Rivela un’indagine condotta da Lundquist come sia piuttosto limitata la presenza delle principali realtà imprenditoriali nazionali sulle piattaforme di professional networking, LinkedIn in particolare, con pagine non gestite attivamente e scarsa attenzione alle potenzialità di recruiting e di accrescimento dell’online reputation
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Investimenti pubblicitari: boom per il digitale


Pubblicato da robertabarbiero in 5 luglio 2012
https://robertabarbiero.wordpress.com/2012/07/05/investimenti-pubblicitari-boom-per-il-digitale/
Mail, Web, iPhone… Stress da tecnologia!
Si è assottigliato sempre più il confine tra vita lavorativa e privata. A totale discapito della seconda… “dobbiamo tornare ad un equilibrio”
Uno dei primi e fondamentali obblighi del datore di lavoro è provvedere alla valutazione dei rischi e alla stesura del relativo documento, così come previsto dall’art. 17, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 81 del 9 aprile 2008, il cosiddetto “Testo Unico” sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro.
Qui si rimanda, in particolare, all’art. 28 dello stesso decreto, il quale specifica i rischi che devono essere considerati. Tra essi, figurano anche quelli legati allo stress lavoro-correlato, la cui valutazione deve essere effettuata “secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004”, siglato da CES (sindacato europeo), UNICE (la “Confindustria europea”) UEAPME (Associazione europea artigianato e PMI) e CEEP (Associazione europea delle imprese partecipate dal pubblico e di interesse economico generale).
Tale accordo è stato recepito dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese e dalle organizzazioni sindacali italiane tramite apposito accordo collettivo interconfederale, il giorno 9 giugno 2008. Quest’ultimo assume, dunque, seppur indirettamente, forza di legge, diventando un parametro di riferimento obbligatorio per il datore di lavoro, ai fini dell’effettiva valutazione dei rischi da stress lavoro-correlato.
Successivamente il legislatore ha ritenuto troppo astratto e poco dettagliato il modello fornito dall’accordo europeo del 2004 e ha, per questo, introdotto il comma 1-bis all’art. 28 del Testo Unico Sicurezza, attraverso il d.lgs. n. 106/2009 (cosiddetto “decreto correttivo”).
Stando al nuovo comma, la valutazione dello stress lavoro-correlato deve essere effettuata nel rispetto delle indicazioni elaborate dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (disciplinata all’art. 6, comma 8, lettera m-quater del Testo Unico).
Si tratta di un organo presieduto dal ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, nel quale si trovano rappresentate le amministrazioni centrali competenti in materia, le regioni e le parti sociali. Il 17 novembre 2010, con qualche giorno di anticipo sulla scadenza del termine indicato (31 dicembre 2010), sono state approvate – in base al combinato disposto degli artt. 6, comma 8, lettera m-quater), e 28, comma 1-bis, del d.lgs. n. 81/2008 – le indicazioni della Commissione consultiva permanente (si veda la circolare del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del 18 novembre 2010), indicazioni che, unitamente all’accordo europeo del 2004 recepito con accordo interconfederale del 2008, forniscono, quindi, i criteri base sui quali il datore di lavoro deve procedere a valutare i rischi collegati allo stress lavoro-correlato. Per realizzare la valutazione, il datore deve avvalersi del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), coinvolgendo il medico competente e ascoltando il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS).
Essa prende in esame non i singoli soggetti, ma gruppi omogenei di lavoratori e si articola in una fase preliminare (la rilevazione, cioè, di fattori oggettivi e verificabili di rischio da stress lavoro correlato), e, solo nel caso in cui siano risultate inefficaci le misure adottate per correggere i fattori di rischio eventualmente individuati, in una seconda fase di valutazione approfondita (la valutazione, cioè, della percezione soggettiva dei gruppi omogenei di lavoratori, anche attraverso questionari, focus group e interviste).
