Il nuovo social network audio

È un network per non vedenti. Ma mostra alcune potenzialità per l’ideazione di nuovi format innovativi nel mondo dell’informazione e della comunicazione. È FreeRumble

Si autodefinisce “il primo social network audio sul web”.

È FreeRumble, il sito nato da un’idea che Sonia Topazio – la giornalista, attrice e scrittrice scelta dalla rivista Playmen per il calendario 2000 e attualmente a capo ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) – ha sviluppato nel marzo 2010, quando l’attenzione dei media era tutta concentrata sull’eruzione del vulcano islandese: vista l’urgenza di quella situazione, la Topazio scelse di farsi inviare un file audio Mp3 direttamente dall’Islanda, contenente gli aggiornamenti più recenti, e di inviarlo alla propria mailing-list di blogger e giornali al posto del più tradizionale comunicato stampa.

Dopo essersi accorta che alcuni autorevoli mensili di scienza online avevano inserito tra le proprie pagine virtuali direttamente l’audio originale, volle seguirne l’esempio postandolo a sua volta in uno specifico social network audio, salvo rendersi conto del fatto che non esisteva ancora una simile piattaforma.

«Come spesso succede, quando c’è un’idea devo produrla, devo crearla», rivela in occasione della presentazione ufficiale, avvenuta giovedì 20 ottobre a Roma, presso Palazzo Marini.

«Contemporaneamente ho pensato anche a quei 45 milioni di ciechi e ipovedenti al mondo che sono tagliati fuori dai più grandi social network in questo momento sulla rete: su Youtube vengono pubblicizzate al 95% le immagini, su Facebook si postano fotografie»; «e poi ho anche pensato che in questo momento storico in cui tutti vogliono apparire» fosse importante «riappropriarsi della facoltà di ascoltare».

Ha riportato poi velocemente il percorso fatto per giungere alla concretizzazione del progetto: «i primi consigli li abbiamo avuti da Gianni Politoni che è una persona cieca che però usa il computer e ci ha aiutato a capire come costruire questo sito; poi mi sono avvalsa dell’Osservatorio siti internet dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti e, insieme con la Tabasoft, abbiamo costruito FreeRumble; sia l’UICIECHI, che l’Associazione Nazionale Disabili Visivi […] hanno degli archivi audio che, chissà per quale motivo, forse perché non c’era ancora FreeRumble, tenevano nascosti; invece mettendoli su FreeRumble la vera ghettizzata mi sono sentita io che ho dieci decimi a occhio», perché «c’è un mondo» del tutto sconosciuto ai più.

FreeRumble è stato, infatti, promosso come il primo social utilizzabile da tutti, anche da quella cerchia di persone non vedenti che quotidianamente incontra notevoli difficoltà nel dare seguito al proprio desiderio di condivisione via web.

«La bellezza di questo sito è […] il fatto che sia veramente accessibile a tutti, è un sito democratico al 100%», ha affermato l’avvocato Giulio Nardone, Presidente nazionale dell’Associazione Disabili Visivi (ADV), a Palazzo Marini, esponendo un excursus sulla storia delle tecnologie messe a disposizione delle persone cieche e ipovedenti, dal braille al concetto di Social Media, nell’intento di sfatare lo stereotipo del disabile triste e disilluso, bisognoso di essere accompagnato ovunque e di essere aiutato in ogni operazione; sottolinea come la prima “rivoluzione” nel mondo delle disabilità visive sia avvenuta con l’invenzione dell’alfabeto braille nel 1825 che «non è una lingua come molti credono, ma è soltanto la maniere di trasporre a rilievo con dei puntini le lettere dell’alfabeto» di una determinata lingua; egli parla non a caso di rivoluzione, proprio perché, per la prima volta, si è consentito a persone che non vedono di usare la scrittura, di scambiare e conservare degli scritti, dunque di realizzare esperienze e approcci innovativi, la cui comparsa raggiunge una portata epocale: «la cultura si trasforma da orale a scritta, è quello che è successo all’umanità settemila anni prima […], un po’ in ritardo ma stiamo recuperando […]. Questa rivoluzione ha consentito anche per i ciechi, per esempio, l’avvento della stampa che Gutenberg aveva inventato tre-quattrocento anni prima».

Una seconda rivoluzione – ricorda poi – si è avuta con “l’avvento del personal computer”, non dell’informatica in generale – precisa – perché è proprio la personalizzazione dell’informatica, la possibilità di poterne fruire in forma personale e con riferimento ai propri specifici bisogni che ha permesso questa seconda rivoluzione. Prima il non vedente poteva scrivere a mano, con molta difficoltà, se aveva imparato a scrivere i caratteri normali, oppure poteva utilizzare una macchina da scrivere. Il problema, in quest’ultimo caso, era che non si poteva esser sempre sicuri della correttezza di ciò che si scriveva, non vi era il controllo su ciò che si batteva, se per caso si sbagliava il passaggio di una riga ne usciva uno scritto incomprensibile.

“L’avvento, invece, del computer ha consentito di usare la scrittura in modo consapevole e pieno perché il computer ci permette di leggere quello che scriviamo” e questo principalmente con due strumenti, o con sintesi vocale o con un sistema braille elettronico, che permette di leggere direttamente dal monitor, senza dover stampare ed eliminando l’ingombro dei libri braille.

