Trovare lavoro con i Social Network: la situazione nel Veneto

Pubblico di seguito alcuni dei risultati emersi a termine del sondaggio da me diffuso in tema di lavoro e social network. Quanti fossero interessati a conoscere una versione più ampia di questo resoconto possono inviare una richiesta via mail all’indirizzo robertabarbiero2@gmail.com. Grazie di cuore a quanti hanno generosamente contribuito al mio lavoro, rispondendo al questionario!


Con la precisa intenzione di indagare se e in quale misura il social recruiting fosse diffuso nella regione che da sempre mi accoglie, il Veneto, ho scelto di stilare e diffondere un questionario sul tema. Esso analizza il fenomeno dal punto di vista degli effettivi o potenziali candidati e cerca primariamente di comprendere il livello di consapevolezza o scetticismo vigente in merito alle potenzialità dei Social Network nelle attività di ricerca attiva o passiva di un’occupazione.

Del questionario ho realizzato sia una versione cartacea sia una versione online, affidandone le sorti della diffusione al passaparola, oltre che alla distribuzione diretta.

Il periodo di somministrazione è stato di poco superiore a un mese, dall’8 agosto al 17 settembre 2014 e, per raccogliere maggiori adesioni e per avere più certezze circa la veridicità delle risposte, ho assicurato ai rispondenti il totale anonimato. Nella raccolta ho scelto di concentrarmi sulla fascia d’età che va dai 15 ai 64 anni, allo scopo di analizzare la cosiddetta “forza lavoro” o “popolazione attiva”, cioè quella porzione della popolazione potenzialmente occupata o alla ricerca di un’occupazione Hanno risposto al mio invito a partecipare al sondaggio in 825 persone residenti in Veneto.

Cerchiamo allora di conoscere le principali tendenze emerse, precisando che il mio campione, rispetto alle medie effettive della Regione, ricavate dalle più recenti stime Istat, toglie alcuni punti percentuali di rappresentatività alla fascia più anziana dei 55-64 – e in parte anche a quelle dei 45-54enni e dei 35-44enni – e li consegna direttamente alla fascia dei 25-34enni, denotandosi, allora, come un campione leggermente più giovane rispetto alla media della popolazione reale della Regione. Inoltre il mio è un campione decisamente più istruito rispetto alla media territoriale e da ciò deriva una probabile maggiore alfabetizzazione al mezzo informatico e alle sue manifestazioni più recenti, quali sono appunto le piattaforme di Social Networking. Possiamo anche ipotizzare che il divario rispetto al dato regionale dipenda primariamente dal metodo utilizzato e dai riscontri ottenuti nella rilevazione, che hanno visto protagonista il Web e il suo bacino di utenti.

Attraverso il mio questionario, ho cercato innanzitutto di comprendere quali siano i canali che hanno effettivamente permesso alle persone occupate di trovare lavoro. Le risposte fornite dai partecipanti veneti confermano la tendenza generale delle imprese tricolori a far ricorso, per il reclutamento, soprattutto a canali di tipo informale: il 40% dei rispondenti occupati dichiara di aver trovato lavoro primariamente grazie a parenti e ad amici e il 38% grazie a contatti professionali precedentemente allacciati. Seguono, nella classifica dei canali più efficaci per trovare un’occupazione, gli strumenti tradizionali di contatto con l’azienda (ad esempio comunicazioni via posta, fax, telefono o visite di persona), con un 20% di rispondenti occupati principalmente grazie a questi, i concorsi pubblici (14%), gli annunci online (13%), gli strumenti online più classici di contatto con l’impresa, come l’email o la sezione career del website aziendale (12%), le agenzie per il lavoro e le società di ricerca e selezione (10%). Ancora molto bassa la percentuale di efficacia relativa al canale che questo sondaggio ha inteso esplorare, le piattaforme di Social Network: con un 5%, esso non viene certo promosso nella rosa dei prediletti, ma conquista pur sempre una posizione non trascurabile, nel confronto con gli altri canali. Piuttosto marginale appare, invece, l’utilità degli annunci offline (come quelli presenti su giornali e riviste specializzate o acclamati alla radio e alla televisione, al 3%), dell’Ufficio stage universitario, di Informagiovani e dei Centri per l’impiego (tutte e tre le alternative restano ferme al 2%), infine dei Career day e degli eventi HR (che ottengono appena l’1%).

1_Efficacia dei canali per la ricerca di lavoroPrima di esplorare nello specifico le prassi fruitive degli utenti social, con una particolare attenzione alle loro implicazioni nell’incontro domanda/offerta di lavoro, ho voluto comprendere la reale entità della diffusione del fenomeno Social Network, chiedendo ai partecipanti di indicare se e a quante piattaforme fossero iscritti. Ne è emerso che la metà (pari a 412 persone) è iscritta e utilizza uno o due piattaforme, il 19% (cioè 160 individui) a tre o quattro piattaforme e il 9% (73) addirittura a più di quattro. Il restante 22% (pari a 188 rispondenti) dichiara di non essere iscritto e di non utilizzare alcuna rete sociale online. Declinando i dati relativi alla diffusione delle piattaforme social alle diverse fasce d’età cui appartengono i rispondenti, emerge come quella social sia una febbre che sembra aver colpito tutta la popolazione veneta attiva, pur delineandosi come un fenomeno proprio delle classi d’età più giovani.2_Diffusione dei Social network

 Alla seconda parte del mio sondaggio, quella che entra nel vivo della questione, erano invitati a rispondere i soli iscritti e fruitori di Social Network, al fine di comprendere la reale consapevolezza in capo a questi ultimi circa le potenzialità del mezzo. Vediamo alcune delle evidenze emerse.

Ho innanzitutto cercato di capire quali siano le specifiche piattaforme che raccolgono il maggior favore di pubblico e che risultano, dunque, più diffuse, in via generale: medaglia d’oro per Facebook (utilizzato dall’88% dei fruitori di reti sociali online), argento per LinkedIn (48%) e bronzo per Youtube (33%); appena più in basso troviamo il cinguettante Twitter (32%), seguito da Google+ (28%) e dal gusto un po’ vintage di Instagram (24%). Espansione, infine, piuttosto bassa per Pinterest (7%) e del tutto residuale per Myspace e Xing (entrambi al 2%).

3_Piattaforme Social Network più diffuseMi sono poi concentrata sul tema primario della mia tesi, interrogando direttamente il mio campione in merito all’effettivo utilizzo dei Social Network per la ricerca di lavoro: la maggior parte (il 63%) sostiene di non aver mai sfruttato le piattaforme a tale scopo, ma un buon 37% riporta di averlo fatto almeno una volta.

4_Utilizzo dei Social Network per la ricerca di lavoroTra i motivi di resistenza al ricorso a tali mezzi per cercare lavoro, emerge innanzitutto la scarsa efficacia che si ritiene essi abbiano in questo senso: quasi la metà (44%) di quanti non hanno mai sfruttato i social per trovare un’occupazione riporta di non averlo fatto perché crede siano strumenti poco utili allo scopo, seguiti da un 16% che crede che un utilizzo di questo tipo sia pericoloso per la propria privacy. Un lieve, ma comunque significativo, 11% rivela l’intenzione di farvi ricorso presto, mentre il 6% ammette di non averli usati semplicemente perché non ne è capace. Un frettoloso 7% pone la causa del mancato utilizzo nella scarsità della risorsa tempo, infine un fortunato 38% semplicemente non ha cercato lavoro.

5_Motivi di resistenza all'uso dei Social network per la ricerca di lavoroIl sondaggio ha cercato poi di approfondire il punto di vista di quanti hanno effettivamente usato questi network per favorire l’incontro domanda/offerta di lavoro. A questi è stato innanzitutto chiesto quali fossero le piattaforme impiegate a tale scopo e le risposte hanno visto, come prevedibile protagonista il network professionale LinkedIn (67%), seguito, con uno scarto abbastanza significativo, da Facebook (50%). Ridotto, invece, il ricorso alla piattaforma appartenente al colosso di Mountain View, Google+ (12%) e ai cinguettii di Twitter (8%). Piuttosto irrilevanti anche le percentuali riferite a Youtube (4%), al business Social Network Xing, a Pinterest (entrambi al 3%) e a Instagram (2%). Nessuno ha utilizzato Myspace per scopi professionali.

6_Social Network più usati per la ricerca di lavoroQuali sono, allora, le motivazioni che hanno spinto primariamente i job seekers veneti a cercare lavoro tramite piattaforme di Social Network? In primo luogo troviamo una particolare propensione ad aggiornare il proprio profilo con informazioni professionali e a dare, quindi, visibilità al proprio CV e al proprio percorso formativo e di carriera (52%). In secondo luogo vi è la volontà di costruire una rete di relazioni professionali (38%). Gli aspetti di scambio interpersonale ricorrono anche in quel 23% di rispondenti che sostengono un uso finalizzato al collegamento con un potenziale datore di lavoro o con il responsabile HR aziendale, in quel 15% che vede l’utilità del mezzo nell’opportunità di ottenere un contatto con un selezionatore, infine in quell’ulteriore 15% che punta sullo scambio di opinioni in ambito professionale. Tali risposte, per nulla trascurabili, sono certamente simbolo di un utilizzo – almeno nelle intenzioni – piuttosto evoluto del mezzo, non limitato alla semplice ricerca di annunci di lavoro. Quest’ultima continua comunque ad avere un peso rilevante: il 36% del campione afferma di sfruttare il mezzo sociale per trovare più offerte di lavoro sulle pagine aziendali e il 23% per trovarvi offerte di lavoro più interessanti rispetto a quelle raggiungibili tramite altri mezzi. Un ulteriore dato dovrebbe poi destare particolare attenzione in capo alle aziende del territorio: il 27% dei rispondenti usa i media sociali per recuperare e verificare le informazioni relative all’azienda prima di procedere con l’invio di una propria candidatura; molto importanti possono rivelarsi, allora, le strategie di employer branding poste in essere dalle imprese su queste piattaforme, per diffondere un’immagine positiva del proprio ambiente di lavoro, al fine di attrarre i potenziali talenti. Malgrado l’attenzione primaria data dai job seekers veneti alla diffusione social delle informazioni relative alla propria esperienza lavorativa, solo il 13% di essi dichiara, infine, di servirsi del mezzo per monitorare la propria reputazione professionale online, dimostrando, quindi, una non piena consapevolezza circa la centralità che questa sta assumendo nelle scelte reali dei recruiters.

7_Motivi di utilizzo dei Social Network per la ricerca di lavoro

Arriviamo ora alle stime forse più significative, quelle relative alla concreta efficacia delle reti sociali nel favorire l’incontro tra chi cerca e chi offre un impiego: l’azione di ricerca social dei job seekers veneti arriva al bersaglio-azienda o è destinata a fare un buco nell’acqua? Cerchiamo di comprenderlo: il 16% del campione rivela di aver ottenuto un lavoro anche grazie a queste piattaforme e un minuscolo – ma pur sempre attraente – 1% di averlo ottenuto esclusivamente per loro merito. Si tratta ovviamente di percentuali solo residuali, ma assolutamente non irrisorie, poiché rivelano una tendenza che – seppur in fase ancora embrionale – comincia a farsi strada e a trovare il favore di aspiranti lavoratori e Responsabili HR. Ai dati abbastanza incoraggianti appena riportati, va, inoltre, aggiunto un buon 34% di rispondenti che ha riferito di essere stato contattato da un’azienda raggiunta tramite i Social Network, anche se poi il contatto non si è concretizzato nella stipulazione di un effettivo accordo di lavoro. Buona parte del campione analizzato (più della metà se si sommano le percentuali appena citate) ha, dunque, ottenuto un riscontro da parte delle aziende contattate, aziende che sembrano, allora, avere una presenza forte nelle piattaforme: esse osservano, intuiscono, cercano e rispondono agli utenti. Se si considerano l’attuale mercato del lavoro, che di certo non brilla per opportunità occupazionali, e l’ampia diffusione che i canali prima definiti “informali” hanno nelle prassi di reclutamento aziendale, è possibile ritenere che il social recruiting sia un canale, tutto sommato, abbastanza efficace per l’incontro domanda/offerta lavoro in Veneto. Certo quel restante 49% del campione, che afferma di non aver ricevuto alcun feedback da parte delle imprese contattate col mezzo social, ci ricorda quanto sia ancora lunga la strada da percorrere prima che i Social Network possano elevarsi al rango di protagonisti delle varie fasi che compongo il reclutamento in azienda, tuttavia i segnali che lasciano ben sperare non sono pochi.

8_Efficacia dei Social Network nella ricerca di lavoroA conclusione del mio sondaggio, ho scelto di indagare la percezione che gli utenti hanno circa l’utilità del mezzo social per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. La maggior parte dei rispondenti veneti (44%) afferma di credere nella loro utilità in futuro, relegandoli, nel presente, ad un ruolo solo secondario; un buon 34% si dichiara tuttavia convinto della loro efficacia anche nell’attuale contesto storico, decretando una buon livello di lucidità circa le potenzialità di queste piattaforme. Solo il 9% non crede affatto nella loro utilità, mentre il 13% non è in grado di formulare un’opinione in merito.

9_Percezione dell'utilità dei Social Network per incontro domanda:offerta lavoroA chiusura di questa operazione di indagine, possiamo dire che, anche nel territorio regionale veneto, si conferma l’ampio successo che le piattaforme di Social Networking sembrano avere a livello nazionale e internazionale; in particolare, nel contesto veneto, l’importanza degli aspetti relazionali sottesi alle piattaforme inizia ad essere percepita nelle pratiche di ricerca attiva di un lavoro e questi network non vengono più sfruttati semplicemente come mero moltiplicatore di annunci di lavoro.

Malgrado sia presumibile immaginare che molte persone si siano iscritte ai network sociali semplicemente sulla spinta di una prassi ormai diffusa, per estendere, oltre il lato fisico, la forza dei propri legami reali, per passare il tempo libero, dunque senza particolari pretese per la propria qualità di vita o di carriera, pare che l’evoluzione delle pratiche fruitive stia andando nella direzione di utilizzo sempre più strumentale e funzionale del mezzo. Non sembra, allora, insensato ritenere che, con l’avanzare del tempo, il mondo del lavoro – e in particolare il momento dell’incontro tra chi offre e chi cerca un’occupazione – possa gradualmente conquistare uno spazio sempre più considerevole, orientando le scelte di condivisione degli utenti. Certo è facile prevedere che le aziende italiane faticheranno ad abbandonare i canali informali per le proprie scelte di reclutamento, ma altrettanto certamente un ruolo di estrema rilevanza sembra attendere i Social Network, alla stregua degli annunci online presenti sui portali o delle agenzie per il lavoro.

