, coordinato con modificazione dall’articolo 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 195 del 21 agosto 2008.

La L. 133/2008 prevedeva, in particolare, l’emanazione di un regolamento da adottarsi “ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro per la semplificazione normativa, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni”, “nel rispetto di quanto previsto dagli articoli 19, comma 1 e 20, comma 4, della legge n. 241 del 1990” e secondo i principi e criteri elencati nel citato comma 3.

Tale regolamento è stato emanato, infine, con il DPR del 7 settembre 2010, n. 160 (recante appunto “Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133”), il quale ha abrogato il previgente DPR 447/1998 e ha ridefinito, semplificandola, la disciplina dei SUAP.

All’art. 2, comma 1, il regolamento individua il SUAP come “unico soggetto pubblico di riferimento territoriale” per tutti quei procedimenti che “abbiano ad oggetto l’esercizio di attività produttive e di prestazione di servizi, e quelli relativi alle azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o riconversione, ampliamento o trasferimento, nonché cessazione o riattivazione delle suddette attività, ivi compresi quelli di cui al decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59”. Esso dovrebbe garantire al richiedente “una risposta telematica unica e tempestiva in luogo degli altri uffici comunali e di tutte le amministrazioni pubbliche comunque coinvolte nel procedimento, ivi comprese quelle preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità” (art. 4, comma 1).

Così come le imprese avranno un unico destinatario per le loro richieste, allo stesso modo tutte le comunicazioni rivolte alle imprese richiedenti dovranno essere trasmesse esclusivamente dal SUAP, il cui ufficio competente ed il cui responsabile “sono individuati secondo le forme previste dagli ordinamenti interni dei singoli comuni o dagli accordi sottoscritti in caso di associazione, che dispongono anche in ordine alla relativa strutturazione” (art. 4, comma 4).

Requisito fondamentale per il SUAP è la capacità di avviare, gestire e concludere i diversi procedimenti per via informatica, telematica (come disposto all’art. 2 comma 2) e gli aspetti specifici di tale trasmissione sono descritti nell’Allegato tecnico al regolamento, di cui all’articolo 12, comma 5.

Il regolamento individua nel portale Impresainungiorno, prima citato, la funzione di raccordo con le infrastrutture e le reti già operative (art. 3), per lo scambio informativo e l’interazione telematica tra le amministrazioni e gli altri Enti interessati: è di competenza del portale il collegamento e il reindirizzo ai sistemi informativi e ai portali già realizzati, garantendo la interoperabilità tra le amministrazioni (art. 3 comma 2).

Si introducono, inoltre, nel sistema, le Agenzie per le imprese, dei soggetti privati ali quali sono riconosciute funzioni di natura istruttoria e d’asseverazione.

Secondo quanto previsto dall’articolo 12 del DPR, comma 1, punti a e b, e comma 7, il regolamento ha efficacia secondo tue tempistiche differenti, con riferimento, da una parte, ai Capi I, II, III, V, e VI, e, dall’altra, alle norme di cui al capo IV.
In altre parole, a partire dal 29 marzo 2011, entrano in vigore le norme relative al procedimento automatizzato o con SCIA, quindi lo sportello unico dovrà operare in modalità telematica per i provvedimenti soggetti a SCIA e, allo stesso modo, la SCIA dovrà essere presentata al SUAP esclusivamente per via telematica. La SCIA, non nuoce ricordarlo, è la Segnalazione Certificata di inizio attività, prevista dall’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che ha sostituito e semplificato la DIAP (Dichiarazione di Inizio Attività Produttive). Laddove il sistema telematico non sia ancora stato attivato, saranno le Camere di commercio a svolgere il servizio di accentramento digitale rispetto alla pluralità delle amministrazioni. La segnalazione di inizio attività potrà essere inviata anche contestualmente alla creazione dell’impresa stessa: in questo caso la Scia dovrà contenere in allegato anche la comunicazione unica all’agenzia delle Entrate e agli enti previdenziali, e quando il Registro imprese riceverà la pratica, la girerà allo Sportello unico, il quale rilascerà all’impresa la ricevuta e la possibilità di operare.
Dal 1° ottobre 2011, invece, dovrà entrare in vigore l’intero regolamento per i SUAP, da attuarsi con riferimento al procedimento ordinario di autorizzazione per le attività produttive.

Stando alle stime, tra comuni già attivi nel nuovo sistema e altri in attesa, potrebbero essere ben tremila le realtà connesse allo sportello telematico. «Per il successo dello Sportello unico – evidenzia il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanellooccorre risolvere alcune criticità. In primo luogo, è necessario disboscare centinaia di adempimenti davvero inutili. Quindi, bisogna lavorare per uniformare il più possibile le procedure amministrative su tutto il territorio».
A preoccupare è, infatti, la difficoltà nel porre in atto delle procedure standardizzate a livello nazionale, viste le differenze di natura operativa e infrastrutturale che caratterizzano i diversi contesti territoriali. Non va tralasciato, poi, il fatto che non tutti i paesi possono già disporre di un servizio di banda larga, perciò l’esclusività del mezzo informatico potrebbe sembrare un’ipotesi per certi versi azzardata o, almeno, non sempre implementabile.

Sottolinea un più ottimista Valerio Zappalà, direttore generale di InfoCamere, come quella del 29 marzo non sia «una scadenza in cui si consegna un prodotto o si ‘collauda’ un sistema informatico: è una data che segna l’inizio di un nuovo modo di concepire i servizi alle imprese a livello territoriale, dove è decisiva la qualità del rapporto di cooperazione tra amministrazioni diverse, Camere di Commercio e Comuni in primis. Dal 29, dunque, inizierà una nuova fase, in cui gli sportelli unici dovranno avviarsi e opereranno consolidando passo dopo passo gli aspetti organizzativi, tecnologici e di rapporto, sia con l’utenza che con gli altri interlocutori istituzionali».