Nell’identificazione dei fattori di rischio da stress lavoro-correlato e nella successiva pianificazione delle misure volte ad eliminare o ridurre al minimo tale rischio, un ruolo sempre più importante sembra poterlo giocare la stessa tecnologia usata nel corso della propria vita professionale. Ad aver sottolineato l’emergere del “tecno-stress” è Randstad, la multinazionale olandese “attiva dal 1960 nella ricerca, selezione, formazione di risorse umane e somministrazione di lavoro”, la quale, nella quarta edizione del suo “Work Monitor”, si è concentrata proprio sulle dinamiche generate nel lavoro dai dispositivi tecnologici, in particolare da quelli dedicati alla comunicazione. L’analisi è stata condotta tra il 20 gennaio e il 14 febbraio 2012, attraverso delle interviste online rivolte ai lavoratori di età compresa tra 18 e 65 anni, con alle spalle almeno 24 ore settimanali di lavoro dipendente (sono stati esclusi i lavoratori autonomi). Stando a quanto rilevato dai promotori dello studio, i lavoratori italiani si dimostrano più sensibili, rispetto ai lavoratori stranieri, alle sollecitazioni che provengono da telefono e mail (il 32% del campione afferma di esserne distratto) e dalla rete (il 30% è convinto che l’accesso alla rete rappresenti un fattore in grado di far diminuire la propria produttività lavorativa).
Il report evidenzia, in sostanza, come i nuovi dispositivi tecnologici abbiano reso sempre più sfumati i confini tra lavoro e vita privata, a totale svantaggio della seconda. Il 63% del campione ammette di aver ricevuto telefonate o mail al di fuori dell’orario di lavoro, il 52% durante le vacanze e il 63% dichiara di aver avuto impegni di lavoro in luoghi privati. Per contro solo il 33% degli intervistati ha provato a recuperare lo sbilanciamento, occupandosi di questioni private sul luogo di lavoro.
Il 39%, poi, crede che il proprio titolare si aspetti una disponibilità pressoché totale, pari a 24 ora su 24 e a 7 giorni su 7. “Dall’indagine – commenta Marco Ceresa, Amministratore Delegato di Randstad Italia – emerge come i rapporti tra impresa-lavoro stiano cambiando sia in termini di velocità dei flussi informativi con un impatto sulle attività che nella colonizzazione, a volte, della sfera privata”. Importante, prosegue l’ad, è “Un’educazione e una sensibilizzazione da parte delle aziende sul valore del ‘Work Life Balance’ e su come separare la dimensione professionale da quella privata garantendone un sano equilibrio”.
Dal confronto con gli altri paesi, emerge come i dipendenti italiani, più degli altri, ritengano di ricevere quotidianamente più informazioni di quante ne riescano a gestire (41%, contro 34% della Germania, 39% della Francia, 35% della Gran Bretagna e 32% degli Stati Uniti) e come essi traducano un simile stress in momenti di totale chiusura verso mail e telefonate (48%, contro 42% della Germania, 43% della Francia, 36% della Gran Bretagna e 38% degli Stati Uniti).
Interessante sarebbe, sottolineano i promotori, capire se questa “colonizzazione” del tempo libero rappresenti un temporaneo risultato della crisi globale o se sia, piuttosto, la logica conseguenza di una epocale trasformazione dei rapporti tra impresa e lavoratore. Le risposte degli intervistati soffrono, a mio avviso, di una ovvia tendenza (forse tutta italiana) a considerare il proprio agire più ampio, impegnativo e indispensabile rispetto a quello degli altri e, soprattutto, rispetto a quello del “capo”, visto sempre e comunque, seppur in maniera implicita, come un “nemico”, uno “sfruttatore”. Si tratta, credo, di un lascito proprio del nostro sistema scolastico, laddove il professore viene identificato come un avversario e non invece come un alleato, indispensabile per portare a termine il percorso formativo. Altri sistemi scolastici, distaccandosi dalla formula della classe fissa di studenti, impediscono forse anche la creazione di simili logiche di contrapposizione.