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Le dinamiche della domanda-offerta lavoro in tempi di crisi e Web 2.0

I candidati italiani consultano gli annunci per un posto dietro ai fornelli, ma le maggiori opportunità sono tra le scrivanie di un ufficio. Sempre più importante l’online reputation nel processo di reclutamento, il 12% dei selezionatori ha scartato nominativi dopo aver informazioni raccolto in rete

Quelli attuali non sono certo tempi d’oro per il mercato del lavoro. Pochi giorni fa il Ministero del Lavoro ha evidenziato come, nell’arco del 2012, i licenziamenti – sia quelli collettivi sia quelli singoli, per giusta causa o giustificato motivo – abbiano superato quota un milione (1.027.462), con un aumento del 13,9% sul 2011 (quando furono 901.796) e a fronte di 200 mila assunzioni in meno. Nel solo ultimo trimestre si sono registrati 329.259 licenziamenti, in incremento del 15,1% rispetto allo stesso periodo 2011. Nell’intero 2012 sono stati attivati circa 10,2 milioni di rapporti di lavoro, contro i quasi 10,4 milioni complessivamente cessati, tra dimissioni, pensionamenti, scadenze di contratti e licenziamenti. L’ANSA, elaborando gli archivi Istat, ha, inoltre, rilevato come sia aumentato nel 2012 il numero degli scoraggiati nel Belpaese, stimati in 1,6 milioni di unità. Si tratta di coloro che non cercano più lavoro perché sono convinti di non riuscire a trovarlo. Essi rientrano nella categoria degli inattivi (che non fanno parte della forza lavoro, poiché non classificati come occupati o in cerca di occupazione), che comprende anche studenti, casalinghe e pensionati. Se gli inattivi sono, nel complesso, diminuiti del 3,9%, a causa della crisi, gli scoraggiati sono invece aumentati del 5,3%; tale crescita ha coinvolto soprattutto le fasce d’età più alte (+13,3% tra i 45-54enni e +23,1% tra i 55-64enni) e le donne (+8,6%, giungendo a quota 1 milione 96 mila unità). Tra gli scoraggiati, 1 milione e 150 mila ha un’età compresa tra i 35 e 64 anni (+10,1%).
In un contesto così drammaticamente mutato, si rinnova la struttura stessa del gioco domanda-offerta lavoro e si evolvono, di conseguenza, i processi di reclutamento. Su questi ultimi si sono, in particolare, concentrate due interessanti indagini, promosse recentemente da due realtà che basano la propria intera attività sul cercare di far incontrare esigenze lavorative con posti vacanti. I risultati possono aiutarci a comprendere meglio la portata del cambiamento in atto.
INDAGINE SUBITO.IT
Subito.it – il famoso portale di annunci per la compravendita e il lavoro – ha evidenziato, a inizio 2013, un’inattesa crescita nelle richieste di personale, pari al 17% rispetto a inizio 2012. Parallelamente sale, tuttavia, anche il numero degli annunci di candidati alla ricerca di lavoro, che raggiungono quota 200mila, registrando un +37% sul 2012. Finisce così per accentuarsi lo scarto tra candidature spontanee e posizioni aperte: se a febbraio 2012 le prime superavano le seconde del 134%, nello stesso periodo di quest’anno la percentuale sale al 175%.
Un ulteriore scostamento si rileva anche dal punto di vista qualitativo, con riferimento alle posizioni aperte e quelle invece più ambite da chi è in cerca di occupazione: le maggiori opportunità (52%) sono nell’ambito del “lavoro d’ufficio” (responsabili commerciali e agenti di vendita, specialisti IT, programmatori, grafici, manager e operatori di call center) e, a seguire, nel campo del turismo e della ristorazione (7%), infine nel commercio o all’interno di vari negozi (6%); per contro le oltre 670 mila ricerche di lavoro (in crescita di 24 punti percentuali sul 2012) sembrano più orientate ai fornelli. I candidati italiani recuperano le proprie tradizioni gastronomiche e ambiscono primariamente ad una professione nel settore Food & Beverage o nella ristorazione: il 16% circa di coloro che navigano su Subito.it alla ricerca di lavoro aspira alla posizione di chef/cuoco (27,50%), aspirante tale (5,57%), barman (21,15%), pizzaiolo (20,38%) o, ancora, pasticcere, gelataio, fornaio, lavapiatti e maître di sala.
Al secondo posto tra le figure più ambite troviamo quella dei collaboratori domestici, che occupa il 13,4% delle ricerche di occupazione, suddivisa tra le posizioni di badante (52,13%), dama di compagnia (0,44%), baby sitter (29,19%), colf/domestico (16,51%) e dog sitter (1,30%). Quest’ultima categoria è stata, in particolare, oggetto di ben 2500 candidature spontanee (quasi la metà distribuite, nell’ordine, tra Lombardia, Lazio e Piemonte), trasformando quella che nasce come passione in una vera e propria professione.
In terza posizione troviamo gli aspiranti autisti (7%).
Gli aumenti individuati possono essere in parte spiegati con “la crescita dell’utilizzo di Internet che, nel periodo considerato, è stata di circa il 7% (dati Audiweb)” – come ha sottolineato l’Amministratore Delegato di Subito.it, Daniele Contin – e che ha imposto agli utenti un’evoluzione nei modelli di fruizione del mezzo. I segni più riflettono, dunque, una tendenza più generale, ciononostante è importante notare come “a fronte di una contrazione generale del mercato” del lavoro, la Rete venga sempre più considerata come “strumento immediato e affidabile di ricerca di opportunità professionali e di business, sia dal lato della domanda che dell’offerta”.
L’analisi di Subito.it si spinge poi all’individuazione di alcune differenze di ordine territoriale. Assumendo una prospettiva regionale, si nota una sostanziale omogeneità nella distribuzione delle opportunità professionali: al primo posto per numero di posizioni aperte si colloca la Lombardia (16%), subito seguita da Campania (13%) e Lazio (11%). Le sproporzioni più elevate tra offerte di lavoro sul sito e annunci dei candidati (a sfavore, come abbiamo visto, delle prime) si hanno in Sardegna (310%), in Sicilia (270%) e in Piemonte (229%), mentre quelle più basse si rilevano in Umbria (88%), Calabria (79%) e Basilicata (73%).
Dal punto di vista provinciale, la posizione di cuoco o chef è in assoluto la più ambita ad Ancona, Genova, Palermo e Trieste. Quella di autista è la più ricercata a Milano (11%, seguita da badante al 10% e cuoco al 5%), a Roma (10%, seguita da cuoco al 7% e segretaria al 6%) e a Firenze (14,5%, seguita da badante al 5% e operaio al 5%).
A Torino si cercano soprattutto lavoro come badante (13%), operatore specializzato (12% tra operai, muratori, elettricista, saldatori, fresatori, serramentisti, imbianchini) e autista (7%). Qui chi offre lavoro si orienta invece più sul personale specializzato in ambito IT o vendite.
A Palermo le aziende cercano poi soprattutto personale qualificato per lavori “di ufficio”, mentre i potenziali candidati aspirano a fare il cuoco (9%), la badante (8%) e, a pari merito, il baby sitter e l’autista (6%).
A sorpresa, il pizzaiolo è una delle posizioni più ambite in laguna: a Venezia è al terzo posto tra le più ricercate (6%) e a Padova addirittura al secondo (8%).
INDAGINE ADECCO ITALIA
Sempre più il Web assume, quindi, un ruolo di primo piano nella dinamica dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro e sempre più le relazioni sociali costruite online sembrano influire sulle probabilità di trovare un’occupazione. Avere una rete ricca e integrata di rapporti, tanto nell’offline quanto nelle diverse piattaforme di social network, permette di incrementare il proprio “capitale sociale integrato”. Ciò significa avere la possibilità di allacciare nuove relazioni con persone di status superiore, di rafforzare, allo stesso tempo, la frequenza e la stabilità dei legami già esistenti e, di conseguenza, di intercettare più facilmente tutte le informazioni utili a trovare lavoro. Tale capitale sociale integrato viene ormai considerato un aspetto fondamentale da parte dei responsabili risorse umane, incaricati del processo di reclutamento.
È questa una delle principali evidenze emerse nell’indagine 2013 “Il lavoro ai tempi del #socialrecruiting e della #digitalreputation” condotta sotto forma di sondaggio online da Adecco Italia, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, tra novembre 2012 e febbraio 2013. Giunta alla terza edizione, la rilevazione ha inteso far emergere il ruolo che i legami personali hanno, in tempo di Web 2.0, nella ricerca di una posizione professionale. A essa hanno partecipato 13.283 candidati e 479 selezionatori, dei quali si è cercato innanzitutto di costruire un identikit.
I responsabili HR hanno un’età distribuita in modo piuttosto omogeneo tra le diverse fasce, con una prevalenza di 36-45enni (37%), e risiedono prevalentemente al Nord (73%, contro il 15% che risiede al Centro e il 12% al Sud). Quest’ultimo dato riflette il fatto che molte aziende abbiano il proprio dipartimento HR a Milano, soprattutto quando si tratta di realtà di grandi dimensioni. Singolare, a tal proposito, è l’evidenza che la maggior parte dei responsabili intervistati (57%) appartenga a grandi aziende (con più di 250 addetti), nonostante il tessuto imprenditoriale italiano sia composto in prevalenza da PMI; ciò potrebbe, in parte, essere dovuto allo svolgimento online del sondaggio, dunque dalla potenziale esclusione da parte delle realtà meno digitalizzate.
Tra i candidati prevale la fascia dei 26-35enni (36%), con un 21% di giovanissimi (18-25enni) e un 25% di 36-45enni; bassa risulta la percentuale degli over 45 alla ricerca di lavoro (15%), probabilmente a causa della modalità online del sondaggio. Anche la maggior parte dei candidati si trova al Nord (ma il tasso di concentrazione è meno elevato, essendo pari al 54%, contro il 19% situato al Centro e il 27% al Sud).
Sia tra i responsabili HR sia tra i candidati, la presenza di donne e uomini è pressoché omogenea, con una leggerissima prevalenza di donne.
L’utilizzo dei social network è molto diffuso tra i selezionatori che vi ricorrono per uso personale e professionale nell’88% dei casi (percentuale che sale al 94% se si considerano anche gli utilizzi come azienda). Meno rilevante è invece l’uso di questi strumenti per la ricerca di lavoro da parte dei candidati (53%), nonostante il 99% di essi vi ricorra in generale, anche per altri scopi. Più nel dettaglio, Linkedin sembra essere il canale privilegiato dei recruiter per trovare nuovi profili, con il 42% delle preferenze, seguito da Facebook (29%) e da Twitter (9%), mentre tra i candidati la ricerca di lavoro in Rete avviene prevalentemente attraverso i siti di lavoro (94%), le App (39%) e Facebook (30%); solo il 26% usa Linkedin e solo il 5% Twitter.
Quali sono i vantaggi che derivano dall’utilizzo di questi canali online? Per chi è alla ricerca di un’occupazione, questi risiedono nella possibilità di trovare un maggior numero di offerte (44%), poi nell’opportunità di dare maggiore visibilità al proprio CV (38%) e di trovare offerte di lavoro più interessanti (32%) specialmente all’interno delle pagine aziendali; solo il 16% considera l’importanza nel creare relazioni professionali e solo il 6% è interessato a monitorare in questo modo la propria reputazione online. I responsabili HR ricorrono invece agli strumenti di recruiting online principalmente per allargare il bacino dei candidati (16%) e verificare la completezza e la solidità dei CV ricevuti (16%), oltre che per trovare profili più mirati (15%), per informarsi sulle relazioni professionali del candidato (14%) e per controllare i contenuti da questo pubblicati (10%).
Adecco passa poi ad analizzare la valutazione che selezionatori e candidati danno circa l’utilità di alcune piattaforme online. In linea con le proprie prassi fruitive, i primi apprezzano principalmente Linkedin (78% valutazioni positive) e i siti di matching (72%). I candidati mettono invece al primo posto per utilità i siti (70%) e al secondo Linkedin, che, nonostante raggiunga solo il 29% delle valutazioni positive, conquista comunque una posizione di estremo rilievo, che non trova corrispondenza nelle scelte di utilizzo prima descritte: in sostanza chi cerca lavoro considera Linkedin più utile di Facebook (29% contro 20%), ma sfrutta primariamente – e paradossalmente – quest’ultimo come canale per la ricerca.
Stando a quanti un lavoro l’hanno trovato, la formula più efficace per trovare un posto è quella di utilizzare un mix di differenti strumenti che comprenda in primo luogo gli annunci online (40%), le agenzie per il lavoro (34%) e la rete di parenti e amici (32%).
Per il 50% dei responsabili risorse umane i social media hanno reso più facile la ricerca di candidati e il 34% ha effettivamente utilizzato questi strumenti  per assumere. Per contro il 75% dei candidati sostiene che i social non sono stati d’aiuto e solo un misero 2% dice di aver trovato lavoro esclusivamente attraverso essi (su un 30% che ha inviato la propria candidatura e un 8% che è stato in seguito contattato), ma – a giudicare dalle precedenti risposte – ciò potrebbe dipendere da un uso scorretto e poco ragionato del mezzo.
La forza di questi strumenti risiede soprattutto nel potere delle relazioni. Il 50% di chi ha trovato lavoro attraverso i social network dispone di una rete sociale ricca, contro il 27% di chi lo ha trovato tramite i centri per l’impiego, il 30% di chi si è rivolto alle agenzie per il lavoro e il 33% di chi si ha sfruttato reti sociali tradizionali (amici e famiglia). Usare queste piattaforme semplicemente per recuperare nuovi annunci rappresenta un’operazione piuttosto sterile; la vera utilità sta nella possibilità di allargare e rafforzare la propria rete di contatti professionali. “Questi risultati sono molto interessanti”, ha commentato Ivana Pais, docente di Sociologia economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, “perché mostrano il valore delle relazioni che si stabiliscono e si alimentano attraverso la Rete. In particolare, l’uso di social network si rivela molto efficace nella fase di ricerca di un lavoro in quanto consente di facilitare i flussi informativi tra persone già in contatto tra loro, di entrare in relazione con persone chiave nei processi selettivi e di abbattere alcune barriere comunicative rendendo più diretta e veloce la comunicazione”.
L’importanza della digital reputation viene comunque percepita sia dai recruiter sia dai candidati. Il 70% di questi ultimi verifica le informazioni personali che circolano online “googlando” il proprio nome, lo stesso fa il 77% dei recruiter con i nominativi dei candidati. Due sono, infine, i dati che hanno fatto particolarmente discutere: il 12% dei selezionatori dichiara di aver escluso dei candidati proprio per le informazione reperite su di essi in Rete; il 5% sostiene di aver chiesto al candidato di accedere al proprio profilo Facebook, con una evidente lesione della privacy (pratica confermata però solo dall’1% dei candidati).
“Il problema è che con la carenza di lavoro che c’è, i recuiter si trovano ad avere una sovrabbondanza di profili validi, e la presenza sui social media e il loro uso corretto diventano un ulteriore filtro per scremarli”, ha spiegato Silvia Zanella, Marketing e Communication Manager di Adecco Italia. “Quello che infastidisce di più è la mancata corrispondenza fra ciò che si scrive sui profili social e il Cv in mano al selezionatore; molti fingono, esagerano…”. Curare i propri profili può rivelarsi, allora, utile anche ai fini di una possibile assunzione. Ciò non significa scadere nell’autopromozione smaccata, al contrario ogni voce digitale deve essere comprovata da fatti reali. Condividere, partecipare, allacciare nuovi rapporti permette di curare la propria online reputation, con effetti benefici anche nell’offline.

