Il settore moda conquista l’e-commerce

Le recenti stime di Human Highway e Netcomm evidenziano come i prodotti fashion più venduti siano i capi di abbigliamento (43,7%) e come a spingere all’acquisto sia innanzitutto la convenienza dell’offerta (38,4%)

Le logiche sottese alla virtualità, alla multimedialità e al Web 2.0 hanno imposto a tutti i settori economici di rivedere le proprie strategie comunicative e distributive, nella ricerca costante di nuove feconde vie da percorrere per scongiurare gli effetti negativi dell’attuale situazione economica. Anche il comparto moda ha subito una profonda trasformazione, decidendo spesso di sacrificare parte della propria dimensione elitaria sull’altare dei canali social e dei molti blog e forum tematici. Qualcuno ha addirittura parlato di democratizzazione del settore, considerando il fenomeno talmente forte da influenzare trends e mercati. La nuova dialettica coinvolge ora in maniera più attiva i consumatori e rinnova la rosa degli influencer da far scendere in campo per indirizzare il gusto collettivo. Si moltiplicano le stesse strategie di vendita, i fashion brands cercano sempre più di sfruttare le potenzialità dell’e-commerce a supporto della relazione multicanale con i clienti.
Come rilevato dall’undicesimo rapporto dell’Osservatorio eCommerce B2C Netcomm-Politecnico di Milano, nel 2012 sembra crescere in modo piuttosto marcato il fenomeno e-commerce in Italia, pur persistendo un certo ritardo rispetto ad altre eccellenze europee. La causa di questo momento favorevole è stata in parte ricondotta proprio alla crisi, la quale obbliga a rivedere le proprie abitudini di consumo, nella speranza di ottenere un qualche vantaggio economico. Altri fenomeni sembrano aver contribuito parallelamente alla crescita di questo canale, come il mobile, il social networking e l’evoluzione dell’offerta virtuale, con l’ingresso di alcuni produttori del made in Italy e con il moltiplicarsi dei siti di social shopping (o couponing) e dei club online.
A confermare il trend è anche Human Highway (l’istituto di ricerca italiano specializzato nell’analisi dei servizi, della comunicazione e del marketing online), che parla del 2012 come dell’“anno dell’e-commerce”: negli scorsi dodici mesi gli acquirenti online sarebbero cresciuti del 35%, con ben 3 milioni di nuovi individui che hanno preferito o affiancato internet ai canali e alle modalità di acquisto tradizionali. Quest’anno – ci dice ancora l’istituto – gli italiani muoveranno in rete ben 12 miliardi di euro per le proprie compere online, pari a circa 1.000 euro per acquirente nei dodici mesi e al 20% in più rispetto al 2011.
In base alle rilevazioni di ottobre 2012, condotte da Human Highway e da Netcomm (il consorzio del commercio elettronico italiano), negli ultimi tre mesi avrebbe acquistato prodotti e servizi in rete ben il 43,4% dell’universo dei navigatori internet, pari a 12,3 milioni di individui (erano 9,2 milioni l’anno scorso). Gli e-shopper hanno, inoltre, comprato con un frequenza media di 3,5 transazioni per trimestre, poco più di una al mese, e si sono orientati principalmente su libri (16,5% del campione), capi di abbigliamento (12%), biglietti di viaggio (11,3%) e ricariche telefoniche (8,2%).
Il settore “fashion” si inserisce da protagonista in questo generale andamento positivo: “L’abbigliamento ormai pesa per l’11% sul totale dell’e-commerce italiano” – rileva Roberto Liscia, presidente di Netcomm – “ed è stato in grado nell’ultimo anno di mettere a segno una crescita del 33%, confermandosi la seconda voce di spesa dopo il Turismo”. Alla base di questa spinta all’acquisto sembrano esservi, oltre alla buona crescita di yoox.com e dei club online, anche l’ingresso di nuovi player, quali Benetton, Intimissimi, Stefanel: “solo il 2% di coloro che hanno acquistato capi di abbigliamento online non hanno comprato prodotti di marca, a significare che il brand è un traino fondamentale per orientare all’acquisto”.