La componente soggettiva, dunque, amplifica probabilmente la portata del fenomeno, tuttavia delle percentuali così ampie non possono non essere prese in considerazione. Con riferimento alla “connettività stanziale” (quella sul luogo di lavoro), il Work Monitor ci dice che la rete è ormai diventata uno strumento di lavoro abbastanza scontato, utilizzato quotidianamente dal 75% degli italiani (contro il 93% dell’India e della Cina e l’89% della Malaysia). La “connettività nomade” attraverso gli smartphone (a un quarto del campione il datore di lavoro ha fornito uno smartphone con accesso alla rete, mentre circa la metà possiede uno smartphone personale con accesso a internet) è, invece, più bassa rispetto agli altri paesi (84% Cina, 79% Hong Kong, 71% India e Malaysia) e ad usufruirne sono soprattutto maschi (30% contro il 18% delle donne), tra i 18 e 44 anni (28% contro il 18% dei 45-64enni) e impiegati nel settore privato (26% contro il 20% del settore pubblico).
Ci troviamo, dunque, di fronte ad una connettività praticamente illimitata che, tuttavia, pone l’esigenza di un “codice di comportamento condiviso”, onde evitare situazioni di eccessivo stress per i lavoratori. Malgrado la ricca disponibilità di strumenti virtuali, il 73% degli italiani afferma ancora di preferire la relazione diretta per relazionarsi professionalmente con colleghi, fornitori e clienti, potendo, dunque, far affidamento su tutta una serie di segnali non verbali difficilmente trasportabili su una tastiera e su un monitor. “La passione italiana per la tecnologia è innegabile – sostiene Ceresa – ma rimaniamo fortunatamente ancorati a codici comunicativi tradizionali ed emozionali che non snaturano la dimensione lavorativa”. Per concludere, possiamo dire di esser di fronte, a quanto pare, ad una situazione di percepita saturazione, sofferta in primis dai lavoratori italiani, ma, seppur in misura inferiore, anche dai colleghi stranieri.
Da qui il paradosso: l’assenza di regole chiare e confini normativi nell’utilizzo di strumenti tecnologici potrebbe, quindi, secondo quanto rilevato da Randstad, creare difficoltà nei dipendenti e influenzare negativamente il lavoro, per agevolare il quale tali strumenti sono stati adottati.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 5 giugno 2012
https://robertabarbiero.wordpress.com/2012/06/05/mail-web-iphone-stress-da-tecnologia/
Chiamate, SMS e Web: un quarto della giornata
Nel primo trimestre 2012, una nuova esplosione nell’utilizzo degli smartphone, i quali cessano di essere beni di consumo, per farsi materia culturale
Una moderna coperta di Linus. Essenziale, irrinunciabile e rassicurante. Forse chiamarla “dipendenza” pare un tantino forte, eppure proprio di questo si tratta.
A confermare e rilanciare, ancora una volta, il fortissimo legame che unisce gli italiani ai loro cellulari è uno studio di SuperMoney, il portale web nazionale formalmente accreditato dall’AGCOM (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) che si occupa di confrontare i servizi del settore commerciale e finanziario, allo scopo di mettere l’utente “nelle condizioni di effettuare acquisti” in linea con le sue “reali necessità e di farlo al prezzo migliore disponibile sul mercato”.
Alla base dell’indagine, diffusa pochi giorni fa, vi è un campione di 40.000 utenti del portale e la conclusione cui essa conduce è la crescita esponenziale nell’utilizzo del telefonino, da parte degli italiani, nel primo trimestre 2012, rispetto agli ultimi tre mesi del 2011.
“Possiamo rinunciare a tutto, tranne che al nostro cellulare”, sentenziano i promotori dello studio. Vero. “Nonostante il periodo di crisi – proseguono – si continua a spendere tempo e denaro per chiamate, sms e connessioni al web da smartphone”. Per comprendere realmente il fenomeno, ancor prima di citare cifre e stime, è necessario, tuttavia, fare un piccolo sforzo d’analisi: cosa spinge ad un uso (per certi versi potremo anche dire “abuso”) così massiccio dei dispositivi mobile? Sottolineare la contraddizione tra la diffusione degli stessi e il periodo di tasche vuote allontana un po’ dal vero nocciolo della questione. Non si tratta, infatti, di un impulso volto al possesso, non stiamo parlando di persone mosse dal desiderio di stringere tra le mani l’ultimo ritrovato della tecnica, al contrario ci stiamo sempre più distaccando dalla cosiddetta “società del consumo” per rifugiarci nella “società dell’uso”.
