Social media professionali: un’occasione mancata per le aziende italiane

Rivela un’indagine condotta da Lundquist come sia piuttosto limitata la presenza delle principali realtà imprenditoriali nazionali sulle piattaforme di professional networking, LinkedIn in particolare, con pagine non gestite attivamente e scarsa attenzione alle potenzialità di recruiting e di accrescimento dell’online reputation

Data ormai per assodata l’importanza che le varie piattaforme social possono avere per la creazione e lo sfruttamento di nuove logiche di sviluppo aziendale, resta da capire se e in quale misura le imprese italiane ne siano realmente consapevoli. Esserci o non esserci può fare la differenza, allo stesso modo esserci in modo non adeguato o superficiale rischia di vanificare gli sforzi o addirittura di rivelarsi controproducente.
La logica collaborativa sottesa allo sviluppo di questi network può rivelarsi quanto mai fruttuosa, purché sia in grado di generare nei membri della community un livello sufficiente di engagement (termine di derivazione anglosassone che si potrebbe tradurre in “coinvolgimento attivo e appassionato”). L’azienda può sfruttare la sua presenza per comunicare al meglio la propria identità e per creare un rapporto più solido con il suo target di riferimento, interagendo con lo stesso e cogliendo feedback o spunti potenzialmente utili ad aumentare il proprio business.
Sempre maggiori sono le potenzialità e gli strumenti messi a disposizione per le imprese dalle stesse piattaforme, consapevoli della propria portata innovativa e dell’ampio favore di pubblico che mirate campagne di marketing possono avere tra gli anelli della catena sociale da esse virtualmente creata: dalla nuova versione di “Facebook for business” – creata anche in italiano per guidare le aziende alla creazione ottimale della propria pagina sul network, aiutandole ad orientarsi tra le molte funzionalità disponibili – alla recente introduzione di alcuni strumenti business su Google+, fino alla rinnovata veste grafica offerta alle pagine aziendali su LinkedIn, che sembra ora puntare più sull’aspetto visivo che su quello testuale.
A studiare la portata social delle imprese italiane è, allora, Lundquist – società di consulenza strategica specializzata nella comunicazione corporate online – con il “Lundquist Social Media Awards 2012”, una serie, cioè, di studi approfonditi circa le modalità con cui le aziende si posizionano sui social media per diffondere il proprio brand e l’universo valoriale ad esso connesso. Lo scopo dichiarato è quello di monitorare l’evoluzione delle logiche di comunicazione aziendale e raccogliere una sorta di antologia delle best practice.
Dopo aver diffuso a marzo i risultati dell’indagine dedicata alla copertura da parte di Wikipedia delle maggiori imprese italiane, Lundquist ha pubblicato nei giorni scorsi gli esiti di una nuova ricerca che ha inteso studiare l’utilizzo, da parte delle società nazionali, delle piattaforme di professional networking, concentrandosi in particolare sulla più diffusa tra esse, LinkedIn.
Lo scenario che ne è derivato non sembra certo essere tra i più incoraggianti. L’analisi ha coinvolto 100 tra le maggiori società quotate e non quotate in Italia e, di esse, risulta che ben due terzi non gestiscono attivamente la propria presenza su LinkedIn, nonostante si dimostri sempre più ampio l’interesse degli utenti a utilizzare la piattaforma per interagire con simili realtà imprenditoriali. Se sono oltre 115.000 i dipendenti di queste realtà iscritti a LinkedIn, circa il triplo è il numero di followers, a rappresentare un pubblico presumibilmente interessato a conoscere e veicolare il messaggio aziendale e puntualmente ignorato nelle sue attese.
Delle 100 imprese, 58 possiedono, in particolare, una pagina non direttamente gestita (vale a dire auto-generata dal sistema), capace di accumulare un seguito pari, in media, a quasi 3.000 followers. I casi più eclatanti – afferma il report – riguardano Cattolica Assicurazioni , Saras, Tod’s ed Esselunga. Mentre ai primi tre continua a corrispondere una bacheca virtuale sostanzialmente priva di alcuna informazione aziendale, Esselunga pare abbia, nel frattempo, posto rimedio alla passività della sua presenza, aggiungendo non solo una propria descrizione, ma anche aggiornamenti informativi, mission, prodotti e possibilità offerte dalla specifica azione imprenditoriale. A beneficiare di contenuti auto-generati (breve profilo della società, mappa della sede, link al sito aziendale e news sulla società) sono anche grandi aziende nazionali, alcune delle quali sono riuscite a porre in essere un network di oltre 10.000 persone, tra dipendenti e followers: una rete di contatti, insomma, piuttosto ampia, senza il benché minimo sforzo mirato, che potrebbe certamente allargarsi ulteriormente se corredata da una sapiente e consapevole azione di posizionamento.
Trenta sono, invece, le imprese che possiedono una pagina amministrata attivamente (pari a circa un terzo del totale analizzato), in grado di raddoppiare quasi il pubblico di riferimento, con 5.700 followers in media. In molti casi gli interventi operati dall’azienda sono comunque minimi (semplici aggiornamenti del profilo), tuttavia alcune realtà possono essere salutate come best practice nazionali: Edison, Eni, Fiat SpA, STMicroelectronics e Telecom Italia sfruttano i molti strumenti messi a disposizione su LinkedIn, dal profilo della società, alla descrizione dei prodotti, dei servizi e delle possibilità di carriera. Non esistono, ad ogni modo, casi di reale eccellenza, pagine cioè sapientemente compilate con le dovute informazioni e capaci di instaurare un buon livello di interazione e coinvolgimento dei followers.
Delle 100 aziende oggetto di indagine, 12, infine, risultano non avere alcuna pagina su LinkedIn: si tratta prevalentemente di filiali italiane di aziende estere, i cui dipendenti sono registrati come facenti capo alla casa madre; è il caso, ad esempio, di AXA e Nestlé, le cui divisioni italiane non sono presenti.
Le notizie che più comunemente si trovano all’interno delle pagine aziendali sono quelle relative alla descrizione e alle informazioni generali sulla società e sul business, presenti nella scheda “Panoramica”, mentre preoccupante risulta il fatto che ben 30 tra le maggiori aziende in Italia non presenta alcun tipo di informazione che descriva la propria attività. LinkedIn permette poi di inserire contenuti multimediali e di fornire aggiornamenti, immediatamente visibili a tutti i followers e capaci di creare un coinvolgimento, grazie alle funzionalità di commento e condivisione; solo una società italiana su otto, tuttavia, sembra aver caricato foto o video sulla propria pagina (Barilla e Benetton, ad esempio, presentano brevi filmati istituzionali) e solo nove riportano aggiornamenti non automatici sulla propria pagina (tra questi Telecom Italia).
Poco sfruttata anche la possibilità di fornire dettagli su specifiche attività di business attraverso l’utilizzo delle schede “prodotti” e “servizi”: solo 15 delle 100 società analizzate presentano informazioni di questo tipo (malgrado la quasi totalità delle aziende che le hanno fornite abbiano poi ricevuto raccomandazioni da parte degli utenti), perdendo così la possibilità di attrarre potenziali talenti e di sviluppare o accrescere la brand awareness (conoscenza di marca). Un’occasione perduta, dunque, in termini di viralità nella comunicazione aziendale, dato che ogni prodotto o servizio può essere segnalato o commentato dagli utenti, favorendo meccanismi di passaparola.
Lundquist ha inteso, inoltre, indagare lo sfruttamento della piattaforma in termini di recruiting. In un periodo in cui cambiano completamente le modalità con le quali le molte perizie e genialità italiane ricercano una propria collocazione professionale, articolandosi sempre più in chiave social, LinkedIn sembra configurarsi come sede privilegiata di incontro tra domanda e offerta di lavoro, essendo nata con l’obiettivo di aiutare a creare e coltivare una rete di contatti professionali. Ciononostante solo 13 aziende su 100 utilizzano la piattaforma per cercare candidati, dando informazioni circa le posizioni aperte, e, di queste, solo 8 offrono la possibilità di effettuare la candidatura direttamente tramite LinkedIn.
Le aziende italiane si dimostrano, allora, incapaci di cogliere le potenzialità dei social media professionali come LinkedIn nello sviluppare l’attività di employer branding (quelle azioni intraprese, cioè, nei confronti dei dipendenti interni e delle nuove potenziali risorse umane, volte a valorizzare l’immagine stessa dell’azienda). Nessuna presenta, infatti, informazioni sul processo di selezione, pochissime offrono contenuti riguardanti valori, cultura aziendale e benefit, solo Indesit presenta le testimonianze dei dipendenti, oltre a fornire un contatto diretto della persona che si occupa delle risorse umane.
Le discussioni tra i membri di LinkedIn si svolgono poi soprattutto sui gruppi, perciò sarebbe fondamentale per le aziende conoscere quali e quanti gruppi siano collegati, ufficialmente o non, alla propria realtà.
La ricerca di Lundquist si è focalizzata soprattutto su LinkedIn, la piattaforma professionale più diffusa al mondo (con 161 milioni di utenti) e in Italia (con oltre 2 milioni), ma utili, in relazione al proprio business, possono rivelarsi anche altri network maggiormente caratterizzati geograficamente. Si vedano ad esempio Xing (utilizzato soprattutto in Germania, Austria e Svizzera, con 11 milioni di membri al mondo), Viadeo (in Francia) e, fuori dall’Europa, Tianji (Cina) o Apna Circle (India). Xing, a differenza di Viadeo, offre la possibilità di creare pagine aziendali, per questo le società italiane con una forte presenza in paesi di lingua tedesca dovrebbero valutare una presenza gestita anche su questo social network. Solo UniCredit risulta, ad oggi, presente su Xing, attraverso la controllata tedesca HVB.
Perché esserci, in definitiva?
Lundquist ha cercato di rispondere alla domanda offrendo cinque fondamentali motivazioni: per attrarre nuovi talenti, attingendo al vasto bacino di professionisti presenti, per accrescere la propria reputazione e sviluppare la brand awareness, per interagire con la propria community di riferimento, creando luoghi virtuali di dialogo, per superare i limiti della intermediazione e instaurare rapporti diretti con utenti e professionisti, infine per l’estrema semplicità di gestione veicolata dalla piattaforma (anche nel confronto con Facebook e Twitter).
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Pubblicità