Attualmente – continua Nardone – è possibile per gli utenti non vedenti “accedere a decine di migliaia di titoli, un universo”, sia attraverso la scansione, sia attraverso libri, pochi in realtà, forniti dalle case editrici direttamente in formato testo (a tal proposito si veda l’appello lanciato dal G.U.C.I., Gruppo universitari ciechi ed ipovedenti, indirizzato alla Fondazione Bellonci in occasione del premio Strega, allo scopo di sensibilizzare gli addetti ai lavori circa i molti ostacoli che, di fatto, escludono le persone cieche dal comune patrimonio del sapere).

Lo sviluppo delineato ha, tuttavia, conosciuto un momento di crisi che ha condotto ad una sorta di involuzione: ci si riferisce al passaggio dal sistema DOS al sistema Windows, che ha imposto uno spostamento “da comandi letterali, che noi potevamo benissimo memorizzare, ai comandi che si danno cliccando; sto clic per noi è un suono tragico, ci da molto fastidio […] perché per cliccare bisogna vedere dove cliccare”. Così come “il 90% delle informazioni sono [oggi] veicolate dalle immagini”, allo stesso modo “nel mondo dell’informatica ad un certo punto ci è crollata questa trave addosso che è Windows”. Fortunatamente un rimedio è stato trovato, creando vari sistemi di trasposizione, delle interfacce “che ci consentono ugualmente […] di usare il computer”, computer che a questo punto “significa veramente una finestra aperta sul mondo”. Infine, conclude il suo excursus Nardone, sono arrivati il web e i social network, creando nuovi problemi, “un altro blocco”: “ci siamo trovati ad avere nuove importantissime occasioni di socializzazione e scambio di idee dalle quali però eravamo esclusi”, poiché essi “sono navigabili solo entro certi limiti da un non vedente, con estrema difficoltà”. Freerumble rappresenta allora “una finestra che ci si è aperta, questa volta una finestra perfettamente trasparente, perfettamente accessibile che ci permette di entrare in un ambiente che non è ghettizzante […], non è un ambiente per ciechi […], quello che è importante è che questo è un sito per tutti […]”; esso offre “la possibilità per noi di avere questo scambio, questa partecipazione, in un momento in cui il social network è un luogo virtuale di importante valore sia sociale che culturale”, “non esserne esclusi è per noi una rivolta importantissima”. “Un grosso regalo”, dunque, in definitiva.

Nel corso della serata è intervenuto anche il Dr. Fabrizio Zingale, Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti (UICIECHI), parlando di FreeRumble come di “un prodotto certamente più che interessante, direi innovativo, intelligente, coinvolgente, prezzante”, “un prodotto utile a tutti ma accessibile anche ai non vedenti e agli ipovedenti”; con una brillante battuta egli ha affermato: la nuova piattaforma “mi ha soddisfatto particolarmente, potrei dire addirittura di essere rimasto senza parole, ma credo che FreeRumble questo non me lo perdonerebbe, perché è un sito che si esprime proprio attraverso la voce”. Egli ha, poi, proposto una rapida parentesi legislativa, sottolineando come il network rispetti “la tendenza che proprio il Parlamento italiano credo abbia avuto […] nel 2004 all’unanimità [quando] ha dato seguito ad un bisogno fondamentale che era quello dell’accessibilità proprio dei siti internet, che erano diventati e sono ormai diventati elemento integrante e fondamentale della nostra società globale” (il riferimento è alla legge 9 gennaio 2004, n. 4, recante “Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici”). In questo caso il Parlamento italiano – evidenzia Zingale – “è arrivato prima di quando ci sono arrivate le stesse Nazioni Unite”, che hanno dichiarato il diritto all’accessibilità quattro anni dopo in “una convenzione internazionale sui diritti della disabilità e quindi anche sul diritto all’informazione”; e “lo ha fatto all’unanimità, quindi questo è un nostro grande merito”; per contro – ricorda ancora Zingale – accade spesso che in Italia “ci perdiamo nella concreta realizzazione e fruizione da parte di tutti di innovazioni anche legislative […] e c’è bisogno poi anche dell’iniziativa, del mordente, della volontà e del desiderio di persone che credono veramente nelle varie opportunità per dare […] seguito e vita alla concreta fruizione dell’accessibilità”.

Zingale ha poi sottolineato come i social network siano ormai delle piazze tutt’altro che virtuali, “sono dei momenti di socializzazione più che reali, concreti, perché oggi consentono a tutti nei vari ambiti, da quello lavorativo, a quello professionale fino anche a quello amicale e della socializzazione, di gestire i rapporti personali, di consolidarli e in alcuni casi anche di deteriorarli […], si gestiscono nel loro complesso, si possono creare nuovi rapporti”. FreeRumble permette, allora, in fondo, secondo Zingale, di dare seguito alla globalizzazione, una tendenza propria dell’innovazione tecnologica. Ricordando che la propensione all’ascolto del libro è qualcosa di comune a tutti, egli evidenzia, infine, come un’altra importante peculiarità del sito sia quella di “non rivolgersi alla persona disabile, dandogli qualcosa di diverso rispetto a quello che serve a tutti gli altri, ma dando qualcosa che è condiviso e gradito anche dagli altri”, nell’ideale di massima integrazione ricercato dall’UICIECHI.