L’evoluzione dell’offerta e il moltiplicarsi delle occasioni di acquisto hanno, dunque, permesso alla domanda di attivarsi, inoltre gli spazi di crescita del settore sembrano essere piuttosto ampi, se si considera che – a differenza di altre categorie di prodotti, ritenute ormai mature nell’online (viaggi, libri, prodotti ICT) – il volume degli acquisti sul Web di abbigliamento è ancora limitato a pochi punti percentuali (2-3%) rispetto al volume complessivo generato nel canale tradizionale.
Ci si aspetta, allora, nei prossimi mesi, consistenti aumenti sia nel numero di e-shopper attivi che nella frequenza di acquisto: le indagini recenti mostrano come chi inizia ad acquistare non smetta più, ma aumenti al contrario, nel tempo, la propria frequenza di acquisto.
Ciò deriva, in particolare, dall’elevato grado di soddisfazione che coinvolge l’esperienza online, al di là delle situazioni negative (truffe, problemi con le spedizioni, mancata ricezione del bene) segnalate alle associazioni in difesa dei consumatori. Possibilità di risparmio, facile reperibilità dei prodotti e comodità aumentano la gratificazione esperita dal cliente. A ciò va aggiunta anche la tradizionale dimensione dell’intrattenimento, dello svago personale, della relazione e della volontà di emulazione sociale, la stessa in cui si colloca lo shopping reale. In questa precisa dimensione, un ruolo di primo piano è svolto dai canali social, i quali permettono di individuare trend e novità, di legarsi a particolari universi valoriali, di stimolare curiosità e voglia di sperimentare.
Agli aspetti già abbastanza consolidati del social shopping (come la condivisione delle wish list, il tagging e il geotagging, la recensione dei prodotti, gli outlet privati, i like su Facebook), si prevede lo sviluppo nel prossimo futuro di nuove modalità di interazione, funzionali alla crescita del fashion e-commerce: si pensi, ad esempio, alla condivisione delle proprie caratteristiche fisiche con altre persone, che – superate le reticenze, tipicamente femminili, a diffondere delle misure mai abbastanza adeguate – permetterebbe di mettere in atto immediati comportamenti emulativi; si pensi, ancora, alla possibilità di creare pressioni sul prezzo di certi prodotti, attraverso sistemi sociali di price-dropping o all’eventualità di proporre ai propri amici online una propria linea di abbigliamento.
Oggi il processo di acquisto online di abbigliamento e accessori non è molto diverso da quello tipico di prodotti tecnologici o alimentari: troviamo sempre un sito, un catalogo, la possibilità di ricerca e scelta dei prodotti sulla base della loro descrizione. Tuttavia alcuni aspetti emozionali e simbolici, legati specificatamente al settore moda, e l’avanzamento del processo di innovazione tecnologico fanno ben sperare ad una prossima evoluzione nelle modalità di offerta online.
Alcuni marchi già hanno scelto di sfruttare le potenzialità della realtà aumentata (augmented reality) sviluppando delle virtual fitting rooms: si tratta della possibilità di provare abiti e accessori proprio come se ci si trovasse nel camerino di un negozio, stando in realtà di fronte allo schermo di un computer dotato di webcam. Simili tecnologie possono essere presenti anche all’interno dei negozi reali, per permettere di “indossare” un capo di un altro colore o un modello non disponibile in quel momento in negozio. Altra strada percorribile è lo sfruttamento di modelli virtuali che si prestino a provare alcuni prodotti al posto del cliente: in prospettiva si potrebbe pensare ad un modello capace di ricalcare precisamente le misure e le caratteristiche fisiche