Investimenti pubblicitari: boom per il digitale

Secondo lo studio “Comunicare Domani” curato da AssoComunicazione, il settore starebbe subendo un momento di crisi generale, con la previsione di un 2012 in chiusura al -7% nella raccolta. Crescono per contro le formule più innovative, in testa il Video Adv
La convergenza al digitale ha imposto agli utenti, sempre più evoluti, una necessaria riformulazione nei modelli fruitivi di contenuti e informazioni. La rete diventa sempre più un canale preferenziale per il consumo di quanto veicolato un tempo da altri media più tradizionali. Mutano le pratiche di lettura, mutano le esperienze e le percezioni. Mutano, di conseguenza, anche i comportamenti di quanti, tra tutti i media resi disponibili dallo sviluppo tecnologico, devono scegliere quali e in quale formula veicolare il proprio messaggio promozionale, il proprio credo aziendale.
AssoComunicazione (l’associazione che riunisce le imprese operanti nel campo della consulenza di comunicazione), ha presentato lo scorso venerdì a Milano i risultati del suo annuale studio “Comunicare Domani”: condotto su 133 attività di comunicazione operanti in territorio italiano, esso ha inteso delineare un quadro generale relativo agli investimenti in ambito pubblicitario, alle evoluzioni e ai nuovi scenari che si stanno affacciando in questo ambito.
Il dato generale è di un settore in crisi, che prevede di chiudere il 2012 con una contrazione di circa 7 punti percentuali nella raccolta pubblicitaria (per un valore di 8.650 milioni di euro, la cifra più bassa dell’ultimo decennio).
All’interno di tale trend negativo pare, tuttavia, sia possibile rilevare un andamento dal segno opposto, con riferimento al digitale: gli investitori sembrano, infatti, essere sempre meno interessati ai media tradizionali, a favore delle nuove opportunità digitali (TV Sat e Digitale terrestre, Internet, Video Outdoor). Per queste ultime le previsioni parlano di un 2012 in chiusura positiva addirittura in doppia cifra (+12,7%), con il 15,1% degli investimenti totali ad esse destinate (pari a ben 1.309 milioni di euro): i settori trainanti si confermano Automotive e Finanza-Assicurazioni, ma si registra un forte incremento anche per il comparto Alimentare.
Crescono con la stessa intensità Web/Display Advertising (spazi pubblicitari a pagamento) e Email, da una parte, Search advertising Classified/Directories (pubblicità per categorie) dall’altra, facendo segnare entrambe le formule un +13%: sulla prima le aziende investiranno, nel 2012, 545 milioni di euro, sulla secondo 681 milioni.
Un fenomeno destinato a diventare protagonista nel prossimo futuro è poi il Video Advertising, che registrerà nel 2012 un’esponenziale aumento degli investimenti, pari al +93%, pur restando in termini assoluti ancora su cifre limitate (le stime parlano di 88 milioni di euro di investimenti).
La potenza di questo nuovo mezzo è stata del resto rilevata a gran voce nel corso dello Iab Seminar 2012, l’evento tenutosi il 28 giugno scorso a Milano, che ha focalizzato quest’anno la propria attenzione proprio sul tema del Video Advertising. Nella sua presentazione, Fabiano Lazzarini, General Manager di IAB Italia, ha evidenziato come, a fronte di un cambiamento dei modelli di consumo dei media, anche la pianificazione pubblicitaria stia modificando i propri confini. Ad oggi, ha riportato, il 2,5% degli investimenti pubblicitari si sta spostando dalla TV al Video Online, mezzo che permette di pianificare seguendo logiche simili a quello che è da sempre il media preferito dagli italiani. A ciò si aggiunge il fatto che esso offre numerose opportunità ai diversi attori coinvolti nella filiera pubblicitaria: i creativi, ad esempio, possono realizzare campagne che viaggiano in rete al di là dei vincoli spazio-temporali e le aziende possono diventare fornitrici di contenuti e raccontare storie che gli utenti si scambiano, manipolano e modificano per creare nuovi originali spunti. Il Video Adv rappresenta, allora, oggi – secondo Lazzarini – il 10,5% della pubblicità display, pari a 455,6 milioni di euro, e nel 2012 egli prevede un aumento degli investimenti pari all’85%, raggiungendo gli 89 milioni di euro (si tratta di stime leggermente diverse rispetto a quelle riportate da AssoComunicazione, ma la sostanza rimane invariata).
In aumento, malgrado rimanga ancora poco utilizzato, è anche il Mobile Adv (8%), con 38 milioni di euro che dovrebbero essere elargiti dagli investitori nel 2012. Segno più anche per la formula Performance (pagamento in base alle visualizzazioni), con 46 milioni di euro previsti per l’anno in corso, pari a 8,5 punti percentuali di aumento sul 2011.
Con riferimento alla composizione assoluta degli investimenti pubblicitari nel mezzo digitale, l’indagine Assocomunicazione ci dice che la quota maggioritaria (52%) è occupata da Search advertising e Classified/Directories, seguita da Web/Display Adv e Email (41,6%). La market share per Performance è poi del 3,5%, quella per il Mobile Adv del 2,9%.
E sui canali televisivi?
Il mercato degli investimenti pubblicitari starebbe, dunque, vivendo una profonda trasformazione, fondata sul ridimensionamento della propria portata, a causa della persistente congiuntura economica negativa, e, allo stesso tempo, sulla ridistribuzione delle risorse alla propria base.
Se è vero, infatti, che la televisione continua ad essere, anche nel 2012, il mezzo prediletto dagli investitori italiani, la market share occupata da questo canale sembra essere in calo, passando dal 52% del 2011 al 51% dell’anno in corso. La flessione è conseguenza diretta della contrazione prevista nella raccolta di investimenti, pari a -8,6% (cioè a 4.411 milioni di euro destinati al media).
I due big players del mercato, Rai e Mediaset, vedono una decisa riduzione degli investimenti nei loro canali “tradizionali”, rispettivamente del 12,2% e del 11.2%. Nonostante la buona crescita dei rispettivi canali digitali, sia Rai che Mediaset chiudono, inoltre, in negativo il 2012, con un -10,9% previsto per la RAI (pari a 967 milioni di euro di investimenti) e un -9,6% per Mediaset (pari a 2628 milioni). Continueranno comunque a rappresentare il 38% del totale investimenti pubblicitari.
Secondo le previsioni, La7 e La7D incrementeranno anche nel 2012 la loro raccolta pubblicitaria (+7,9%, pari a 202 milioni di euro), seppur in misura più contenuta rispetto al 2011.
Soffrono, oltre alle TV generaliste, anche quelle locali, segnando un calo di raccolta pari al 51,9%. Per contro, TV Satellitare e Digitale faranno registrare degli andamenti positivi, con quote a loro destinate rispettivamente al +6,4% e al +6,6%. A influire sul dato sono, da una parte, l’abbiamo visto, il processo di convergenza al digitale, che spinge a una crescita dell’audience, dall’altra l’ampliamento dei canali, dunque dell’offerta proposta.
La stampa ancora resiste
Al secondo posto per quota di mercato si posiziona poi ancora la stampa, tuttavia essa continua a subire perdite piuttosto rilevanti di tale quota (canalizza nel 2012 il 22,1% della raccolta, in calo di 11,9 punti percentuali sul 2011). Più in particolare, nel comparto Quotidiani, gli investimenti, pari a 1.153 milioni di euro, sono in continua e forte flessione (-11,5%). Sia il settore FMCG (beni di largo consumo) che gli altri comparti continuano a ridurre, infatti, l’utilizzo di questo mezzo.
Soffre in maniera ancor più netta il settore della free press, facendo segnare perdite a doppia cifra (-43% sulla free press nazionale). A tagliare decisamente gli investimenti, sono anche e soprattutto i settori Finanza/Assicurazioni e GDO, dunque i tradizionali main spender di questo media.
Infine il reparto Periodici, dove la raccolta pubblicitaria si attesta per il 2012 sui 758 milioni, facendo registrare una contrazione sul 2011 di 12,6 punti percentuali, nonostante le molte iniziative editoriali multipiattaforma che coinvolgono i nuovi tablet e devices. Anche il settore Abbigliamento, investitore di primo rilievo per questo mezzo, inizia a disinvestire, facendo segnare un -10% nel primo trimestre 2012.
Si difendono tutti gli altri canali
Al terzo posto per quota di mercato si posiziona poi il digitale (15,1%), al quarto la radio (5,9%). Per quest’ultimo mezzo è prevista una chiusura al -6% nel 2012 (pari a 507 milioni di euro), dato tuttavia positivo, se paragonato al -12% registrato nel 2011. Le posizioni riguadagnate dipendono in larga parte dalle buone performance delle radio commerciali, che passano dal -9% nelle raccolte pubblicitarie del 2011 al -3% del 2012 (pari a 303 milioni di euro), grazie soprattutto a un ampliamento della loro offerta, caratterizzata ora da una più ampia personalizzazione dei progetti e da una comunicazione multipiattaforma. Migliora la situazione anche per le radio locali, che da -19% si collocano nel 2012 a -8,5% (pari a 135 milioni di euro). Peggiorano invece le prestazioni di Radio Rai, che da -9% arriva addirittura -14% (raccolta pari a 70 milioni di euro).
Al quinto posto per market share abbiamo poi il comparto “Esterna” (5,5%), dove continua la flessione degli investimenti pubblicitari, con la previsione di un -14% per il 2012 (pari a 475 milioni di euro). Tutti i comparti “classici” sembrano essere in crisi: -21,7% per i poster (pari a 100 milioni di euro), -12,2% per la dinamica (pari a 87 milioni di euro), -16,2% per le maxiaffissioni (48 milioni) e -14,1% per i circuiti tematici (15 milioni). Segno meno anche per l’arredo urbano (-13,3%, pari a 91 milioni investiti) e gli aeroporti (-9,6%, cioè 76 milioni di euro), mentre registrano performance positive i formati più innovativi come i Video OOH (+8,6%, pari a 22 milioni di euro).
Sesta e ultima posizione per quota di mercato occupata dal cinema (0,4%), dove si assiste ormai da tempo ad una vera e propria emorragia di investimenti, nonostante il rinnovamento del mezzo legato a digitalizzazione, 3D e al recente rilascio al mercato dei software di pianificazione. Si prevede in particolare per il 2012 una chiusura negativa a -25%.
Cambiano dunque, nell’era della multimedialità, le formule adottate dagli investitori per le proprie scelte di advertising, in riflesso al rinnovarsi delle politiche fruitive dell’utente e al mutare dell’approccio che lega questo stesso utente al mezzo. Come dimostra, ad esempio, la ricerca “Interactive Europe”, diffusa l’11 giugno 2012 da Cbs Outdoor Italia, azienda specializzata nel settore dell’advertising out of home, sembra essersi totalmente modificato il modo che il consumatore ha di interagire con la pubblicità. Riferendosi alle campagne pubblicitarie in esterna, i promotori del report rilevano come l’81% degli italiani reagisca ad esse in diversi modi, andando online per cercare ulteriori informazioni sui contenuti pubblicizzati (38%), cliccando “Mi piace” sulla pagina Facebook del marchio (17%) e comprando il prodotto (34%). L’interazione aumenta fino all’85% nel caso degli utilizzatori di smartphone o tablet, confermando il ruolo crescente del mobile, nel dare visibilità ai brand e nel coinvolgimento delle audience, sempre più in movimento.
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La geografia dell’e-commerce