Furto d’identità in Rete: identikit all’italiana

Secondo una ricerca realizzata da Cpp Italia e Unicri, a subire maggiormente il furto d’identità in Italia sarebbero i giovani tra i 25 e i 30 anni e le aree più a rischio sarebbero quelle nord occidentali e centrali

È giovane, di età compresa tra i 25 e i 30 anni ed è residente nell’Italia nord occidentale e centrale: questo, incredibilmente, l’identikit dell’italiano maggiormente esposto al pericolo di subire un furto di identità in Rete.

A delineare tale profilo è stata una ricerca realizzata da Cpp Italia – divisione della compagnia inglese “leader a livello internazionale nella protezione e tutela di tutti quegli strumenti che sono diventati ormai necessari nella vita quotidiana come le carte di credito e di debito (Bancomat), i telefoni cellulari, le chiavi di casa e la difesa della propria identità” – in collaborazione con Unicri, l’Istituto Interregionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Crimine e la Giustizia, fondato nel 1969.

Il dato contrasta certo con il senso comune che tende a considerare i giovani di quell’età come maggiormente capaci di padroneggiare il mezzo; al contrario l’etichetta di navigatori particolarmente attenti sembra andare ai cittadini rientranti nella fascia d’età che va dai 31 ai 40 anni, meno ingenui e più smaliziati rispetto ai possibili pericoli della rete. A rischio, invece, pure i 41-50enni, probabilmente a causa di un’alfabetizzazione informatica avvenuta in età piuttosto avanzata.

Dal punto di vista geografico, le aree più esposte sono il Nordovest e il Centro Italia, meno il Nordest e il Sud (con le Isole). La ricerca si è soffermata, inoltre, sui comportamenti adottati dagli utenti a difesa da questo pericolo: il 92% degli intervistati da Cpp Italia utilizza un antivirus, l’84% cancella le e-mail di sconosciuti, mentre solo il 57% utilizza password differenziate; una percentuale compresa tra il 50% e il 54% degli intervistati utilizza firewall e antispyware o cancella la cronologia del browser e i suoi cookies. A rischio è la sicurezza dei dati sensibili non solo di coloro che su Internet navigano regolarmente (circa 55%), ma anche di coloro che non ci vanno mai (34%). Per quanto riguarda, invece, lo stato psicologico di chi subisce la frode, stando al resoconto di Cpp, il sentimento più diffuso è, comprensibilmente, quello di rabbia, frustrazione e impotenza, con risvolti di depressione, specie nelle donne. Coloro che non sono stati vittime di furto d’identità hanno dichiarato, per la maggior parte, che sarebbero stati colti da panico, nell’ipotesi della scoperta di un simile furto, a causa delle numerose cose da fare contemporaneamente e a causa della mancanza di un’idea precisa circa tutti i passi da seguire per risolvere il problema. Gli intervistati sembrano, quindi, auspicare un livello di informazione maggiore da parte dei media, per capire a chi rivolgersi e come muoversi.

L’attenzione al fenomeno si è concentrata finora soprattutto nei Paesi anglosassoni, dove il furto d’identità è massicciamente presente (in particolare negli USA), ma certo anche in Italia tale reato – già punito dall’art. 494 c.p., rubricato “Sostituzione di persona” – sembra destinato ad espandersi. «La nostra ricerca – spiega Walter Bruschi, amministratore delegato di Cpp Italiaha rilevato una serie di comportamenti potenzialmente pericolosi, che tutti poniamo in essere ogni giorno. L’82,5%, degli intervistati, ad esempio, rilascia online il proprio nome e cognome. Il 59% mette anche la data di nascita, il 48% anche il proprio indirizzo e il 33% anche il proprio numero di cellulare. Anche se pochi rilasciano tranquillamente il numero della propria carta di credito o il Pin».

«Tutti questi comportamenti – continua Bruschi – non sono pericolosi in assoluto. A fare la differenza sono i siti Internet sui cui vengono rilasciati i dati […] .Il consiglio è quindi sempre quello di prestare attenzione all’attendibilità di chi ci richiede le informazioni e soprattutto di non accedere mai a un sito Internet cliccando su un link presente in una e-mail ricevuta, ma digitare sempre personalmente l’indirizzo: quel link, infatti, potrebbe riportare a un sito “falso” ma con tutte le caratteristiche grafiche di quello originale. Immettendoci i nostri dati, li consegneremmo nelle mani dei truffatori». Meglio, conclude Bruschi, «non inserire troppi dati personali quando ci si iscrive a un social network e soprattutto meglio utilizzare password differenti per i vari accessi a siti o servizi Internet».

Pubblicato su: PMI-dome

Le novità del 730 contenute nella circolare 14/E

Rimborso relativo alle somme erogate negli anni 2008 e 2009 a titolo di incremento della produttività e assoggettate a tassazione ordinaria, presentazione telematica del 730 al proprio sostituto d’imposta, istruzioni sulla trasmissione del risultato contabile contenuto nei mod. 730-4

Con l’intenzione di dettagliare tutte le novità introdotte nelle procedure di adempimento agli obblighi di dichiarazione dei redditi 2011, l’Agenzia delle Entrate ha emesso, lo scorso 14 marzo, la circolare n. 14/E, avente, appunto, ad oggetto “Modello 730/2011 – Redditi 2010 – Assistenza fiscale prestata dai sostituti di imposta, dai Centri di assistenza fiscale per lavoratori dipendenti e dai professionisti abilitati”.

La prima di tali novità riguarda le modalità usate per calcolare il rimborso delle imposte pagate in relazione a delle somme erogate nel 2008 e nel 2009 a titolo di incremento della produttività e assoggettate a tassazione ordinaria invece che ad imposta sostitutiva; il contribuente può – precisa la circolare –  chiedere il rimborso, nell’ambito dell’assistenza fiscale, presentando il 730/2011 “a un CAF o a un professionista abilitato nonché al sostituto d’imposta in determinati casi”, purché sia in possesso di “un CUD che ne certifica la corresponsione”. Chi è chiamato a prestare assistenza fiscale avrà, allora, l’importante compito di ricalcolare il reddito di lavoro dipendente per gli anni in questione, le detrazioni legate al reddito complessivo e l’importo da rimborsare.

