Occupazione sempre più a rischio nelle Pmi

La Cgia di Mestre stima in 202 mila i posti di lavoro a rischio nel secondo semestre 2012, 172.000 dei quali coinvolgerebbero le pmi. Confesercenti rileva come la contrazione occupazionale riguardi soprattutto il lavoro autonomo, che rischia si perdere la tradizionale funzione di “schock absorber” della disoccupazione

Nuove prospettive buie per l’occupazione italiana giungono da alcuni accreditati centri di ricerca. L’incertezza per il perdurare di molte criticità nel nostro sistema e la sfiducia per le scelte di governo in materia di politica economica e sociale sembrano non placarsi nel comune sentire dell’imprenditoria nazionale, con conseguenze potenzialmente distruttive per la dinamica del mercato del lavoro. A pagarne le spese maggiori pare saranno soprattutto le aziende di piccole e medie dimensioni e il lavoro autonomo, che potrebbero perdere il proprio ruolo tradizionale di ammortizzatore sociale, di “schock absorber” cioè della disoccupazione. Parallelamente a simili considerazioni, alcuni recenti dati sembrano suggerire delle strade formative da percorrere in via preferenziale per avere migliori possibilità d’assunzione. Andiamo però con ordine.
La Cgia (Associazione artigiani e piccole imprese) di Mestre ha stimato in 202.000 unità i posti di lavoro a rischio in Italia nel secondo semestre dell’anno in corso. Di questi, circa 30.000 sono da ricondurre a lavoratori occupati in grandi aziende che hanno aperto un tavolo di crisi presso il ministero dello Sviluppo Economico, gli altri 172.000 riguardando invece persone alle dipendenze di piccole e medie imprese. La stima, frutto dell’elaborazione di dati Istat e di previsioni firmate Prometeia, va dunque ad aggiungersi al quadro già piuttosto nero delineato un paio di settimane fa dall’Istituto nazionale di statistica, che ha visto, nel secondo trimestre 2012, un aumento del 38,9% nel numero di disoccupati, rispetto allo stesso periodo del 2011 (soprattutto a Sud, dove sono stati individuati 339.000 disoccupati in più) e un incremento di 2,7 punti percentuali nel tasso di disoccupazione (dato dal rapporto tra le persone in cerca di un lavoro e la corrispondente popolazione di riferimento, esclusi gli inattivi), che si assesta ora al 10,5%. Il parallelo calo dell’occupazione (-0,2%, pari a 48.000 occupati in meno) è stato ricondotto principalmente a un calo dell’occupazione maschile (-1,5%, cioè -199.000 unità), compensato solo in parte dal protrarsi di un andamento positivo per l’occupazione femminile (+1,6%, pari a 151.000 unità). È scattato l’ennesimo allarme occupazionale tra i giovani (con un tasso di occupazione che scende dal 45% del secondo trimestre 2011 al 43,9% del secondo trimestre 2012, per i 15-34enni, e dal 19% al 18,9% per i 15-24enni), al quale si è contrapposto un aumento dell’occupazione per gli over 50, soprattutto per quelli a tempo indeterminato.
La previsione della Cgia non fa, allora, che aumentare il pessimismo per un mercato di lavoro ben poco vivace, la cui dinamica appare fortemente influenzata dal perdurare di alcune criticità e debolezze, lanciando nuovi segnali di incertezza a neodiplomati e neolaureati, alla ricerca di una crescita professionale. “Premesso che negli ultimi quattro anni la variazione dei posti di lavoro riferiti alla seconda parte dell’anno è sempre stata negativa” – ha dichiarato Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia – “la stima riferita al 2012 è comunque migliore solo al dato di consuntivo riferito al 2009”. Se, infatti, nel 2009 la forza lavoro diminuiva la propria consistenza di ben 290.166 unità nella seconda metà dell’anno, nel 2010 i posti di lavoro persi furono 74.870 e, nel 2011, 139.365, improntando un andamento in salita che, appunto, raggiungerà nel corso del 2012 un punto piuttosto elevato. La variazione occupazione dell’anno in corso ha conosciuto, in particolare, un incremento di 1,1 punti percentuali (pari a 243.734 posti) nel secondo trimestre, rispetto al primo e vedrà, al contrario, un decremento di 0,8 punti percentuali (-178.000 unità) nel terzo trimestre sul secondo e di 0,1 punti (-24.000) nel quarto trimestre sul terzo.
L’aspetto probabilmente più drammatico della stima targata Cgia riguarda la prospettiva occupazionale delle piccole e medie imprese: “Purtroppo” – ha proseguito Bortolussi – “in queste ore non si sta consumando solo la drammatica situazione dei lavoratori dell’Alcoa o dei minatori del Carbosulcis, ma anche quella di decine e decine di migliaia di addetti delle Pmi che rischiano di rimanere senza lavoro”. “Le ristrutturazioni industriali avvenute negli anni ’70, ’80 e nei primi anni ’90 presentavano un denominatore comune”, ha rilevato ancora. Il fatto, cioè, che “chi veniva espulso dalle grandi imprese spesso rientrava nel mercato del lavoro perché assunto in una pmi. Oggi anche queste ultime sono in difficoltà e non ce la fanno più a creare nuovi posti di lavoro”.