Frullatori in Lombardia, fumetti in Toscana e panche da fitness in Sicilia: uno sguardo privilegiato della più importante piattaforma di compravendita online

In sociolinguistica la si definisce “diatopia”: è la variabilità, registrata all’interno di un sistema linguistico, dovuta alla provenienza o alla collocazione geografica dei parlanti.

L’intero apparato che sostiene una qualsiasi lingua cambia, dunque, oltre che in relazione al gruppo sociale che se ne appropria (variazione diastratica), al contesto nel quale avviene la comunicazione (variazione diafasica), al mezzo di comunicazione utilizzato (variazione diamesica) e al periodo temporale considerato (variazione diacronica), anche con riferimento alla prospettiva geografica di volta in volta sotto esame. È una lingua piuttosto nuova e in continua evoluzione quella degli internauti (in particolare di quelli che fanno acquisti in rete), studiata continuamente dall’osservatorio eBay.it.

In una recente indagine, i responsabili della più importante piattaforma di e-commerce in Italia hanno provato a delineare la mappa delle variazioni diatopiche nei comportamenti d’acquisto del Bel Paese. Lo sguardo privilegiato della vetrina virtuale da cui è partito lo studio, ha permesso di analizzare con precisione le abitudini di consumo degli italiani, evidenziando le peculiarità di ogni regione rispetto alla media nazionale.

Si tratta – è bene sottolinearlo – di un’indagine interna a eBay.it, tuttavia, dato il suo fondamentale peso nell’economia italiana, non è illogico pensare di poter estendere alcune delle considerazioni emerse anche al di fuori dei confini della piattaforma. I promotori hanno innanzitutto suddiviso gli acquisti realizzati dagli utenti in 6.700 categorie merceologiche. Un primo dato conferma una tendenza ormai consolidata negli acquisti via web, la predilezione, cioè, alla tecnologia, cellulari, smartphone e relativi accessori in testa: la media, nei primi 4 mesi del 2012, è di un oggetto tech acquistato su eBay.it ogni 3 secondi.

Il dato si discosta leggermente dalle stime diffuse da Netcomm in occasione dell’E-commerce Forum del 16 maggio e riferite all’intero contesto virtuale italiano: stando a quanto riporta il consorzio del commercio elettronico, infatti, sarebbe il turismo il settore che beneficia del maggior numero di operazioni online. Secondo Netcomm, ancora, il comparto che ha registrato gli incrementi più elevati a inizio 2012, rispetto allo stesso periodo del 2011, sarebbe il settore abbigliamento, mentre su eBay è il settore dedicato a casa e arredamento ad aver goduto, nei primi 4 mesi del 2012, della crescita maggiore, pari al 46,2%.

Concentriamoci ora sulle diverse anime territoriali, talvolta scontate, altre volte inattese, individuate nello shopping virtuale. Il periodo considerato è quello che va da gennaio 2011 a gennaio 2012. La Lombardia si dimostra la prima regione italiana sia per oggetti presi sia per euro spesi su eBay.it. Qui si nota una particolare propensione all’acquisto di oggetti elettronici per la casa, in particolare frullatori (il 65% degli acquisti totali di tale prodotto è riconducibile a dei lombardi) e lavastoviglie, rispetto ai connazionali. Secondo posto, in questa particolare classifica dell’e-commerce, per il Lazio, dove si comprano più quadri per la casa, tailleur e abiti da donna. Il dato, banalmente, sembra lasciar intendere che lo shopping virtuale sia, in questa regione, fortemente praticato dalle donne.