 

Pubblicato su: PMI-dome

Giornalisti tricolori: troppi, sempre più vecchi, pochi i subordinati

Sono oltre 112.000 le firme in Italia, ma solo il 45% ha una posizione contributiva attiva all’Inpgi e solo 1 su 5 ha un contratto di lavoro dipendente, guadagnando così 5 volte più di un freelance e 6,4 volte più di un Co.co.co.  Approvata la legge sull’equo compenso, si auspica ora una riforma sostanziale della professione

Lo scorso 4 dicembre il voto unanime della commissione Cultura alla Camera ha approvato, dopo mesi di tira e molla, la Legge sull’equo compenso per i giornalisti freelance e i collaboratori autonomi, che intende porre fine al moltiplicarsi, soprattutto in tempi di multicanalità e interattività, degli episodi di sfruttamento tra i professionisti della parola e del pensiero. Si tratta, come si legge all’articolo 1 della stessa legge, della “corresponsione di una remunerazione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione nonché della coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria”. In pratica significa essere pagati tanto quanto si lavora, nel rispetto della propria professionalità e dignità.
La schiavitù è abolita per legge” ha tuonato dal proprio sito l’Ordine dei giornalisti, sottolineando l’importanza di quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, un ulteriore passo verso l’auspicata riforma della professione, dopo l’approvazione del DPR 7 agosto 2012, n. 137, che ha inteso revisionare trasversalmente tutti gli ordinamenti professionali – prevedendo, ad esempio, l’obbligo di formazione permanente e l’istituzione di Collegi di disciplina che si facciano garanti della tutela deontologica della professione – senza tener conto delle specificità e criticità proprie del giornalismo. Che non sono, a ben vedere, così poche e così facilmente superabili: i giornalisti in Italia sono tanti, probabilmente troppi, soprattutto se si accetta il confronto con gli altri paesi; il gap tra le retribuzioni delle firme dipendenti e quelle di autonomi e Co.co.co appare in continuo aumento; sempre più numerosi sono i capelli bianchi nel settore, mentre si riduce il numero dei rapporti professionali.
Questi e altri trends sono stati rilevati, in particolare, dal rapporto La fabbrica dei giornalisti” di Lsdi (Libertà di stampa e diritto all’informazione), aggiornato con i dati relativi al 2011 e presentato lo scorso 30 novembre in un convegno alla Federazione Nazionale della Stampa a Roma.
In controtendenza rispetto a gran parte dei paesi occidentali, in Italia il numero dei giornalisti continua ad aumentare, contando, a inizio ottobre 2012, ben 103.036 professionisti (che diventano oltre 112.000 se si considerano anche gli iscritti all’elenco speciale e gli stranieri), contro i 102.656 del 31 dicembre 2011 e i 100.487 dell’anno precedente. Essi sono il triplo di quelli presenti in Francia (37.286) e quasi il doppio di quelli in Gran Bretagna (circa 50.000) e Stati Uniti (cica 60.000).
Tuttavia, a fine 2011, solo il 45% delle complessive 102.656 firme italiane (pari a 46.243 unità) risultava effettivamente attiva, cioè dotata di una posizione contributiva attiva all’Inpgi (l’ente previdenziale dei giornalisti nel Belpaese); si tratta di una percentuale di mezzo punto superiore a quella registrata nel 2010, quando i giornalisti attivi erano il 44,5% (44.906 su 100.487 iscritti all’Ordine), e di quasi un punto superiore a quella del 2009 (44,1%, cioè 43.300 iscritti).
Di questi 46.243 giornalisti attivi, 19.639 operano con un rapporto di lavoro subordinato e 26.524 sono invece autonomi e parasubordinati (i cosiddetti Co.co.co). È, in particolare, il peso crescente di questi ultimi a determinare gli incrementi registrati. Nel lavoro dipendente le posizioni attive (presso l’Inpgi1) sono calate, infatti, dalle 20.087 del 2009 (46,4% dei 43.300 giornalisti attivi), alle 19.895 del 2010 (44,3% di 44.906), fino alle 19.639 del 2011 (42,6% su 46.243); nel lavoro autonomo, invece, le posizioni attive (presso l’Inpgi2) sono passate dalle 23.213 del 2009 (53,6%), alle 25.011 del 2010 (55,7%), fino alle 26.524 del 2011 (57,4%). Tra il 2010 e il 2011, dunque, i lavoratori autonomi attivi sono aumentati di 6,05% (l’incremento era stato invece del 7,7% nel 2010), mentre quelli subordinati sono scesi dello 0,94%.
Il bacino dei giornalisti retribuiti ufficialmente continua a ingrandirsi, nonostante lo stato di crisi di molte testate, i prepensionamenti e il sostanziale blocco del turn over (i praticanti sono scesi da 1.306 del 2009 a 868): questo proprio grazie alla sola crescita degli autonomi e parasubordinati. Solo il 19,1% degli iscritti all’Ordine – meno di un giornalista su 5 – ha, infatti, un contratto di lavoro dipendente.
Completano il profilo degli iscritti all’Ordine i pensionati, che a fine 2011 erano 6.128 (di cui 5.206 dipendenti con posizione Inpgi1 e 922 autonomi con posizione Inpgi2, complessivamente pari al 6%), e i 50.365 giornalisti senza alcuna posizione Inpgi, pari al 49% del totale.
Com’è noto l’albo dei giornalisti tenuto da ogni Ordine regionale o interregionale è suddiviso in due elenchi principali (oltre agli elenchi speciali): quello dei professionisti, che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione, e quello dei pubblicisti, che svolgono l’attività in modo non occasionale e retribuito, anche se contestualmente ad altre professioni e impieghi. Con riferimento, allora, alla composizione degli attivi, nell’ambito del lavoro subordinato, nel 2011 i professionisti sono passati da 16.193 a 15.908 (-285 unità), diventando il 56,9% dei 27.960 professionisti iscritti all’Ordine, mentre i pubblicisti sono passati da 3.348 a 3.434 (+86 unità), raggiungendo quota 4,7% dei 73.030 iscritti all’elenco pubblicisti.
Fra gli autonomi, invece, i professionisti attivi sono passati dai 4.781 del 2010 (il 17,4% di tutti i professionisti) ai 5.201 del 2011, pari al 18,6% di tutti i professionisti, mentre i pubblicisti sono saliti a 20.260 (il 27,4% di tutti i pubblicisti) da 19.428 (27,3%).
Oltre alla composizione interna, le differenze profonde tra i due diversi segmenti del giornalismo professionale si notano anche a livello di retribuzione: mentre la media annua delle retribuzioni lorde dei giornalisti dipendenti è pari a 62.228 euro, il reddito lordo medio degli autonomi è di 12.456 euro e quello dei parasubordinati è di 9.703 euro. In altre parole, il reddito medio dei giornalisti dipendenti è 5 volte maggiore rispetto a quello degli autonomi e 6,4 volte superiore a quello dei Co.co.co.
Sul piano del lavoro subordinato, se i rapporti di lavoro diminuiscono in termini numerici e nelle fasce più basse peggiorano sul piano del reddito, si registrano, per contro, dei lievi miglioramenti nei compensi delle fasce medio alte. Tanto che, stando ai dati Inpgi1, la retribuzione media lorda dell’intero settore lavoro dipendente sarebbe in crescita sia sul 2009 (quando era pari a 61.620 euro) che sul 2010 (61.865 euro), anche come conseguenza dei miglioramenti contrattuali. Pure le stime Casagit (la cassa che assicurare ai giornalisti e ai loro familiari un sistema integrativo dell’assistenza prestata dal Servizio Sanitario Nazionale con una copertura delle spese sanitarie che prosegue anche dopo il pensionamento e senza limiti d’età) confermano in parte questo trend, mostrando, nel 2011, un lieve aumento (+0,8%) nell’ammontare del contributo medio versato dai giornalisti contrattualizzati.
Una certa stabilità nel lavoro giornalistico dipendente è comprovata anche dallo stato di buona salute del Fondo di previdenza complementare (che si affianca, con adesione volontaria, al regime pensionistico obbligatorio di base dell’Inpgi, attraverso la capitalizzazione individuale delle risorse): si nota – sottolinea Marina Cosi, Presidente uscente del Fondo – “un discreto ricambio demografico (nuovi iscritti stanno rimpiazzando i vecchi contribuenti che lasciano il lavoro, quindi il Fondo) e l’ esistenza di una discreta quantità di lavoratori, soprattutto nella fascia di età fra i 40 e i 50 anni, che girano una parte consistente (anche il 6-7%) del loro salario alla previdenza complementare”.
Si consideri poi il fatto che ben 7.812 dei 19.639 giornalisti subordinati (il 40%) attivi hanno anche un reddito da lavoro autonomo, che non entra nel calcolo della media annua della loro retribuzione come dipendenti, ma che di fatto allarga ancor di più il divario con la condizione reddituale del lavoro autonomo e parasubordinato.
Nel campo del lavoro autonomo alcuni segnali positivi nel 2011 vi sono: la media retributiva dei ‘’liberi professionisti’’ cresce di 2,9 punti percentuali, da 12.187 a 12.586 euro, quella dei Co.co.co del 14,1%, passando da 8.505 a 9.703 euro, infine scende dal 62% al 55,8% la percentuale di denunce sotto i 5.000 euro annui lordi. Una percentuale, quest’ultima, comunque ancora elevata (coinvolge 14.800 giornalisti autonomi). Un lavoratore autonomo su 4 (il 24,4%: 3.663 liberi professionisti e 2.568 Co.co.co) dichiara inoltre redditi compresi fra lo 0 e i 1500 euro. Anche i dati sulle prime pensioni da lavoro autonomo, malgrado i lievi miglioramenti, non sembrano essere troppo rassicuranti: le pensioni sopra il 1.000 euro annui, ad esempio, sono 228 nel 2011 (il 24,2%), con una crescita del 40% rispetto al 2010 (quando erano 162).
Nel 2011 il livello di disoccupazione rimane abbasta stabile (1514 i giornalisti che percepivano l’assegno di disoccupazione, contro i 1527 del 2010), ma cresce in modo esponenziale il ricorso agli altri ammortizzatori sociali, tanto che la spesa dell’Inpgi è cresciuta del 18,9% rispetto al 2010 (+29% per la solidarietà, +144,7% per la cassa integrazione straordinaria)
Il numero dei rapporti di lavoro cala in modo costante dal 2008, passando dai 22.197 di quell’anno ai 21.069 del 2011 (-5,1% e -0,94% solo nel 2011). Gli sgravi contributivi per le aziende che assumano o trasformino rapporti di lavoro a termine o Co.Co.Co in contratti a tempo indeterminato hanno condotto all’instaurazione di soli 207 rapporti di lavoro, supplendo solo lievemente la tendenza in negativo rilevata.
Tendenza confermata anche in questo caso dalla Casagit, che ha visto, dal 2008 al 2011, un calo dei soci attivi di 1.350 unità, dei quali circa 750 soci contrattualizzati e 600 giornalisti professionisti e pubblicisti autonomi che aderivano alla Cassa in forma volontaria. Se nel 2008 i soci con contratto in Casagit erano 17.500, sono passati nel 2011 a 16.819. Solo nel 2011 essi sono diminuiti di 150 unità (nel 2010 erano 16.969), pari a un calo dello 0,8% (comunque meno marcato di quello dell’anno precedente, quando fu del 3%).
La maggiore contrazione riguarda il settore dei contratti Fieg-Fnsi (quelli che producono la parte più consistente della massa retributiva), scesi a 14.951 (pari al 70,1% di tutti i rapporti di lavoro) rispetto ai 15.172 (71,3%) del 2010 (diminuzione dell’1,46%).
Affianco alla riduzione dei soci con contratto di lavoro giornalistico, la Casagit ha rilevato, tra il 2008 e il 2011, un aumento dei soci pensionati di circa 1.200 unità (da 6.362 a 7.533), pari al 18,4%: se nel 2008 essi erano il 22%, oggi sono il 27% di tutti i soci.
Anche all’Inpgi il rapporto fra attivi e pensionati continua a scendere, passando dal 2,58 del 2010 al 2,45 del 2011.
Emerge, dunque, un progressivo invecchiamento della professione giornalistica, determinato, appunto, dalla diminuzione del numero di rapporti, dal sostanziale blocco del turn over, dalla progressione degli stati di crisi e dal flusso costante di prepensionamenti.
Rimane l’incognita sui giornalisti cosiddetti “invisibili”, quelli, cioè, iscritti all’Ordine ma privi di una posizione Inpgi e che, stando agli ultimi dati aggiornati al 1^ ottobre scorso, sarebbero il 46,8% di tutti gli iscritti (escludendo elenco speciale e stranieri), pari a 48.206 unità: “possiamo supporre” – affermano i promotori del report – “che in questa grossa fetta del giornalismo italiano ci sia un’ampia fascia di precariato”, “una miriade di giovani (e meno giovani) inseriti in qualche modo nella macchina della produzione e della distribuzione dell’informazione giornalistica – soprattutto nel segmento dell’ online – che premono verso l’alto nella speranza di raggiungere almeno il traguardo di uno sbocco nel pubblicismo”.
L’auspicio finale è, allora, che si arrivi presto ad una riforma sostanziale della legge istitutiva dell’ordine (una legge che il prossimo anno compirà cinquant’anni, la Legge 3 febbraio 1963, n. 69), capace di superare l’attuale distinzione tra professionisti e pubblicisti, considerata obsoleta, e capace di offrire garanzie certe alle firme italiane e, di conseguenza, agli stessi cittadini, i quali devono poter contare su un’informazione libera, consapevole e trasparente.
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Aziende italiane e RSI: crescono gli addetti, ma si punta poco sul Web