del potenziale acquirente. Ad esplorare soluzioni di questo tipo sono stati, ad esempio, Ray-ban ed H&M. Per rendere più piacevole la ricerca e la valutazione dei prodotti rispetto ad una sito tradizionale, si potrebbe ricorrere anche ad un virtual store, capace di riprodurre in un ambiente virtuale l’esperienza di visita tipica di un negozio di moda reale, come di recente ha fatto Zegna. Altra soluzione prospettata riguarda la stampa 3D, che, secondo gli analisti, potrebbe permettere, tra non troppo tempo, di stampare comodamente da casa i propri modelli personalizzati.
Torniamo ora ai dati riferiti a questo preciso momento storico: stando all’indagine Human Highway – Netcomm, i prodotti “fashion” più acquistati online sono i capi di abbigliamento (43,7%), seguiti da scarpe (34%), accessori, cioè guanti, calze, cappelli e sciarpe (31,6%), infine borse da donna (18%). Il 36% degli acquirenti online dichiara, invece, di non aver mai acquistato alcun prodotto di queste categorie.
La tipologia più richiesta, tra i capi di abbigliamento, è la maglietta/maglia (20,3%), seguito da jeans (7,5%), giacche/giacconi (5,8%) e pantaloni (5,5%). Il 7,8% di coloro che hanno comprato capi di abbigliamento online non cita un prodotto, bensì un brand specifico (es. Trussardi, Dolce&Gabbana, Promod, Guess, Nike, ecc.) e la marca più acquistata è Bon Prix (6,5%), cui seguono Nike (4,5%) e Lacoste (2,6%), mentre solo il 2,1% non ha acquista capi di marca.
Tra gli e-shopper di scarpe intervistati, solo il 38% ne ha citato la tipologia: le più acquistate sono le scarpe da ginnastica (14,7%), seguite dalle scarpe da uomo (3,5%) e dalle scarpe per bambino (3,1%). Il restante 62% ha risposto, invece, citando brand famosi, come Hogan, Geox, Merrel, Melluso, Birkenstock, ecc.
Il 43,5% di coloro che hanno comprato in rete borse da donna cita il tipo di prodotto: il 30% afferma genericamente di aver acquistato una borsa, il 7,6% una tracolla e il 5,9% una pochette o una valigia o uno zaino. Il rimanente 56,5% ha citato direttamente un brand, come Guess, Gucci, Louis Vuitton e altri.
Tra le tipologie di accessori acquistabili online, le più apprezzate sono le cinture (20,1%), seguite da sciarpa (7,8%), guanti (7,6%) e portafogli (6,3%). Solo il 6,9% risponde citando direttamente un brand, come Gucci, Guess, Tiffany, Just Cavalli e North Sails.
In media la spesa maggiore riguarda le borse da donna (107 euro), seguite dalle scarpe (78 euro) e dai capi di abbigliamento (80 euro), mentre per gli accessori la stima media di spesa scende a 63 euro.
L’analisi ha, inoltre, indagato i fattori considerati dagli utenti determinanti ai fini della decisione d’acquisto online: al primo posto la convenienza, intesa come buon rapporto qualità/prezzo, importante per il 38,4% degli acquirenti di articoli fashion. Seguono la credibilità del sito venditore (24,9%), il fatto che si tratti di un’occasione irrinunciabile e irripetibile (18,3%), la difficoltà a trovare quel prodotto in un altro modo (14,6%), infine la marca del prodotto in vendita 13,9%.
Non va dimenticato, infine, il ruolo dell’online sul potenziamento dell’esperienza d’acquisto offline: gli utenti navigano per ottenere informazioni circa capi d’abbigliamento o accessori che intendono acquistare in negozio e spesso scelgono di sfruttare i meccanismi di “prenota online e ritira in negozio” messi a disposizione da alcuni merchant, capaci di rendere più efficienti i processi di vendita.
Quello del Digital Fashion appare, in conclusione, un settore in gran fermento che, se si dimostrerà capace di sfruttare pienamente le molte funzionalità rese disponibili dallo sviluppo tecnologico, non mancherà di riempire gli ampi margini di crescita e di rinnovare efficacemente il proprio intero processo di produzione e distribuzione.
 