La circolare, addentrandosi nell’ambito dei compensi, sottolinea anche come il contribuente che abbia presentato “una dichiarazione modello 730 debitamente e correttamente compilata in tutti i campi relativi alla documentazione prodotta e a quelli riferiti alle proprie condizioni familiari e comunque rilevanti ai fini fiscali” non sia tenuto a corrispondere alcun corrispettivo al centro di assistenza fiscale o al professionista abilitato (assistenza fiscale indiretta). Un corrispettivo può essere, invece, richiesto al contribuente “nelle ipotesi di prestazioni di altre attività quali, ad esempio, la richiesta da parte del contribuente di essere informato direttamente dal CAF o dal professionista su eventuali comunicazioni provenienti dall’Agenzia delle entrate”; oppure nel caso in cui “il contribuente, con la compilazione del rigo 13 del quadro F del modello 730/2011, abbia richiesto il rimborso per somme erogate a titolo di incremento della produttività negli anni 2008 e/o 2009 assoggettate a tassazione ordinaria”, poiché, “per il calcolo del rimborso richiesto, il soggetto che presta l’assistenza deve effettuare una nuova liquidazione per ognuna delle pregresse annualità interessate”. In caso di assistenza fiscale diretta (svolta cioè da un proprio sostituto di imposta), la richiesta di rimborso delle imposte relative a somme erogate per incremento della produttività potrà essere effettuata solo se lo stesso sostituto ha fornito l’assistenza fiscale per l’anno o gli anni cui si riferiscono le somme erogate, o se, per gli stessi anni, il dipendente non ha presentato la dichiarazione dei redditi, poiché esonerato, e ha un solo CUD rilasciato dallo stesso sostituto.

Il contribuente dovrà consegnare il modello 730 compilato e sottoscritto – “unitamente al modello 730-1 per la scelta della destinazione dell’8 per mille dell’Irpef e del 5 per mille dell’Irpef, anche se non compilato, nell’apposita busta chiusa” – entro sabato 30 aprile 2011, se è destintato al proprio sostituto d’imposta, entro martedì 31 maggio 2011, se il è destinato a un CAF o a un professionista abilitato.

Altro elemento di forte innovazione è rappresentato, con riferimento all’assistenza diretta prestata dal sostituto d’imposta, dalla possibilità di “utilizzare i sistemi informatici per la presentazione del 730 da parte del dipendente e per la consegna da parte del sostituto della dichiarazione elaborata, nel rispetto delle regole di sicurezza e di agibilità per garantire nell’utilizzo di tale procedura sia il dipendente che il sostituto”. Il contribuente potrà quindi presentare telematicamente la dichiarazione al proprio sostituto d’imposta, “purché il sostituto abbia provveduto all’istituzione di un sito internet dedicato e abbia fornito i dipendenti di utenza e password personali” e ferma restando la consegna “in forma cartacea per mezzo di apposita busta chiusa” del modello 730-1. A sua volta il sostituto potrà utilizzare la modalità telematica per consegnare ai sostituiti, entro il 31 maggio, la copia della dichiarazione elaborata e il prospetto di liquidazione (730-3). In questo caso, oltre ad essere in possesso dei codici personali, i contribuenti devono essere avvisati in merito alla disponibilità della dichiarazione elaborata sul sito dedicato, poter stampare il modello e “ricevere apposita informazione della necessità di stampare e sottoscrivere la dichiarazione e conservarla”.

Ultimo punto di novità è costituito dalle “istruzioni relative alla trasmissione telematica del risultato contabile contenuto nei mod. 730-4”. Nella circolare si sottolinea, infatti, che il risultato finale delle dichiarazioni è reso disponibile, in via telematica, “ai sostituti d’imposta dall’Agenzia delle entrate a seguito della trasmissione telematica effettuata dai CAF ai sensi dell’16 del decreto ministeriale n. 164 del 31 maggio 1999”; si fa poi riferimento ad un modello (“Comunicazione per la ricezione in via telematica dei dati relativi ai mod. 730-4 resi disponibili dall’Agenzia delle Entrate”) approvato da un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 25 febbraio 2011 e che dev’essere compilato dai sostituti d’imposta e trasmesso entro il 31 marzo. Si precisa, infine, che “poiché il modello di comunicazione […] richiede l’indicazione di nuovi dati per l’identificazione del sostituto d’imposta deve essere presentato anche da chi negli anni scorsi ha già partecipato al flusso telematico dei modelli 730-4”.

Pubblicato su: PMI-dome

150 milioni di euro per le PMI bresciane

Accordo tra UBI Banco di Brescia e AIB per destinare risorse all’approvvigionamento di materie prime e alla copertura dei fabbisogni aziendali

Le piccole e medie imprese bresciane potranno contare su un plafond di 150 milioni di euro, messo loro a disposizione da UBI Banco di Brescia in seguito ad un accordo con l’A.I.B., l’Associazione Industriale Bresciana che associa circa 1300 imprese e che svolge, “accanto ai compiti di rappresentanza nei confronti delle parti politiche e sociali […], funzioni di assistenza alle imprese attraverso una vasta gamma di servizi mirati a rendere agevole la gestione ed a costruire una vera e propria cultura imprenditoriale”.

L’ingente somma sarà destinata, da una parte, all’approvvigionamento delle materie prime necessarie allo svolgimento dell’attività imprenditoriale e, dall’altra, servirà a coprire i reali fabbisogni aziendali.

Con riferimento a quest’ultimo punto, l’obiettivo, sottolineano i promotori, è sostenere le pmi associate ad AIB e, nel concedere il finanziamento, verranno scelte, in particolare, le imprese con un rating interno alla banca classificato con rischio “medio e basso”. Un’ulteriore discriminante sarà la motivazione della richiesta: verranno prese in considerazione le richieste funzionali a nuovi investimenti o dettate da esigenze connesse alla gestione del capitale circolante a medio e lungo termine; potrebbero poi essere finanziati anche acquisti e rinnovi di beni materiali (non terreni) e investimenti in ricerca e sviluppo.

Con riferimento, invece, al primo punto, l’istituto bancario sosterrà finanziariamente imprenditori e aziende associate ad AIB nella loro attività di reperimento delle materie prime e nella fornitura di strumenti di copertura e gestione del rischio di volatilità dei prezzi.