I professionisti della Responsabilità Sociale d’Impresa sembrano consolidare la propria posizione nel tessuto aziendale italiano, creando interessanti prospettive occupazionali, soprattutto tra le donne. Per contro le imprese si dimostrano incapaci di sfruttare la rete come leva strategica per comunicare i risultati delle proprie azioni di natura sociale, etica e ambientale
Erano gli ultimi giorni di ottobre e il temuto uragano Sandy devastava, con il suo passaggio, la costa nord est degli Stati Uniti, provocando vittime e ingenti danni. Tra l’angoscia e l’abbattimento generale che ne conseguirono, Procter & Gamble si mise a distribuire, alle persone colpite, pannolini, dentifrici, bagnoschiuma, creme, detersivi, pile per le torce elettriche e le radio, per ricaricare pc, tablet e telefoni. L’attenzione mediatica dedicata all’azione fu notevole, amplificata da blogger e cittadini comuni attraverso la rete. Un messaggio di altruismo e solidarietà sociale venne, allora, per giorni, veicolato dai molti brand appartenenti al noto gruppo industriale, contribuendo a rafforzarne l’universo valoriale e il desiderio di appartenenza allo stesso da parte degli utenti. Fare del bene per avere visibilità positiva: pare essere questa la nuova frontiera del marketing etico, la ricetta ideata dalle menti imprenditoriali particolarmente illuminate per combattere la tragicità della contingenza. Compiere azioni utili, connesse alla propria mission, può risultare una strategia vincente anche, e forse soprattutto, in tempi di crisi.
Un simile episodio spinge a interrogarsi sull’importanza della dimensione sociale all’interno dell’agire aziendale. Certo l’analisi di tale dimensione non può limitarsi alle sole scelte di comunicazione e marketing, ma coinvolge piuttosto l’intero percorso di vita dell’impresa. Si tratta della cosiddetta Responsabilità Sociale d’Impresa, RSI (o Corporate Social Responsibility, CSR), che vede nell’articolo 41 della Costituzione (quello che garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata, purché non sia “in contrasto con l’utilità sociale” e non rechi “danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”) il suo primario fondamento, con riferimento al nostro contesto nazionale. L’impresa socialmente responsabile è quella che volontariamente integra valori etici, sociali e ambientali nella definizione delle proprie scelte strategiche e di gestione, andando oltre i semplici obblighi di legge e perseguendo il proprio sviluppo secondo un’ottica di sostenibilità. Non ci si riferisce alla semplice pubblicazione di un bilancio sociale o all’adozione di campagne comunicative votate a principi etici e sociali, la CSR impone piuttosto di determinare il proprio orientamento strategico in base a tali principi, renderli parte integrante della visione aziendale: non un obiettivo, dunque, ma un percorso votato a un continuo miglioramento e all’innovazione.
I vantaggi di un simile approccio sono dimostrati: mantenimento di una buona reputazione, maggiore competitività sul mercato, garanzia di coesione tra gli stakeholder, creazione di un ambiente di lavoro più sicuro e motivante, capacità di attrarre personale maggiormente qualificato, possibilità di godere di vantaggi fiscali e semplificazioni amministrative, se previsti.
Negli ultimi anni sembra essere cresciuta l’importanza attribuita ai problemi sociali e ambientali, per questo si sono moltiplicati i professionisti della CSR, i quali, a diverso titolo, hanno trovato una propria collocazione nelle strutture organizzative delle aziende. Il Csr Manager Network, l’associazione che riunisce i responsabili delle politiche sociali, in collaborazione con Altis (Alta scuola impresa e società dell’Università Cattolica di Milano) e ISVI (Istituto per i valori d’impresa), ha cercato, allora, di indagare “La professione della CSR in Italia”, per delinearne le caratteristiche, i percorsi, le attività, la retribuzione e il grado di affermazione. Il 40% delle società quotate – rileva il report – ha già oggi al suo interno un manager della CSR e una su quattro pubblica un bilancio di sostenibilità per far conoscere le proprie attività in ambito, le linee di lavoro e gli obiettivi futuri. Non si tratta di numeri grandissimi, tuttavia i margini di crescita sono molti, se si considera che il report ha identificato 327 persone che fanno della CSR il fulcro della propria attività professionale, contro le 90 identificate nella precedente ricerca del 2005. Una professione che si sta, dunque, consolidando e diventando sempre più autorevole nel tessuto aziendale, creando prospettive occupazionali piuttosto positive.
La ricerca evidenzia alcuni tratti caratteristici della figura: diversamente da quanto accade per le altre funzioni aziendali, prevalgono le donne (56,8%) e coloro che hanno un’età relativamente giovane, compresa tra i 31 e i 50 anni (66% dei casi). Il livello di formazione è solitamente elevato, dato che la maggior parte degli addetti ha conseguito una laurea specialistica (54,1% dei CSR manager e 48,4% dei collaboratori) o un master (29,7% sia dei CSR manager sia dei collaboratori). Vi è la tendenza, inoltre, di assegnare l’incarico a persone già presenti in azienda (70,3% dei CSR manager, 58,8% dei collaboratori).
La maggioranza degli attuali CSR manager ha condotto studi a carattere economico (56,8%), tuttavia una parte significativa ha studi umanistici alla base (18,6%). Prima di occuparsi di CSR essi erano occupati primariamente nel mondo della comunicazione (36,1%) e del marketing (19,4%).Tra i collaboratori dell’Unità di CSR risulta meno rilevante, a livello formativo, la dimensione economica, che si equivale a quella umanistica (entrambe al 31,3%). Emerge una significativa quota di practitioners che ha iniziato la propria attività lavorativa attorno alla CSR (15,6%), mentre il 19,6% proviene dalle aree della comunicazione e l’11,8% dal marketing.
La figura dei CSR manager appare piuttosto articolata, con riferimento alle attività svolte: essa gestisce direttamente le attività di carattere sociale e ambientale connesse alla comunità, fungendo da interfaccia per gli stakeholder presenti nel territorio; si occupa, inoltre, della rendicontazione di sostenibilità (sia del bilancio di sostenibilità, sia della sezione del sito aziendale dedicata alla CSR) e supporta le altre funzioni aziendali in qualità di consulente.
La retribuzione dei CSR manager si aggira sui 79.000 euro lordi l’anno, anche se nel 22,6% dei casi si superano i 120.000 euro. Essi beneficiano anche di una quota di retribuzione variabile legata agli obiettivi, pari in media al 15,7%.
Per quanto riguarda invece i collaboratori dell’unità di CSR, la retribuzione annuale lorda si attesta in media attorno ai 38.000 euro, con la previsione, anche in questo caso, di una quota di retribuzione variabile, pari in media al 7,5% della retribuzione annuale lorda.
Pare quindi che gli stipendi degli addetti alla CSR siano in linea con quelli riferiti ad analoghi ruoli nelle più tradizionali funzioni aziendali.
Spostando la prospettiva sull’ambito Web, è interessante capire come le aziende comunichino, attraverso il proprio sito istituzionale, i risultati delle proprie azioni di natura sociale, etica e ambientale, agli stakeholder. Ad indagare su tale aspetto è la società di comunicazione Lundquist, attraverso la ricerca “CSR Online Awards 2012, che ha preso in esame 252 società in Europa, raggruppate in cinque differenti classifiche. Quella italiana, giunta quest’anno alla sua quinta edizione, ha considerato un campione di 100 aziende, il doppio rispetto agli anni scorsi: dalle 50 società quotate esaminate in precedenza, alle 85 società quotate esaminate ora, alle quali si è scelto di aggiungere anche 15 grandi società non quotate (o succursali italiane di multinazionali) ma comunque dotate di bilancio CSR.
Il protocollo di valutazione si basa sull’analisi di 68 criteri ed è stato suddiviso tre macro aree Contenuti (che copre le principali tematiche sociali, ambientali, di governance e la presentazione del bilancio CSR), User experience (riguarda navigabilità e usabilità del sito e qualità della comunicazione visuale) e Ongoing engagement (valuta interattività, notizie e risorse disponibili, la capacità di rafforzare il dialogo con gli utenti) – per un totale complessivo di 100 punti assegnabili. All’origine del punteggio assegnato vi sono alcuni presupposti che rendono efficace la comunicazione CSR online, riassunti in sette pilastri: il sito deve essere esaustivo (deve soddisfare tutte le esigenze informative degli utenti), integrato (attraverso i link tra le diverse sezioni o rivolti ai canali esterni, come quelli social), aperto (a feedback, discussioni e dibattiti), user friendly (il sistema di navigazione deve essere intuitivo e privo di tecnicismi, i formati devono essere adatti alla lettura su schermo), accattivante (attraverso gli strumenti multimediali), concreto (dati credibili e pertinenti, supportati anche da case-study, non messaggi autoreferenziali), unico (aziende devono comunicare cosa rappresenta la CSR nel contesto specifico delle proprie strategie di business).
Gran parte delle maggiori aziende italiane sembra non tenere il passo con l’evoluzione del Web e solo una parte (59 tra quelle analizzate) pubblica online il proprio bilancio CSR, limitandosi, nella maggior parte dei casi, ad un lavoro di copia-e-incolla dei testi preparati per il bilancio cartaceo.
Il Web non viene, quindi, inteso come leva strategica per la comunicazione della responsabilità sociale d’impresa, non vengono tendenzialmente adottate specifiche soluzioni comunicative, capaci di sfruttare le potenzialità del mezzo in termini di trasparenza, dialogo e confronto. Il punteggio medio del CSR Online Awards Italy 2012 scende, allora, a 34 su 100, rispetto alla media di 44,2 delle 100 società più grandi d’Europa. Deludente il punteggio di 21,4 assegnato alle 15 società non quotate incluse nella ricerca. Il punteggio medio della macro area “Contenuti” sale leggermente al 35% del punteggio massimo, segno che le aziende danno maggiore evidenza online alle loro politiche, performance e iniziative CSR. Il punteggio medio della “User experience” è sceso invece al 38%, a causa del maggiore rigore di alcuni criteri usati, quello della terza area, “Ongoing engagement”, al 28%, per la mancanza di funzionalità interattive e per l’utilizzo scarso dei social network.
Più precisamente i punteggi più alti sono stati ottenuti con riferimento al modo in cui le società presentano il proprio impegno per la responsabilità sociale (priorità, obiettivi…), le informazioni ambientali e i bilanci CSR (punteggio medio pari al 40% del massimo), mentre le performance peggiori riguardano l’interattività (uso di social media, blog, RSS, podcast…) e la comunicazione visuale (17%), che comprende l’uso di video, immagini e grafici interattivi.
Entrando nel vivo della classifica, emerge che la multiutility Hera si posiziona al primo posto, con 76,5 punti su 100 (recupera cioè la posizione del 2010, dopo essere scesa al terzo gradino lo scorso anno), seguita da Telecom Italia (73,25) ed Eni (71,5 punti). Il resto della top 10 comprende: Fiat spa (69), Unicredit (66), Snam (64,75), Fiat industrial (63), Terna (63), Enel (62,5) ed Edison (60,5). Migliorano le prestazioni del Gruppo IREN, che ottiene 14 punti in più rispetto all’anno scorso e sale per questo alla 26esima posizione, quelle di Acea (+6,5 punti) e Autogrill (+3). Mondadori ha pubblicato il suo primo bilancio quest’anno ed è stata la migliore tra i nuovi entrati in classifica, conquistando la 17esima posizione con 49,25 punti. Tra le società non-quotate, è Barilla ad aver posto in essere le performance più elevate, ottenendo 39 punti e guadagnando la 21esima posizione.
La ricerca Lundquist rileva anche come ben il 47% delle maggiori aziende quotate in Italia non investa nella rendicontazione formale di tematiche CSR e come il 30% delle 40 imprese più grandi, incluse nell’indice delle “blue chip” nazionali (FTSE MIB), non rediga un bilancio CSR, segno di scarsa trasparenza. Tra queste: Azimut, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Campari, Diasorin, Mediobanca, Mediaset, Parmalat, Salvatore Ferragamo e Tod’s.
Il dato contrasta con il trend rilevato in Europa, dove tutte le 100 principali aziende pubblicano bilanci di sostenibilità.
Malgrado l’aumento delle società italiane incluse nella ricerca, il numero dei report sul Web è sostanzialmente invariato rispetto all’anno scorso, segno che esso rimane, in questo periodo di difficoltà economica, esclusivo appannaggio delle aziende più grandi (nel 2011 i report online erano 15 per le 50 maggiori aziende quotate, nel 2012 sono 18 per le prime 100).
Metà (30) delle aziende analizzate che pubblicano bilancio online si ferma ad un semplice PDF, 10 dei esse presentano una versione image-based (sfogliabile) del documento in PDF per innalzare il grado di leggibilità sul web. Tra le 100 maggiori aziende europee, invece, solo il 38% pubblica un formato PDF e il 9% una versione image-based (sfogliabile), mentre più della metà è dotata di una versione online (36% offre una versione HTML del report attraverso un mini-sito e il 17% ne offre una versione Web-based, integrandolo alla sezione CSR del sito corporate).
Le aziende italiane non sembrano, in definitiva, aver compreso l’importanza del Web per comunicare efficacemente la propria politica CSR. Il sito corporate dovrebbe rappresentare uno spazio strategico, nel quale l’azienda racconta il proprio percorso verso la sostenibilità e l’impegno sociale, cercando di stimolare il confronto con i propri stakeholder. Ad esso dovrebbero integrarsi i canali social, visti non come semplice veicolo di comunicati stampa e contenuti redazionali, ma come strumento utile a stimolare la riflessione, lo scambio di opinioni e il dialogo con l’utenza.
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Occupazione sempre più a rischio nelle Pmi

La Cgia di Mestre stima in 202 mila i posti di lavoro a rischio nel secondo semestre 2012, 172.000 dei quali coinvolgerebbero le pmi. Confesercenti rileva come la contrazione occupazionale riguardi soprattutto il lavoro autonomo, che rischia si perdere la tradizionale funzione di “schock absorber” della disoccupazione

Nuove prospettive buie per l’occupazione italiana giungono da alcuni accreditati centri di ricerca. L’incertezza per il perdurare di molte criticità nel nostro sistema e la sfiducia per le scelte di governo in materia di politica economica e sociale sembrano non placarsi nel comune sentire dell’imprenditoria nazionale, con conseguenze potenzialmente distruttive per la dinamica del mercato del lavoro. A pagarne le spese maggiori pare saranno soprattutto le aziende di piccole e medie dimensioni e il lavoro autonomo, che potrebbero perdere il proprio ruolo tradizionale di ammortizzatore sociale, di “schock absorber” cioè della disoccupazione. Parallelamente a simili considerazioni, alcuni recenti dati sembrano suggerire delle strade formative da percorrere in via preferenziale per avere migliori possibilità d’assunzione. Andiamo però con ordine.
La Cgia (Associazione artigiani e piccole imprese) di Mestre ha stimato in 202.000 unità i posti di lavoro a rischio in Italia nel secondo semestre dell’anno in corso. Di questi, circa 30.000 sono da ricondurre a lavoratori occupati in grandi aziende che hanno aperto un tavolo di crisi presso il ministero dello Sviluppo Economico, gli altri 172.000 riguardando invece persone alle dipendenze di piccole e medie imprese. La stima, frutto dell’elaborazione di dati Istat e di previsioni firmate Prometeia, va dunque ad aggiungersi al quadro già piuttosto nero delineato un paio di settimane fa dall’Istituto nazionale di statistica, che ha visto, nel secondo trimestre 2012, un aumento del 38,9% nel numero di disoccupati, rispetto allo stesso periodo del 2011 (soprattutto a Sud, dove sono stati individuati 339.000 disoccupati in più) e un incremento di 2,7 punti percentuali nel tasso di disoccupazione (dato dal rapporto tra le persone in cerca di un lavoro e la corrispondente popolazione di riferimento, esclusi gli inattivi), che si assesta ora al 10,5%. Il parallelo calo dell’occupazione (-0,2%, pari a 48.000 occupati in meno) è stato ricondotto principalmente a un calo dell’occupazione maschile (-1,5%, cioè -199.000 unità), compensato solo in parte dal protrarsi di un andamento positivo per l’occupazione femminile (+1,6%, pari a 151.000 unità). È scattato l’ennesimo allarme occupazionale tra i giovani (con un tasso di occupazione che scende dal 45% del secondo trimestre 2011 al 43,9% del secondo trimestre 2012, per i 15-34enni, e dal 19% al 18,9% per i 15-24enni), al quale si è contrapposto un aumento dell’occupazione per gli over 50, soprattutto per quelli a tempo indeterminato.
La previsione della Cgia non fa, allora, che aumentare il pessimismo per un mercato di lavoro ben poco vivace, la cui dinamica appare fortemente influenzata dal perdurare di alcune criticità e debolezze, lanciando nuovi segnali di incertezza a neodiplomati e neolaureati, alla ricerca di una crescita professionale. “Premesso che negli ultimi quattro anni la variazione dei posti di lavoro riferiti alla seconda parte dell’anno è sempre stata negativa” – ha dichiarato Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia – “la stima riferita al 2012 è comunque migliore solo al dato di consuntivo riferito al 2009”. Se, infatti, nel 2009 la forza lavoro diminuiva la propria consistenza di ben 290.166 unità nella seconda metà dell’anno, nel 2010 i posti di lavoro persi furono 74.870 e, nel 2011, 139.365, improntando un andamento in salita che, appunto, raggiungerà nel corso del 2012 un punto piuttosto elevato. La variazione occupazione dell’anno in corso ha conosciuto, in particolare, un incremento di 1,1 punti percentuali (pari a 243.734 posti) nel secondo trimestre, rispetto al primo e vedrà, al contrario, un decremento di 0,8 punti percentuali (-178.000 unità) nel terzo trimestre sul secondo e di 0,1 punti (-24.000) nel quarto trimestre sul terzo.
L’aspetto probabilmente più drammatico della stima targata Cgia riguarda la prospettiva occupazionale delle piccole e medie imprese: “Purtroppo” – ha proseguito Bortolussi – “in queste ore non si sta consumando solo la drammatica situazione dei lavoratori dell’Alcoa o dei minatori del Carbosulcis, ma anche quella di decine e decine di migliaia di addetti delle Pmi che rischiano di rimanere senza lavoro”. “Le ristrutturazioni industriali avvenute negli anni ’70, ’80 e nei primi anni ’90 presentavano un denominatore comune”, ha rilevato ancora. Il fatto, cioè, che “chi veniva espulso dalle grandi imprese spesso rientrava nel mercato del lavoro perché assunto in una pmi. Oggi anche queste ultime sono in difficoltà e non ce la fanno più a creare nuovi posti di lavoro”.
Da qui deriva l’accorato appello della Cgia al Governo, affinché intervenga per eliminare gli ostacoli alla crescita delle piccole realtà imprenditoriali, le quali “continuano ad essere l’asse portante della nostra economia”: fondamentale – sostiene Bortolussi – è innanzitutto “recepire in tempi brevissimi la Direttiva europea contro il ritardo dei pagamenti, per garantire una certezza economica a chi, attualmente, viene pagato mediamente dopo 120/180 giorni dall’emissione della fattura”. Per ridare slancio alle attività aziendali, di primaria importanza sarebbe poi agevolare l’accesso al credito, poiché “l’assenza di liquidità rischia di buttarle fuori mercato”. Ultimo ingrediente della ricetta anticrisi proposta dall’associazione è l’alleggerimento del carico fiscale “premiando anche i lavoratori dipendenti, altrimenti sarà estremamente difficile far ripartire i consumi interni”.
Non meno ottimistiche sembrano poi le prospettive occupazionali per il prossimo anno. Stando al rapporto Confesercenti-RefIl quadro macroeconomico per l’economia italiana” – presentato lo scorso mercoledì 12 settembre, presso la sede nazionale di Confesercenti, dal Presidente Marco Venturiil 2013 vedrà un probabile rallentamento della crisi, tuttavia una serie di stime in negativo lasciano poco spazio a eccessive speranze: Pil in discesa di 0,4 punti percentuali, consumi nazionali al -0,9%, investimenti al -1,6% e, soprattutto, un tasso di disoccupazione che raggiungerà quota 11,1%.
Secondo Confesercenti, inoltre, la contrazione occupazionale sembra essere molto più forte nel lavoro autonomo che in quello dipendente; la diminuzione dei consumi ha, infatti, colpito duramente una quota importante del lavoro indipendente tradizionale, rappresentato da commercianti al dettaglio, artigiani e microimprenditori. Il periodo di intensa recessione conosciuto dal settore edilizio (costituito in gran parte da lavoratori indipendenti e microimprese) ha, in particolare, accresciuto il fenomeno. Il risultato sono, allora, oltre 100.000 lavoratori costretti a interrompere la propria attività, “non potendo in molti casi – sostiene Confesercenti – “contare su alcuna forma di protezione sociale e di sussidio contro il rischio della disoccupazione”. Si tratta di una svolta considerata quasi epocale, in base alla quale il lavoro autonomo perde la sua tradizionale funzione nel nostro paese, quella cioè di ammortizzatore sociale, in grado di assorbire una quota elevata della disoccupazione, attraverso forme di autoimpiego. Anche il lavoro autonomo subisce, dunque, in definitiva, la debolezza dell’attuale congiuntura economica.
L’allarme per le ditte individuali è stato lanciato, poi, anche domenica scorsa al convegno di Confesercenti a Perugia, dove si è rilevato come in cinque anni, dal 2006 al 2011, il tasso di sopravvivenza di tali imprese dopo i primi cinque anni di attività sia diminuito del 6,8%, passando dal 63,8% al 57%. Nello stesso periodo, il tasso di sopravvivenza a 5 anni per le società di persone è diminuito invece del 4% (passando dal 63% al 59%), mentre per le società di capitali, il tasso risulta positivo del 4,6%. Complessivamente il tasso di sopravvivenza risulta negativo per 3,3 punti percentuali. “Senza una serie di interventi mirati”, ha evidenziato l’associazione,  “ rischiamo un’accelerazione del declino dell’imprenditorialità italiana, con alti costi sociali”, visto appunto il ruolo di “schock absorber” della disoccupazione. Con l’attuale crisi del lavoro – ha proseguito – “saranno sempre di più i disoccupati che tenteranno di inventarsi imprenditori per tornare nel mondo produttivo ” . Se è giusto, da una parte, favorire la creazione di nuove imprese, è “altrettanto giusto preoccuparsi di stabilizzare il radicamento di quelle esistenti, favorendo in questo modo il mantenimento dell’occupazione che c’è”: “Con il decreto-crescita, il Governo ha agito per favorire l’avvio di nuove imprese, garantendo ai giovani sotto i 35 anni la possibilità di aprire una Srl con un solo euro di capitale e senza sostenere spese notarili. Al provvedimento, però, non si è accompagnato un contestuale intervento teso a stabilizzare le imprese già attive”, ostacolate sempre più “dall’aumento dei costi e della pressione fiscale, dal crollo dei consumi e dalla stretta del credito”.
Da un sondaggio realizzato da Swg (società che si occupa di ricerche di mercato, di opinione, istituzionali, studi di settore e osservatori) per Confesercenti emerge, inoltre, che nei prossimi cinque anni saranno circa un quarto (23%) le Pmi costrette a chiudere la propria attività, contro un 43% che manterrà inalterata la propria situazione economica e un misero 17% che potrà godere di una certa espansione.
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Le scelte giuste per il futuro!