Del resto, sottolineano i promotori dello studio, l’intero fenomeno del commercio elettronico sembra essere dotato di uno spiccato accento rosa, come confermato dal fatto che, subito dopo la tecnologia, le due categorie con maggior numero di oggetti acquistati su eBay sono “casa e arredamento” e “abbigliamento e accessori”. Ecco allora che anche in Liguria si punta sul vestiario di tipo classico: ad essere acquistate in misura maggiore rispetto agli altri ambiti territoriale sono le gonne al ginocchio. La moda è alla base pure del primato detenuto dal Friuli Venezia Giulia, dove si comperano più maglioni e felpe. In Piemonte vince la categoria del Decoupage (oltre la metà di tutti gli acquisti realizzati in tale categoria proviene da cittadini piemontesi). Visto l’incremento di contributi a firma femminile sulla propria piattaforma, eBay Annunci ha anche pensato di indagarne la portata attraverso la ricerca “Women’s Generation 2.0”, al fine di comprendere l’uso e le aspettative che le donne possiedono mentre agiscono sul web. Lo studio ha rivelato, allora, come il sito sia stato sfruttato dalle donne principalmente per trovare lavoro, per far conoscere la propria attività imprenditoriale (soprattutto in fase di start-up) e per fare acquisti approfittando della loro convenienza. La ricerca si è articolata, in particolare, su due focus distinti, uno riguardante “Donne e lavoro”, l’altro “Donne straniere in Italia”.

Per raggiungere la via dell’approfondimento, i promotori hanno scelto di raccogliere delle testimonianza dirette, con interviste che rivelino spezzoni di vita quotidiana, capaci, in definitiva, di offrire uno sguardo originale e particolare della rete, quello rosa appunto. È interessante notare come in una situazione di particolare difficoltà, come quella odierna, dove il divario tra retribuzione maschile e femminile sembra non diminuire, siano proprio le donne a distinguersi per intraprendenza e versatilità delle proprie scelte professionali. Sembrano essere loro – ci dicono dalle file di eBay – le prime a credere nelle infinite potenzialità della rete, a sfruttarle sperando che la propria fatica imprenditoriale decolli. Torniamo ora alla nostra mappa territoriale degli acquisti.

Le regioni più “sportive”, secondo i dati di eBay, sono la Sicilia, nella quale si acquisiscono più panche per il fitness, il Trentino Alto Adige, che predilige le bici da bambino, e le Marche, dove i cittadini chiedono occhiali per andare in bicicletta e riviste dedicate al settore. In Veneto e in Campania si evidenzia, invece, una particolare passione per il mondo a quattro ruote: nella prima regione si comprano più fanali auto, nella secondo più pneumatici. I calabresi, ancora, comprano lettori mp3 da 1GB in misura più elevata del resto d’Italia; gli emiliani caricabatterie universali. Pollice verde in Puglia, dove confluisce il 67% degli acquisti di semi per fiori. Sardegna e Abruzzo all’insegna della convivialità a tavola: qui si comprano rispettivamente più piatti e più posate. Poi la Toscana, dove a regnare sono i fumetti, piuttosto ovvio se si considerano le molte manifestazioni legate al genere in questa terra (si veda ad esempio l’enorme successo annuale del festival “Lucca Comics & Games”).

Il report rivela anche dei risultati piuttosto curiosi: In Umbria si comprano, in misura maggiore rispetto alla media nazionale, i libri noir, in Basilicata gli acquari e i relativi accessori, in Molise le porcellane e in Valle D’Aosta, infine, la musica revival. “L’analisi dei consumi degli italiani realizzata da eBay.it fornisce risultati curiosi sui trend dell’e-commerce in Italia”, ha commentato Irina Pavlova, responsabile della Comunicazione di eBay.it. “La passione dei nostri connazionali per gli smartphone e gli apparecchi mobile emersa dall’osservatorio rispecchia anche il boom dell’m-commerce che sta vivendo il nostro paese”. Solo in Italia, infatti, viene realizzata su eBay una transazione via mobile ogni 34 secondi, segno, conclude la Pavlova, “che agli italiani piace fare shopping sempre e ovunque si trovino”.

Il riferimento è in particolare ai dati diffusi dall’osservatorio eBay qualche giorno prima, il 7 giugno, riferiti alla portata dell’e-commerce consumato sulla piattaforma, laddove l’uso di smartphone e altri dispositivi mobile si dimostra ormai largamente diffuso: le vendite e gli acquisti di questo tipo hanno rappresentato il 10% del totale, per un giro d’affari stimato nel 2011 in 5 miliardi di euro, con la previsione di arrivare a 8 miliardi nel 2012. Su eBay, come ricordato dalla Pavlova, avviene una transazione in mobilità ogni 34 secondi, mentre ogni settimana ci sono 1 milioni di nuove inserzioni inserite via mobile. Estendendo per un attimo la prospettiva all’intero contesto digitale italiano, il valore delle vendite via devices – ci dicono nuovamente i dati Netcomm – è passato, nel 2011, da 26 milioni di euro a 81 milioni di euro (registrando un incremento del 210%).

Il commercio elettronico sembra, in definitiva, non soffrire l’attuale congiuntura economica negativa, al contrario rappresenta un settore in continua crescita. Evidenzia ancora Netcomm come si sia registrato nel 2011 un innalzamento dell’11% sul numero di utenti attivi e prevede per l’anno in corso una crescita del 18%. Nel mese di marzo l’e-commerce avrebbe raggiunto la cifra record di 10,4 milioni di utenti e il successo, come evidenziato, sembra in parte dovuto proprio alle nuove soluzioni di m-commerce. Riprendendo questo trend positivo, i responsabili di eBay rivendicano il ruolo di primo piano che la loro piattaforma vi giocherebbe. Qui, infatti, si registra una transazione al secondo, i visitatori al mese sono oltre 8 milioni in Italia e oltre 100 milioni nel mondo.

“In questo momento difficile per il mercato italiano – afferma Barbara Bailini, responsabile Comunicazione dei venditori per eBay.it – eBay può diventare un valido supporto per le piccole medie imprese nella crescita del loro business: l’ecommerce rappresenta una delle migliori opportunità per tornare a crescere e eBay è il partner ideale per retailer e brand che decidono di affrontare il mondo delle vendite online. Con eBay è facile anche adattarsi al boom degli acquisti via mobile: ci sono infatti per i venditori professionali una serie di strumenti che aiutano a rendere le inserzioni sempre più idonee allo shopping via cellulari e dispositivi mobili”.

Mail, Web, iPhone… Stress da tecnologia!

Si è assottigliato sempre più il confine tra vita lavorativa e privata. A totale discapito della seconda… “dobbiamo tornare ad un equilibrio”

Uno dei primi e fondamentali obblighi del datore di lavoro è provvedere alla valutazione dei rischi e alla stesura del relativo documento, così come previsto dall’art. 17, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 81 del 9 aprile 2008, il cosiddetto “Testo Unico” sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro.

Qui si rimanda, in particolare, all’art. 28 dello stesso decreto, il quale specifica i rischi che devono essere considerati. Tra essi, figurano anche quelli legati allo stress lavoro-correlato, la cui valutazione deve essere effettuata “secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004”, siglato da CES (sindacato europeo), UNICE (la “Confindustria europea”) UEAPME (Associazione europea artigianato e PMI) e CEEP (Associazione europea delle imprese partecipate dal pubblico e di interesse economico generale).

Tale accordo è stato recepito dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese e dalle organizzazioni sindacali italiane tramite apposito accordo collettivo interconfederale, il giorno 9 giugno 2008. Quest’ultimo assume, dunque, seppur indirettamente, forza di legge, diventando un parametro di riferimento obbligatorio per il datore di lavoro, ai fini dell’effettiva valutazione dei rischi da stress lavoro-correlato.

Successivamente il legislatore ha ritenuto troppo astratto e poco dettagliato il modello fornito dall’accordo europeo del 2004 e ha, per questo, introdotto il comma 1-bis all’art. 28 del Testo Unico Sicurezza, attraverso il d.lgs. n. 106/2009 (cosiddetto “decreto correttivo”).

Stando al nuovo comma, la valutazione dello stress lavoro-correlato deve essere effettuata nel rispetto delle indicazioni elaborate dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (disciplinata all’art. 6, comma 8, lettera m-quater del Testo Unico).

Si tratta di un organo presieduto dal ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, nel quale si trovano rappresentate le amministrazioni centrali competenti in materia, le regioni e le parti sociali. Il 17 novembre 2010, con qualche giorno di anticipo sulla scadenza del termine indicato (31 dicembre 2010), sono state approvate – in base al combinato disposto degli artt. 6, comma 8, lettera m-quater), e 28, comma 1-bis, del d.lgs. n. 81/2008 – le indicazioni della Commissione consultiva permanente (si veda la circolare del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del 18 novembre 2010), indicazioni che, unitamente all’accordo europeo del 2004 recepito con accordo interconfederale del 2008, forniscono, quindi, i criteri base sui quali il datore di lavoro deve procedere a valutare i rischi collegati allo stress lavoro-correlato. Per realizzare la valutazione, il datore deve avvalersi del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), coinvolgendo il medico competente e ascoltando il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS).