L’intervento di Valerio Ferrucci, programmatore Tabasoft (“azienda leader nello sviluppo software in Italia”, ha permesso di cogliere gli aspetti più tecnici del nuovo progetto. FreeRumble “in realtà è un sito che ne racchiude altri”: “c’è FreeRumble propriamente detto, che è una serie di audio condivisi dagli utenti di questo social site”, ma ci sono anche “Rumblepedia, “che è un po’ il Wikipedia audio”, dove tutti possono dare il loro contributo e dove vengono elencate le voci ricercabili per argomento o per ricerca generica e ordinabili secondo criterio temporale o alfabetico. Vi sono poi i “Canali”, “una sorta di vetrina del singolo utente”, dove possono essere visualizzati tutti i contenuti inseriti da una stessa persona, suddivisi per tematiche; è possibile anche iscriversi ad un canale per il quale si nutre particolare interesse, ottenendo una notifica ogni volta che viene pubblicato un nuovo contenuto in quello stesso canale. “Rumblesecret” è, invece, “uno scambio di audio riservato”, “è come una cassaforte in casa, cioè tu dai la tua password […] soltanto a chi vuoi” (come sottolinea la Topazio, raccontando l’aneddoto di una sua amica che “disgraziata”, ha registrato una notte d’amore e l’ha inviata al suo ex-marito). Infine la sezione “Carica i tuoi audio”, attraverso la quale si possono caricare i propri contributi e indirizzarli alle altre sezioni.

Nell’homepage si trova innanzitutto la lista di tutti gli audio più recenti, selezionati per indicatori testuali (titolo, sommario, durata, data di inserimento…) che ne caratterizzano i contenuti; l’ordine può essere modificato, chiedendo di visualizzare prima i contenuti “più richiesti” o di utilizzare il filtro dell’argomento (grazie alla barra laterale destra). “Il sito è progettato in html5 […] e passa il test W3C per quanto riguarda gli standard dell’accessibilità”, “è fatto tutto con software opensource e free”, sottolinea Ferrucci. Il network è attualmente strutturato in due lingue, inglese e italiano, ma gli audio inseriti possono essere catalogati come appartenenti ad una delle 62 lingue previste; allo stesso modo è possibile anche tradurre un audio in un’altra lingua, accompagnando la traduzione al contenuto originale, oppure ricercare gli audio di una determinata lingua; tutto questo allo scopo di dare un’inclinazione e un futuro internazionale al sito, che pare essere il primo format mondiale di social media sonoro. Vengono supportati vari formati di audio, tra cui i più diffusi, MP3, WMA, WAV, M4A. Per ogni contributo vengono indicati: tipo di file, soggetto che l’ha inserito, data di inserimento, argomento, paese di inserimento, parole chiave, durata, numero di ascolti effettuati; il file può anche essere catalogato in una specifica sequenza, soprattutto nel caso in cui risulti piuttosto lungo e sia, quindi, preferibile spezzettarlo. Viene data la possibilità di condividere l’audio negli altri principali social (LinkedIn, Facebook e Twitter), di segnalarlo via mail ad un amico, di commentarlo e di tradurlo appunto. Il sito è completamente accessibile a chiunque, mentre la registrazione (comunque gratuita) è richiesta per caricare nuovi audio, condividerli ed entrare quindi a tutti gli effetti nella community.

La possibilità di commentare un audio e di rispondere, postando a nostra volta altri audio, fa si che si formino “tante scatole cinesi audio”, come le definisce la Topazio: “è un contenitore di tante sezioni – rilancia Ferrucci – e […] tante altre se ne possono pensare perché è il mondo stesso dell’audio che spinge a poterlo riformulare in tante forme diverse”.

Il Maestro Lino Patruno, Musicista Jazz, si è dichiarato particolarmente interessato all’iniziativa perché “avendo una collezione di quarantamila dischi di jazz […], la possibilità di metterli in rete potrebbe essere una gran cosa: molto spesso le collezioni si spezzano, si disperdono” e vi sono molte difficoltà nella ricerca dei brani di proprio interesse in rete. Egli ha definito la radio e la tv attuali “uno sfacelo totale” ed è corso con la mente agli anni della sua adolescenza in cui la radio trasmetteva dei sonori a suo dire eccezionali (“io sono uno che sostiene il sonoro, che sostiene la musica”), rammaricandosi del fatto che ora ci sia meno interesse per la musica rispetto ad un tempo ed auspicando quasi un ritorno al passato, grazie alla possibilità del nuovo format di “raccogliere quello che è il patrimonio della cultura, quindi dell’umanità, che tanta gente vuole cancellare perché la cultura da fastidio a tanti”.

FreeRumble permette, però, non solo di recuperare il patrimonio dell’umanità, ma anche di renderlo accessibile a tutti, attraverso il racconto a parole di opere artistiche solitamente fruibili solamente da chi può vedere: “questo sarà un argomento molto importante – sostiene Nardone – perché in questa civiltà delle immagini in cui tutto quanto è immagine sarà importantissimo per i non vedenti poter godere di queste descrizioni”.