Da qui deriva l’accorato appello della Cgia al Governo, affinché intervenga per eliminare gli ostacoli alla crescita delle piccole realtà imprenditoriali, le quali “continuano ad essere l’asse portante della nostra economia”: fondamentale – sostiene Bortolussi – è innanzitutto “recepire in tempi brevissimi la Direttiva europea contro il ritardo dei pagamenti, per garantire una certezza economica a chi, attualmente, viene pagato mediamente dopo 120/180 giorni dall’emissione della fattura”. Per ridare slancio alle attività aziendali, di primaria importanza sarebbe poi agevolare l’accesso al credito, poiché “l’assenza di liquidità rischia di buttarle fuori mercato”. Ultimo ingrediente della ricetta anticrisi proposta dall’associazione è l’alleggerimento del carico fiscale “premiando anche i lavoratori dipendenti, altrimenti sarà estremamente difficile far ripartire i consumi interni”.
Non meno ottimistiche sembrano poi le prospettive occupazionali per il prossimo anno. Stando al rapporto Confesercenti-RefIl quadro macroeconomico per l’economia italiana” – presentato lo scorso mercoledì 12 settembre, presso la sede nazionale di Confesercenti, dal Presidente Marco Venturiil 2013 vedrà un probabile rallentamento della crisi, tuttavia una serie di stime in negativo lasciano poco spazio a eccessive speranze: Pil in discesa di 0,4 punti percentuali, consumi nazionali al -0,9%, investimenti al -1,6% e, soprattutto, un tasso di disoccupazione che raggiungerà quota 11,1%.
Secondo Confesercenti, inoltre, la contrazione occupazionale sembra essere molto più forte nel lavoro autonomo che in quello dipendente; la diminuzione dei consumi ha, infatti, colpito duramente una quota importante del lavoro indipendente tradizionale, rappresentato da commercianti al dettaglio, artigiani e microimprenditori. Il periodo di intensa recessione conosciuto dal settore edilizio (costituito in gran parte da lavoratori indipendenti e microimprese) ha, in particolare, accresciuto il fenomeno. Il risultato sono, allora, oltre 100.000 lavoratori costretti a interrompere la propria attività, “non potendo in molti casi – sostiene Confesercenti – “contare su alcuna forma di protezione sociale e di sussidio contro il rischio della disoccupazione”. Si tratta di una svolta considerata quasi epocale, in base alla quale il lavoro autonomo perde la sua tradizionale funzione nel nostro paese, quella cioè di ammortizzatore sociale, in grado di assorbire una quota elevata della disoccupazione, attraverso forme di autoimpiego. Anche il lavoro autonomo subisce, dunque, in definitiva, la debolezza dell’attuale congiuntura economica.
L’allarme per le ditte individuali è stato lanciato, poi, anche domenica scorsa al convegno di Confesercenti a Perugia, dove si è rilevato come in cinque anni, dal 2006 al 2011, il tasso di sopravvivenza di tali imprese dopo i primi cinque anni di attività sia diminuito del 6,8%, passando dal 63,8% al 57%. Nello stesso periodo, il tasso di sopravvivenza a 5 anni per le società di persone è diminuito invece del 4% (passando dal 63% al 59%), mentre per le società di capitali, il tasso risulta positivo del 4,6%. Complessivamente il tasso di sopravvivenza risulta negativo per 3,3 punti percentuali. “Senza una serie di interventi mirati”, ha evidenziato l’associazione,  “ rischiamo un’accelerazione del declino dell’imprenditorialità italiana, con alti costi sociali”, visto appunto il ruolo di “schock absorber” della disoccupazione. Con l’attuale crisi del lavoro – ha proseguito – “saranno sempre di più i disoccupati che tenteranno di inventarsi imprenditori per tornare nel mondo produttivo ” . Se è giusto, da una parte, favorire la creazione di nuove imprese, è “altrettanto giusto preoccuparsi di stabilizzare il radicamento di quelle esistenti, favorendo in questo modo il mantenimento dell’occupazione che c’è”: “Con il decreto-crescita, il Governo ha agito per favorire l’avvio di nuove imprese, garantendo ai giovani sotto i 35 anni la possibilità di aprire una Srl con un solo euro di capitale e senza sostenere spese notarili. Al provvedimento, però, non si è accompagnato un contestuale intervento teso a stabilizzare le imprese già attive”, ostacolate sempre più “dall’aumento dei costi e della pressione fiscale, dal crollo dei consumi e dalla stretta del credito”.
Da un sondaggio realizzato da Swg (società che si occupa di ricerche di mercato, di opinione, istituzionali, studi di settore e osservatori) per Confesercenti emerge, inoltre, che nei prossimi cinque anni saranno circa un quarto (23%) le Pmi costrette a chiudere la propria attività, contro un 43% che manterrà inalterata la propria situazione economica e un misero 17% che potrà godere di una certa espansione.
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Imprenditori: 36 suicidi da inizio anno… 12 solo nel Veneto