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Settore orafo in Italia: tra criticità e slanci

Non poche le difficoltà per il comparto dei preziosi nel Belpaese, come l’eccessiva frammentazione imprenditoriale, il crollo dei consumi interni e i dazi doganali troppo alti. Ampi spazi di crescita nelle esportazioni, necessità di fare rete e competere attraverso la differenziazione

Alcuni dei loro rappresentanti più noti sono stati sapientemente definiti “i migliori amici delle donne”. L’intera categoria può dirsi amica del sistema economico italiano, pur subendone in parte, negli ultimi anni, gli effetti negativi. Stiamo parlando del settore orafo. Un settore che incontra non poche criticità nel Belpaese: eccessiva frammentazione della dimensione imprenditoriale, difficoltà nella gestione del passaggio generazionale e del know-how corrispondente, crollo dei consumi interni, negativa congiuntura economica internazionale, dazi doganali troppo alti. Ciononostante gli spazi per la crescita ci sono, soprattutto con riferimento al reparto esportazioni.
Uno studio realizzato dall’Istituto Tagliacarne su iniziativa di Unionfiliere, l’associazione delle camere di commercio per la valorizzazione delle filiere del Made in Italy, ha inteso nei giorni scorsi delineare i contorni economici delle tre filiere che più fortemente identificano l’Italian Style: la moda, la nautica e l’oreficeria. Nel loro complesso, questi tre settori coinvolgono ben 341 mila imprese (il 5,4% del totale nazionale), l’8,2% degli addetti che operano al di fuori dell’agricoltura (per un totale di 1.421.644 persone) e fanno registrare un fatturato che sfiora i 200 miliardi di euro. Fondamentale, all’interno di tali filiere, anche l’apporto di tutte quelle imprese che forniscono beni e servizi intermedi alle attività principali di produzione, trasformazione e commercializzazione delle materie prime: esse incidono per l’11,6% sull’occupazione complessiva del sistema e hanno mostrano una tenuta occupazionale più stabile in questi ultimi anni di crisi economica.
Si evidenzia, allora, l’apertura di alcuni distretti a nuove logiche di filiera, la cui articolazione va ormai ben oltre la realizzazione del singolo prodotto, arrivando a coinvolgere diverse attività collegate. È con questa consapevolezza che lo scorso giovedì 20 settembre è stato siglato un protocollo d’intesa tra il Presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, e il Presidente della Federazione dei Distretti, Valter Taranzano, il quale ha stabilito l’impegno del sistema camerale e di quello dei distretti a sperimentare forme di collaborazione sempre più incisive e ad avanzare iniziative condivise capaci di favorire la competitività delle filiere e dei distretti.
Vediamo allora i risultati dello studio Unionfiliere con riferimento al settore orafo. L’intera filiera vanta un fatturato superiore ai 15 miliardi di euro a fine 2010, per un totale di 87.360 addetti (80.545 impiegati nelle attività principali e 6.815 nelle imprese che forniscono beni e servizi intermedi), pari ad una riduzione di 14,6 punti percentuali rispetto al 2007. Negli ultimi 18 mesi le unità locali sono diminuite, raggiungendo il numero di 28.559. Il peso della filiera orafa, in termini di incidenza dei suoi addetti sul totale, è pari, a livello nazionale, allo 0,5%; in alcune province tale incidenza è, tuttavia, notevolmente maggiore, come ad Arezzo (peso dello 8,1% sul totale provinciale degli addetti), Alessandria (4,9%), Vicenza (2%), Caserta (0,8%), Firenze (0,8%) e Macerata (0,8%). In valore assoluto, le province in cui opera il maggior numero di addetti sono Arezzo (incidenza dell’11,1% sul totale nazionale degli occupati nella filiera), Alessandria (8,1%), Vicenza (8%), Milano (7,7%) e Roma (5,7%), nelle quali lavora il 40,7% degli addetti della filiera.
Con riferimento al commercio con l’estero, le serie storiche evidenziano una costante crescita negli anni novanta, con una punta nel 2000, e una sensibile riduzione nel nuovo secolo, con un picco negativo nel 2009. L’esportazione di prodotti orafi sembra comunque riprendere una dinamica in positivo negli ultimi anni, anche se permane l’incertezza per l’anno in corso. I valori dei prodotti orafi esportati hanno subito, in particolare, una significativa contrazione nel 2008 e nel 2009, mentre si è registrata una ripresa nel 2010 e nel 2011. Tra il 2007 e il 2011 le quantità, espresse in kg, sono peraltro sempre diminuite, con un conseguente aumento, nell’ultimo biennio, dei costi unitari.