Il cellulare cessa di essere importante in quanto oggetto fisico e diventa fondamentale – anzi imprescindibile, stando ai dati diffusi – in quanto bene culturale, intendendo, con tale termine, non solo un ideale status symbol, ma in primis un mezzo per realizzare delle esperienze di vita. In questo si manifesta il superamento del concetto di “consumo” e di “distribuzione”, a favore della necessità di “comunicazione”.
In un periodo di continua rielaborazione delle risorse e dei codici culturali, il cellulare diventa quasi l’emblema di un incontro, quello tra determinate variabili sociali, economiche e ideali che, nel loro insieme, costituiscono la società in cui viviamo. A questo punto, il riferimento al pensiero di McLuhan è, seppur banale, inevitabile: cellulare come protesi, come estensione, cioè, tecnologica delle nostre facoltà sensoriali, capace di modificare non solo le percezioni e convinzioni individuali, ma lo stesso ambiente in cui ci muoviamo.
Desiderare uno smartphone, comprarlo, usarlo, non significa, allora, oggi, semplicemente essere vittime arrendevoli di buone campagne promozionali, vuol dire, piuttosto, semplicemente, essere membri della società, voler vivere pienamente la propria dimensione interpersonale. Questo malgrado la crisi, anzi, soprattutto con la crisi. Lo sanno bene le compagnie telefoniche che, proprio per questo, propongono piani di abbonamento che permettono l’acquisto a rate dei dispositivi, i quali diventano, quindi, sempre più alla portata di tutti.
Tecnologia e vita si muovono, dunque, in un rapporto dialettico, dove l’uno condiziona e determina reciprocamente l’altro. Nuove forme di gestione e distribuzione della conoscenza e delle informazioni, nuove pratiche fruitive e comunicative: questi dispositivi sono, infatti, destinati ad essere confinati nel limbo della “novità”. I cellulari che conosciamo adesso si distanziano notevolmente da quelli di pochi anni fa, sono stati capaci, nei mesi, di ridefinire la struttura spazio-temporale del processo comunicativo attraverso logiche sempre nuove, una microrivoluzione di carattere sia qualitativo (in termini di evoluzione culturale e sociale) sia quantitativo (ossia in termini di diffusione del mezzo).
Concentriamoci, allora, proprio su questa dimensione quantitativa analizzata da SuperMoney. Il tempo trascorso al cellulare nel primo trimestre 2012 è stato pari a 4 ore al giorno, dunque all’incirca il 25% del tempo che quotidianamente si ha a disposizione da svegli.
Si è assistito, poi, ad una vera e propria esplosione nelle connessioni internet tramite smartphone: le ore trascorse sul web si sono dilazionate del 36% rispetto al periodo ottobre-dicembre 2011, arrivando a circa 3 ore e 15 minuti ogni giorno.
Ciò non significa, tuttavia, che siano stati abbandonati gli usi più “tradizionali” del mezzo, che, al contrario, hanno subito a loro volta un buon rafforzamento. Tra gennaio e marzo 2012 sono aumentate del 13,19% le chiamate effettuate ogni giorno (da una media di 4,8 chiamate dell’ultimo trimestre 2011 a una di quasi 6 nel 2012), allo stesso modo le chiamate ricevute sono incrementate del 3,81%.
Si telefona più spesso, dunque, ma non solo: il report sottolinea come sia aumentata anche la durata delle telefonate. Quelle in uscita hanno registrato un +3,41% (con una durata media di 4,37 minuti), quelle in entrata un +2,34% (4,18 minuti in media).
Tempi d’oro pure per gli sms, che nel 2012 sono aumentati dell’11,63%, passando da una media di 6,5 a una di 7,3 messaggi inviati al giorno.
Considerando complessivamente chiamate, messaggi e navigazione in rete, il tempo che ogni italiano trascorre quotidianamente in simbiosi con il proprio cellulare è, l’abbiamo detto, più o meno, di 4 ore: 37 minuti speso parlando (24 minuti per le chiamate in uscita, 13 minuti per quelle in entrata), un quarto d’ora inviando sms (ipotizzando di dedicare in media due minuti a ogni messaggio) e più di 3 ore sulla rete.