Hanno creato una certa risonanza i dati diffusi dalla Cgia di Mestre, con un invito, rivolto alle istituzioni nazionali, ad intervenire. Una questione così drammatica non può, tuttavia, ridursi ad un semplice rapporto di causa-effetto

Un tema certo difficilissimo da trattare, di recente salito alla ribalta dei mezzi di informazione grazie alla forza dirompente dell’accusa. Una questione spesso liquidata in un rapporto di causa-effetto che, oltre a nascondere una scarsa capacità di analisi, banalizza, a mio avviso, delle dinamiche in realtà molto complesse e a volte impenetrabili.

Le cronache dei molti suicidi in queste ultime settimane ci stanno forse aiutando a salutare definitivamente anche l’ultimo tabù rimasto nella nostra società, quello della morte. L’idea perversa di autoinfliggersi una pena così estrema non può sicuramente essere compresa in pieno e tantomeno spiegata, la stessa Chiesa si è dimostrata inadeguata nel darne una connotazione morale, la stessa legislazione (o almeno quella italiana) ha rinunciato a punire chi, alla fine dei conti, tenta di attivare un processo socialmente scorretto, il cui scopo è togliere la vita ad un cittadino; per contro punisce, giustamente, chi istiga o agevola il suicidio di qualcun altro. I titoli dei principali quotidiani italiani sembrano, allora, voler scatenare un vero e proprio processo mediatico contro chi ha istigato, appunto, questi aspiranti (e non solo) suicidi. Imputato: la crisi economica.

La Cgia (l’Associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre ha tentato – strategicamente sostiene qualcuno – di tradurre la questione in numeri, quasi a voler offrire una dimostrazione empirica degli effetti distruttivi procurati dall’attuale congiuntura economica negativa. Il quadro delineato appare inevitabilmente allarmante. Stando ai dati diffusi lunedì 7 maggio dalla Cgia, infatti, sarebbe salito a 34 il numero di suicidi tra gli imprenditori italiani avvenuti in questa prima parte del 2012.