L’accordo – siglato lunedì 15 marzo presso la sede AIB di via Cefalonia a Brescia dal presidente Giancarlo Dallera e dal direttore generale del Banco di Brescia Elvio Sonnino – viene presentato nel corso di un convegno dal titolo “Il cambio del paradigma di un’impresa e di un territorio che competono e vincono: nuove idee e nuovi strumenti”, dalle 15.45 alle 18.00. In tale occasione vengono presentati nuovi strumenti per l’analisi delle dinamiche economico-finanziarie che coinvolgono le imprese lombarde, allo scopo di trovare nuove strade da percorrere per facilitare il dialogo tra banca e impresa. In particolare, si cerca di approfondire le modalità di determinazione del rating interno, alla luce delle novità introdurre da Basilea 3, e di capire come supportare l’impresa nell’analisi del proprio posizionamento e nella valutazione, in prospettiva, dei propri reali fabbisogni finanziari. Il focus passa poi sulle materie prime, sul contesto attuale del mercato loro riferito e sulle soluzioni di copertura relative. L’analisi passa, infine, agli strumenti per la gestione del capitale circolante.

Pubblicato su: PMI-dome

Lo Stato? Una macchina che depreda le risorse per sperperarle

Un’indagine della CCIAA di Milano rileva le intenzioni di 1.700 imprese milanesi circa la possibilità o meno di celebrare l’Unità d’Italia

Emilio Gentile, tra i maggiori storici contemporanei, lo afferma senza molti giri di parole: «l’immagine che gli italiani hanno dello Stato è oggi di un’enorme macchina che depreda le risorse per sperperarle nel lusso di una classe politica che non rappresenta più il Paese, o per dirottarle su regioni improduttive o su imprese che nulla hanno a che fare con i cittadini, mentre sta aggravandosi una grave diseguaglianza sociale»; la sua disamina, tra le pagine di Focus Extra, ben evidenzia il forte indebolimento nel comune senso della nazione. È probabilmente a causa di un simile disagio generalizzato che si sono sviluppate le numerose polemiche delle scorse settimane circa la possibilità o meno di festeggiare la ricorrenza, il 17 marzo, dei 150 anni dell’Unità italiana.

Dopo le dichiarazioni ufficiali della Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, la quale auspica che «la giornata del 17 marzo venga celebrata come una ricorrenza importante, ma senza che ciò comporti la perdita di preziose ore di lavoro o un aggravio di costi per le imprese»; dopo la nota congiunta di Rete Imprese Italia, Confapi, Confcooperative e Confagricoltura, nella quale ci si dichiarava “convinti che la ricorrenza del 17 marzo avrebbe potuto essere celebrata al meglio lavorando, producendo reddito e raccogliendosi attorno alla bandiera nazionale negli uffici e nelle fabbriche“; dopo le voci divise di sindacati ed esponenti del mondo politico italiano; dopo tutto questo lungo fiume di polemiche, la Camera di Commercio di Milano ha cercato di compiere delle previsioni relative alla rilevanza pratica di tali polemiche e lo ha fatto attraverso un’indagine, condotta su circa 1.700 imprese milanesi, circa l’intenzione reale di celebrare o meno l’unità d’Italia. Ciò che ne deriva sono dei festeggiamenti a macchia di leopardo, sconfitto qualsiasi pronostico che puntasse su un orientamento univoco: un’impresa su sette non festeggerà, una su cinque farà l’intero ponte, da giovedì a domenica, mentre la metà chiuderà un giorno solo.

Più difficile, invece, valutare con precisione l’impatto che la chiusura potrebbe avere sui fatturati aziendali; le stime della Camera di Commercio milanese parlano di un 20% d’imprese che potrebbe subire un calo, di un 3% che, al contrario, avrà delle maggiori entrate proprio grazie alla festa, di una maggioranza (il 54,5%) che non ritiene rilevante il festeggiamento ai fini economici, infine di un 11% che stima una contrazione compresa tra lo 0 e il -1%.

L’indagine, tuttavia, ha inteso cogliere, almeno in parte, anche la diffusione del senso d’italianità, ponendo l’interrogativo su cosa si festeggi il 17 marzo, interrogativo al quale il 2,3% degli imprenditori non ha proprio saputo rispondere; per il 5,6% si tratterebbe, inoltre, di un giorno lavorativo come gli altri e per il 6,5% di una ricorrenza che si ripeterà ogni anno: la riflessione di Gentile non sembrerebbe essere, quindi, molto lontana dalla realtà.

Pubblicato su: PMI-dome

Giustizia italiana: un peso che grava sulle imprese

Stando ad un’elaborazione della CGIA di Mestre, il malfunzionamento della giustizia italiana costerebbe alle imprese ben 2,66 miliardi

 

La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata […]”.

L’articolo 111 della nostra Costituzione impone una durata “ragionevole” dei procedimenti giudiziari e questo stesso concetto è pure presente nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella quale, all’articolo 6 (rubricato “diritto a un equo processo”), comma 1, si afferma che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole […]”.

Tuttavia, com’è noto a tutti, tale previsione viene puntualmente disattesa nella quotidiana pratica giudiziaria, nel normale corso della giustizia italiana, arrivando a gravare, e non poco, sulle casse dello Stato, in virtù del principio di “equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo” introdotto dalla Legge Pinto, la Legge del 24 marzo 2001, n. 89.

Le prime pagine politiche dei quotidiani sono state, in questi giorni, riempite dai resoconti relativi alla portata di quella che, ancora una volta, è stata definita una epocale “riforma della giustizia”, proposta dal ministro della Giustizia Alfano e approvata dal Consiglio dei ministri giovedì 10 marzo. Gli umori che hanno accolto le nuove disposizioni hanno colpito l’opinione pubblica per la loro estrema contrapposizione e, certo, uno sguardo rapido ad alcune dichiarazioni dal fronte del no può aiutare a comprendere la delicatezza della questione. Citando una frase ad effetto di Luigi Ferrarelle, un polemico ed ironico Marco Travaglio ricorda che “i processi lenti fanno diventare i processi ancora più lenti” e sottolinea come “da un lato l’aspettativa di prescrizione incoraggia gli avvocati a escogitare ogni sorta di cavilli per allungare ancor più il brodo. Dall’altro la legge Pinto del 2001 (uno dei capolavori del centrosinistra), che regola le cause di risarcimento per l’eccessiva durata dei processi, ha sortito questo bel miracolo: queste cause, da sole, occupano il 20 per cento dell’attività delle Corti d’appello. Così ogni processo lento sanzionato dalla Corte europea rallenta tutti gli altri. Geniale, no? Sorge persino il sospetto – sicuramente infondato, si capisce – che proprio questo fosse e sia lo scopo della patologica ‘riformite giudiziaria’ che affligge da vent’anni destra e sinistra: paralizzare definitivamente la giustizia con la scusa di velocizzarla”.