A tal proposito anche l’on. Luca Barbareschi, intervenuto in qualità di Vice Presidente della Commissione sulle Telecomunicazioni della Camera, ha sostenuto l’importanza di un ritorno al sonoro. Egli (dimenticando, forse, le molte polemiche che alcune sue proposte di legislazione in materia hanno suscitato) si è autodefinito “un grande antesignano del web: ho sempre pensato che questo avrebbe cambiato la vita un po’ a tutti noi, ovviamente dal punto di vista delle relazioni, della logistica, dell’impatto di tutto e devo dire che è stata una rivoluzione, dopo quella agricola e quella industriale. Ha cambiato totalmente il mondo. E come accade spesso nei grandi cambiamenti e nelle grandi rivoluzioni, ci si dimentica un po’ le cose, perché ovviamente si tende a puntare solo su certe cose, soprattutto sulle immagini e le immagini hanno una grande forza, ma anche un grande limite […]. Ormai si privilegia l’immagine e spesso non si parla, il commento è molto banale […]. Si privilegia l’impatto pornografico, come lo chiamo io, di una pornografia della comunicazione per cui si da un impatto, un pugno nello stomaco; è allora – si chiede – chi non ha la possibilità di vedere queste immagini cosa avrà capito?”. Ha poi continuato: “penso che un social network che si appoggia, invece, sull’audio, sulla parola, sia molto importante”. “Io nasco come uomo di teatro, credo morirò come uomo di teatro […] e quando rivedo una prova di teatro […], è mia abitudine, quando lo faccio da regista, chiudere gli occhi e ascoltare gli attori senza guardare” perché solo così si possono cogliere “i toni, il sottotesto quello che c’è al di là delle parole, se tu non guardi le cose improvvisamente cogli delle sfumature che, altrimenti, le immagini tendono a fuorviare. Il suono delle parole spesso tradisce delle cose”, esso rivela “delle cose che le parole stesse, il significato della parola, non dicono […], le emozioni vengono raccontate attraverso i suoni”. “Credo – conclude – che fare un network” per “chi non ha la possibilità di vedere, ma […] anche per chi vuole [semplicemente] concentrarsi sulle parole, sui suoni, sia una cosa molto intelligente in un momento di saturazione di immagini, di cui forse siamo tutti stanchi”.

Personalmente chi sta scrivendo questo articolo non appoggia assolutamente la tesi di chi si dimostra apocalittico verso il mondo delle immagini, non credo che si divenga meno sensibili a certi orrori semplicemente essendo esposti eccessivamente a delle loro rappresentazioni fotografiche; è invece “la passività che ottunde i sentimenti”, come sottolinea Susan Sontag nel suo bellissimo “Davanti al dolore degli altri”, compiendo delle riflessioni che certo meriterebbero un capitolo a parte. Tuttavia non si possono negare le moltissime potenzialità che dal punto di vista mediatico si celano dietro la nuova piattaforma. A spiegare tali potenzialità, tali aspirazioni, è stato Francesco Russo, blogger, curatore del blog di Freerumble.

“FreeRumble nasce per essere il primo social media audio della rete” – ha affermato – e il “primo esempio di condivisione in voce”, esso raccoglie tutte le caratteristiche degli altri social (riduzione delle distanze, relazioni più semplici e veloci, apertura al dialogo, alla conversazione, microblogging, “microdiario sulla rete”, raccolta di informazioni) e le rilancia in forma audio. “Con FreeRumble abbiamo la possibilità di riappropriarci della voce”, “lo strumento principe con cui si comunica”; tra le novità, inoltre, la capacità di trasmettere le emozioni in modo più diretto e di creare veri e propri archivi audio.

Russo ha compiuto una disamina sul mondo dei network per rivelarne la centralità nell’attuale contesto sociale, politico ed economico: ha ricordato come “in Italia mediamente ogni mese ci sono 30 milioni di italiani che almeno una volta […] si connettono alla rete, 13 milioni si connettono quotidianamente”; degli 800 milioni di profili registrati su Facebook in tutto il mondo, “in Italia ce ne sono attualmente – statistiche di due settimane fa – 20,650 milioni, negli ultimi due mesi è aumentato di 2 milioni di iscritti”. FreeRumble interviene, allora, proprio a colmare un gap (come lo definisce Russo), una mancanza degli altri network, cioè, appunto, la sfera audio.

Che sia o meno una mossa di marketing l’idea di fare apparire il nuovo network come un oggetto rivolto in primis alle persone disabili, non possono essere negati i molti elementi di novità di questo prodotto, che rappresenta, a ben vedere, qualcosa di meno rispetto a network simili (nel confronto con Youtube, ad esempio, si perdono le immagini e il loro legarsi alle voci creando significato; nel confronto con Facebook si perdono molte parole scritte, foto, tag, pagine…), e tuttavia, proprio in questo, risiede la sua potenziale forza: come Twitter ha dimostrato, infatti, in un universo virtuale spesso caotico, in cui è difficile orientarsi, delle operazioni di scrematura, all’insegna del levare piuttosto che dell’aggiungere, possono avere un notevole successo, arrivando anche a creare nuovi format nel mondo del giornalismo e dell’informazione in generale; il modo stesso in cui è nata l’idea di FreeRumble ne rivela, allora, forse, anche le molteplici potenzialità e inclinazioni.

Pubblicato: PMI-dome

Pubblicità

Il successo degli imprenditori in gonnella

Le imprese in rosa aumentano di quasi 9mila unità nel settembre 2011

Mi permetto […] di fare presente che […] sono affidati a personalità femminili ministeri di grande rilievo: il ministero dell’Interno, il ministero della Giustizia e il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con delega alle Pari opportunità”.

Sono le parole pronunciate dal neopresidente del Consiglio, Mario Monti, nel presentare – dopo aver accettato l’incarico del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano – la lista dei ministri eletti; sono parole rimbalzate dai principali siti di informazione online alle prime pagine dei quotidiani cartacei; parole che, a ben vedere, dovrebbero servire ad interrogarsi sul perché, alle porte del 2012, si sia ancora costretti a precisare, e quasi giustificare, la presenza di donne ai vertici direttivi statali.

La parabola del bunga bunga e la tendenza tipicamente italiana alla mercificazione del corpo femminile per scopi commerciali non hanno di certo contribuito a dare reale corso agli ideali di pari opportunità professati dalle menti più illuminate. Tuttavia alcuni dati diffusi recentemente dall’Osservatorio dell’imprenditoria femminile di Unioncamere sembrano comprovare un riscatto effettivo del ruolo delle donne nell’economia e nella società italiane, evidenziando, in particolare, la forza effettiva del loro voler fare impresa. Lo stesso Monti, del resto, ha fatto più volte riferimento, nei suoi discorsi di insediamento, alle donne, viste come reale motore del Paese. Vediamo di seguito qualche cifra significativa.