Il numero sale addirittura a 36, se si contano anche i due casi avvenuti in seguito al conteggio fatto dall’associazione: il commerciante 48enne di Bologna impiccatosi lunedì nel retrobottega del negozio di articoli casalinghi del quale era co-titolare, probabilmente a causa – si è detto dalla questura e hanno ripetuto i giornali – delle pendenze fiscali con Equitalia; poi l’imprenditore 60enne titolare a Cesate, al confine tra le province di Milano e Varese, di un’azienda a conduzione familiare in crisi (organizzava corsi di formazione professionale per società di telecomunicazioni), trovato martedì senza vita da alcuni passanti nel parco delle Groane, con un biglietto in cui motivava il gesto con le difficoltà a pagare i debiti.
Tra questi 36 casi, ben 12 (pari a circa il 33,3% del totale)  hanno riguardato i titolari d’azienda del Veneto. Da gennaio 2009, dunque dall’inizio di questa ondata di crisi, sono stati ben 37, stima ancora la Cgia, i suicidi per motivi economici registrati nel solo Veneto tra i piccoli imprenditori.

Difficile comprendere pienamente le cause di queste tragedie, tuttavia esse, prosegue l’associazione mestrina, rivelano tutte un comune denominatore, il grande senso di ingiustizia, cioè, che questi imprenditori stanno subendo, “vuoi per il mancato pagamento da parte dei committenti, siano essi amministrazioni pubbliche o imprese private, vuoi per la mancanza di liquidità, visto che molti istituti di credito, anche se l’azienda risulta essere sana e solvente, si vedono chiudere inaspettatamente i rubinetti del credito”, come sottolinea il segretario della CGIA Giuseppe Bortolussi.

Da qui la richiesta di porre rimedio, a livello nazionale, a “questa escalation” che “sembra non aver fine”, attraverso un fondo di solidarietà per l’erogazione di mutui in favore di piccoli e medi imprenditori “in chiara situazione di difficoltà economica e finanziaria e privi di accesso al credito bancario o ai quali siano stati revocati affidamenti da parte di banche o intermediari creditizi”.

“Chiediamo – esorta Bortolussi – al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di intervenire facendo capire che le istituzioni sono vicine a chi quotidianamente è chiamato, tra mille difficoltà, a fare impresa”.

La stessa sollecitazione, mossa un paio di mesi fa alla Regione Veneto, aveva condotto la giunta ad approvare, lo scorso 17 aprile, l’istituzione di un fondo soprannominato “fondo anti-suicidi”, su proposta dell’assessore allo Sviluppo economico Isi Coppola (Pdl). Con tale piano sono state, di fatto, estese le finalità del fondo di rotazione istituito presso Veneto Sviluppo S.p.A. (destinato in origine alle sole aziende interessate ad investire) anche a quelle imprese che possono dimostrare di avanzare crediti dalla pubblica amministrazione o da altre aziende private. Esso prevede finanziamenti agevolati da 25 a 500 mila euro (300 mila euro per le imprese artigiane non manifatturiere): con questi fondi regionali si interviene fornendo il 50% del finanziamento (l’altro 50% dalla banca) e riducendo della metà gli interessi passivi.

Molte stime ufficiali – l’abbiamo visto – hanno dimostrato come sia particolarmente difficile l’attuale situazione dell’imprenditoria italiana, in particolare per quelle realtà di dimensione più piccola e appartenenti al settore artigianale; al di là dei numeri, chiunque se ne sarà concretamente reso conto nell’ambito delle relazioni professionali che quotidianamente allaccia. Posta questa oggettiva considerazione, trovo che la trattazione della tematica “suicidio” non possa ridursi, come molti hanno cercato di fare, ad una semplice questione di azione-reazione. Ognuno di quei 36 imprenditori e delle molte altre persone giunte alla medesima disperata conclusione merita di riappropriarsi della propria dignità di singolo, dietro vi sono delle individualità che per giorni, mesi, anni hanno respirato la tensione e la preoccupazione di una vita percepita come sgretolata. Difficile mantenere il sorriso quando le cose vanno storte, impensabile controllare le emozioni quando i problemi si fanno insormontabili, impossibile ammettere di essere fragili come e più degli altri. Non so se sia la paura o al contrario il coraggio a spingere verso una decisione così insopportabilmente estrema, non è questa la sede migliore per stabilirlo, ma certamente ciò che va detto è che “la crisi” non può essere additata come unica e incontrastata causa del fenomeno. Almeno non con le stime attualmente a disposizione, eccessivamente semplicistiche.