Focalizzando poi l’attenzione sul mondo virtuale, SuperMoney arriva a definire le attività cui gli italiani si dedicano principalmente con i loro smartphone. Troviamo innanzitutto l’invio di e-mail, poi l’utilizzo di servizi di messaggistica istantanea e dei social network (Facebook in testa ovviamente). Si trascorre, però, molto tempo anche in attività di ricerca, per trovare, ad esempio, offerte di lavoro, viaggi, hotel, ristoranti, o nella consultazione di annunci immobiliari.
L’ultimo capito dell’analisi ha inteso stimare quanto gli italiani siano disposti a spendere per un abbonamento di telefonia mobile che comprenda internet, chiamate e sms: il 35% del campione cerca tariffe con un costo massimo di 20 euro al mese, il 32% valuta offerte fino a 40 euro al mese, il 16% tra i 40 e i 60 euro, mentre il 17% degli utenti è orientato su tariffe che superano addirittura i 60 euro al mese.
“In un periodo di gravi difficoltà economiche come quello che l’Italia sta attraversando, stupisce rilevare come gli italiani siano disposti a spendere così tanto tempo e denaro in un’attività apparentemente non indispensabile, come l’uso del cellulare”, ha commentato Andrea Manfredi, amministratore delegato di SuperMoney. “In realtà – prosegue – è evidente che per la maggior parte dei consumatori, il telefonino e internet sono ormai diventati beni di prima necessità, non soltanto per svagarsi e comunicare, ma anche per affrontare le molteplici attività della vita quotidiana, come la ricerca di un lavoro o di una casa”.
Viste tutte le considerazioni fatte, non possiamo che trovarci d’accordo con Manfredi, il quale conclude la sua valutazione sui risultati dell’indagine affermando che “Puntare sul settore ‘mobile’, offrendo prodotti e servizi di qualità agli utenti, può rivelarsi una scelta vincente”.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 28 Maggio 2012
https://robertabarbiero.wordpress.com/2012/05/28/chiamate-sms-e-web-un-quarto-della-giornata/
I capelli bianchi conquistano la Rete
Stando ad un’analisi di Nielsen, il 24 % dell’intero popolo del Web è rappresentato da consumatori over 50 e la percentuale sale in Germania, Regno Unito e Stati Uniti
Una ricerca di Nielsen Italia sembra abbattere il luogo comune piuttosto diffuso che considera la rete come esclusivo appannaggio dei giovani.
Stando, infatti, ai dati raccolti, i consumatori con età superiore ai 50 anni rappresentano, in Italia, circa il 24% dell’intero popolo attivo della rete e la percentuale sale se si considerano altri Paesi, quali Germania (30%), Regno Unito (31%) e Stati Uniti, in testa alla classifica per numero di utenti “anziani” (32%). In sei dei nove Paesi misurati da Nielsen nel dicembre 2010 la proporzione tra fruitori anziani e fruitori complessivi del web è, in media, di circa un terzo. Per quanto riguarda, poi, l’entità del consumo digitale, in testa alla classifica si situano gli anziani australiani e francesi, con una media di tempo trascorso in rete pari, rispettivamente, a poco più di 69 ore e 66 ore al mese; gli over 50 negli Stati Uniti hanno speso, invece, quasi 62 ore, mentre in Italia non hanno superato le 42 ore.