Essa prende in esame non i singoli soggetti, ma gruppi omogenei di lavoratori e si articola in una fase preliminare (la rilevazione, cioè, di fattori oggettivi e verificabili di rischio da stress lavoro correlato), e, solo nel caso in cui siano risultate inefficaci le misure adottate per correggere i fattori di rischio eventualmente individuati, in una seconda fase di valutazione approfondita (la valutazione, cioè, della percezione soggettiva dei gruppi omogenei di lavoratori, anche attraverso questionari, focus group e interviste).

Nell’identificazione dei fattori di rischio da stress lavoro-correlato e nella successiva pianificazione delle misure volte ad eliminare o ridurre al minimo tale rischio, un ruolo sempre più importante sembra poterlo giocare la stessa tecnologia usata nel corso della propria vita professionale. Ad aver sottolineato l’emergere del “tecno-stress” è Randstad, la multinazionale olandese “attiva dal 1960 nella ricerca, selezione, formazione di risorse umane e somministrazione di lavoro”, la quale, nella quarta edizione del suo “Work Monitor”, si è concentrata proprio sulle dinamiche generate nel lavoro dai dispositivi tecnologici, in particolare da quelli dedicati alla comunicazione. L’analisi è stata condotta tra il 20 gennaio e il 14 febbraio 2012, attraverso delle interviste online rivolte ai lavoratori di età compresa tra 18 e 65 anni, con alle spalle almeno 24 ore settimanali di lavoro dipendente (sono stati esclusi i lavoratori autonomi). Stando a quanto rilevato dai promotori dello studio, i lavoratori italiani si dimostrano più sensibili, rispetto ai lavoratori stranieri, alle sollecitazioni che provengono da telefono e mail (il 32% del campione afferma di esserne distratto) e dalla rete (il 30% è convinto che l’accesso alla rete rappresenti un fattore in grado di far diminuire la propria produttività lavorativa).

Il report evidenzia, in sostanza, come i nuovi dispositivi tecnologici abbiano reso sempre più sfumati i confini tra lavoro e vita privata, a totale svantaggio della seconda. Il 63% del campione ammette di aver ricevuto telefonate o mail al di fuori dell’orario di lavoro, il 52% durante le vacanze e il 63% dichiara di aver avuto impegni di lavoro in luoghi privati. Per contro solo il 33% degli intervistati ha provato a recuperare lo sbilanciamento, occupandosi di questioni private sul luogo di lavoro.

Il 39%, poi, crede che il proprio titolare si aspetti una disponibilità pressoché totale, pari a 24 ora su 24 e a 7 giorni su 7. “Dall’indagine – commenta Marco Ceresa, Amministratore Delegato di Randstad Italiaemerge come i rapporti tra impresa-lavoro stiano cambiando sia in termini di velocità dei flussi informativi con un impatto sulle attività che nella colonizzazione, a volte, della sfera privata”. Importante, prosegue l’ad, è “Un’educazione e una sensibilizzazione da parte delle aziende sul valore del ‘Work Life Balance’ e su come separare la dimensione professionale da quella privata garantendone un sano equilibrio”.

Dal confronto con gli altri paesi, emerge come i dipendenti italiani, più degli altri, ritengano di ricevere quotidianamente più informazioni di quante ne riescano a gestire (41%, contro 34% della Germania, 39% della Francia, 35% della Gran Bretagna e 32% degli Stati Uniti) e come essi traducano un simile stress in momenti di totale chiusura verso mail e telefonate (48%, contro 42% della Germania, 43% della Francia, 36% della Gran Bretagna e 38% degli Stati Uniti).

Interessante sarebbe, sottolineano i promotori, capire se questa “colonizzazione” del tempo libero rappresenti un temporaneo risultato della crisi globale o se sia, piuttosto, la logica conseguenza di una epocale trasformazione dei rapporti tra impresa e lavoratore. Le risposte degli intervistati soffrono, a mio avviso, di una ovvia tendenza (forse tutta italiana) a considerare il proprio agire più ampio, impegnativo e indispensabile rispetto a quello degli altri e, soprattutto, rispetto a quello del “capo”, visto sempre e comunque, seppur in maniera implicita, come un “nemico”, uno “sfruttatore”. Si tratta, credo, di un lascito proprio del nostro sistema scolastico, laddove il professore viene identificato come un avversario e non invece come un alleato, indispensabile per portare a termine il percorso formativo. Altri sistemi scolastici, distaccandosi dalla formula della classe fissa di studenti, impediscono forse anche la creazione di simili logiche di contrapposizione.

La componente soggettiva, dunque, amplifica probabilmente la portata del fenomeno, tuttavia delle percentuali così ampie non possono non essere prese in considerazione. Con riferimento alla “connettività stanziale” (quella sul luogo di lavoro), il Work Monitor ci dice che la rete è ormai diventata uno strumento di lavoro abbastanza scontato, utilizzato quotidianamente dal 75% degli italiani (contro il 93% dell’India e della Cina e l’89% della Malaysia). La “connettività nomade” attraverso gli smartphone (a un quarto del campione il datore di lavoro ha fornito uno smartphone con accesso alla rete, mentre circa la metà possiede uno smartphone personale con accesso a internet) è, invece, più bassa rispetto agli altri paesi (84% Cina, 79% Hong Kong, 71% India e Malaysia) e ad usufruirne sono soprattutto maschi (30% contro il 18% delle donne), tra i 18 e 44 anni (28% contro il 18% dei 45-64enni) e impiegati nel settore privato (26% contro il 20% del settore pubblico).

Ci troviamo, dunque, di fronte ad una connettività praticamente illimitata che, tuttavia, pone l’esigenza di un “codice di comportamento condiviso”, onde evitare situazioni di eccessivo stress per i lavoratori. Malgrado la ricca disponibilità di strumenti virtuali, il 73% degli italiani afferma ancora di preferire la relazione diretta per relazionarsi professionalmente con colleghi, fornitori e clienti, potendo, dunque, far affidamento su tutta una serie di segnali non verbali difficilmente trasportabili su una tastiera e su un monitor. “La passione italiana per la tecnologia è innegabile – sostiene Ceresa – ma rimaniamo fortunatamente ancorati a codici comunicativi tradizionali ed emozionali che non snaturano la dimensione lavorativa”. Per concludere, possiamo dire di esser di fronte, a quanto pare, ad una situazione di percepita saturazione, sofferta in primis dai lavoratori italiani, ma, seppur in misura inferiore, anche dai colleghi stranieri.

Da qui il paradosso: l’assenza di regole chiare e confini normativi nell’utilizzo di strumenti tecnologici potrebbe, quindi, secondo quanto rilevato da Randstad, creare difficoltà nei dipendenti e influenzare negativamente il lavoro, per agevolare il quale tali strumenti sono stati adottati.

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Chiamate, SMS e Web: un quarto della giornata

Nel primo trimestre 2012, una nuova esplosione nell’utilizzo degli smartphone, i quali cessano di essere beni di consumo, per farsi materia culturale

Una moderna coperta di Linus. Essenziale, irrinunciabile e rassicurante. Forse chiamarla “dipendenza” pare un tantino forte, eppure proprio di questo si tratta.

A confermare e rilanciare, ancora una volta, il fortissimo legame che unisce gli italiani ai loro cellulari è uno studio di SuperMoney, il portale web nazionale formalmente accreditato dall’AGCOM (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) che si occupa di confrontare i servizi del settore commerciale e finanziario, allo scopo di mettere l’utente “nelle condizioni di effettuare acquisti” in linea con le sue “reali necessità e di farlo al prezzo migliore disponibile sul mercato”.

Alla base dell’indagine, diffusa pochi giorni fa, vi è un campione di 40.000 utenti del portale e la conclusione cui essa conduce è la crescita esponenziale nell’utilizzo del telefonino, da parte degli italiani, nel primo trimestre 2012, rispetto agli ultimi tre mesi del 2011.