Con riferimento ai distretti orafi, nel 2010 vi risultano attivi 59.976 addetti manifatturieri (50.074 nelle piccole e medie imprese e 9.904 in imprese con più di 250 dipendenti) in 7.549 unità locali (7.481 sono piccole e medie imprese e 68 sono imprese con più di 250 dipendenti). La crisi finanziaria ed economica ha comportato la perdita di 8.693 addetti rispetto 2007, pari a -12,7% e di 934 unità locali, pari a -9,3%.
Tra i quattro distretti manifatturieri specializzati nelle attività orafe, il maggiore, in termini di addetti alla manifattura, è, nel 2010, quello di Arezzo, seguito da quello di Vicenza e da quello di Bassano del Grappa (che può vantare anche altre specializzazioni, come quella nel settore del mobilio), mentre il distretto di Valenza Po è l’ultimo.
Accanto a quella di Unionfiliere, non poche sono le iniziative promosse per la comprensione e lo sviluppo del settore. Si è da poco conclusa Vicenzaoro Fall, l’edizione autunnale del salone internazionale dell’oreficeria e della gioielleria (dall’8 al 12 settembre 2012 presso la Fiera di Vicenza), con 20.000 visitatori provenienti da 111 paesi e con quasi 1.400 espositori provenienti dai principali distretti orafi italiani e da 32 paesi esteri. L’evento, dedicato agli operatori del settore e punto di incontro tra produttori e buyer internazionali, ha inteso in particolare concentrare la propria attenzione sulla sperimentazione, sull’apertura internazionale e sui cambiamenti che la realtà orafa sta vivendo.
Occhio puntato all’esterno e al futuro, dunque, per un settore che non meno di altri ha dovuto sopportare negli ultimi anni le amare conseguenze della difficile congiuntura economica. Confermano, infatti, le stime in negativo di Unionfiliere anche i risultati del report “Il settore orafo italiano: tra crisi dei consumi e opportunità internazionali”, di recente pubblicato dal Centro Studi Industry & Banking di Intesa Sanpaolo e riferiti al 2011. Stando a tale report, il settore orafo italiano avrebbe registrato lo scorso anno una crescita del fatturato pari al 3,2%. Il dato, in apparenza positivo, evidenzia in realtà una battuta d’arresto negli ultimi mesi rispetto al periodo gennaio-giugno 2011 quando il fatturato del comparto cresceva del 7,4%.
A incidere sull’andamento positivo è stato sicuramente l’aumento dei prezzi dei prodotti, dovuto all’incremento dei costi dei metalli preziosi. Il fatturato del 2011 a prezzi costanti ha segnato, infatti, un -4,6%, mentre i prezzi alla produzione sono cresciuti dell’8,2%.
Il mercato interno dei preziosi sembra, al momento, essere piuttosto fermo, alla luce anche delle prime stime, non ancora ufficializzate, relative all’anno in corso. Da un punto di vista mondiale, l’Italia si posiziona oggi al terzo posto nella classifica dei principali attori del settore gioielli in metalli preziosi (passando dal 14% del 2006 al 9,7% del 2010, ultimi dati disponibili), superata dagli Stati Uniti (oltre il 12% del market share nel 2010) e dall’India, che, con una quota di mercato del 14,4%, si è assicurata il primo posto (mentre nel 2006 si collocava alle spalle del Belpaese, con una quota del 12,2%). In salita le performance della Cina, che da un market share del 5,6% nel 2006 è passata all’8,8% nel 2010, e di altri paesi del Sud Est Asiatico, come Singapore, Thailandia e Malesia.
A indebolire il mercato italiano, nel confronto con i competitors stranieri, vi è innanzitutto il fatto che esso è caratterizzato da aziende mediamente di piccole dimensioni e con elevata specializzazione produttiva, da basse economie di scala, da strategie commerciali di tipo tradizionale e da una scarsa attività di comunicazione e promozione. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, occorre sottolineare come possa risultare estremamente complessa la scelta di alcuni operatori di aprire il proprio brand alle molteplici possibilità offerte dalla rete. Se essa può, infatti, dimostrarsi una fonte fruttuosa di diffusione per il proprio universo valoriale, richiede, allo stesso tempo, una particolare dedizione e attenzione, commisurata alla dimensione qualitativa che il proprio marchio racchiude. La natura elitaria del messaggio veicolato dagli operatori del settore può apparire in contrasto con la tendenza all’apertura e alla virilità, tipica del web 2.0. Un’attenta strategia e del tempo costantemente dedicato possono, ad ogni modo, decretare il successo di un marchio anche nelle piattaforme virtuali, facendo affidamento sul fascino che lusso e preziosità esercitano sugli utenti.
I Paesi con i quali l’Italia compete possono, inoltre, beneficiare di un costo della manodopera più basso e di tariffe doganali inferiori: “stimiamo” – ha affermato Ivana Ciabatti, Presidente Orafi Argentieri Confindustria Arezzo, nel corso di un summit di Confindustria sulle strategie da improntare per il settore orafo – “che i dazi doganali a cui sono sottoposti i nostri prodotti limitino la loro vendita in importanti mercati esteri di circa il 60%”.