1.435.716: questa, secondo Unioncamere, la “quota rosa” complessiva dell’imprenditoria italiana nel terzo trimestre 2011, pari al 23,4% del totale aziende (6.134.117) e contro una quota di imprese a conduzione maschile di 4.698.401 unità. Le concentrazioni maggiori, in termini assoluti, si registrano in Lombardia (193.903 imprese, pari al 13,5% del totale imprese rosa), in Campania (149.471, cioè il 10,4%), in Lazio (143.012, 10,0%), Sicilia (115.404, 8,0%), Piemonte (112.555, 7,8%), Veneto (110.447, pari al 7,7%) ,Toscana (100.351, 7,0%) ed Emilia Romagna (98.551, cioè 6,9%).

Consideriamo ora la questione in termini di variazioni temporali dei dati.
Alla fine di settembre 2011 le imprese femminili sarebbero aumentate di quasi 9 mila (precisamente 8.814) unità rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, segnando un incremento di 0,6 punti percentuali; per comprendere l’ampiezza del dato è sufficiente confrontarlo con quello riferito alle nuove imprese maschili sorte, pari a 9.980 unità, in aumento di 0,2 punti percentuali nel periodo considerato. Su un saldo totale di nuove imprese registrate alle Camere di commercio tra settembre 2010 e settembre 2011 pari a 18.794 (+0,3% rispetto al 2010), le nuove realtà femminili rappresentano, allora, una fetta piuttosto consistente, il 47%.
Si sottolinea, poi, la maggiore dinamicità della componente imprenditoriale femminile, con quindici regioni che registrano variazioni positive, delle quali nove superiori alla media: solo Basilicata (-1,4% e -245 imprese feminili), Molise (-1,1% e -117 imprese), Valle D’Aosta (-1,1%, con -39 realtà), Sicilia (-0,4% e -479 aziende) e Liguria (-0,1%, con -51 imprese) sembrano aver risentito della crisi, presentando percentuali di decremento rispetto al 2010.
Le risalite maggiori per l’imprenditoria rosa dell’ultimo anno si sono manifestate soprattutto in Lazio, con un +1,4% di nuove realtà, pari, in termini assoluti, a 1.934 unità; seguono Umbria (+1,3%, con 311 nuove imprese), Calabria (+1,2% e 542 aziende) e Veneto (+1,2%, 1.280 nuove entità), con dei segni più che, a differenza del Lazio, sono stati di portata maggiore rispetto all’imprenditoria maschile.
Considerando, invece, le nuove imprese in termini assoluti, sono le regioni a più diffusa presenza di imprese a collocarsi in cima alla classifica; seguono, allora, il Lazio: la Lombardia (+1.411 pari al +0,7%), il Veneto, la Toscana (+1.080, pari a +1,1%) e l’Emilia Romagna (+1.054, +1,1%).

Restringendo la prospettiva alla dimensione provinciale, le variazioni positive più rilevanti stimate nel terzo trimestre 2011 rispetto al 2010 si sono avute a Prato (8.401 imprese nel 2011, contro le 8.163 nel 2010, con un +2,9%), Monza e Brianza (14.350 contro 13.950, pari a +2,9%), Fermo (5.364 contro 5.223, +2,7%), Messina (13.874 contro 13.512, +2,7%) e Arezzo (9.230 contro 9.041, +2,1%). 29, invece, di cui 13 collocate nel Mezzogiorno, le province in cui si registra una riduzione delle imprese a conduzione rosa: le contrazioni maggiori in termini percentuali si hanno a Caltanissetta (-5,7%), seguita da Avellino (-3,2%), Trapani (-2,8%), Vibo Valentia (-2,8%) e Lodi e Palermo (entrambe -2,4%).
Tuttavia “il Mezzogiorno – ci dice Unioncamere – si conferma comunque il territorio con i valori più elevati di femminilizzazione del tessuto imprenditoriale”, intendendo con il termine “femminilizzazione”, “il peso relativo delle imprese femminili sul totale” del tessuto economico. Il tasso maggiore si registra in Molise (30,1%), seguito da Basilicata (27,8%), Abruzzo (27,7%) e Campania (26,9%). Al di fuori del Sud, la regione più femminile è l’Umbria (26%), mentre il primato tra le regioni settentrionali è detenuto dalla Liguria (24,6%).

Unioncamere ha inteso evidenziare anche le variazioni riportate, nell’intervallo temporale che va da settembre 2010 a settembre 2011, in termini di struttura delle imprese a conduzione femminile: ciò che salta all’occhio è il forte trend di aumento delle società di capitali (registrano un +4,1%, contro un +3,0% rilevato per le imprese maschili), mentre salgono di soli 0,2 punti percentuali le impresa individuale (a fronte di un – 0,3% per le imprese maschili), che rimangono comunque la forma giuridica più utilizzata in termini assoluti dalle imprenditrici italiane (60,4% di tutte le iniziative guidate da donne). Calano, invece, le società di persone (-0,7%, contro -2,2% per imprese maschili).