La laurea è certamente l’investimento più importante per i giovani. Ecco quali settori richiedono la specializzazione

Parallelamente a previsioni negative per il nostro tessuto imprenditoriale, alcuni indizi rilevati da Unioncamere Ministero del Lavoro cercano di delineare una nuova strada allo sviluppo occupazionale. Dopo aver intravisto nel settore cultura la nuova strada per il rilancio, i due enti sembrano ora lanciare un nuovo appello ai giovani italiani, incoraggiandoli a collocarsi in una posizione strategica, nelle proprie scelte di formazione.
Studiare continua ad essere l’investimento più importante per i giovani per contrastare sia la disoccupazione, sia il precariato”, è, infatti, l’invito del presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello: “Pur in un momento difficile come quello che stiamo vivendo, tante imprese mostrano di voler continuare a puntare sulla qualità. Senza l’apporto di risorse umane competenti, infatti, è difficile innovare, accrescere la produttività, essere competitivi”.
Sottolinea Unioncamere come la crisi stia portando ad un incremento della competizione aziendale, inducendo molte imprese a investire sempre più nella qualità dei prodotti e servizi da immettere sul mercato. Aumenta, di conseguenza, per l’anno in corso, il peso che la laurea ha sul totale delle assunzione programmate dalle imprese. Ciò non toglie che anche i “dottori” italiani saranno costretti a subire la generale tendenza di riduzione nelle assunzioni previste, con 15.000 unità in meno rispetto allo scorso anno.
Delle 407.000 assunzioni a carattere non stagionale complessivamente programmate dalle imprese per il 2012 (contro le 595.000 del 2011), 59.000 riguardano, allora, laureati (il 14,5% del totale, pari a 2 punti percentuali in più rispetto al 2011), 166.000 diplomati (il 40,9%, percentuale prossima a quella dello scorso anno, 41%), 50.000 qualifiche professionali (il 12,3%, in diminuzione di 1,2 punti sul 2011) e circa 132.000 persone prive di un titolo di studio specifico (il 32,3%, pari a -0,7% sul 2011).
Per quanto riguarda i laureati, il titolo di studio più ricercato dalle imprese, nella propria programmazione di assunzioni, è quello in Economia (più di 17.000 posti di lavoro previsti per i laureati in questa disciplina), seguito da quello in Ingegneria elettronica e dell’informazione (più di 7.000 posti richiesti, anche se, considerando tutti i diversi indirizzi di ingegneria, si superano addirittura i 15.000 posti), dagli indirizzi sanitari-paramedici e da quelli diretti all’insegnamento e alla formazione (circa 5.000 assunzioni previste in entrambi i casi). Con riferimento alla tipologia contrattuale, al 51,7% dei laureati le imprese intendono offrire un contratto a tempo indeterminato, al 7,7% l’apprendistato di alta formazione recentemente riformato, al 2,9% il contratto di inserimento e al 36,7% un contratto a tempo determinato.
Tra gli indirizzi più ricercati nelle previsioni di assunzioni di diplomati, troviamo quello amministrativo-commerciale (quasi 40.000 posti), quello meccanico (più di 15.000) e quello turistico-alberghiero (oltre 9.000), confermando il podio dello scorso anno. Sale l’indirizzo socio-sanitario (quasi 7.000 assunzioni previste, 1.000 in più del 2011), che “scalza” quello informatico (4.600 assunzioni previste) e quello elettrotecnico (oltre 4.000). Il 39,7% dei diplomati sarà assunto con contratto a tempo indeterminato, il 12,3% con apprendistato, l’1,8% con inserimento e il 43,8% con tempo determinato.
Gli indirizzi di qualifica professionale, infine, più richiesti dalle imprese sono quello turistico-alberghiero (più di 10.000 posti), quello socio-sanitario (circa 8.500 posti), quello meccanico (circa 7.600) e quello edile (circa 5.500 assunzioni previste). Al 40,4% dei giovani in possesso di qualifica professionale verrà offerto un contratto a tempo indeterminato, al 12% contratto di apprendistato, allo 0,6% contratto di inserimento e al 43,8% contratto a tempo determinato.
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Cultura, la nuova via per lo sviluppo occupazionale

Analizzando i dati Istat e Unioncamere, è possibile individuare le più recenti tendenze relative all’andamento occupazionale italiano. Diminuiscono le previsioni di assunzione per gli stranieri, mentre crescono quelle provenienti dalle imprese della cultura