“Possiamo rinunciare a tutto, tranne che al nostro cellulare”, sentenziano i promotori dello studio. Vero. “Nonostante il periodo di crisi – proseguono – si continua a spendere tempo e denaro per chiamate, sms e connessioni al web da smartphone”. Per comprendere realmente il fenomeno, ancor prima di citare cifre e stime, è necessario, tuttavia, fare un piccolo sforzo d’analisi: cosa spinge ad un uso (per certi versi potremo anche dire “abuso”) così massiccio dei dispositivi mobile? Sottolineare la contraddizione tra la diffusione degli stessi e il periodo di tasche vuote allontana un po’ dal vero nocciolo della questione. Non si tratta, infatti, di un impulso volto al possesso, non stiamo parlando di persone mosse dal desiderio di stringere tra le mani l’ultimo ritrovato della tecnica, al contrario ci stiamo sempre più distaccando dalla cosiddetta “società del consumo” per rifugiarci nella “società dell’uso”.

Il cellulare cessa di essere importante in quanto oggetto fisico e diventa fondamentale – anzi imprescindibile, stando ai dati diffusi – in quanto bene culturale, intendendo, con tale termine, non solo un ideale status symbol, ma in primis un mezzo per realizzare delle esperienze di vita. In questo si manifesta il superamento del concetto di “consumo” e di “distribuzione”, a favore della necessità di “comunicazione”.

In un periodo di continua rielaborazione delle risorse e dei codici culturali, il cellulare diventa quasi l’emblema di un incontro, quello tra determinate variabili sociali, economiche e ideali che, nel loro insieme, costituiscono la società in cui viviamo. A questo punto, il riferimento al pensiero di McLuhan è, seppur banale, inevitabile: cellulare come protesi, come estensione, cioè, tecnologica delle nostre facoltà sensoriali, capace di modificare non solo le percezioni e convinzioni individuali, ma lo stesso ambiente in cui ci muoviamo.

Desiderare uno smartphone, comprarlo, usarlo, non significa, allora, oggi, semplicemente essere vittime arrendevoli di buone campagne promozionali, vuol dire, piuttosto, semplicemente, essere membri della società, voler vivere pienamente la propria dimensione interpersonale. Questo malgrado la crisi, anzi, soprattutto con la crisi. Lo sanno bene le compagnie telefoniche che, proprio per questo, propongono piani di abbonamento che permettono l’acquisto a rate dei dispositivi, i quali diventano, quindi, sempre più alla portata di tutti.

Tecnologia e vita si muovono, dunque, in un rapporto dialettico, dove l’uno condiziona e determina reciprocamente l’altro. Nuove forme di gestione e distribuzione della conoscenza e delle informazioni, nuove pratiche fruitive e comunicative: questi dispositivi sono, infatti, destinati ad essere confinati nel limbo della “novità”. I cellulari che conosciamo adesso si distanziano notevolmente da quelli di pochi anni fa, sono stati capaci, nei mesi, di ridefinire la struttura spazio-temporale del processo comunicativo attraverso logiche sempre nuove, una microrivoluzione di carattere sia qualitativo (in termini di evoluzione culturale e sociale) sia quantitativo (ossia in termini di diffusione del mezzo).

Concentriamoci, allora, proprio su questa dimensione quantitativa analizzata da SuperMoney. Il tempo trascorso al cellulare nel primo trimestre 2012 è stato pari a 4 ore al giorno, dunque all’incirca il 25% del tempo che quotidianamente si ha a disposizione da svegli.

Si è assistito, poi, ad una vera e propria esplosione nelle connessioni internet tramite smartphone: le ore trascorse sul web si sono dilazionate del 36% rispetto al periodo ottobre-dicembre 2011, arrivando a circa 3 ore e 15 minuti ogni giorno.
Ciò non significa, tuttavia, che siano stati abbandonati gli usi più “tradizionali” del mezzo, che, al contrario, hanno subito a loro volta un buon rafforzamento. Tra gennaio e marzo 2012 sono aumentate del 13,19% le chiamate effettuate ogni giorno (da una media di 4,8 chiamate dell’ultimo trimestre 2011 a una di quasi 6 nel 2012), allo stesso modo le chiamate ricevute sono incrementate del 3,81%.

Si telefona più spesso, dunque, ma non solo: il report sottolinea come sia aumentata anche la durata delle telefonate. Quelle in uscita hanno registrato un +3,41% (con una durata media di 4,37 minuti), quelle in entrata un +2,34% (4,18 minuti in media).
Tempi d’oro pure per gli sms, che nel 2012 sono aumentati dell’11,63%, passando da una media di 6,5 a una di 7,3 messaggi inviati al giorno.

Considerando complessivamente chiamate, messaggi e navigazione in rete, il tempo che ogni italiano trascorre quotidianamente in simbiosi con il proprio cellulare è, l’abbiamo detto, più o meno, di 4 ore: 37 minuti speso parlando (24 minuti per le chiamate in uscita, 13 minuti per quelle in entrata), un quarto d’ora inviando sms (ipotizzando di dedicare in media due minuti a ogni messaggio) e più di 3 ore sulla rete.

Focalizzando poi l’attenzione sul mondo virtuale, SuperMoney arriva a definire le attività cui gli italiani si dedicano principalmente con i loro smartphone. Troviamo innanzitutto l’invio di e-mail, poi l’utilizzo di servizi di messaggistica istantanea e dei social network (Facebook in testa ovviamente). Si trascorre, però, molto tempo anche in attività di ricerca, per trovare, ad esempio, offerte di lavoro, viaggi, hotel, ristoranti, o nella consultazione di annunci immobiliari.
L’ultimo capito dell’analisi ha inteso stimare quanto gli italiani siano disposti a spendere per un abbonamento di telefonia mobile che comprenda internet, chiamate e sms: il 35% del campione cerca tariffe con un costo massimo di 20 euro al mese, il 32% valuta offerte fino a 40 euro al mese, il 16% tra i 40 e i 60 euro, mentre il 17% degli utenti è orientato su tariffe che superano addirittura i 60 euro al mese.

“In un periodo di gravi difficoltà economiche come quello che l’Italia sta attraversando, stupisce rilevare come gli italiani siano disposti a spendere così tanto tempo e denaro in un’attività apparentemente non indispensabile, come l’uso del cellulare”, ha commentato Andrea Manfredi, amministratore delegato di SuperMoney. “In realtà – prosegue – è evidente che per la maggior parte dei consumatori, il telefonino e internet sono ormai diventati beni di prima necessità, non soltanto per svagarsi e comunicare, ma anche per affrontare le molteplici attività della vita quotidiana, come la ricerca di un lavoro o di una casa”.

Viste tutte le considerazioni fatte, non possiamo che trovarci d’accordo con Manfredi, il quale conclude la sua valutazione sui risultati dell’indagine affermando che “Puntare sul settore ‘mobile’, offrendo prodotti e servizi di qualità agli utenti, può rivelarsi una scelta vincente”.

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La promozione virtuale impone la cura della propria identità reale

Alcune recenti indagini dimostrano come gli utenti dei principali social network interagiscano con i propri contatti replicando di fatto i modelli fruitivi propri della loro quotidianità, rendendo sempre più sfumati i confini tra virtualità e realtà

Identità virtuale cercasi. Solida, credibile e, soprattutto, sopportabile.

Pare questi siano tempi particolarmente duri per i maghi di age- e genderswitching, per chi ama, insomma, fingersi qualcun altro, in un eterno – a volte spassoso, altre volte dannoso – carnevale virtuale. Gli utenti dei network sociali, sempre più disincantati, non sembrano, nelle proprie scelte di condivisione, cercare un approccio generalizzato, ma, al contrario, privilegiano quelle relazioni che, in un modo o in un altro, possiedono per loro un qualche legame con la propria personale quotidianità.

Alcune recenti indagini hanno mostrato come si sia assottigliato il confine tra mondo reale e mondo digitale, teorizzando una sostanziale compenetrazione tra le due e una singolare manifestazione del concetto di “realtà aumentata”: la simulazione sottesa all’utilizzo dello strumento web muta, allora, la propria essenza e si fa realtà essa stessa; la rete diventa uno spazio sociale in cui si realizzano delle pratiche fruitive legate, in primo luogo, all’universo di appartenenza e all’identità reale degli attori coinvolti, con delle conseguenze che devono inevitabilmente essere prese in considerazione da chi si occupa di comunicazione e marketing online.

In un articolo pubblicato sulla rivista dell’Accademia Nazionale delle Scienze Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences) sono stati riportati i risultati di uno studio condotto da alcuni ricercatori della Harvard University che ha inteso indagare quanto le similitudini rilevate tra profili “amici” sui social network siano da ricondurre all’effetto cosiddetto “virale” dei contenuti veicolati e quanto dipendano, invece, da altri fattori. Ad esser stati presi in esame sono i comportamenti e le abitudini di duecento studenti di college, seguiti su Facebook per quattro anni di vita accademica, dal 2006 al 2010.