Gli ultimi dati statistici diffusi un paio di mesi fa dall’Istat, riferiti ai suicidi e ai tentativi di suicidio denunciati alle forze dell’ordine italiane, relativamente all’anno 2010, distinguono, tra gli altri, anche i cosiddetti “suicidi per motivi economici”. Tali dati non permettono di riconoscere la professione svolta da queste persone, dunque di capire quando si tratta di imprenditori, tuttavia offrono una testimonianza importante del fenomeno considerato e valgono, per questo, la pena di essere riportati. Secondo l’Istat, allora, i gesti estremi per motivi economici nel 2010 (ultimo anno disponibile) sono stati 187 (182 uomini e 5 donne), mentre i tentativi di suicidio 245 (191 uomini e 54 donne).

La Cgia sottolinea, a questo punto, l’aumento dei numeri rispetto al 2008, quando i suicidi di questo tipo sono stati 150 (141 uomini e 9 donne, il che significa un aumento di 24,6 punti percentuali nel 2010) e i tentativi di suicidio 204 (154 uomini e 50 donne, con un +20% nel 2010). Tuttavia l’associazione dimentica si riportare i dati riferiti al 2009: 198 suicidi per motivi economici (188 uomini e 10 donne) e 245 tentativi (198 uomini e 47 donne). Se si analizza, dunque, la tendenza in corso, in base agli ultimi (pur non aggiornatissimi) dati disponibili, i suicidi per motivi economici sembrano, seppur lievemente, essere in diminuzione.

Nel criticare l’attuale morboso attaccamento mediatico alla tematica del suicidio, molti si concentrano sul cosiddetto “effetto Werther”, il fenomeno di emulazione per il quale la notizia di un suicidio pubblicata nei media provocherebbe una catena di altri suicidi. Non sono molto d’accordo, il compito dei mezzi di informazione dovrebbe essere, appunto, quello di informare, non trovo ci sia nulla di sbagliato nel registrare dei fenomeni che si considerano di rilevanza sociale. Credo però sia necessario prestare una particolare attenzione quando si decide di affrontare un tema così delicato che mette in gioco non una ma moltissime variabili, attenzione che spesso la retorica giornalistica sembra aver dimenticato.

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Giustizia italiana: un peso che grava sulle imprese

Stando ad un’elaborazione della CGIA di Mestre, il malfunzionamento della giustizia italiana costerebbe alle imprese ben 2,66 miliardi

 

La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata […]”.

L’articolo 111 della nostra Costituzione impone una durata “ragionevole” dei procedimenti giudiziari e questo stesso concetto è pure presente nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella quale, all’articolo 6 (rubricato “diritto a un equo processo”), comma 1, si afferma che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole […]”.

Tuttavia, com’è noto a tutti, tale previsione viene puntualmente disattesa nella quotidiana pratica giudiziaria, nel normale corso della giustizia italiana, arrivando a gravare, e non poco, sulle casse dello Stato, in virtù del principio di “equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo” introdotto dalla Legge Pinto, la Legge del 24 marzo 2001, n. 89.