A incidere poi sulle performance negative nella vendita dei preziosi sono state anche le manovre correttive che i governi europei, e quello italiano in particolare, hanno approvato nella seconda metà dello scorso anno, le quali hanno inevitabilmente influito sulle abitudini d’acquisto dei cittadini: i prezzi del comparto sono cresciuti dell’8,9% (dati Prometeia) rispetto al 2010 (per comprendere la portata dell’aumento, si pensi che i prezzi dei capi di abbigliamento hanno registrato un +1,1%), con la conseguente tendenza dei consumatori italiani a realizzare acquisti sempre più ragionati, prediligendo prodotti con un ottimo rapporto qualità prezzo.
Le esportazioni di gioielli e bigiotteria – ci dicono ancora i dati Intesa Sanpaolo – mostrano invece un profilo più vivace rispetto alle vendite interne, avendo conosciuto nel 2011 una crescita di 10,5 punti percentuali (8,4% per i soli gioielli in metalli preziosi), grazie soprattutto agli ottimi risultati di alcune province italiane, tra cui Alessandria, dove si trova il distretto di Valenza, Torino e Varese, e a quei paesi che continuano a ritenere il made in Italy e l’alta qualità delle lavorazioni e del design italiano un punto di riferimento; tra i principali interlocutori dell’Italia, vi sono, in particolare, Svizzera, Cina, Germania e Turchia. Vicenza registra una buona crescita dell’export (+7,6%) che tuttavia risulta insufficiente a recuperare i livelli del 2007, soprattutto se si tiene conto del boom dei prezzi dei metalli preziosi.
L’impostazione scelta nel corso dell’ultima edizione del Vicenzaoro, di guardare cioè al di fuori dei nostri confini nazionali e di puntare sull’innovazione, sembra allora la sola percorribile: “La soluzione è cercare di andare sempre più all’estero, spazi ce ne sono, non siamo alla vigilia di una recessione globale come quella del 2009”, ha sottolineato Stefania Trenti, responsabile dell’ufficio Industry & Banking di Intesa Sanpaolo. Opportunità di sviluppo vengono dall’Asia e dai mercati del Mediterraneo – sottolinea in conclusione il report Intesa Sanpaolo – sui quali, tuttavia, grava il peso dei concorrenti locali, difficili da affrontare per le piccole e medie imprese italiane del settore orafo.
A confermare l’ampio bacino di possibilità, al di là dei confini nazionali, per l’industria e per gli artigiani italiani del gioiello, intervengono anche i dati diffusi da Prometeia: con una quota di esportazioni che pesa per il 75% sul fatturato del 2011 (ultimi dati disponibili), il settore risulta certamente tra i più “export-oriented” all’interno del comparto moda. Il valore delle esportazioni è stato pari, lo scorso anno, a poco più di 4,7 miliardi di euro (su un fatturato di 6,3 miliardi), ricollocandosi sostanzialmente sui livelli pre-crisi (2007), seppur in progressivo ridimensionamento negli ultimi dieci anni. Con una quota del 3% sul commercio mondiale l’Italia figura al nono posto nella classifica dei principali esportatori di oreficeria. Rispetto al settore moda, le aree di sbocco delle esportazioni del settore orafo – ci dice ancora Prometeia – sembrano essere molto più diversificate, con una maggior presenza nei mercati più lontani (da un punto di vista sia geografico sia culturale) e in quelli emergenti: nel Nord Africa e in Medio Oriente, ad esempio, si concentra il 20,7% dell’export orafo italiano (rispetto al 4,6% del sistema moda), nei Paesi Nafta il 12,2% (contro il 6,9%) e in Asia addirittura il 13,8% (mentre il sistema moda si ferma al 12,9%). Il peso dei paesi BRIC sull’export italiano del settore orafo è passato dal 2,9% del 2000 al 4,3% del 2005, fino ad arrivare al 7,2% del 2011. In media, inoltre, la distanza coperta dall’export italiano è di 4 mila chilometri, rispetto ai 3 mila del sistema moda.
È una fotografia, dunque, intensamente chiaroscurale, quella scattata per osservare il settore dei preziosi. Accanto a inevitabili difficoltà, si incontrano ampi spazi di movimento per il successo di una tra le principali eccellenze del made in Italy nel mondo. Per battere la concorrenza internazionale, fondamentale sarà potenziare gli strumenti di differenziazioni, con delle politiche mirate che puntino all’innovazione, alla comunicazione efficace e alla riaffermazione del marchio. Allo stesso tempo è necessario che le molte piccole realtà imprenditoriali italiane si dimostrino capaci di fare sistema, di improntare strategie creative di “aggressione” verso i mercati esteri, dimostrandosi in questo modo realmente competitive.
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Arretrati retributivi per l’industria tessile, abbigliamento e moda