La nuova riforma, infatti, evidenzia ancora Travaglio, “se mai entrerà in vigore, non accorcerà di un nanosecondo la durata dei processi, universalmente nota come la prima piaga della giustizia italiana: perché non sfiora neppure i meccanismi farraginosi della procedura penale, ma investe soltanto gli assetti della magistratura”.

Non ci interessa, in questa sede, compiere delle valutazioni circa la bontà o meno delle nuove misure previste per l’ordinamento giudiziario, ciò che ci preme è, invece, aggiungere al fuoco alcune considerazioni in merito alle ripercussioni negative che il sistema sembra avere per l’imprenditoria italiana.

Secondo una stima realizzata dalla CGIA (L’Associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre, il cattivo funzionamento della giustizia imporrebbe alle imprese italiane un costo complessivo di oltre 2,664 miliardi di euro. Il dato è riferito all’anno 2007, al momento l’ultimo anno statisticamente disponibile, ed è stato ottenuto sommando i costi subiti dalle aziende a causa dei ritardi maturati nel corso delle procedure fallimentari (che ammontano a circa 1,034 miliardi di euro), i costi dei ritardi nelle procedure civili di primo e secondo grado (pari a 1,098 miliardi di euro) e le spese burocratiche riferite alle sole procedure fallimentari (532 milioni di euro), compreso il compenso del curatore.

L’elaborazione dell’Ufficio Studi CGIA Mestre, basata sui dati ISTAT, ha analizzato innanzitutto le caratteristiche dei procedimenti di cognizione ordinaria di primo grado, arrivando a stabilire che nel 2007 i procedimenti pendenti sono stati 972.555 (quota in lieve ma costante diminuzione, anno dopo anno, a partire dal 2000, quando i processi pendenti erano 1.427.706), corrispondenti a 1.645 ogni centomila abitanti, con una durata media di 904 giorni (pari 2 anni, 5 mesi e 21 giorni). A tal proposito, rilevano i promotori, una piccola nota positiva sembra esserci: la durata dei processi civili di primo grado si è ridotta di 230 giorni nell’intervallo di tempo che va dal 2000 (quando era di 1.134 giorni, cioè 3 anni, 1 mese e 5 giorni) al 2007.

Questi stessi aspetti sono stati poi presi in considerazione con riferimento ai procedimenti di cognizione ordinaria in grado d’appello: 51.081 le procedure pendenti nel 2007 (questa volta in aumento rispetto agli anni precedenti), corrispondente ad 86 ogni centomila abitanti e con una durata media di 822 giorni (pari a 2 anni e 3 mesi). Anche nel caso dei procedimenti civili di secondo grado, la durata, se confrontata con l’anno 2000 (quando la media era di 959 giorni: 2 anni, 7 mesi e 13 giorni), sembra essere in diminuzione, con 137 giorni in meno.

Definita “drammatica”, invece, la situazione dei procedimenti relativi alle istanze di fallimento, con una durata media pari addirittura a 3.035 giorni (cioè 8 anni, 3 mesi e 23 giorni) nel 2007, in aumento di ben 604 giorni rispetto al 2000 (quando la durata era di 2.431 giorni: 6 anni, 7 mesi e 21 giorni). In diminuzione, invece, il numero dei procedimenti per fallimento – 8.868 nel 2007, contro 26.235 nel 2000 – anche se, certo, il dato rischia di essere piuttosto fuorviante, non prendendo in esame il successivo periodo di piena crisi economica.

Soffermandosi poi sulle peculiarità territoriali, la CGIA sottolinea come sia preoccupante soprattutto la condizione del Mezzogiorno, in primis della Basilicata, dove la durata media dei processi civili di primo grado è stata nel 2007 di 1463 giorni, seguita dalla Puglia con 1.335 giorni e Calabria con 1.288. La regione più efficiente, invece, è stata la Valle d’Aosta, la quale ha registrato una durata media di 614 giorni.  È in questa stessa regione, inoltre, che il mondo imprenditoriale ha dovuto sostenere complessivamente gli oneri inferiori a causa del malfunzionamento della giustizia (2,71 milioni di euro), mentre quella in cui tali oneri sono stati maggiori è la Lombardia, con 614,29 milioni di euro complessivi, così suddivisi: 246,08 milioni per i ritardi nelle procedure di fallimento, 184,98 milioni per i ritardi nei procedimenti di primo e secondo grado (in questo particolare caso il primato va, però, al Lazio, con costi pari a 192,12 milioni) e 183,23 milioni per le spese burocratiche relative alle sole procedure di fallimento.

A commentare i dati pubblicati, è intervenuto Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA di Mestre, secondo il quale “la necessità di rendere il nostro sistema giudiziario italiano più efficiente è una necessità sempre più avvertita dal nostro sistema economico. Non solo per i costi aggiuntivi che devono sopportare ma, soprattutto, perché il cattivo funzionamento della giustizia costituisce un grosso ostacolo che allontana gli investitori stranieri dal nostro Paese”.