Nielsen estende la propria analisi al concetto di anzianità, cercando di coglierne i confini semantici nell’immaginario collettivo di 53 Paesi analizzati. Le risposte ottenute riflettono forti variazioni in relazioni alle diverse aree geografiche: nei 14 Paesi più “anziani” tra i quali è stata condotta la ricerca (quelli in cui l’età media è di 42 anni), il 70% ritiene che una persona sia vecchia a 70 anni e 1 su 3 a 80; nei 14 Paesi più “giovani” (età media 27 anni), il 27% ritiene che intorno ai 60 anni una persona possa essere considerata vecchia e il 27% a 70 anni. In Italia il 49% degli intervistati ritiene che tra i 70 e i 79 anni si possa essere considerati anziani, percentuale tra le più alte (Francia 38%, Gran Bretagna 33%, Germania 31%). La percezione di anzianità, poi, varia anche in relazione all’età dell’intervistato: più essa è elevata, più aumenta tale percezione; a livello globale circa la metà degli intervistati oltre i 60 anni pensa che essere vecchi significhi avere più di 80 anni, mentre, tra gli intervistati al di sotto i 60 anni, uno su tre ritiene che significhi averne circa 70, il 26% circa 60 anni e il 25% oltre gli 80.
Si passa poi ad analizzare la percezione in tema di pensione: complessivamente il 49% degli intervistati pensa che andrà in pensione tra i 60 e i 69 anni, percentuale che raggiunge il 60% in Europa. Ad essere indicate come voci principali di sostentamento durante la pensione sono soprattutto piani di pensionamento statali, piani governativi e risparmio privato, anche se, in generale, la fiducia verso i programmi del governo (relativi, ad esempio, alla previdenza sociale) è molto più bassa nelle persone più giovani rispetto a quelle più anziane: sotto i 60 anni sono molti di più coloro che dichiarano che finanzieranno le loro pensioni soprattutto attraverso risparmi personali. Per quanto riguarda il modo in cui verrà speso il tempo a disposizione durante la pensione, la maggior parte degli intervistati si dichiara intenzionato a viaggiare (62%), mentre, tra le altre preferenze, troviamo: prendersi cura dei nipoti, partecipare a club e attività, il giardinaggio e il volontariato. In America Latina e Medio Oriente/Africa i consumatori si sono dichiarati quasi tre volte più interessati ad una seconda carriera rispetto al Nord America e all’Europa; in Asia Pacifico e Medio Oriente/Africa è molto più elevata la percentuale di coloro che pensano di trascorrere la propria vecchiaia in un centro per anziani, per avere una vita sociale migliore.
“L’invecchiamento della popolazione – sottolinea una nota ufficiale di Nielsen Italia – non è un problema che riguarda solo i Paesi più sviluppati” e ricorda come, “secondo il United Population Division World in tutto il mondo solo la Nigeria non avrà un incremento dell’età media della popolazione nei prossimi 10 anni”. Il tasso di fertilità sarebbe in declino: da un punto di vista globale pare esso sia sceso quasi del 48% dagli anni Cinquanta ad oggi e le previsioni parlano di un continuo decremento pari al 18% per le prossime quattro decadi. Al di là delle cause – rintracciate nel “passaggio da una società agraria ad una industriale”, nell’“urbanizzazione” e nell’“aumento del livello di educazione, in modo particolare quella della donna” – le considerazioni del mondo economico, ed in particolare del settore marketing, non possono prescindere da tale fondamentale dato, dal quale deriva la necessità di creare nuovi modelli e paradigmi che sappiano cogliere con precisione i bisogni delineati dai – usando un ossimoro – nuovi vecchi consumatori.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 4 Maggio 2011
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Arriva l’era degli avvocati 2.0
Tra social network famosi e dedicati, tra blog e formule originali, l’avvocato dei giorni d’oggi sembra non rifiutare la rete, ma anzi accoglierla come canale di promozione e di appoggio.