Le prime pagine politiche dei quotidiani sono state, in questi giorni, riempite dai resoconti relativi alla portata di quella che, ancora una volta, è stata definita una epocale “riforma della giustizia”, proposta dal ministro della Giustizia Alfano e approvata dal Consiglio dei ministri giovedì 10 marzo. Gli umori che hanno accolto le nuove disposizioni hanno colpito l’opinione pubblica per la loro estrema contrapposizione e, certo, uno sguardo rapido ad alcune dichiarazioni dal fronte del no può aiutare a comprendere la delicatezza della questione. Citando una frase ad effetto di Luigi Ferrarelle, un polemico ed ironico Marco Travaglio ricorda che “i processi lenti fanno diventare i processi ancora più lenti” e sottolinea come “da un lato l’aspettativa di prescrizione incoraggia gli avvocati a escogitare ogni sorta di cavilli per allungare ancor più il brodo. Dall’altro la legge Pinto del 2001 (uno dei capolavori del centrosinistra), che regola le cause di risarcimento per l’eccessiva durata dei processi, ha sortito questo bel miracolo: queste cause, da sole, occupano il 20 per cento dell’attività delle Corti d’appello. Così ogni processo lento sanzionato dalla Corte europea rallenta tutti gli altri. Geniale, no? Sorge persino il sospetto – sicuramente infondato, si capisce – che proprio questo fosse e sia lo scopo della patologica ‘riformite giudiziaria’ che affligge da vent’anni destra e sinistra: paralizzare definitivamente la giustizia con la scusa di velocizzarla”.

La nuova riforma, infatti, evidenzia ancora Travaglio, “se mai entrerà in vigore, non accorcerà di un nanosecondo la durata dei processi, universalmente nota come la prima piaga della giustizia italiana: perché non sfiora neppure i meccanismi farraginosi della procedura penale, ma investe soltanto gli assetti della magistratura”.

Non ci interessa, in questa sede, compiere delle valutazioni circa la bontà o meno delle nuove misure previste per l’ordinamento giudiziario, ciò che ci preme è, invece, aggiungere al fuoco alcune considerazioni in merito alle ripercussioni negative che il sistema sembra avere per l’imprenditoria italiana.

Secondo una stima realizzata dalla CGIA (L’Associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre, il cattivo funzionamento della giustizia imporrebbe alle imprese italiane un costo complessivo di oltre 2,664 miliardi di euro. Il dato è riferito all’anno 2007, al momento l’ultimo anno statisticamente disponibile, ed è stato ottenuto sommando i costi subiti dalle aziende a causa dei ritardi maturati nel corso delle procedure fallimentari (che ammontano a circa 1,034 miliardi di euro), i costi dei ritardi nelle procedure civili di primo e secondo grado (pari a 1,098 miliardi di euro) e le spese burocratiche riferite alle sole procedure fallimentari (532 milioni di euro), compreso il compenso del curatore.

L’elaborazione dell’Ufficio Studi CGIA Mestre, basata sui dati ISTAT, ha analizzato innanzitutto le caratteristiche dei procedimenti di cognizione ordinaria di primo grado, arrivando a stabilire che nel 2007 i procedimenti pendenti sono stati 972.555 (quota in lieve ma costante diminuzione, anno dopo anno, a partire dal 2000, quando i processi pendenti erano 1.427.706), corrispondenti a 1.645 ogni centomila abitanti, con una durata media di 904 giorni (pari 2 anni, 5 mesi e 21 giorni). A tal proposito, rilevano i promotori, una piccola nota positiva sembra esserci: la durata dei processi civili di primo grado si è ridotta di 230 giorni nell’intervallo di tempo che va dal 2000 (quando era di 1.134 giorni, cioè 3 anni, 1 mese e 5 giorni) al 2007.

Questi stessi aspetti sono stati poi presi in considerazione con riferimento ai procedimenti di cognizione ordinaria in grado d’appello: 51.081 le procedure pendenti nel 2007 (questa volta in aumento rispetto agli anni precedenti), corrispondente ad 86 ogni centomila abitanti e con una durata media di 822 giorni (pari a 2 anni e 3 mesi). Anche nel caso dei procedimenti civili di secondo grado, la durata, se confrontata con l’anno 2000 (quando la media era di 959 giorni: 2 anni, 7 mesi e 13 giorni), sembra essere in diminuzione, con 137 giorni in meno.