Del resto anche l’ultimo rapporto Doing Business 2011 non sembra lasciare scampo all’ottimismo, classificando l’Italia al 157° posto nel recupero del credito per via giudiziaria, su 183 Paesi presi in considerazione: le procedure necessarie a far rispettare i contratti (enforcing contracts) richiedono ben 1.200 giorni nel nostro contesto nazionale, contro i 517 della media Ocse. Si tratta di un rapporto annuale stilato da International Finance Corporation e World Bank a partire dal 2004 e dedicato all’analisi del business con riferimento a differenti contesti territoriali. L’indagine sistematica cerca di cogliere, in particolare, il grado di competitività e la facilità nel fare impresa, valutando, ad esempio, il numero di pratiche e i costi necessari per aprire e chiudere un’attività o per richiedere un credito, la bontà del sistema fiscale, la protezione degli investitori e della proprietà intellettuale, la qualità nei rapporti di lavoro, il rispetto dei contratti.

La nostra posizione è, in quest’ultimo resoconto presentato, addirittura peggiorata rispetto alla classifica 2010 (dati riferiti al periodo che va da giugno 2008 a maggio 2009), nella quale l’Italia si collocava al 156° posto per quanto riguarda i tempi di giustizia, e, dopotutto, quest’ultimo rappresenta solo uno dei 9 indici presi in considerazione dalla Banca Mondiale per stimare l’attrattiva esercitata da uno Stato come possibile destinatario di business, in una classifica generale che ci vede all’80° posto, in discesa di quattro posizioni rispetto allo scorso anno (nella classifica 2010 compariva alla 76° posizione e in quella del 2009 alla 74°). I fattori più critici individuati nel nostro sistema Paese sono, in particolare, oltre a – come abbiamo visto – l’inefficacia del sistema giudiziario civile, la difficoltà nel pagamento delle imposte e nell’accesso al credito e la rigidità del mercato del lavoro. Ciò che maggiormente preoccupa è il fatto che una simile umiliazione morale (alla quale gli italiani pare stiano facendo l’abitudine, ma questa è forse un’altra storia…) si accompagna ad un concreto svantaggio pratico, poiché la classifica fornisce, appunto, dei parametri di riferimento agli operatori internazionali, per valutare su quali Paesi concentrare i propri investimenti e concludere affari.

La lentezza nel recupero crediti si inserisce, inoltre, è bene sottolinearlo, “in un contesto in cui il contenzioso ha raggiunto i 6 milioni di procedimenti arretrati, a cui se ne aggiungono circa 3 milioni all’anno” (da “Corriereconomia”, inserto del “Corriere della sera” di lunedì 7 febbraio 2011).

La linea ideologica lungo la quale si muove l’analisi del “Doing business” è la necessità di avere a che fare con un’attività economica basata su buone regole, trasparenti ed accessibili a tutti, anche se, ricorda Enrico Forzato, “non tutti i fattori rilevanti per il business vengono […] presi in considerazione”, “ad esempio, nel definire la classifica non si valutano le condizioni macroeconomiche, le infrastrutture, o le competenze della forza lavoro”. Una frase, inoltre, nella relazione – sottolinea ancora Forzato – rende un po’ meno amara la lettura: “L’Italia ha intrapreso riforme che daranno frutti solo nel lungo periodo, come quella del settore giudiziario o della procedura fallimentare”. Un po’ meno amara, certo, consolatoria decisamente no, viste le moltissime polemiche che accompagnano attualmente i passi del mondo politico in direzione di una riformulazione nella giustizia italiana.

Proviamo ad allargare un attimo la prospettiva, riportando qualche dato riferito alla situazione estera: sempre secondo il “Doing Business 2011”, l’85% dei 183 business analizzati ha semplificato, negli ultimi 5 anni, il contesto economico in cui operano le proprie imprese e i maggiori progressi si sono registrati in Cina, in India e nell’Africa sub sahariana. Questo grazie soprattutto alle nuove politiche adottate dai vari governi nazionali nel corso nel 2010 per sconfiggere la crisi internazionale, favorendo le piccole e medie imprese e sostenendo l’occupazione: più della metà delle riforme hanno cercato di facilitare lo start up di un’impresa, di semplificare le regole commerciali e di pagamento tasse, di snellire le procedure fallimentari; inoltre la massiccia diffusione nell’impiego di nuove tecnologie ha permesso di ridurre i costi e di portare maggior trasparenza nei processi di tipo burocratico-amministrativi. A capeggiare la classifica generale troviamo, per il quinto anno consecutivo, Singapore, seguito da Hong Kong, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti; il tasso di crescita maggiore rispetto l’anno precedente si è registrato in Kazakistan (che ha guadagnato ben 15 posizioni), Tajikistan (+10) e Ungheria (+6).

Date queste promesse, quindi, numerosi sono i dubbi circa la capacità delle ultime misure in materia di giustizia di migliorare la situazione, poiché tali misure non sembrano centrare il reale problema dell’estrema lunghezza nei processi italiani, cioè le ripercussioni economiche di una simile prassi: come sottolinea Gerardo D’Ambrosio, l’ex pm e senatore democratico intervistato dalle file de “Il nuovo Riformista”, “il difetto della giustizia è soprattutto nei tempi. E tutto ciò di cui si parla non incide minimamente su questo aspetto. Si parla di riforma ‘epocale’ e poi tutto continuerà a funzionare come funziona adesso. E lo Stato continuerà a pagare fior di milioni per i ritardi, in virtù della legge Pinto […]. I tempi della giustizia dipendono anche dalla pessima distribuzione dei tribunali. Dunque, per abbreviarli, si potrebbe iniziare a ripensare le circoscrizioni giudiziarie. Invece, qui si rimette in discussione il principio della obbligatorietà della azione penale che dovrebbe invece essere indiscutibile”.

Pubblicato su: PMI-dome

Un rating ad hoc per le PMI?

Stando ai risultati di un progetto pilota realizzato da Alétheia, i criteri attualmente usati per il rating non sarebbero in grado di cogliere pienamente le dinamiche evolutive delle piccole e medie realtà imprenditoriali
Alétheia, società di ricerca e consulenza, ha organizzato un convegno, rivolto a banchieri, imprenditori e consulenti, titolato “Credito alle imprese in tempi di instabilità”. L’evento si è tenuto l’8 marzo presso la sede di Assolombarda a Milano, con due sessioni presiedute da Francesco Cesarini (Presidente eMID SpA) e Marco Vitale (Presidente VITALE&NOVELLO).
La società ha scelto di presentare una sorta di progetto pilota realizzato e già applicato ad uno dei maggiori gruppi bancari (di cui non si conosce ancora il nome), su un campione di 500 piccole e medie imprese, allo scopo di confrontare il modello tradizionale di rating, con un nuovo modello, basato su valutazioni di tipo “esperenziale”.