La circolare n. 57 del 28/03/2011 precisa che tali arretrati valgono anche per malattia e congedi

Con la circolare n. 57 del 28 marzo 2011, l’Inps chiarisce che gli arretrati retributivi previsti dall’Accordo del 9 luglio 2010 per il rinnovo del C.C.N.L. per l’industria tessile, abbigliamento e moda “sono valutati pure ai fini della determinazione delle prestazioni economiche di malattia, di maternità, di congedo matrimoniale e di integrazione salariale”.

L’Accordo in questione ha, infatti, previsto, tra le altre cose, “la corresponsione a titolo di arretrati retributivi, ai lavoratori in forza alla data del 21 maggio 2010, di un importo forfettario di Euro 40,00 lordi, da corrispondere con la retribuzione del mese di giugno 2010 e da commisurare all’anzianità di servizio maturata nel periodo 1° aprile – 31 maggio 2010”.

La circolare precisa che l’una tantum prevista è ridotta proporzionalmente, con riferimento ai contratti di lavoro part-time, a causa del minor numero di ore lavorative; al fine, poi, di maturale l’una tantum – il cui importo è escluso dalla base di calcolo del trattamento di fine rapporto – sono considerate utili “le assenze dal lavoro per malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, congedo matrimoniale, donazione di sangue intervenute nel periodo 1° aprile 2010 – 31 maggio 2010, che abbiano dato luogo al pagamento di trattamenti economici previdenziali a carico dell’Istituto competente e, ove dovuto, all’integrazione a carico delle aziende”; al contrario non sono considerati utili i periodi di sospensione della prestazione lavorativa senza diritto alla retribuzione (ad esempio a causa di “servizio militare, aspettativa, congedo parentale, cassa integrazione guadagni a zero ore settimanali”).

In merito ai riflessi sulle prestazioni economiche di malattia e di maternità (e su tutte le altre prestazioni a carico dell’INPS conguagliabili con i contributi, come i riposi post-partum, le retribuzioni previste per i donatori di sangue…) erogate nel periodo a cui si riferiscono gli arretrati retributivi in questione, “detti emolumenti non devono essere presi in considerazione nel periodo di paga in cui sono stati effettivamente corrisposti, ma vanno conteggiati nei limiti del pro quota riferito al mese considerato, da computare secondo le regole previste per le mensilità aggiuntive o premi (v. circolare 127 del 17.05.1991 e le altre precedenti ivi richiamate, a cui si deve aver riguardo anche per le modalità di conguaglio)”.

Per quanto riguarda, infine, i riflessi sulle integrazioni salariali (sia ordinarie che straordinarie) erogate nel periodo dal 1° aprile 2010 al 31 maggio 2010, “devono applicarsi le istruzioni impartite in materia di ricalcolo delle prestazioni in argomento con la circolare n. 58 del 05.03.1991”.

 

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