Lo sappiamo: uno dei più grandi problemi del contesto normativo è che esso si muove spesso troppo lentamente rispetto al mondo che intende riordinare. Sicuramente tale consapevolezza è tanto più vera quando si ha a che fare con la rete: voler legiferare su di essa diventa un’impresa a dir poco complessa, voler applicare i canoni usati tradizionalmente dalla legge ad un contesto che, per definizione, è in continua evoluzione risulta quasi impossibile. La soluzione sarebbe trovare il giusto compromesso nella tutela dei numerosi diritti che il web offre, in modo che questi non siano in conflitto tra loro; su come ciò debba accadere, il dibattito è tutt’altro che concluso e i toni sono tutt’altro che spenti. Nell’attesa, tuttavia, di riuscire a trovare delle risposte, buona parte della realtà legislativa concreta – quella costituita dalle persone che materialmente, giorno dopo giorno, cercano di applicare il rigore di articoli e commi più o meno datati a casi concreti – si dimostra capace di cogliere l’utilità delle moltissime possibilità offerte dalla rete, intesa non solo come semplice fonte informativa, ma anche e soprattutto come fonte di canali sociali. Ecco allora nascere e-book pensati proprio per accompagnare i professionisti della legge alla scoperta del web. Ecco, ad esempio, lo sviluppo, da parte dello studio americano Latham & Watkins, di una applicazione per l’iPhone. Ecco, ancora, la creazione di servizi gratuiti di consulenza in rete, per un limitato numero di ore e per un limitato e privilegiato numero di persone. Ecco, infine, l’ideazione di vari network incentrati sulla formula de “Il portale dell’avvocato”, che si propongono «di sollecitare e moltiplicare i contatti tra colleghi (appartenenti allo stesso foro o a fori differenti) e, in generale, tra operatori del diritto facilitando lo scambio di informazioni e gli incontri professionali, ma soprattutto dando la possibilità agli ‘avvocati 2.0’ di essere costantemente in contatto tra loro per organizzare e ottimizzare il lavoro con un semplice gesto quotidiano: la connessione alla rete Internet» (LexFriends). “Avvocati 2.0”, verrebbe da dire, capaci di inserirsi nei vari Facebook, Twitter, e blog tramite il proprio inseparabile iPhone, capaci di comprendere l’aspetto positivo dell’innovazione di impronta social.
A dimostrare l’invadenza di tale fenomeno, con riferimento alla realtà statunitense, è stata l’indagine 2010 Corporate Counsel New Media Engagement Survey che lo ha analizzato partendo dal punto di vista dei legali d’azienda, quelle personalità, cioè, responsabili della scelta e dell’acquisto dei servizi; più precisamente, oggetto dello studio sono stati 164 giuristi d’impresa e i 200 maggiori studi legali americani.
Veniamo ai risultati: oltre 90 studi usano uno o più blog e questi ultimi sembrano essere, nel loro insieme, quasi 300, con un aumento del 147% rispetto all’agosto 2007 (quando erano appena 39). Tutti i 200 studi analizzati hanno un proprio profilo su LinkedIn e si parla di 1,5 milioni di avvocati presenti tra i 50 milioni di utenti complessivi del famoso social network professionale. Il 76% delle principali law firm americane è iscritto poi su Twitter, anche se qualche profilo risulta essere completamente vergine, suggerendo una certa diffidenza o incapacità nello sfruttamento di tale strumento in modo coerente con lo scopo di generare business. Meno invasiva è, invece, la presenza su Facebook: solo il 31% degli studi possiede e aggiorna una propria pagina fan.
Questo orientamento degli studi alle reti sociali sembra essere legata alla particolare confidenza che i legali interni hanno con tali strumenti. Circa la metà dei giuristi intervistati cerca, infatti, consiglio per la propria attività tramite LinkedIn o esplora il web passando di blog in blog. In numero inferiore si rivolgono invece a network specializzati (tra cui Legal On Ramp e Martindale-Hubbell Connected), che comunque godono di una maggiore credibilità.
Le motivazioni che spingono studi e professionisti a muoversi in queste realtà sarebbero fondamentalmente due, stando a quanto rivelato da una recente newsletter promulgata dallo studio inglese CM Murray, contenente un’intervista a Callum Saunders, esperto in digital marketing. Da una parte la possibilità di fare networking: «uno strumento come Twitter mette in contatto con potenziali clienti e permette lo scambio di conoscenza, consulenza, articoli e link». Dall’altra troviamo il cosiddetto “crowdsourcing”, cioè «la pratica sempre più diffusa di chiedere aiuto, consiglio o opinioni alle comunità online», «un’ottima risorsa per sviluppare una nuova campagna marketing o testarla e LinkedIn che ha una sezione dedicata alle domande è il migliore punto di partenza».
pubblicato su: pmi-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 4 ottobre 2010
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