La recente recessione ha attivato un processo di deterioramento del credito, che rende per le banche più conveniente, almeno in linea teorica, l’erogazione di credito alle PMI, implicando un minor assorbimento di capitale e condizioni più vantaggiose (maggiore remunerazione del denaro).
Tuttavia, mentre le grandi imprese operano in mercati globali, in cui i fattori di rischio dipendono dal classico ciclo economico e sono, quindi, prevedibili dagli algoritmi automatici del rating, le PMI si muovono in contesti di nicchia, influenzati da un livello di rischiosità che sfugge a un’analisi di tipo predittivo ed è, al contrario, determinato da molteplici fattori spesso del tutto esterni al contesto in cui si opera.
La difficoltà sta dunque nella collocazione stessa della piccola e media impresa, difficoltà che, sottolineano ormai molti esponenti del mondo finanziario ed imprenditoriale, potrebbe tradursi in nuove opportunità per le piccole e medie realtà, verificabili solo dopo molto tempo in un’analisi quantitativa dei dati di bilancio.
A queste nuove opportunità si affiancano, dunque, nuove sfide, in capo ad intermediari e imprese, relative alla riformulazione degli odierni modelli di reperimento e uso delle informazioni, al fine di sfamare il desiderio di crescita delle imprese potenzialmente più competitive e di cogliere degli scenari evolutivi realmente conciliabili con l’attuale congiuntura economica.

È proprio nell’attuale situazione di instabilità dei mercati, dovuta alle conseguenze della crisi, che il tema del rating rappresenta uno dei fattori di maggiore preoccupazione per le imprese, soprattutto per quelle di dimensioni piccole e medie, poiché esso risulta strettamente legato alle difficoltà di accesso al credito. Da più parti si auspica, allora, un ripensamento nei criteri di valutazione del rischio, ripensamento che, promuovendo una selezione delle imprese veramente meritevoli, permetterebbe di fornire risorse alle realtà con effettive possibilità di sviluppo e, lungo questa via, consentirebbe di accrescere la competitività del nostro apparato produttivo.

Come prescritto da Basilea 2 (il Nuovo Accordo sui requisiti minimi di capitale firmato a Basilea, entrato in vigore nel gennaio 2007) e come ricorda Laura Palombi, Direttore Alétheia in un editoriale di novembre 2010, la valutazione del rischio di controparte è oggi basata “su indicatori economico-finanziari e sul posizionamento dell’impresa all’interno della propria filiera produttiva”, in altre parole “su score statistici che ‘proiettano in avanti’ situazioni che ‘rilevano il passato’. Se in tempi normali questi modelli avevano una buona affidabilità statistica, nell’attuale situazione di instabilità dei mercati la rischiosità di un’impresa […] dipende sempre più da fattori ed eventi ‘singolari’ che possono influenzare radicalmente i ‘destini’ delle sue strategie, decretandone il successo o il repentino ‘disastro’ […]. Occorre, quindi, da parte delle banche, un cambiamento di business model che ridia alla rete una nuova centralità per la conoscenza del rischio”.

È a questo cambiamento che è votato il tentativo di override proposto da Alétheia: la possibilità di riscrittura del metodo è riconosciuta dagli stessi parametri di Basilea 2, ma è rimasta a lungo, ricorda Franco Rebuffo, Presidente della società di consulenza, «un semplice auspicio». Il nuovo modello «dovrebbero, appunto, affrontare le situazioni in cui le conclusioni automatiche dei rating non sono in grado di “vedere” le improvvise variazioni che possono verificarsi in qualsiasi punto della traiettoria evolutiva». Lo stesso Stefano Mieli, Direttore centrale della Banca d’Italia, ricordava, nel corso di un convegno dell’Abi svoltosi a Roma lo scorso anno, come lo strumento dell’override sia «assai poco utilizzato», poiché implica «un’assunzione di responsabilità che i gestori del credito sono restii ad assumersi. La capacità – quando necessario – di discostarsi dalle indicazioni automatiche del sistema di rating rappresenta invece un importante strumento per valorizzare il patrimonio informativo e accrescere l’efficienza allocativa e la competitività della banca».

Veniamo ai risultati pratici della sperimentazione di questo nuovo modello valutativo basato su progetti futuri e su analisi dei rischi e delle variabili potenziali: nel 44% dei casi si è verificato uno scostamento dalle valutazioni affidate al solo rating; in particolare nel 27% dei casi i giudizi ottenuti sono stati peggiori rispetto alle valutazioni automatiche espresse dal rating, mentre nel 17% dei casi sono stati migliori. Per il 56% delle Pmi sotto esame, invece, il giudizio è rimasto invariato. «Il rating – spiega ancora Rebuffomostra il posizionamento dell’azienda, ma non racconta il suo percorso di sviluppo: si basa su una serie di dati di cui il bilancio annuale è l’estrema sintesi, che richiedono tempo per la loro rielaborazione: esiste così uno scarto temporale, una sorta di blackout che non consente di cogliere la situazione in divenire». Necessario sarebbe, dunque, «integrare un modello tradizionale basato su un algoritmo con un’istantanea sull’esperienza dell’azienda».

L’attuale ciclo recessivo obbliga le piccole e medie imprese a rivedere le proprie strategie di posizionamento e, di conseguenza, un corretto sistema di selettività nell’erogazione del credito non può non prendere in considerazione l’insieme di quegli “eventi idiosincratici” dovuti all’azione concomitante di più fattori singolari ed estranei all’iniziale strategia, ma, al contrario, dovrebbe porsi l’obiettivo di intercettare le possibilità emergenti. Alcune realtà si sono già mosse per cercare di colmare le lacune dettate dall’automatismo: ad esempio Intesa Sanpaolo, sottolinea Carlo Berselli, Responsabile della direzione marketing imprese, «ha realizzato modelli di rating con componenti che assumono pesi differenti a seconda delle dimensioni della controparte: ciò comporta, che per quelle piccole e piccolissime, che non presentano bilanci particolarmente strutturati, il rapporto e il giudizio del gestore è un elemento di particolare rilievo. Così, al di là del bilancio, per considerare l’erogazione del credito prendiamo in considerazione anche i piani di sviluppo, i progetti, il livello di innovazione, il management, oltre alla capitalizzazione e alla struttura finanziaria. Ma sono importanti anche le storie dell’azienda e la relazione e la conoscenza che sviluppano la fiducia».