Definita “drammatica”, invece, la situazione dei procedimenti relativi alle istanze di fallimento, con una durata media pari addirittura a 3.035 giorni (cioè 8 anni, 3 mesi e 23 giorni) nel 2007, in aumento di ben 604 giorni rispetto al 2000 (quando la durata era di 2.431 giorni: 6 anni, 7 mesi e 21 giorni). In diminuzione, invece, il numero dei procedimenti per fallimento – 8.868 nel 2007, contro 26.235 nel 2000 – anche se, certo, il dato rischia di essere piuttosto fuorviante, non prendendo in esame il successivo periodo di piena crisi economica.

Soffermandosi poi sulle peculiarità territoriali, la CGIA sottolinea come sia preoccupante soprattutto la condizione del Mezzogiorno, in primis della Basilicata, dove la durata media dei processi civili di primo grado è stata nel 2007 di 1463 giorni, seguita dalla Puglia con 1.335 giorni e Calabria con 1.288. La regione più efficiente, invece, è stata la Valle d’Aosta, la quale ha registrato una durata media di 614 giorni.  È in questa stessa regione, inoltre, che il mondo imprenditoriale ha dovuto sostenere complessivamente gli oneri inferiori a causa del malfunzionamento della giustizia (2,71 milioni di euro), mentre quella in cui tali oneri sono stati maggiori è la Lombardia, con 614,29 milioni di euro complessivi, così suddivisi: 246,08 milioni per i ritardi nelle procedure di fallimento, 184,98 milioni per i ritardi nei procedimenti di primo e secondo grado (in questo particolare caso il primato va, però, al Lazio, con costi pari a 192,12 milioni) e 183,23 milioni per le spese burocratiche relative alle sole procedure di fallimento.

A commentare i dati pubblicati, è intervenuto Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA di Mestre, secondo il quale “la necessità di rendere il nostro sistema giudiziario italiano più efficiente è una necessità sempre più avvertita dal nostro sistema economico. Non solo per i costi aggiuntivi che devono sopportare ma, soprattutto, perché il cattivo funzionamento della giustizia costituisce un grosso ostacolo che allontana gli investitori stranieri dal nostro Paese”.

Del resto anche l’ultimo rapporto Doing Business 2011 non sembra lasciare scampo all’ottimismo, classificando l’Italia al 157° posto nel recupero del credito per via giudiziaria, su 183 Paesi presi in considerazione: le procedure necessarie a far rispettare i contratti (enforcing contracts) richiedono ben 1.200 giorni nel nostro contesto nazionale, contro i 517 della media Ocse. Si tratta di un rapporto annuale stilato da International Finance Corporation e World Bank a partire dal 2004 e dedicato all’analisi del business con riferimento a differenti contesti territoriali. L’indagine sistematica cerca di cogliere, in particolare, il grado di competitività e la facilità nel fare impresa, valutando, ad esempio, il numero di pratiche e i costi necessari per aprire e chiudere un’attività o per richiedere un credito, la bontà del sistema fiscale, la protezione degli investitori e della proprietà intellettuale, la qualità nei rapporti di lavoro, il rispetto dei contratti.

La nostra posizione è, in quest’ultimo resoconto presentato, addirittura peggiorata rispetto alla classifica 2010 (dati riferiti al periodo che va da giugno 2008 a maggio 2009), nella quale l’Italia si collocava al 156° posto per quanto riguarda i tempi di giustizia, e, dopotutto, quest’ultimo rappresenta solo uno dei 9 indici presi in considerazione dalla Banca Mondiale per stimare l’attrattiva esercitata da uno Stato come possibile destinatario di business, in una classifica generale che ci vede all’80° posto, in discesa di quattro posizioni rispetto allo scorso anno (nella classifica 2010 compariva alla 76° posizione e in quella del 2009 alla 74°). I fattori più critici individuati nel nostro sistema Paese sono, in particolare, oltre a – come abbiamo visto – l’inefficacia del sistema giudiziario civile, la difficoltà nel pagamento delle imposte e nell’accesso al credito e la rigidità del mercato del lavoro. Ciò che maggiormente preoccupa è il fatto che una simile umiliazione morale (alla quale gli italiani pare stiano facendo l’abitudine, ma questa è forse un’altra storia…) si accompagna ad un concreto svantaggio pratico, poiché la classifica fornisce, appunto, dei parametri di riferimento agli operatori internazionali, per valutare su quali Paesi concentrare i propri investimenti e concludere affari.