Infine l’analisi si è dedicata ai settori economici interessati dalle quote rosa. Si sottolineano, in questo senso, due tendenze dal segno opposto: da una parte il rafforzamento di compartimenti tradizionalmente appannaggio del mondo femminile, come quello dell’Istruzione (+462 imprese tra 2010 e 2011, pari ad un +6%), quello della Sanità e Assistenza sociale (+571, +4,3%), quello delle Attività artistiche e di intrattenimento (+554, +3,3%), infine quello delle Attività professionali, scientifiche e tecniche (+1.320 unità, cioè +3.2%). Il commercio, di solida padronanza femminile, registra, invece, solo un leggero +0,1%, con 313 nuove aziende, anche se – bisogna sottolinearlo – il dato riflette l’attuale difficile congiuntura economica; allo stesso modo perde punti anche un altro settore tipicamente rosa, l’agricoltura (-6.441 unità, pari a -2,5%), che, tuttavia, mostra da tempo, complesso considerato, un andamento in negativo.
La seconda tendenza rilevata è la lenta ma costante diffusione della componente rosa in settori a tradizionale vocazione maschile: nelle Costruzioni (1.722 nuove imprese, cioè +2,7%) e nel trasporto e magazzinaggio (+358 realtà, +1,8%).
I dati evidenziati sono stati presentati in occasione dell’avvio del “Giro d’Italia delle donne che fanno impresa”, un’iniziativa promossa da Unioncamere assieme alle Camere di commercio e ai Comitati per l’imprenditoria femminile, con l’intento di creare uno spazio di riflessione, nuove opportunità e progetti di sviluppo economico e sociale: la prima delle sette tappe lungo le quali si svolgerà il “Giro” è stata Macerata, il 14 novembre scorso (Arezzo, Vicenza, Ferrara, Avellino, Reggio Calabria e Aosta sono le altre sedi).
Oggi più che mai – ha dichiarato il Presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanelloa queste imprenditrici occorre guardare con grande attenzione, sostenendole nel loro percorso di rafforzamento. Il loro impegno è una grande risorsa sulla quale il Paese può scommettere per riprendere, dopo la bufera di questi mesi, la via dello sviluppo”.
A ben vedere, questi stessi dati diffusi da Unioncamere si collocano in controtendenza rispetto agli alti livelli di disoccupazione femminile evidenziati, all’incirca un mese fa, dall’Osservatorio sull’imprenditoria femminile curato dall’Ufficio studi di Confartigianato. In quell’occasioni le stime sono state, infatti, tutt’altro che incoraggianti, con un tasso di inattività delle donne italiane pari al 48,9%, contro una media europea del 35,5%: “in pratica – rileva Confartigianato – siamo in ritardo di 23 anni rispetto all’Europa”, visto che “il nostro attuale tasso di inattività delle donne è uguale a quello registrato nel 1987 dai Paesi dell’allora Comunità europea”.
La disoccupazione femminile sembra essere maggiore nel Mezzogiorno: a livello regionale, si evidenzia un record di inattività per la Campania, la quale, con il 68,9%, fa registrare il più alto tasso tra le 271 regioni europee. Sul lato opposto si colloca, invece, la Provincia autonoma di Bolzano, con un tasso del 34,9%.
A livello provinciale è Napoli a segnare un primato in negativo, con un 72,4%, mentre a Ravenna si registra la percentuale più bassa (30,7%).

La causa principale della complessa situazione italiana viene identificate nel “basso investimento in quei servizi di welfare che dovrebbero favorire la conciliazione tra attività professionali e cura della famiglia”; siamo, infatti, al 23° posto per interventi statali rivolti a famiglia e maternità, con il solo 1,3% del PIL destinato a tale scopo, pari a 320 euro ad abitante, cioè 203 euro in meno rispetto alla media europea; si pensi, ad esempio, che in Germania gli investimenti per famiglia e maternità corrispondono al 2,8% del PIL, in Francia al 2,5% e lo scarto si rafforza nel confronto con i Paesi del Nord Europa: in Danimarca la percentuale sul PIL è del 3,8%, in Irlanda del 3,1%, in Finlandia e Svezia è del 3%.
Altre motivazioni all’esclusione delle donne italiane dal mercato del lavoro vengono identificare nella “carenza di servizi pubblici per l’infanzia (asili nido, micronidi o servizi integrativi)”, utilizzati dal solo 12,5% della popolazione, e nella insufficienza di “servizi di cura e assistenza agli anziani” (appena il 4,3% del totale degli individui con almeno 65 anni è trattato in assistenza domiciliare integrata, ADI).
Sono queste, allora, alcune delle più importanti sfide con le quali la nuova formazione “tecnica” di governo dovrà confrontarsi nei prossimi mesi, con la speranza che sappia cogliere realmente l’importanza fondamentale di questa forza colorata (non solo di rosa, ci terrei a sottolineare) in costante ascesa. Misure concrete, dunque, per una voglia di impresa che si è dimostrata altrettanto concreta e potenzialmente fruttuosa per il benessere economico complessivo del Paese.

Pubblicato su: PMI-dome

I soldi veri sono sul Web

Cresce l’Advertising online: il settore è aumentato di 23,2 punti percentuali rispetto al 2010, raggiungendo i 14,9 miliardi di dollari

Tempi d’oro per l’advertising online.