Anche il Presidente di Assolombarda, Alberto Meomartini, evidenzia come il contesto economico attuale renda «indispensabile un atteggiamento particolarmente attento alla selezione del credito», la quale «dev’essere intelligente». La ricerca è votata, in ultima analisi, ad un rinnovamento nel rapporto tra imprese e banche: «serve un linguaggio comune e una buona dose di elasticità», nonostante, ricorda ancora Meomartini, negli ultimi anni siano stati fatti «importanti passi avanti per ridurre le asimmetrie tra i due mondi e uniformare il linguaggio», come lo sportello “Più trasparenza e più fiducia”, creato da Assolombarda per aiutare le aziende, specie le più piccole, a presentarsi in modo diverso di fronte alle banche, sottolineando principalmente i propri aspetti qualitativi.

Meno fiduciosi, invece, gli esperti e studiosi del contesto economico italiano: per Stefano Manzocchi, Direttore della Luiss Lab of European Economics, «la tendenza in atto è un segnale importante, ma al di là delle dichiarazioni d’intenti le banche devono dimostrare che vogliono davvero “sporcarsi le mani” con le Pmi. Devono saper valutare meglio i progetti dei “piccoli” lungo due direttrici: il capitale umano e la gestione da un lato e i mercati di riferimento dall’altro». Anche Paolo Preti, docente di organizzazione delle Pmi all’Università Bocconi di Milano, mostra ancora qualche riserva ed auspica un salto culturale, ancora lontano dall’attuazione: «Il rapporto personale tra banca e impresa non deve essere limitato alle senzazioni e alle intuizioni, non servono burocrati, ma operatori dotati di cultura imprenditoriale che sappiano valutare l’impresa al di là dei numeri».

Ancora una volta, in conclusione, la strada italiana per la ripresa sembra passare attraverso la piccola e media imprenditoria; ancora una volta i segnali ci sono. Per una volta speriamo non vengano disattesi.

Pubblicato su: PMI-dome

1 milione e 360 mila euro per promuovere la sicurezza nelle imprese artigiane

Siglato un protocollo d’intese tra direzione veneta dell’INAIL ed Enti bilaterali veneti, che prevede una serie di misure volte alla promozione, sensibilizzazione, consulenza e assistenza in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro

Con l’obiettivo di promuovere la sicurezza sul lavoro all’interno delle imprese artigiane, la direzione regionale veneta dell’INAIL e gli Enti bilaterali e paritetici veneti hanno siglato un protocollo di intese, che prevede lo stanziamento di 1 milione 360 mila euro complessivi (475.000 a carico di INAIL, 885.000 a carico degli enti bilaterali e paritetici), da investire nel triennio 2011-2013 per – si legge in una nota ufficiale – “check up aziendali, progetti di assistenza e consulenza, formazione ed informazione sul tema centrale della sicurezza nei luoghi di lavoro”.

Stando alle parole degli stessi promotori, si è cercato di cogliere al volo “l’intenzione dell’Istituto di valorizzare forme di collaborazione con le Parti Sociali e con le Istituzioni del territorio per offrire ai lavoratori dell’artigianato un progetto completo condiviso e soprattutto unico”. È di consapevolezza comune, infatti, il fatto che non esista “una politica della salute e sicurezza al di fuori di una cultura della prevenzione”, ed è proprio in nome di questa cultura che si è scelto di unire tutte “le risorse a disposizione per dare più continuità e struttura alle attività”.

A firmare e formalizzare l’accordo, presso la sede veneziana dell’INAIL, sono stati il dr. Antonio Traficante, direttore della sezione veneta dello stesso Istituto di Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, e i rappresentanti degli Enti bilaterali veneti: Stefano Stenta per Ebav, Luigi Fiorot e Umberto Zerbini per il Cobis, Marino Pistolato e Federico Salvatore per il CPR edilizia, Virginio Piva e Leonardo Zucchini rispettivamente per Ceav e Ceva.

Ogni aspetto relativo alla tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro verrà preso in considerazione dalle misure previste dall’intesa, misure che intendono principalmente diminuire il tasso di infortuni registrati dalle aziende e migliorare le condizioni lavorative. Secondo le intenzioni, verranno realizzati almeno 868 check up aziendali, di cui 428 specifici per la sola edilizia, e almeno 330 progetti di assistenza e consulenza per migliorare la sicurezza nelle imprese artigiane; tali progetti saranno votati, in particolare, all’intervento sui quattro processi ritenuti fondamentali per diminuire il tasso infortunistico: gestione degli infortuni, degli incidenti e dei comportamenti pericolosi; gestione della manutenzione; gestione dei dispositivi di protezione individuale; gestione dell’informazione, formazione ed addestramento. Ci si preoccuperà, poi, della formazione rivolta ai lavoratori e agli imprenditori in materia di sicurezza, con particolare attenzione soprattutto a quei settori a più alto tasso infortunistico (settore edile, metalmeccanico e settore legno). A tal proposito, verranno redatti anche dei manuali e dei documenti di facile consultazione per i lavoratori, differenziati in base ai diversi settori produttivi e relativi alle norme antincendio e di sicurezza; sarà distribuito, tra il personale di ogni reparto, materiale di natura informativa e di sensibilizzazione, utile a promuovere una presa di coscienza e una precisa cultura della responsabilità. È stata prevista, infine, un’azione di monitoraggio quali- e quantitativo su tutte le attività realizzate e i risultati di questo monitoraggio dovranno essere inviati alla sezione Veneta dell’INAIL e al Comitato Misto di Coordinamento.

Pubblicato su: PMI-dome