La lentezza nel recupero crediti si inserisce, inoltre, è bene sottolinearlo, “in un contesto in cui il contenzioso ha raggiunto i 6 milioni di procedimenti arretrati, a cui se ne aggiungono circa 3 milioni all’anno” (da “Corriereconomia”, inserto del “Corriere della sera” di lunedì 7 febbraio 2011).

La linea ideologica lungo la quale si muove l’analisi del “Doing business” è la necessità di avere a che fare con un’attività economica basata su buone regole, trasparenti ed accessibili a tutti, anche se, ricorda Enrico Forzato, “non tutti i fattori rilevanti per il business vengono […] presi in considerazione”, “ad esempio, nel definire la classifica non si valutano le condizioni macroeconomiche, le infrastrutture, o le competenze della forza lavoro”. Una frase, inoltre, nella relazione – sottolinea ancora Forzato – rende un po’ meno amara la lettura: “L’Italia ha intrapreso riforme che daranno frutti solo nel lungo periodo, come quella del settore giudiziario o della procedura fallimentare”. Un po’ meno amara, certo, consolatoria decisamente no, viste le moltissime polemiche che accompagnano attualmente i passi del mondo politico in direzione di una riformulazione nella giustizia italiana.

Proviamo ad allargare un attimo la prospettiva, riportando qualche dato riferito alla situazione estera: sempre secondo il “Doing Business 2011”, l’85% dei 183 business analizzati ha semplificato, negli ultimi 5 anni, il contesto economico in cui operano le proprie imprese e i maggiori progressi si sono registrati in Cina, in India e nell’Africa sub sahariana. Questo grazie soprattutto alle nuove politiche adottate dai vari governi nazionali nel corso nel 2010 per sconfiggere la crisi internazionale, favorendo le piccole e medie imprese e sostenendo l’occupazione: più della metà delle riforme hanno cercato di facilitare lo start up di un’impresa, di semplificare le regole commerciali e di pagamento tasse, di snellire le procedure fallimentari; inoltre la massiccia diffusione nell’impiego di nuove tecnologie ha permesso di ridurre i costi e di portare maggior trasparenza nei processi di tipo burocratico-amministrativi. A capeggiare la classifica generale troviamo, per il quinto anno consecutivo, Singapore, seguito da Hong Kong, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti; il tasso di crescita maggiore rispetto l’anno precedente si è registrato in Kazakistan (che ha guadagnato ben 15 posizioni), Tajikistan (+10) e Ungheria (+6).

Date queste promesse, quindi, numerosi sono i dubbi circa la capacità delle ultime misure in materia di giustizia di migliorare la situazione, poiché tali misure non sembrano centrare il reale problema dell’estrema lunghezza nei processi italiani, cioè le ripercussioni economiche di una simile prassi: come sottolinea Gerardo D’Ambrosio, l’ex pm e senatore democratico intervistato dalle file de “Il nuovo Riformista”, “il difetto della giustizia è soprattutto nei tempi. E tutto ciò di cui si parla non incide minimamente su questo aspetto. Si parla di riforma ‘epocale’ e poi tutto continuerà a funzionare come funziona adesso. E lo Stato continuerà a pagare fior di milioni per i ritardi, in virtù della legge Pinto […]. I tempi della giustizia dipendono anche dalla pessima distribuzione dei tribunali. Dunque, per abbreviarli, si potrebbe iniziare a ripensare le circoscrizioni giudiziarie. Invece, qui si rimette in discussione il principio della obbligatorietà della azione penale che dovrebbe invece essere indiscutibile”.

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