A rivelarlo è lo IAB Internet Advertising Revenue Report, realizzato da PricewaterhouseCoopers (PwC USA) per conto dell’Interactive Advertising Bureau (IAB): si tratta di uno studio sulla pubblicità online, riferito al contesto statunitense e realizzato due volte all’anno al fine di monitorare la situazione di metà e dell’intero anno (in questo caso ci si riferisce ovviamente alla prima metà del 2011); esso si basa su dati rilasciati trimestralmente dallo IAB, l’associazione internazionale dedicata allo sviluppo della comunicazione pubblicitaria digitale interattiva, la quale ha avviato il report nel 1996.
I risultati forniti sono considerati la misura più accurata dei ricavi pubblicitari online, poiché derivano da informazioni fornite direttamente dalle aziende che vendono tale pubblicità virtuale: ad essere inclusi nel rapporto sono, in particolare, i ricavi provenienti da siti web, servizi commerciali online, network pubblicitari e provider di posta elettronica.
Ad uno sguardo preliminare, si nota come – dopo un declino e un temporaneo plateau registrati nel 2009 – i ricavi trimestrali della pubblicità online abbiano conosciuto, a partire dall’ultimo trimestre del 2009, un forte rialzo e, anche se il 2011 sembrava iniziare con una lieve ricaduta, tali ricavi sono notevolmente aumentati nel secondo trimestre 2011.

Entrando un po’ più nel dettaglio, vediamo che, nell’intera prima metà del 2011 e rispetto allo stesso arco temporale riferito allo scorso anno, gli introiti sono aumentati di 2,8 milioni di dollari o, in termini percentuali, del 23,2%, arrivando a stabilire una sorta di record, pari a 14,9 miliardi di dollari. Il trend evidenziato segna, allora, una crescita percentuale più che raddoppiata rispetto al primo semestre del 2010, quando i ricavi pubblicitari si assestarono a 12,1 miliardi di dollari (con un incremento dell’11,3% rispetto al 2009).

Quei 14,9 miliardi rilevati possono essere scomposti, dal punto di vista temporale, in un primo trimestre totalizzante 7,26 miliardi di dollari e in un secondo trimestre che ha accumulato i restanti 7,68 miliardi, segnando un incremento di quasi 6 punti percentuali rispetto al primo trimentre 2011 e un incremento del 24,1% rispetto al secondo timestre 2010 (quando il ricavo era stimato in 6,19 miliardi di dollari).

“La forte crescita della pubblicità online – ha commentato David Silverman, partner, PwC – non si è arrestata nella prima metà del 2011. Ad alimentare questa crescita è la capacità degli inserzionisti di correlare prestazioni e risultati con i dollari che stanno investendo”.
I ricavi del secondo trimestre 2011 sono aumentati su una base percentuale e in dollari: esso rappresenta il trimestre con il più alzo rialzo mai registrato fino ad ora.

Applicando un filtro cronologico alla stima e utilizzando una prospettiva su base annuale, si scopre che la quota di ricavi in pubblicità digitale raggiunta nel primo semestre 2011 potrebbe portare il 2011 ad essere l’anno con la quota più elevata, superando i 26 miliardi raggiunti nel 2010 (il precedente record): “i fattori macroeconomici che hanno iniziato ad influenzare l’intero universo economico a metà anno, potrebbero avere un impatto anche sul secondo semestre”, sottolinea il report.

L’advertising online continua a rimanere appannaggio di quelle 10 principali aziende di vendita pubblicitaria presenti nel mercato, che assieme hanno raggiunto, nel secondo trimestre 2011, il 72% dei ricavi totali, superando quel 70% riferito allo stesso intervallo dello scorso anno.
Le aziende collocate, invece, tra l’undicesima e la venticinquesima posizione hanno contribuito per un 10% ai ricavi del secondo trimestre, in calo di due punti percentuali rispetto al 2010 (12%); quelle, infine, che si pongono tra la ventiseiesima e la cinquantesima posizione, hanno raccolto il 7%, contro l’8% dell’anno precedente.

“L’eccellente solidità di performance finora rilevata per l’advertising online – evidenzia Randall Rothenberg, presidente e CEO di IAB – dimostra che sempre più addetti al marketing stanno puntando su digitale per raccontare il proprio marchio. Questa gradita notizia, alla luce della debolezza che avvolge buona parte della restante economia statunitense, conferma l’enorme valore che l’innovazione nel marketing interattivo può trasmettere all’industria e al consumo”.

Il successo crescente deriva primariamente dal fatto che le aziende desiderano sempre più far uscire il proprio brand all’esterno dei confini tradizionalmente posti alla loro attività, vogliono farsi conoscere e, a questo scopo, utilizzano la rete quale veicolo privilegiato di comunicazione, poiché dotata di dimensione universale e capace di raccogliere un pubblico quanto più vasto possibile; si ampliano, di conseguenza, le campagne pubblicitarie poste in essere per raggiungere nuove aree di interesse, si moltiplicano le manifestazioni dell’universo valoriale veicolato dal marchio.

Quali sono, allora, le categorie su cui sembrano maggiormente concentrarsi i profitti finora evidenziati?

In testa, innanzitutto, si collocano le ricerche online correlate da contenuti sponsorizzati e provenienti da diversi circuiti advertising: esse, da sole, producono il 49% del totale ricavi riferito al primo semestre 2011 (in crescita rispetto al 47% stimato nel 2010), pari a circa 7,3 miliardi di dollari (+27% rispetto ai 5,7 milioni di dollari nel 2010), arrivando a riempire il fulcro dell’intero mercato.

Al secondo posto troviamo il cosiddetto “display advertising”, con una quota di mercato che dal 36% (primo semestre 2010) è giunta al 37% (2011), passata, in altri termini, da 4,4 a 5,5 miliardi di dollari (+27%, un tasso di crescita maggiore rispetto al 16% del 2010): tale forma pubblicitaria comprende banner pubblicitari (realizzano il 23% dei ricavi, pari a 3,4 miliardi di dollari), video digitali (6% o 891 milioni), contenuti interattivi (5% o 763 milioni) e sponsorizzazioni (3%, 467 milioni).