Viene confermata l’importanza del network virtuale nell’avvicinare persone che hanno una certa affinità di pensiero e di passioni, come avviene, del resto, anche al di fuori dell’ambito digitale. Tuttavia pare molto improbabile ai ricercatori di Harvard che possano essere mutuati gusti, interessi e preferenze dei propri amici digitali, se non inizialmente condivisi.
Si inverte, dunque, il processo: le vicinanze tra profili non sarebbero conseguenza dell’amicizia virtuale, ma ne costituirebbero la causa. Stando a tale interpretazione, inoltre, sarebbe necessario abbandonare l’idea di piattaforma aperta, inclusiva e potenzialmente in grado di connettere chiunque, per ripiegare, al contrario, su una visione ghettizzante del mezzo, che vede confermata la segmentazione sociale ed economica propria della vita reale.

Alcune critiche sono state avanzate circa il metodo utilizzato per l’indagine, basato sull’utilizzo dei dati segnalati come preferiti nelle schede informative personali dei profili analizzati e non anche sui contenuti postati, forse maggiormente rappresentativi delle reali inclinazioni dei soggetti. Allo stesso modo alcuni sostengono la fondamentale importanza dei network sociali – ai fini di una qualunque campagna marketing – come strumento di data mining, a prescindere dalla loro forza virale. Tuttavia l’esito delineato dalla ricerca, frutto di un canale istituzionale, non può essere ignorato da chi giornalmente spera nel contagio virale e sociale di un proprio messaggio, magari di velata natura commerciale o funzionale alla creazione della brand identity.

A risultati in parte simili conduce anche una recente indagine di NM Incite, la società di ricerca fondata dalla Nielsen e dalla McKinsey, attiva nella raccolta dati e consulenza marketing; tale indagine (titolata “State of Social Media Survey”) ha cercato di circoscrivere i fattori che spingono gli utenti dei social network ad accettare o cancellare qualche profilo dai propri contatti e le motivazioni che portano alla creazione stessa di un proprio profilo sociale. Si è scelto di analizzare – per un periodo compreso dal 31 marzo al 14 aprile 2011 – un campione rappresentativo composto da 1.865 individui adulti e utenti di social media, intendendo, con questo termine, chiunque sia solito condividere informazioni e partecipare a discussioni sul web, tramite Facebook, Twitter e altre piattaforme di social networking.

Veniamo ora ai risultati: in media un utente di Facebook possiede 130 contatti e, in linea con la tendenza evidenziata, le principali motivazioni che spingono gli utenti ad aggiungere qualcuno ai propri amici sono la conoscenza reale della persona (82% di preferenze) e l’esistenza di amicizie comuni (60%). Al terzo posto le questioni di lavoro – l’11% chiede o accetta il legame sociale per l’esistenza di un legame di collaborazione effettivo o per sfruttare la conoscenza a livello professionale – mentre l’attrazione fisica influenza solo l’8% del campione nella scelta di accettare o meno l’amicizia. Smentiti, dunque, tutti i luoghi comuni che vedono nella virtualità di questi mezzi un luogo privilegiato per l’approccio sociale e l’estensione a non finire della propria rete reale di amicizie. In penultima posizione, con il 7% ciascuna di preferenze, troviamo la volontà di incrementare le proprie conoscenze, la qualità della foto di profilo visualizzata (una versione contemporanea della cosiddetta “prima impressione”, che, in questo caso, pare non essere così importante) e la prassi di accettare la richiesta di amicizia da chiunque provenga. Infine un misero 4% si dichiara influenzato nella scelta dal numero di contatti rientranti nella cerchia di chi ha avanzato la richiesta.

La ricerca ha poi analizzato le motivazioni che spingono a chiudere un contatto virtuale su Facebook: anche in questo caso in testa alla classifica si collocano la scasa conoscenza nella realtà della persona (41%) e la pubblicazione di commenti considerati offensivi (55%) e, dunque, potenzialmente lesivi della propria social identity. Al terzo posto (36%) troviamo il tentativo di vendere qualcosa, a conferma dell’impossibilità di utilizzare i network sociali a scopi puramente commerciali e della necessità, al contrario, di identificare nuove forme di diffusione dei messaggi aziendali. Nel 23% dei casi, poi, la rottura avviene perché non si riesce più a sopportare i commenti tristi e depressi postati in bacheca dal contatto, nel 20% per mancanza di interazione effettiva con esso e nel 14% per un eccesso di messaggi politici.
Dovrebbero riflettere su questo dato, in particolare, i molti personaggi della sfera politica impegnati nella discesa in campo social, in particolare quelli meno conosciuti, che non possono contare sulla visibilità mediatica per strappare un’amicizia: per incrementare i propri consensi, la tecnica potrebbe, forse, essere quella di alternare, ai messaggi di stampo prettamente politico, quelli di natura più personale, relativi ai gusti e alle abitudini quotidiane, messaggi che – volenti o nolenti – raccolgono maggiormente l’attenzione di chi abita i network sociali.

Una rottura o un divorzio nella vita reale costituisce la causa dell’eliminazione per l’11% del campione, mentre per l’8% questa va rintracciata nel mancato interesse che si nutre verso gli amici del contatto che si decide di eliminare.
L’eccessiva invadenza del contatto (modificare troppo frequentemente il proprio profilo e chiedere l’amicizia a troppe persone) conduce il 6% degli utenti ad eliminare lo stesso, mentre la prassi di modificare solo raramente il proprio profilo è quasi ininfluente (3%).

La ricerca ha poi approfondito un altro aspetto riferito alle piattaforme sociali, l’uso, cioè, che gli utenti fanno delle stesse. Pare che i motivi principali di utilizzo siano la necessità di rimanere in contatto con la propria famiglia (89%), la volontà di ritrovare o mantenere vecchie amicizie (88%) e la voglia di cercare nuove conoscenze (70%). Con riferimento alla sfera dell’entertainment e lifestyle, il sondaggio ci dice che il 67% degli utenti si collega ad un social network per semplice divertimento e intrattenimento, il 64% come sbocco di creatività, il 47% per giocare, il 45% per offrire e ottenere informazioni, il 35% per seguire qualche celebrità e il 16% per trovare l’anima gemella.

Per quanto riguarda, invece, l’area prodotti/servizi, ci si connette principalmente per leggere i feedback degli altri consumatori (66%) o per avere informazioni e dettagli in merito ai prodotti prima di procedere con l’acquisto (60%), il 58% lo fa per sfruttare promozioni e acquistare coupon convenienti, il 54% per offrire un proprio feedback positivo e il 51% per offrirne uno negativo. Un po’ meno diffuso, invece, è l’utilizzo per motivi di lavoro: il 48% vede nei network un mezzo per mantenere contatti professionali e il 28% un modo per trovare un lavoro.

Vita digitale e vita reale dai confini sempre più sfumati, quindi. Un’amara consapevolezza per chi ha sperato e ancora spera di trovare un riscatto personale nella virtualità: curare la propria quotidianità e i propri rapporti reali sembra essere, in definitiva, la forma migliore di promozione sociale, per ottenere il successo ricercato in rete.

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I capelli bianchi conquistano la Rete

Stando ad un’analisi di Nielsen, il 24 % dell’intero popolo del Web è rappresentato da consumatori over 50 e la percentuale sale in Germania, Regno Unito e Stati Uniti

Una ricerca di Nielsen Italia sembra abbattere il luogo comune piuttosto diffuso che considera la rete come esclusivo appannaggio dei giovani.

Stando, infatti, ai dati raccolti, i consumatori con età superiore ai 50 anni rappresentano, in Italia, circa il 24% dell’intero popolo attivo della rete e la percentuale sale se si considerano altri Paesi, quali Germania (30%), Regno Unito (31%) e Stati Uniti, in testa alla classifica per numero di utenti “anziani” (32%). In sei dei nove Paesi misurati da Nielsen nel dicembre 2010 la proporzione tra fruitori anziani e fruitori complessivi del web è, in media, di circa un terzo. Per quanto riguarda, poi, l’entità del consumo digitale, in testa alla classifica si situano gli anziani australiani e francesi, con una media di tempo trascorso in rete pari, rispettivamente, a poco più di 69 ore e 66 ore al mese; gli over 50 negli Stati Uniti hanno speso, invece, quasi 62 ore, mentre in Italia non hanno superato le 42 ore.