In questi mesi l’economia italiana è stata caratterizzata dal perdurare di alcune criticità e debolezze, che si sono inevitabilmente riversate sulle dinamiche del mercato del lavoro. È scattato l’allarme occupazionale tra i giovani, soprattutto tra quelli residenti nel Mezzogiorno, sono diminuite le previsioni di assunzione per i lavoratori stranieri, si è lamentato un forte immobilismo nelle scelte occupazionali delle imprese, frutto in primis dell’incertezza e della sfiducia per gli esiti delle decisioni del governo in materia di politica economica e sociale.
Eppure alcuni indizi permettono di delineare una nuova strada per lo sviluppo nazionale. Collocarsi strategicamente in questa nuova strada nel corso delle proprie scelte di formazione e di professione potrebbe rappresentare una sorta di salvezza, nella speranza che intervengano presto anche interventi consapevoli dall’alto.
Cerchiamo però di andare con ordine e di analizzare nel dettaglio, dati alla mano, tutte le più recenti tendenze individuate nell’andamento occupazionale italiano.
Occupati e tasso di occupazione
Gli ultimi dati certi resi disponibili dall’Istat riguardano il secondo trimestre 2012, quando il numero degli occupati in Italia ha registrato, rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno, una diminuzione dello 0,2%, pari a -48.000 unità (passando da circa 23.094.000 a 23.046.000 occupati). Il dato è dovuto principalmente a un calo dell’occupazione maschile (-1,5%, cioè -199.000 unità), diffuso in tutto il territorio nazionale e compensato solo in parte dal protrarsi, soprattutto al Nord e nel Mezzogiorno, di un andamento positivo per l’occupazione femminile (+1,6%, pari a 151.000 unità).
Per la fascia compresa tra i 15 e i 64 anni, il tasso di occupazione (dato dal rapporto tra gli occupati e la popolazione di riferimento) si attesta, allora, nel secondo trimestre 2012, al 57,1%, calando di 0,1 punti percentuali rispetto al secondo trimestre 2011, con intensità leggermente più ampia nel Mezzogiorno (-0,2 punti percentuali, dove il tasso si posiziona al 44,2%) e con riferimento agli uomini (-1,1%, pari a un tasso del 66,8%); sale parallelamente al 47,5% il tasso di occupazione femminile (+0,8%).
Diminuisce l’occupazione giovanile, con un tasso che scende dal 45% del secondo trimestre 2011 al 43,9% del secondo trimestre 2012, per i 15-34enni, e dal 19% al 18,9% per i 15-24enni. Al calo dell’occupazione per i più giovani e per i 35-49enni, si contrappone l’aumento per gli over 50, soprattutto per quelli a tempo indeterminato.
Confrontando il secondo trimestre 2012 con quello 2011, il tasso di occupazione degli stranieri segnala una significativa riduzione (dal 63,5% al 61,5%), a fronte di un intenso calo per gli uomini (dal 77,5% al 72,7%) e di un contenuto accrescimento per le donne (dal 50,9% al 51,5%).
Tuttavia, considerando le stime su base annuale, se da una parte prosegue la significativa riduzione dell’occupazione italiana, con -133.000 unità (anche in questo caso pesa in primis la componente maschile, con -196.000 unità), dall’altra cresce quella straniera (+85.000 unità).
Alla modesta crescita delle posizioni lavorative dipendenti si contrappone il persistente calo di quelle autonome. Con riferimento ai diversi settori, si nota come l’agricoltura abbia registrato una crescita del numero di occupati nelle posizioni lavorative dipendenti e autonome del Nord e nelle sole posizioni alle dipendenze del Mezzogiorno. L’industria ha conosciuto una nuova e più robusta riduzione (-2,2% nel secondo trimestre 2012, rispetto allo stesso periodo del 2011, pari a -104.000 unità) su tutto il territorio e coinvolgendo sia dipendenti che indipendenti, soprattutto nelle imprese di medio- grande dimensione; anche nelle costruzioni l’occupazione continua a diminuire (-5,1%, pari a -98.000 unità), soprattutto per i dipendenti residenti nel Centro e, ancor più, nel Mezzogiorno. Il terziario riporta, infine, un moderato aumento (+0,6%, pari a 101.000 unità), dovuto esclusivamente all’aumento dell’occupazione dipendente, in particolare della componente più adulta (55 anni e oltre) e di quella a tempo parziale.
Calano, nel secondo trimestre 2012, le figure lavorative a tempo pieno (-2,3%, pari a -439.000 unità rispetto al 2011), soprattutto tra i lavoratori autonomi (-3,8%, pari a -196.000 unità) e tra quelli dipendenti a tempo indeterminato (-1,9%, pari a -236.000 unità), a fronte della sostanziale stabilità tra quelli a tempo determinato.
Aumentano parallelamente gli occupati a tempo parziale (del 10,9% su base annua, segnando un +391.000 unità), anche se si tratta principalmente di part-time involontari, accettati, cioè, in mancanza di alternative full-time.
Continua poi a crescere il numero dei dipendenti a termine (+4,5% pari a 105.000 unità), ma esclusivamente nelle posizioni a tempo parziale, coinvolgendo per circa i due terzi lavoratori di età inferiore a 35 anni e soprattutto nell’agricoltura, negli alberghi e ristorazione, nella sanità.
Disoccupati e tasso di disoccupazione
Cresce in modo considerevole, nel secondo trimestre 2012, il numero di disoccupati in cerca di occupazione (+38,9% rispetto allo stesso periodo del 2011, pari a +758.000 unità), fenomeno che coinvolge sia uomini sia donne e l’intero territorio nazionale, con un picco, in termini assoluti, a Sud, dove sono stati individuati 339.000 disoccupati in più, contro i 288.000 in più al Nord e i 132.000 in più al Centro (in termini percentuali è invece il Nord ad aver visto l’aumento più alto della disoccupazione, pari a +43,8%, seguito rispettivamente da Centro e Sud). I disoccupati in Italia si attestano, così, a 2.705.000 (1.475.000 sono uomini e 1.231.000 sono donne).
Circa la metà di tale aumento della disoccupazione è da ricondursi a persone con almeno 35 anni, mentre sono 586.000 i disoccupati tra i 15 e i 24 anni (152.000 in più rispetto al secondo trimestre 2011), pari al 9,7% della popolazione totale appartenente a questa fascia di età
Si amplia anche la disoccupazione straniera, con +58.000 uomini e +34.000 donne alla ricerca di lavoro, su base annua.
L’incremento dei disoccupati riguarda soprattutto persone che hanno perso la precedente occupazione (+48,1% nel secondo trimestre 2012 in confronto all’anno prima, pari a 448.000 unità), le quali arrivano a rappresentare il 51% del totale dei disoccupati. Sembra, tuttavia, innalzarsi pure il numero degli inattivi che, in possesso di passate esperienze lavorative, sono ora nuovamente alla ricerca di una professione (+32,6%, pari a 150.000 unità) e il numero delle persone alla caccia del primo impiego (+28,8%, pari a 159.000 unità).
Aumenta anche la disoccupazione di lunga durata (dodici o più mesi), che sale dal 52,9% del secondo trimestre 2011 all’attuale 53,1%.
Il tasso di disoccupazione (dato dal rapporto tra le persone in cerca di un lavoro e la corrispondente popolazione di riferimento, esclusi gli inattivi) risulta allora in crescita di 2,7 punti percentuali rispetto allo scorso anno, assestandosi al 10,5% (dal 6,9% del 2011 all’attuale 9,8% per gli uomini e dal 9% all’11,4% per le donne).
Al Nord la crescita percentuale del tasso di disoccupazione (dal 5,2% al 7,3%) è dovuta principalmente alla componente maschile, al Centro (dal 6,6% all’8,9%) le differenze di genere non appaiono rilevanti, infine nel Mezzogiorno l’incremento coinvolge soprattutto gli uomini (dall’11,6% al 16%), ma in misura significativa anche le donne (dal 15,6% al 18,9%).
Cresce il tasso di disoccupazione per gli stranieri (del 10,9 del 2011 al 13,6% del 2012), sia uomini (dall’8,5% al 12,1%) che donne (dal 14,1% al 15,4%).
Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni sale dal 27,4% del secondo trimestre 2011 al 33,9% del 2012, con un picco del 48% per le giovani donne del Mezzogiorno.
Inattivi e tasso di inattività
Rispetto al 2011, si riduce del 4,9% il numero degli inattivi (cioè i non occupati che non sono alla ricerca di un lavoro) tra i 15 e 64 anni, pari a -729.000 unità, frutto di un forte decremento della componente italiana (-809.000 persone, la maggior parte delle quali, 501.000, donne), solo in parte compensato dall’incremento di quella straniera (+80.000 unità). In base agli ultimi dati certi disponibili, si attestano a quota 14.288.000 gli inattivi in Italia.
La riduzione dell’inattività riguarda in misura maggiore le donne e, in termini assoluti, coinvolge principalmente il Mezzogiorno (– 334.000 unità pari a -4,9%) e il Nord (- 268.000 unità, cioè -4,8%), meno il Centro (-127.000 unità, comunque pari a -4,9%).
Diminuiscono soprattutto quanti non cercano e non sono disponibili a lavorare e, in quattro casi ogni dieci, si riducono gli inattivi della fascia tra i 55 e i 64 anni, rimasti presumibilmente nell’occupazione a causa dei vincoli sempre maggiori per l’accesso alla pensione.
Con riferimento alle motivazioni date per la mancata ricerca del lavoro, si rileva una crescita dello scoraggiamento (+15,3%, pari a 221.000 unità) e dei motivi non compresi tra quelli indicati (+6,5%, pari a 102.000 unità) e, per contro, una flessione dei motivi di studio (-2,6%), di quelli familiari (-8%, pari a -197.000 unità), di coloro che attendono l’esito di passate ricerche (-11,2%) e soprattutto delle persone non interessate a trovare un lavoro (-14,6%, pari a -675.000 unità).
Il tasso di inattività si attesta, allora, nel secondo trimestre 2012, tra i 15-64enni, al 36,1%, riducendosi di 1,8 punti percentuali sul 2011. Il calo coinvolge in misura maggiore le donne (dal 48,6% al 46,3%) rispetto agli uomini (dal 27% al 25,8%) e il Mezzogiorno (dal 48,8% al 46,6%). Il trend in discesa riguarda poi anche le donne straniere (dal 40,7% al 39,1%), mentre gli uomini stranieri conoscono un aumento del tasso di inattività (dal 15,3% al 17,2%).
Dati Unioncamere-Ministero del Lavoro: previsioni occupazionali
Se i dati pubblicati nei giorni scorsi dall’Istituto nazionale di statistica lasciano intravedere ben pochi spiragli di ripresa per l’occupazione nazionale, le stime riferite ai prossimi mesi e diffuse recentemente da Unioncamere e Ministero del Lavoro non fanno che confermare il difficile scenario, soprattutto per le più deboli economie meridionali.
Il clima di preoccupazione e instabilità che attualmente contraddistingue l’economia italiana – sostengono i promotori dell’indagine – spinge le imprese a improntare alla massima cautela i propri programmi di assunzione. In termini assoluti, sono, infatti, poco più di 631.000 le assunzioni di dipendenti che le imprese prevedono di effettuare nel 2012, cioè il 25% in meno rispetto al 2011. Allo stesso tempo si evidenzia una riduzione delle uscite attese (-18%), ferme a quota 762.000, denotando un contesto di crescente staticità occupazionale per le imprese, frutto probabilmente dell’incertezza per l’esito della riforma del mercato del lavoro. Il tasso di entrata (5,5%) risulta comunque inferiore rispetto a quello di uscita (6,7%), per questo il saldo occupati previsto per il 2012 risulta negativo per 130.510 unità. Si tratta – è bene sottolinearlo – di una contrazione occupazionale per i dipendenti relativamente più ridotta rispetto a quella registrata nel 2009-2010, quando si determinarono saldi negativi rispettivamente di 213.000 e 178.000 posti di lavoro. L’allarme occupazionale – ci dice ancora Unioncamere – sembra essere più forte al Sud, dato che sulle 70 province nelle quali il calo dell’occupazione dipendente andrà al di sotto della media nazionale (-1,1%), 35 sono del Meridione, partendo da Enna, Ragusa e Siracusa (che superano o si aggirano intorno al -3%) e finendo con Avellino (-1,3%). Unica eccezione sembra essere Napoli (-0,8%).
Prospettive d’assunzione per gli stranieri
Stime in negativo sono state poi registrate, sempre da Unioncamere e Ministero del Lavoro, anche con riferimento alle prospettive occupazionali degli immigrati nell’industria e nei servizi: nel 2012 le imprese prevedono infatti di assumere 22.420 stranieri in meno rispetto al 2011 (saldo tra i 60.570 posti messi a disposizione quest’anno e gli 82.990 dell’anno scorso, pari al -27%) e il calo si concentrerà maggiormente nelle imprese con meno di 50 dipendenti presenti al Nord. Ciononostante i dati confermano quanto quella immigrata sia ormai una componente fondamentale e strutturale della forza lavoro nazionale: nel 2012 dovrebbe, infatti, aumentare la quota dei lavoratori immigrati sul totale delle assunzioni (passando dal 16,3% dello scorso anno al 17,9% di quest’anno), poiché la domanda di lavoro rivolta al personale italiano dovrebbe calare in misura maggiore rispetto a quella rivolta al personale straniero.
Imprese della cultura dimostrano una tenuta occupazionale
Eppure, affianco a valutazioni e previsioni così poco incoraggianti, Unioncamere e Ministero del Lavoro intravedono anche qualche segnale di ripresa dal punto di vista occupazionale, identificando la strada della cultura come fondamentale per il rilancio. Le imprese che competono grazie alla qualità e alla cultura sembrano, infatti, dimostrare una particolare tenuta occupazionale: il numero di occupati del settore è cresciuto, dal 2007 al 2011, a un ritmo medio annuo dello 0,8% (circa 55.000 posti di lavoro in più complessivamente), a fronte di una flessione media annuale dello 0,4%; anche quest’anno, pur arretrando sotto i colpi della crisi, l’occupazione in queste imprese delinea una resistenza maggiore (-0,7%, pari a -4.900 dipendenti sul 2011) rispetto all’insieme delle altre imprese (-1,2%, pari a -125.600 unità). Le assunzioni stimate dalle imprese della cultura per il 2012 sono, in termini assoluti, 32.250 (di cui 22.880 non stagionali e 9.370 stagionali), pari al 5,6% del totale.
L’occupazione creata dalle imprese della cultura risulta orientata principalmente verso le professioni high-skill (costituiscono il 48,2% del totale assunzioni non stagionali previste, contro il 20% delle altre imprese). Forte attenzione viene posta, di conseguenza, al titolo di studio, ritenuto molto o abbastanza importante da parte di quasi due terzi delle imprese della cultura, a fronte di meno della metà nel caso delle altre aziende: la laurea è richiesta per il 28% delle assunzioni in programma (contro il 13,7% riferito alle altre imprese).
Gli indirizzi di studio più richiesti dalle imprese del sistema produttivo culturale sono quelli dall’elevato contenuto scientifico, tecnologico, e tecnico. Tra i primi cinque indirizzi di laurea richiesti, ad esempio, tre sono legati all’ingegneria (Ingegneria elettronica e dell’informazione è il più richiesto, pari al 36,7% del totale assunzioni di laureati previste), poi vi sono quello scientifico-matematico (6,5%) e quello economico (21,8%).
Le professioni culturali più ricercate sono gli “analisti e progettisti di software” (22%), seguiti dagli “operatori di apparati per la ripresa e la produzione audio-video” (8,8%) e dai “cuochi in alberghi e ristoranti” (6,6%). Elevata attenzione anche a figure in grado di studiare il mercato: previste oltre mille assunzioni non stagionali tra “tecnici della vendita e della distribuzione”, “tecnici del marketing” e “specialisti nei rapporti con il mercato”.
Ancor più importante viene considerata poi l’esperienza: la ritiene importante ai fini dell’assunzione il 63,6% delle imprese della cultura, contro 53,4% della media delle imprese.
Cercando personale altamente qualificato, competente e con esperienza, le imprese della cultura lamentano maggiori difficoltà nel reperire le figure di cui necessitano rispetto alle altre imprese, difficoltà legate principalmente alla carenze di preparazione nei candidati (o alla carenza dei candidati stessi, con riferimento ai profili low-skill richiesti, segno del declino di alcune professioni tra i più giovani).
Infine le imprese della cultura sembrano offrire una maggiore stabilità contrattuale rispetto alle altre imprese (le assunzioni a tempo indeterminato sono circa il 43%, contro il 41%).
Di fronte a simili considerazioni, ci si stupisce di come in Italia manchi “un quadro organico di politiche economiche basate sul potenziale produttivo del settore culturale”, come ha evidenziato Ferruccio Dardanello, presidente Unioncamere, in occasione della presentazione dei risultati. “È ancora diffusa l’idea” – ha proseguito – “che con la cultura non si mangi, ma i successi del Made in Italy, di cui tanta parte discende proprio dalla nostra cultura del fare e del vivere, vengono da questo patrimonio inesauribile”.
Utile sarebbe concentrare proprio sulle molte opportunità che si delineano nell’industria culturale gli sforzi di rinnovamento delle politiche sociali ed economiche del Belpaese. Le imprese italiane sembrano pronte a tendere le braccia a un nuovo paradigma di crescita, fondato sulla qualità, sulla creatività, sul giusto connubio tra innovazione e valorizzazione dei saperi locali. L’importanza strategica della cultura è stata spesso sottovalutata e sacrificata sull’altare dell’urgenza di sanare il debito pubblico. Delineare modelli di sviluppo capaci di comprendere pienamente la tendenza in corso sembra essere allora, in conclusione, la vera grande sfida da rivolgere al sistema politico italiano.
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Quanto pesa la cultura nell’economia italiana?

Uno studio promosso da Symbola e Unioncamere fa emergere l’importanza strategica dell’industria culturale nel contesto nazionale

Un cambiamento di paradigma nello sviluppo imprenditoriale italiano, capace di puntare strategicamente sul legame identitario col territorio e di rafforzare la riconoscibilità dell’offerta di beni e servizi, quale fattore competitivo su scala globale. È questa la tendenza intravista dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere, promotori – grazie anche al sostegno dell’assessorato alla Cultura della regione Marche – del Rapporto 2012 “L’Italia che verrà: Industria culturale, made in Italy e territori”.
Si tratta di una trasformazione certo graduale, ma sempre più evidente, al cui centro sembra esservi un modello aziendale fondato sulla qualità, sulla creatività, sul giusto connubio tra innovazione e valorizzazione dei fattori e dei saperi locali, sulla salvaguardia delle risorse ambientali.
La cultura – si legge nella premessa al report – rappresenta non solo il passato, “ma soprattutto presente, progresso e sostenibilità”, essa è “l’origine e, allo stesso tempo, la frontiera della competitività del nostro made in Italy”. Un rapporto intrinseco, quello tra economica e cultura, che ha da sempre caratterizzato il successo internazionale delle nostre produzioni d’eccellenza e che impone, oggi più che mai, di rafforzarsi e rinnovarsi.
L’indagine ha inteso, allora, evidenziare il ruolo, all’interno del contesto italiano, di una cultura vista come infrastruttura immateriale capace di generare molta più ricchezza di quanto si sia solitamente inclini a pensare. Si è cercato, in altri termini, di quantificare il peso specifico della cultura nell’economia nazionale e il quadro che ne è uscito sembra essere, in fondo, piuttosto incoraggiante, in termini di capacità di creare valore aggiunto, occupazione e proiezione sui mercati internazionali, con ampi margini di sviluppo nel prossimo futuro.
Eppure, nel confronto con gli altri Paesi europei, l’Italia si è spesso dimostrata inadeguata nell’offrire giusta considerazione e collocazione alla cultura, nell’ambito delle proprie scelte di politica economica: a seguito della profonda crisi che ha coinvolto il nostro territorio, la cultura ha subito pesanti tagli dal punto di vista del finanziamento pubblico, non si è cercato di far leva sulla sua intensa forza anti-congiunturale, potenzialmente in grado di ridare un impulso significativo alla produttività e alla competitività. Nella volontà costante di sanare il debito pubblico, si è spesso scelto di sacrificare la cultura, escludendola dalla definizione di nuovi modelli di sviluppo, totalmente orientati in direzione dell’innovazione scientifica e tecnologica più canonica e dei grandi temi dell’energia, della logistica, dell’ICT.
Tale limite deriva fondamentalmente dall’incapacità di comprendere le interdipendenze strutturali tra i vari ambiti della creatività, che imporrebbero di sostenere proprio quei settori che, pur non profittevoli di per sé, costituiscono un decisivo laboratorio di sperimentazione e innovazione, dall’impatto molto forte su altri settori considerati tipicamente strategici (come accade, ad esempio, con riferimento a molte attività nel campo delle arti visive, funzionali al manifatturiero del design e della moda).
Non poche sono le evidenze che, a livello europeo, dimostrano la forza trainante dei settori culturali e creativi per la crescita: esiste, ad esempio, una netta relazione tra livello di concentrazione delle industrie creative (in termini di occupazione settoriale) e prosperità in termini di PIL pro capite. D’altra parte, le specificità italiane nel sistema di interdipendenze produttive, se comprese e opportunamente valorizzate, potrebbero – sostengono i fautori del rapporto – costituire la base di un approccio nuovo, autoctono e fruttuoso all’evoluzione strategica della nostra economia.
Andiamo però con ordine. Nel rapporto si precisa, innanzitutto, cosa si intenda per sistema produttivo culturale (o più semplicemente industrie culturali): “quel complesso di attività economiche d’impresa che – partendo dalle basi di un capitale culturale riguardante non solo il patrimonio storico, artistico e architettonico, ma anche l’insieme di valori e significati che caratterizzano il nostro sistema socio-economico – arrivano a generare valore economico ed occupazionale, concorrendo al processo di creazione e valorizzazione culturale”.
Nel 2011 il valore aggiunto prodotto dalle industrie culturali italiane ammonta a quasi 76 miliardi di euro, pari al 5,4% della ricchezza totale dell’economia (percentuale in leggera crescita se confrontata con il 5,3% relativo al 2007, anno appena precedente alla crisi). Le risorse umane impegnate nelle imprese culturali sono pari a circa 1 milione e 390 mila persone, corrispondenti al 5,6% del totale degli occupati del Paese (in incremento di tre decimi di punto sul 5,3% stimato con riferimento al 2007).
Nel quadriennio 2007-2011 la crescita nominale del valore aggiunto delle imprese operanti nel settore della cultura è stata dello 0,9% annuo, più del doppio rispetto all’economia italiana nel suo complesso (+0,4% annuo). Parallelamente si registra una particolare tenuta occupazionale dell’industria culturale, nonostante la crisi: nel medesimo periodo, il numero di occupati è cresciuto a un ritmo medio annuo dello 0,8%, a fronte di una flessione dello 0,4% riscontrata per l’intera economia nazionale.
Nel 2011 in Italia il saldo della bilancia commerciale del sistema produttivo culturale ha registrato un attivo per 20,3 miliardi di euro (contro i -24,6 miliardi registrati a livello di economia complessiva), contribuendo alla ripresa, seppur contenuta, del PIL tra il 2010 e la prima parte del 2011. L’export di cultura vale oltre 38 miliardi di euro e costituisce il 10% dell’export complessivo nazionale. L’import è pari a 17,8 miliardi di euro e rappresenta il 4,4% del totale.
La ricerca non limita il proprio campo d’osservazione ai settori tradizionali della cultura e dei beni storico-artistici, al contrario considera l’importanza di cultura e creatività nel complesso delle attività economiche italiane, nei centri di ricerca delle grandi industrie, nelle botteghe artigiane, negli studi professionali. Quattro sono i macro settori che si è scelto di analizzare: industrie culturali (film, video, videogiochi e software, musica, stampa), industrie creative (architettura, comunicazione e branding, artigianato, design), patrimonio storico-artistico architettonico e, infine, performing art e arti visive.
A vantare le maggiori percentuali di crescita media annua, nel periodo 2007-2011, sono le performing arts e le arti visive (+1,3% in termini di persone occupate e +3,6% per quanto riguarda il valore aggiunto), buona anche la dinamica registrata dalle industrie creative, con riferimento al valore aggiunto (+1,7%). Subisce, invece, un forte declino il patrimonio storico-artistico, diminuendo di 9,4 punti percentuali il proprio peso in termini di valore aggiunto e di 1,1 punti con riferimento al numero di occupati.
In termini assoluti sono le industrie creative e quelle culturali a contribuire maggiormente – secondo gli ultimi dati disponibili, quelli riferiti al 2011 – allo sviluppo economico e occupazionale: le prime producono valore aggiunto per quasi 35 miliardi e 716 milioni di euro, pari al 47,1% dell’intero comparto cultura, e danno occupazione a più di 743 mila persone, pari al 53,5%; le seconde incidono per il 46,5% sul valore aggiunto creato (pari a 35 miliardi e 273 milioni di euro) e per il 39,1% sull’occupazione (543 mila impiegati). Quota molto più contenuta, invece, per le performing arts e arti visive (5% del valore aggiunto, pari a 3 miliardi e 755 milioni di euro, e 5,9% dell’occupazione, pari a 82 mila unità) e, soprattutto, per le attività private collegate al patrimonio storico-artistico (1,4% del valore aggiunto, cioè 1 miliardo e 61 milioni di euro, e 1,5% dell’occupazione, cioè 21 mila persone).
Da un punto di vista geografico, nel Nord-Ovest si concentra la quota più consistente di prodotto e di occupazione nel Paese, pari a più di un terzo (rispettivamente 35%, pari a 26 miliardi e 543 milioni di euro, e 31,5%, pari a 438 mila occupati) del totale, soprattutto grazie al ruolo esercitato dalla regione Lombardia. Guardando, tuttavia, alla capacità del sistema culturale di incidere sull’economia del territorio, è il Centro la ripartizione che manifesta la percentuale più elevata (6,1% in termini di valore aggiunto, pari a poco più di 19 miliardi e 29 milioni di euro, e 6,3% per gli occupati, pari a 337 mila unità). Seguono il Nord-Ovest, appunto, che dal settore crea il 5,9% della propria ricchezza, il Nord-Est, che da esso vede arrivare il 5,5% del valore aggiunto, e il Mezzogiorno con appena il 3,8%.
Tra le regioni, in testa alla classifica per incidenza del valore aggiunto della cultura sul totale dell’economia vi è il Lazio (6,8%) seguito a stretto giro da Marche, Veneto e Lombardia (tutte e tre attestate a quota 6,3%), quindi dal Piemonte (5,8%).
Considerando, invece, l’incidenza dell’occupazione delle industrie culturali sul totale dell’economia, risulta in testa il Veneto (7%), seguito dalle Marche (6,9%), dal Friuli Venezia Giulia (6,4%), dal Lazio e dalla Toscana (entrambe al 6,3%).
Sia con riferimento al valore aggiunto sia per quanto riguarda gli occupati, le ultime tre posizioni, per contributo del sistema produttivo culturale all’economia del territorio, sono occupate dalla Calabria (3,5% valore aggiunto, 4,1% occupazione), dalla Sicilia (3,2% valore aggiunto, 4% occupazione) e dalla Liguria (3,3% valore aggiunto, 4,1% occupazione).?
Per quanto riguarda i dati provinciali, la graduatoria nazionale pone Arezzo al primo posto, sia con riferimento al valore aggiunto sia per quanto concerne gli occupati del settore cultura (rispettivamente 8,4% e 9,8% del totale dell’economia aretina). Con riferimento al primo parametro, seconde classificate, a pari merito, sono le province di Pordenone e Milano (entrambe all’8%), seguite da un altro ex equo, Pesaro e Urbino e Vicenza (7,9%). Forte l’incidenza del valore aggiunto della cultura anche a Roma (7,6%), Treviso (7,5%), Macerata e Pisa (entrambe al 6,9%) e Verona (6,8%). Nelle ultime posizioni, oltre a province del Sud quali Sassari, Caltanissetta e Taranto, si collocano anche le province toscane di Massa-Carrara e Livorno e la provincia ligure di La Spezia. ?Per quanto concerne, invece, il peso a livello occupazionale del comparto cultura sul totale dell’economia, subito dopo Arezzo troviamo Pesaro e Urbino (9,5%), Vicenza (9,1%), Pordenone (8,6%) e Treviso (8,5%), Pisa (7,9%), Milano (7,8%), Macerata (7,7%), Firenze (7,6%), Monza e Brianza (7,4%).
I dati finora riportati si riferiscono alle attività più prettamente imprenditoriali collegabili alla cultura. Tuttavia il sistema produttivo culturale implica anche una componente di origine pubblica, legata soprattutto alla gestione e alla tutela del patrimonio, nonché un’anima non profit. Aggiungendo il contributo di queste due ulteriori “anime”, il sistema produttivo culturale nel suo complesso arriva a oltre 80 miliardi di valore aggiunto e più di 1,48 milioni di occupati. Aumenta di conseguenza anche l’incidenza del settore culturale sul totale dell’economia: dal 5,4% al 5,7% per quanto riguarda il valore aggiunto, e dal 5,6% a 6% con riferimento all’occupazione.
Al di là della componente pubblica e di quella nonprofit, l’industria culturale italiana si inserisce in una filiera ben più ampia riguardante settori che non svolgono attività culturale, ma che sono attivati proprio dalla cultura. Una filiera articolata e diversificata, della quale fanno parte: attività formative, produzioni agricole tipiche, attività del commercio al dettaglio collegate alle produzioni dell’industria culturale, turismo, trasporti, attività edilizie, attività quali la ricerca e lo sviluppo sperimentale nel campo delle scienze sociali e umanistiche.
Se si considera, allora, l’incidenza dell’intera filiera delle industrie culturali, il valore aggiunto prodotto cresce dal 5,7% (riguardante il nucleo delle attività pubbliche, private e nonprofit) al 15% del totale dell’economia nazionale, passando da 80,8 a 211,5 miliardi di euro. Aumenta parallelamente di tre volte il peso della cultura sull’occupazione, passando dal 6% al 18,1%, con un numero di occupati che da 1,48 milioni (sempre considerando imprese, istituzioni pubbliche e nonprofit) arriva a 4,48 milioni di unità.