Nielsen estende la propria analisi al concetto di anzianità, cercando di coglierne i confini semantici nell’immaginario collettivo di 53 Paesi analizzati. Le risposte ottenute riflettono forti variazioni in relazioni alle diverse aree geografiche: nei 14 Paesi più “anziani” tra i quali è stata condotta la ricerca (quelli in cui l’età media è di 42 anni), il 70% ritiene che una persona sia vecchia a 70 anni e 1 su 3 a 80; nei 14 Paesi più “giovani” (età media 27 anni), il 27% ritiene che intorno ai 60 anni una persona possa essere considerata vecchia e il 27% a 70 anni. In Italia il 49% degli intervistati ritiene che tra i 70 e i 79 anni si possa essere considerati anziani, percentuale tra le più alte (Francia 38%, Gran Bretagna 33%, Germania 31%). La percezione di anzianità, poi, varia anche in relazione all’età dell’intervistato: più essa è elevata, più aumenta tale percezione; a livello globale circa la metà degli intervistati oltre i 60 anni pensa che essere vecchi significhi avere più di 80 anni, mentre, tra gli intervistati al di sotto i 60 anni, uno su tre ritiene che significhi averne circa 70, il 26% circa 60 anni e il 25% oltre gli 80.

Si passa poi ad analizzare la percezione in tema di pensione: complessivamente il 49% degli intervistati pensa che andrà in pensione tra i 60 e i 69 anni, percentuale che raggiunge il 60% in Europa. Ad essere indicate come voci principali di sostentamento durante la pensione sono soprattutto piani di pensionamento statali, piani governativi e risparmio privato, anche se, in generale, la fiducia verso i programmi del governo (relativi, ad esempio, alla previdenza sociale) è molto più bassa nelle persone più giovani rispetto a quelle più anziane: sotto i 60 anni sono molti di più coloro che dichiarano che finanzieranno le loro pensioni soprattutto attraverso risparmi personali. Per quanto riguarda il modo in cui verrà speso il tempo a disposizione durante la pensione, la maggior parte degli intervistati si dichiara intenzionato a viaggiare (62%), mentre, tra le altre preferenze, troviamo: prendersi cura dei nipoti, partecipare a club e attività, il giardinaggio e il volontariato. In America Latina e Medio Oriente/Africa i consumatori si sono dichiarati quasi tre volte più interessati ad una seconda carriera rispetto al Nord America e all’Europa; in Asia Pacifico e Medio Oriente/Africa è molto più elevata la percentuale di coloro che pensano di trascorrere la propria vecchiaia in un centro per anziani, per avere una vita sociale migliore.

L’invecchiamento della popolazione – sottolinea una nota ufficiale di Nielsen Italia – non è un problema che riguarda solo i Paesi più sviluppati” e ricorda come, “secondo il United Population Division World in tutto il mondo solo la Nigeria non avrà un incremento dell’età media della popolazione nei prossimi 10 anni”. Il tasso di fertilità sarebbe in declino: da un punto di vista globale pare esso sia sceso quasi del 48% dagli anni Cinquanta ad oggi e le previsioni parlano di un continuo decremento pari al 18% per le prossime quattro decadi. Al di là delle cause – rintracciate nel “passaggio da una società agraria ad una industriale”, nell’“urbanizzazione” e nell’“aumento del livello di educazione, in modo particolare quella della donna” – le considerazioni del mondo economico, ed in particolare del settore marketing, non possono prescindere da tale fondamentale dato, dal quale deriva la necessità di creare nuovi modelli e paradigmi che sappiano cogliere con precisione i bisogni delineati dai – usando un ossimoro – nuovi vecchi consumatori.

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Arriva l’era degli avvocati 2.0

Tra social network famosi e dedicati, tra blog e formule originali, l’avvocato dei giorni d’oggi sembra non rifiutare la rete, ma anzi accoglierla come canale di promozione e di appoggio.

Lo sappiamo: uno dei più grandi problemi del contesto normativo è che esso si muove spesso troppo lentamente rispetto al mondo che intende riordinare. Sicuramente tale consapevolezza è tanto più vera quando si ha a che fare con la rete: voler legiferare su di essa diventa un’impresa a dir poco complessa, voler applicare i canoni usati tradizionalmente dalla legge ad un contesto che, per definizione, è in continua evoluzione risulta quasi impossibile. La soluzione sarebbe trovare il giusto compromesso nella tutela dei numerosi diritti che il web offre, in modo che questi non siano in conflitto tra loro; su come ciò debba accadere, il dibattito è tutt’altro che concluso e i toni sono tutt’altro che spenti. Nell’attesa, tuttavia, di riuscire a trovare delle risposte, buona parte della realtà legislativa concreta – quella costituita dalle persone che materialmente, giorno dopo giorno, cercano di applicare il rigore di articoli e commi più o meno datati a casi concreti – si dimostra capace di cogliere l’utilità delle moltissime possibilità offerte dalla rete, intesa non solo come semplice fonte informativa, ma anche e soprattutto come fonte di canali sociali. Ecco allora nascere e-book pensati proprio per accompagnare i professionisti della legge alla scoperta del web. Ecco, ad esempio, lo sviluppo, da parte dello studio americano Latham & Watkins, di una applicazione per l’iPhone. Ecco, ancora, la creazione di servizi gratuiti di consulenza in rete, per un limitato numero di ore e per un limitato e privilegiato numero di persone. Ecco, infine, l’ideazione di vari network incentrati sulla formula de “Il portale dell’avvocato”, che si propongono «di sollecitare e moltiplicare i contatti tra colleghi (appartenenti allo stesso foro o a fori differenti) e, in generale, tra operatori del diritto facilitando lo scambio di informazioni e gli incontri professionali, ma soprattutto dando la possibilità agli ‘avvocati 2.0’ di essere costantemente in contatto tra loro per organizzare e ottimizzare il lavoro con un semplice gesto quotidiano: la connessione alla rete Internet» (LexFriends). “Avvocati 2.0”, verrebbe da dire, capaci di inserirsi nei vari Facebook, Twitter, e blog tramite il proprio inseparabile iPhone, capaci di comprendere l’aspetto positivo dell’innovazione di impronta social.

A dimostrare l’invadenza di tale fenomeno, con riferimento alla realtà statunitense, è stata l’indagine 2010 Corporate Counsel New Media Engagement Survey che lo ha analizzato partendo dal punto di vista dei legali d’azienda, quelle personalità, cioè, responsabili della scelta e dell’acquisto dei servizi; più precisamente, oggetto dello studio sono stati 164 giuristi d’impresa e i 200 maggiori studi legali americani.

Veniamo ai risultati: oltre 90 studi usano uno o più blog e questi ultimi sembrano essere, nel loro insieme, quasi 300, con un aumento del 147% rispetto all’agosto 2007 (quando erano appena 39). Tutti i 200 studi analizzati hanno un proprio profilo su LinkedIn e si parla di 1,5 milioni di avvocati presenti tra i 50 milioni di utenti complessivi del famoso social network professionale. Il 76% delle principali law firm americane è iscritto poi su Twitter, anche se qualche profilo risulta essere completamente vergine, suggerendo una certa diffidenza o incapacità nello sfruttamento di tale strumento in modo coerente con lo scopo di generare business. Meno invasiva è, invece, la presenza su Facebook: solo il 31% degli studi possiede e aggiorna una propria pagina fan.

Questo orientamento degli studi alle reti sociali sembra essere legata alla particolare confidenza che i legali interni hanno con tali strumenti. Circa la metà dei giuristi intervistati cerca, infatti, consiglio per la propria attività tramite LinkedIn o esplora il web passando di blog in blog. In numero inferiore si rivolgono invece a network specializzati (tra cui Legal On Ramp e Martindale-Hubbell Connected), che comunque godono di una maggiore credibilità.

Le motivazioni che spingono studi e professionisti a muoversi in queste realtà sarebbero fondamentalmente due, stando a quanto rivelato da una recente newsletter promulgata dallo studio inglese CM Murray, contenente un’intervista a Callum Saunders, esperto in digital marketing. Da una parte la possibilità di fare networking: «uno strumento come Twitter mette in contatto con potenziali clienti e permette lo scambio di conoscenza, consulenza, articoli e link». Dall’altra troviamo il cosiddetto “crowdsourcing”, cioè «la pratica sempre più diffusa di chiedere aiuto, consiglio o opinioni alle comunità online», «un’ottima risorsa per sviluppare una nuova campagna marketing o testarla e LinkedIn che ha una sezione dedicata alle domande è il migliore punto di partenza».

pubblicato su: pmi-dome