La forte intersettorialità dell’industria culturale esige, dunque, di adottare una logica di networking capace di affrontare le nuove sfide poste da un contesto sempre più globale. I dati esposti smentiscono – rilevano infine i promotori – chi descrive la cultura “come un settore non strategico e rivolto al passato”, imponendo di considerare piuttosto questo settore come “una delle leve per ridare ossigeno ad un Paese messo a dura prova dalla perdurante crisi”.

Pubblicato su: PMI-dome

Immigrati imprenditori votati all’integrazione

Un’indagine del CNEL rivela il profilo socio-demografico degli imprenditori immigrati in Italia, valutando le implicazioni economiche e sociali della loro forte presenza

In barba a facili luoghi comuni e a fedi politiche tanto passionali quanto illogiche, pare che gli imprenditori immigrati siano piuttosto diffusi in tutto il territorio nazionale, non solo nelle aree dei distretti industriali del Nord, siano ben integrati con le piccole imprese italiane, assumano personale e collaboratori autoctoni, siano motivati, propensi al rischio e, soprattutto, alla crescita, vista come via preferenziale per il superamento della crisi.

A rivelarlo è stata l’indagine pluriennale titolata “Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori”, condotta dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, CNEL – attraverso l’Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri e il Dipartimento di studi sociali e politici – e dalle Università di Milano, Pavia e Catania, grazie anche al coinvolgimento, a livello locale, delle principali associazioni di rappresentanza degli interessi degli artigiani e della piccola impresa (Confartigianato e CNA).

Presentata lo scorso 28 novembre presso la sede romana del CNEL, la ricerca ha intesto coniugare approccio quantitativo e qualitativo e ha concentrato, in particolare, la propria attenzione su sei aree locali dove la presenza di imprese di immigrati è più diffusa e caratterizzata settorialmente; in questa sede ci interessa, tuttavia, riportare alcune riflessioni di carattere generale circa le tendenze e le evidenze emerse.

L’Italia rappresenta il Paese con la maggior diffusione assoluta di piccola imprenditorialità in Europa: secondo dati Eurostat, su un totale di 20,9 milioni di Small and Medium Enterprises, SME (definite a livello europeo come le imprese indipendenti con meno di 250 addetti ovvero meno di Euro 50 milioni di fatturato e suddivise in medie imprese, dai 249 ai 50 dipendenti, piccole imprese, dai 49 ai 10 dipendenti, micro imprese, con meno di 10 dipendenti e imprese individuali con nessun dipendente), presenti in Europa (pari al 99,8% del totale imprese), l’Italia contribuisce con ben 3.947.000 unità, di cui il 94,5% sono micro-imprese; in altri termini, le imprese italiane rappresentano il 19% circa del totale imprese stimato nei 27 Pesi facenti parte dell’Unione Europea. La diffusione delle micro imprese rappresenta una peculiarità del contesto italiano, le cui cause sono state individuate nelle caratteristiche strutturali della nostra economia e nelle barriere istituzionali colpevoli di imporre costi crescenti al superamento di certe soglie dimensionali; tale peculiarità, in ogni caso, ha rappresentato nel tempo un terreno fertile per l’insediamento e lo sviluppo dell’imprenditorialità immigrata: è stata, infatti, dimostrata una forte correlazione tra diffusione di imprese autoctone e di imprese facenti capo ad immigrati, in un regime di complementarietà tra le due (che non esclude comunque alcuni casi di concorrenza diretta) e di parziale condivisione dei fattori che ne determinano la presenza e le difficoltà.

Il peso delle imprese immigrate nelle economie provinciali sembra essere maggiore nel Nord e nelle aree dei distretti industriali (con qualche eccezione in alcune provincie del Nord-Est) e i fattori che determinano questo peso sembrano essere principalmente tre: il livello di benessere economico provinciale, misurato attraverso il PIL locale pro capite; il grado di integrazione locale degli immigrati, stimato attraverso l’indice di integrazione sociale pubblicato annualmente dal CNEL; infine la dotazione locale di capitale sociale, misurata attraverso una serie di indicatori elaborati nel corso del Progetto ministeriale di rilevante interesse nazionale, PRIN. Tali indicatori di successo – riconducibili, come si nota, solo in parte alla sfera economica e facenti capo in gran parte alla dimensione sociale – sono, di fatto, gli stessi previsti per qualsiasi attività imprenditoriale autoctona.

L’indagine del CNEL è stata condotta nel corso del 2010 su un campione di 200 immigrati imprenditori, provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo, dai paesi dell’est europeo (anche paesi neo-comunitari come la Romania), dai paesi dell’Africa sub-sahariana e dai paesi asiatici (Cina e il sub-continente indiano), dunque da quei paesi che maggiormente hanno espresso capacità imprenditoriale; essa ha coinvolto, accanto ad imprenditori propriamente detti, anche un sottocampione di titolari di imprese individuali e i settori considerati sono stati quelli in cui maggiore è la presenza di immigrati (nell’ordine: edilizia, commercio, industria metalmeccanica, industria tessile e abbigliamento, servizi). Lo studio arriva, allora, a delineare il profilo socio-demografico dell’imprenditore immigrato: un uomo (solo nel 10% dei casi si ha avuto a che fare con imprenditrici, concentrate quasi esclusivamente tra gli immigrati cinesi) giovane, di circa 41 anni, inserito in nuclei di convivenza (risulta sposato l’85% degli intervistati, alcuni dei quali, soprattutto egiziani, con italiane) con più figli rispetto all’omologo italiano (l’80% ha figli) ed una formazione scolastica discreta, generalmente maturata nel paese d’origine, seguita da un iter lavorativo che vede delle prime esperienze in qualità di dipendente sempre nel paese d’origine, emigrazione in Italia attorno ai 24 anni, lavoro generico alle dipendenze in Italia e avvio dell’attività imprenditoriale attorno ai 33 anni.

Tra le motivazioni all’immigrazione troviamo innanzitutto il desiderio di promozione (41%), probabilmente grazie a delle condizioni economiche originali tendenzialmente favorevoli (il 37% degli intervistati proviene da famiglie di commercianti, dirigenti, piccoli imprenditori e professionisti, il 18% da famiglie di tecnici o impiegati, l’82% proviene da ambienti sociali urbani abbastanza privilegiati e il 91% dichiara di aver goduto di condizioni economiche originarie superiori o in linea con la media). Persistono, tuttavia, anche motivazioni economiche dettate da un peggioramento della propria situazione (43%); infine il 26% degli intervistati imputa la scelta di spostarsi alla personale propensione al rischio e all’avventura (26%).

La decisione di mettersi in proprio non rappresenta, poi, solitamente, una via d’uscita dalla disoccupazione (condizione che coinvolgeva solo il 12% del campione) o un’induzione da parte del precedente datore di lavoro, ma sembra essere stata libera, dettata dalla volontà di guadagnare di più, di essere autonomo e di valorizzare le proprie capacità e conoscenze nel settore; il 77% degli intervistati ha fondato l’azienda, il 21% l’ha rilevata e il 2% l’ha ereditata.

Fondamentale il ruolo della famiglia nella fondazione e gestione dell’attività (come per la piccola imprenditoria autoctona, del resto): il 58% degli intervistati dichiara di avere un parente a sua volta titolare dell’impresa, nel 19% dei casi i familiari hanno contribuito a fornire il capitale iniziale, un terzo degli imprenditori immigrati coinvolge i parenti nell’attività aziendale e il 30% dell’occupazione totale generata riguarda familiari.

Il 35,5% del campione ha assunto la forma di lavoratore autonomo, privo di dipendenti, il restante 64,5% possiede un’impresa che coinvolge un’occupazione media di 3,7 addetti, con un intervallo che va da 1 a 28 dipendenti (se si aggiungono le varie collaborazioni parasubordinate, stagionali e le varie consulenze, l’occupazione media sale di un punto, con un range da 1 a 36 addetti).

Dal punto di vista dell’innovazione tecnologica, le imprese di immigrati non sembrano essere particolarmente all’avanguardia: solo nel 38% dei casi (39,5% tra gli imprenditori e 35,2% tra gli autonomi) si usa la posta elettronica e nel 15% (18,6% imprenditori contro 8,5% autonomi) si ha a disposizione un sito internet. Il 19% ricorre alla pubblicità (24,8% contro 8,5%) e il 16,5% (24,0% contro 2,8%) utilizzo un marchio che richiama la nazionalità del titolare.
Come avviene per gli imprenditori autoctoni, anche per gli imprenditori immigrati la buona riuscita dell’attività imprenditoriale dipende, in buona parte, dalla capacità di accedere alle tre principali forme di capitale: capitale economico (che consiste nella “disponibilità di risorse monetarie, che possono essere investite”), capitale culturale (che rappresenta l’insieme “delle conoscenze e delle esperienze che l’imprenditore ha acquisito mediante programmi di formazione formale o informale e mediante l’apprendimento delle pratiche decisionali e dei comportamenti appropriati per la soluzione di problemi riguardanti l’attività”) e capitale sociale (la “dotazione individuale di relazioni sociali relativamente stabili e basate sulla reputazione, un grado di essere mobilitate dal soggetto per raggiungere i propri scopi”).
Con riferimento, innanzitutto, al capitale economico, si nota un’elevata capacità di autofinanziamento tra gli immigrati che decidono di dare avvio ad un’impresa, possibile grazie ad un precedente periodo di “accumulazione” alle dipendenze di qualcuno: il 66,8% degli intervistati non ha avuto bisogno di capitali di terzi e il 10,6% coinvolge familiari e parenti nel rischio di impresa. Il sistema creditizio locale si dimostra, poi, particolarmente capace nel sostenere gli investimenti di avvio, per questo motivo gli imprenditori immigrati riescono ad ottenere prestiti dalle banche in misura maggiore rispetto ai prestiti da familiari e parenti (9,0% contro 8,5%). L’accesso al credito iniziale non sembra costituire un problema forse anche perché molte tra le attività avviate non richiedono un’elevata dotazione di capitale iniziale (considerazione vera per il piccolo commercio, ma non per l’attività industriale metalmeccanica o dell’abbigliamento).

Superata la fase iniziale, nel corso del suo sviluppo, le aziende sembrano tuttavia aumentare la propria domanda di capitale: il 69,5% degli intervistati ha richiesto prestiti e nel 30,5% dei casi si sono rivolti a banche o ad associazioni di categoria.

Per quanto riguarda il capitale culturale, emerge che la preparazione scolastica media dei soggetti è di 12,4 anni di studio, con un titolo conseguito per la maggior parte dei casi nel paese di origine. Il 16% degli intervistati risulta laureato. L’anzianità dell’attività imprenditoriale, indicativa della specifica esperienza maturata, è di oltre 7 anni e la conoscenza delle lingue – dell’italiano in particolare – risulta fondamentale, anche se esistono esempi (come la realtà imprenditoriale cinese di Prato) in cui si colma questa mancanza attraverso l’assunzione di personale autoctono.

Infine vediamo la dotazione di capitale sociale. Si evidenzia come l’ampiezza della rete di relazioni sia maggiore nelle aziende di più ampie dimensioni, tra gli imprenditori piuttosto che tra i lavoratori autonomi e tra le imprese che hanno meglio resistito alla crisi in termini di fatturato.

Appartengono a questo network di relazioni in primis italiani (39,6%), seguono familiari e parenti (37,4%), connazionali (18,9%) e stranieri non connazionali (solo 4,1%). Del resto i buoni rapporti con gli autoctoni sono dichiaratamente considerati fondamentali per avere successo negli affari, molto più importanti dei rapporti con connazionali e familiari. Le relazioni interpersonali sono, poi, considerate più rilevanti rispetto all’adesione formale a qualsiasi associazione di categoria (con riferimento a quest’ultima, si nota come gli imprenditori immigrati privilegino le associazioni italiane di categoria, piuttosto che quelle tra connazionali).

Il rapporto ha inteso valutare, inoltre, il grado di integrazione economica e sociale degli imprenditori immigrati.
Con riferimento al primo parametro, si evidenzia come il 66,5% dei clienti siano italiani e come nella metà dei casi si abbia a che fare con un numero di clienti non superiore ai 5. Il 77,3% degli intervistati si rivolge a fornitori italiani, mentre le reti co-etniche di subfornitura interessano soltanto l’11,1% dei casi e soprattutto le imprese con dipendenti (15,7%, contro un 2,8% riferito ai lavoratori autonomi). Le funzioni contabili, amministrative e di applicazione della normativa vengono implementate attraverso la strategia del make or buy: solo le competenze informatiche provengono dall’interno, le altre tendono ad essere esternalizzate, con il ricorso prevalentemente a consulenti italiani (fattore che incrementa il mercato delle consulenze aziendali), ma anche ad associazioni imprenditoriali locali.
Dunque l’integrazione economica passa attraverso il rapporto diretto con operatori italiani e si fa in parte subalterna per i lavoratori autonomi, che spesso “dipendono” da un solo cliente, ma cercano riscatto attraverso l’ala protettiva associazionista.

Con riferimento all’integrazione sociale, emerge che il 14% degli intervistati ha ottenuto la cittadinanza italiana, il 4,5% vive con un partner di nazionalità italiana e, tra coloro che hanno famiglia, l’83,9% ha figli; quasi la metà (47,7%) ha almeno tre figli (dato superiore alla media italiana). Da questi dati deriva, dunque, un buon livello di radicamento sociale. Il 6,6% degli imprenditori intervistati ha, inoltre, assunto dipendenti italiani (percentuale che sale al 22,2% se si considera l’intera vita aziendale) e il 5,1% si avvale di rapporti di collaborazione con italiani.
Al di là di alcune questioni tipicamente legate alla loro condizione – corsi di italiano e di formazione per la gestione, semplificazione amministrativa per il permesso di soggiorno, diritti politici e previdenziali (pensione fruibile anche nel Paese d’origine), discriminazione e diffidenza di istituzioni e singoli – gli immigrati condividono con gli autoctoni numerose problematiche legate all’attività imprenditoriale: richiesta di riduzione delle tasse e di agevolazioni finanziarie e creditizie, richiesta di maggiori controlli per evitare comportamenti sleali, richiesta di aiuto nel recupero dei crediti.
Al pari delle aziende autoctone, inoltre, quelle immigrate considerano la reputazione sul mercato il principale fattore di forza dell’attività, con la conseguente necessità di puntare più sulla qualità che sul prezzo; esse, poi, considerano la concorrenza con le altre imprese straniere e la dipendenza da pochi clienti le principali fonti di debolezza.
Il 16% degli intervistati, infine, mantiene rapporti d’affari con il Paese d’origine (soprattutto cinesi e senegalesi), acquistando beni e servizi o vendendo i propri prodotti o facendo investimenti.

I risultati della ricerca mostrano, allora, in conclusione, che “gran parte degli imprenditori intervistati ha conquistato la cittadinanza economica ed è stato incluso in modo irreversibile nel tessuto delle piccole imprese che operano in Italia, con l’auspicio che queste piccole imprese diventino progressivamente medie imprese”; “il percorso verso la cittadinanza sociale […] è più lungo e forse coinvolgerà la seconda generazione, quella dei figli nati in Italia”: “per essi indugiare ulteriormente nel riconoscimento dei diritti politici nuocerebbe anzitutto a noi italiani”.

L’editoria si tinge di rosa

In un contesto economico caratterizzato dal forte divario tra il ruolo maschile e quello femminile, il settore editoriale sembra favorire sempre più l’ingresso delle donne

In occasione della celebrazione, l’8 marzo, del ruolo della donna nella società italiana, si è da più parti posto l’accento sull’esigenza di ridurre le discriminazioni di genere e i soprusi e di favorire l’ingresso dell’universo femminile nel mondo del lavoro, consentendo, in particolare, alle madri una reale conciliazione tra lavoro e famiglia.

Ad apertura del secondo convegno organizzato lo scorso 7 marzo dalla Banca d’Italia sul ruolo delle donne nell’economia italiana, il governatore Ignazio Visco ha sottolineato la necessità, per il nostro Paese, di ideare e attuare delle riforme strutturali, affinché gli sforzi fatti per il raggiungimento di una stabilità finanziaria possano dirsi realmente efficaci e affinché si possa sperare di raggiungere l’obiettivo, condiviso a livello europeo (strategia “Europa 2020”), di una crescita “intelligente, sostenibile ed inclusiva”.

Tali riforme dovrebbero essere volte a recuperare una serie di divari, primo tra tutti quello relativo all’occupazione femminile. Ricorda Visco come nel Mezzogiorno le donne occupate siano solo tre su dieci e come nel Centro-Nord, dove il tasso di occupazione femminile appare più elevato (55%), lo scarto con il tasso maschile sia di circa 18 punti percentuali; sugli oltre due milioni di giovani che oggi in Italia non studiano, non lavorano e non partecipano a un’attività formativa, prosegue Visco, ben 1,2 milioni sembrano essere donne. Impegno comune dev’essere, allora, quello di comprendere e rimuovere i fattori alla base di questa carenza strutturale, “anche se in qualche caso ciò significa contrastare rendite di posizione o interessi particolari”: “recuperare i divari rispetto alla partecipazione al mercato del lavoro femminile, alla mancata valorizzazione di queste competenze, trasformare una grave debolezza in una straordinaria opportunità è un obiettivo che non possiamo non porci”, “ne va del nostro futuro”.

Stando alle stime recentemente esposte da Bankitalia, vi sarebbe una relazione positiva tra aumento del tasso di occupazione femminile, crescita del PIL e conseguente riduzione del rischio di povertà: un’occupazione al 60%, definito a livello europeo dal Trattato di Lisbona, comporterebbe – anche ipotizzando un effetto negativo della produttività di 0,3 punti percentuali, dovuto ad un ingresso così massiccio di forza lavoro – un aumento del PIL pari al 7%.

Alcuni dati Eurostat hanno, poi, rivelato come, in tutti gli Stati appartenenti all’Unione Europea, il rischio di povertà o di esclusione sociale sia più alto tra le donne che tra gli uomini: seppur più numerose degli uomini (257 milioni di donne, contro 245 milioni di uomini; la proporzione relativa è di 105 donne ogni 100 uomini, proporzione che aumenta con l’avanzare dell’età, arrivando a 138 donne ogni 100 uomini per gli over 65), le donne a rischio di povertà o di esclusione sociale sembrano essere, in base agli ultimi dati disponibili, ben 62 milioni (pari al 24,5% del totale di tutte le donne), contro i 54 milioni di uomini (22,3% del totale). Le differenze più marcate in tal senso si registrano proprio in Italia, dove il rischio è riferito al 26,3% delle donne, contro il 22,6% degli uomini; seguono Austria (rispettivamente 18,4% e 14,7%) e Slovenia (20,1% e 16,5%). Le differenze minori si evidenziano, invece, in Estonia, Lettonia, Lituania e Ungheria, dove il gap è inferiore ad un punto percentuale.

Con riferimento, poi, al tasso di occupazione nei Paesi dell’Europa 27, l’Eurostat ci dice che esso è pari al 63,8% fra le donne (dai 25 ai 64 anni), contro il 77,5% degli uomini, per uno scarto del 13,7%. Le differenze, tuttavia, si riducono in relazione al livello di istruzione: ad un basso livello di istruzione, corrisponde un’occupazione del 43,3% tra le donne e del 65,2% tra gli uomini (21,9% il gap); ad un’istruzione media, il tasso è del 66,6% per le donne e del 79,1% per gli uomini (12,5% il gap); ad un livello di istruzione elevata, infine, il tasso è dell’80,6% fra le donne e all’87,4% fra gli uomini (il gap si riduce al 6,8%). In Italia, in particolare, la percentuale di occupazione sembra essere del 51.4% per le donne e del 75.8% per gli uomini: con un livello di istruzione basso, il tasso di occupazione femminile è del 32.5%, quello maschile del 68%, con una differenza di ben 35,5 punti percentuali; tra coloro che hanno un’istruzione media, lo scarto rimane piuttosto elevato, pari a circa 20 punti percentuali, mentre, tra coloro che possiedono un elevato livello di istruzione, esso si attesta sui 10,6 punti percentuali (73.6% per le donne e 84.2% per gli uomini).

In un contesto di così difficile attuazione per gli ideali di pari opportunità, alcune recenti indagini riferite al contesto italiano sembrano, tuttavia, offrire qualche spiraglio di speranza.

Abbiamo già riportato le stime diffuse dall’Osservatorio dell’imprenditoria femminile di Unioncamere, stando alle quali le imprese rosa presenti in Italia a fine dicembre 2011 sarebbero state quasi 7mila in più rispetto all’anno precedente, con un incremento dello 0,5% e con un saldo complessivo di 1.433.863 imprese femminili (pari al 23,5% del totale imprese italiane); tale incremento ha permesso di compensare le cattive performance registrate dall’imprenditoria maschile, in riduzione, nel 2011, di circa 6mila unità.

Declinando l’attenzione su uno specifico ambito disciplinare, una seconda indagine capace di offrire una fotografia piuttosto rassicurante è quella curata da Gianni Peresson, responsabile dell’Ufficio studi AIE (Associazione Italiana Editori), e da Elisa Molinari; basandosi su dati riferiti al 2011, essa ha inteso, in particolare, analizzare la portata di quote rosa all’interno del settore editoriale, estendendo l’analisi non solo alle pratiche di lettura e di acquisto, ma anche alle tendenze occupazionali e di gestione. Vediamo nel dettaglio quanto emerso.

La distanza tra uomini e donne nella lettura di libri sembra essere oggi pari a 18 punti percentuali, in forte aumento sul 2008 (quando lo scarto era pari a circa 12 punti percentuali, tra il 50% di donne lettrici e il 37,7% di uomini lettori) e, ancor di più, sul 1988 (quando lo scarto era di 6 punti, tra il 39,3% di donne lettrici e il 33,7% di uomini lettori). Questa constatazione sembra essere vera con riferimento a tutte le fasce età; in quelle giovani spesso il divario risulta, anzi, ancor più pronunciato: tra i 18-19enni esso sale a più di 19 punti percentuali (leggono il 63,8% delle ragazze e il 44,5% dei ragazzi), tra i 20-25enni si attesta a quasi 22 punti (62,5% le lettrici e 40,6% i lettori), mentre tra i 15-17enni arriva a quasi 29 punti percentuali (legge il 73,2% delle ragazze, contro il 44,5% dei ragazzi). Tra i più piccoli si riduce, invece, lo scarto: quasi 14 punti per la fascia compresa tra gli 11 e i 14 anni (69,2% lettrici e 55,3% lettori) e soli 4 punti per la fascia tra i 6 e i 10 anni (53,8% le lettrici e 49,8% i lettori).

Oltre a leggere di più, le donne sembrano anche frequentare maggiormente i canali di vendita: il 54% di chi acquista libri in Italia è di sesso femminile (contro il 46% riferito al sesso maschile) e il volume degli acquisti di libri è pari al 57% per le donne, contro il 43% per gli uomini.

Il report passa poi ad analizzare la situazione occupazionale in Italia nel mondo editoriale, confrontandola innanzitutto con quella europea: nel 2001 il tasso di occupazione femminile in Italia risultava essere del 41,1%, quello europeo del 54,3%, nel 2006 le percentuali erano rispettivamente del 46,3% e del 57,2%, mentre nel 2009 esse sono del 49,7% e del 62,5%; nel 2009 il gap di genere appare in diminuzione di 2,5 punti percentuali sul 2004, con riferimento al contesto italiano, e di 2,9 punti, con riferimento al contesto europeo.

Cresce la presenza di donne non solo nelle attività redazionali e di segreteria, ma anche nei ruoli direttivi; mentre nel 1991 coprivano il 27% degli incarichi direttivi e nel 2008 il 36%, nel 2011 esse arrivano a coprirne il 40,2%. Negli ultimi vent’anni sono, quindi, aumentate le quote rosa in tutte le attività considerate di direzione: in quella tradizionale di ufficio stampa (dal 1991 a oggi si è registrato un +21,5%) in quella di direttore commerciale (+18,1% tra 1991 e 2011), in quella di direttore editoriale (+47,3%) e, infine, in quella di presidente, amministratore delegato, amministratore unico e direttore generale (+98%).

Ancor più incoraggianti sembrano essere le prospettive future del ruolo femminile in editoria, dato che i nuovi ingressi di donne si sono attestati, da un decennio, all’incirca al 60% (nel 2011 essi risultano, in particolare, il 64%).

Le donne sono, inoltre, più attente all’aggiornamento professionale, poiché ben 12 punti percentuali le separano dai colleghi uomini, nella scelta di frequentare corsi (56% contro 44%).
A registrare gli esiti migliori è soprattutto la piccola editoria, dove la presenza femminile in ruoli direttivi è oggi superiore di nove punti rispetto alla media del settore (49% rispetto a 40%), in aumento di tre punti sul 2008. I ruoli, in particolare, che hanno visto una presenza femminile maggiore rispetto alla media sono stati quello di direttore editoriale (nel 2011 le donne sono il 13,9%, registrando un +51,4% sul 2008) e di direttore commerciale (le donne sono il 7,7%, pari al +23,1% sul 2008).

L’analisi si concentra, infine, sul mondo delle librerie: le libraie risultano essere il 71,8%, sopravanzando notevolmente gli uomini (28,2%).

Questa fotografia 2012 “conferma e accentua – sottolinea Gianni Peressonle tendenze che avevamo visto nel 2009”. Le ragioni di simili incrementi degli addetti in gonnella nel settore editoriale sono da rilevare nelle “maggiori abilità” e “competenze nel gestire le relazioni e nell’organizzare il lavoro”, necessarie in “alcune attività – dall’ufficio stampa a quelle editoriali, fino alla gestione della libreria”. “Senza dimenticare – prosegue Peressan – una miglior cultura di base – hanno letto di più rispetto ai loro coetanei maschi lungo tutta la carriera di studio – qualcosa significherà! – e una maggior curiosità e flessibilità. Si tratta – conclude – di paradigmi concettuali oggi ancor più importanti di fronte ai cambiamenti che le nuove tecnologie pongono davanti alle imprese editoriali”.

Un modo diverso di fare libri? Si interrogano i promotori. Forse.
Dal canto nostro possiamo sperare che la particolare sensibilità e la forte intuizione tradizionalmente attribuite alla figura femminile siano in grado di apportare intensi benefici ad un’industria che, tra conferme positive e stime disattese, sarà costretta ad affrontare sfide sempre più impegnative, dettate dallo sviluppo tecnologico e dal mutamento delle prassi fruitive e d’acquisto tra gli utenti.

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