Gli annunci online, con 1,2 miliardi di dollari, raccolgono il solo 8% dei ricavi nel primo semestre 2011, percentuale in decrescita rispetto al 2010 (10% con 1,3 miliardi di dollari).

I ricavi della Lead Generation ammontano al 5% nel 2011, pari a 805 milioni di dollari, in aumento di quasi 25 punti percentuali rispetto al 2010, quando essi ammontavano a 642 milioni (5% del mercato).
La posta elettronica occupa, invece, l’ultima posizione della classifica, con solo l’1% dei ricavi totali, corrispondenti a 79 milioni di dollari, in ribasso del 34% rispetto ai 120 milioni riferiti al 2010 (1% del totale ricavi). Sempre meno frequenti, dunque, le campagne pubblicitarie basate sull’invio multiplo di mail, forse a causa della facilità con cui simili comunicazioni possono venire eliminate dal destinatario e dunque cadere inascoltate.

Allargando un po’ la prospettiva temporale, ci si accorge di come quello dell’online search rappresenti il format dominante fin dal 2006 e di come esso abbia conosciuto negli anni una crescita sequenziale; dopo aver perduto nel 2010 parte della propria quota di mercato a favore dei banner pubblicitari, esso ha riconquistato e superato, nel primo semestre 2011, tutte le posizioni perdute. Per un trend positivo, si è costretti, tuttavia, ad evidenziarne uno negativo: ecco, allora, che negli ultimi sei anni si è assistito ad una perdita, per gli annunci online, di oltre metà quota di mercato (da uno share del 18% nel 2006 all’attuale share dell’8%) e, dopo una parziale stabilizzazione nel 2010, si è ritornati al segno meno nel 2011.

Con riferimento ai settori industriali coinvolti, il report di IAB e PwC evidenzia come gli inserzionisti del retail continuino a rappresentare la categoria più ampia per spesa in advertising, avendo raggiunto una percentuale del 23% nella prima metà del 2011 (pari a 3,5 miliardi di dollari), in crescita rispetto al 20% (2,5 miliardi) rilevato nel 2010.
Le aziende di telecomunicazioni hanno invece rappresentato, nel primo semestre 2011, il 14% (2,1 miliardi di dollari) dei ricavi in pubblicità online, con un leggero aumento dal 2010, quando l’ammontare dei ricavi era di 1,7 miliardi di dollari (configurante, comunque, il 14% del totale).

Gli inserzionisti del settore finanziario hanno contribuito, poi, per il 13% nel 2011 (pari a 1,9 miliardi di dollari), quelli del comparto automobilistico per l’11% (1,7 miliardi): entrambi hanno guadagnato posizioni rispetto al 2010, quando il primo coinvolgeva 1,5 miliardi di dollari (12%) e il secondo 1,3 miliardi (comunque 11%).
Il settore dei prodotti informatici costituisce il 10% dei ricavi in advertising nel 2011, cioè 1,5 miliardi, in aumento rispetto al 2010, quando la stima era di 1,2 miliardi di dollari (anche in questo caso il 10% del totale).
Il comparto dei viaggi per svago (biglietti aerei, hotels e resorts) ha coperto l’8% dei ricavi nel 2011 (1,2 miliardi), contro il 7% (841 milioni di dollari) del 2010.

I beni di consumo, ancora, rappresentano il 6% del mercato pubblicitario online, pari a 866 milioni di dollari, in diminuzione rispetto al 2010, quando rappresentavano l’8% (980 milioni). L’entertainment occupa il 4%, con 556 milioni, in leggero aumento rispetto ai 508 milioni del 2010 (quando costituiva sempre il 4%).
Settore media e settore farmaceutico-sanitario raggiungono, infine, nel 2011, entrambi una quota di mercato del 4%, il primo con 660 milioni e il secondo con 608 milioni di dollari e con un leggero incremento rispetto al 2011, quando si erano attestati rispettivamente a 498 milioni (sempre 4%) e 576 milioni (5%).

 

Pubblicato su: PMI-dome

Le Costruzioni del Nord Africa

Gli aspetti principali di un mercato in crescita dopo la Primavera araba. Ma quali opportunità ci sono per le imprese italiane?

Le molte sommosse e rivoluzioni che nei mesi scorsi hanno coinvolto i paesi protagonisti della cosiddetta “Primavera araba” non sono servite ad eliminare le prospettive dal segno positivo per il futuro economico di alcuni tra quei paesi; rivela un’indagine condotta da Unioncamere e Cresme Ricerche come, con riferimento al mercato delle costruzioni, l’area del Nord Africa sia destinata a conoscere, nel corso del prossimo anno, una crescita straordinaria del 5%, esercitando, di conseguenza, un influsso positivo nei confronti di tutte quelle imprese italiane che guardino a queste zone motivate da interessi e aspirazioni di natura commerciale.

Appena qualche settimana fa, nel corso del Made expo 2011, Federcostruzioni presentava il suo secondo Rapporto sul Sistema italiano delle costruzioni, sottolineando il permanere, nel 2010 e con riferimento al nostro mercato interno, di “una situazione di forte crisi che, secondo le valutazioni dell’Ance proseguirà anche nel 2011 e nel 2012”; tra le cause rilevate: il basso livello della domanda privata, la progressiva riduzione delle risorse pubbliche per nuovi investimenti, la stretta creditizia operata dagli istituti bancari e i forti ritardi nei pagamenti alle imprese, da parte delle amministrazioni pubbliche, per lavori eseguiti.

A sorreggere il mercato, tuttavia, sembrano essere intervenute le esportazioni, alle quali è stato destinato mediamente il 35% del valore della produzione nei settori collegati alle costruzioni: “se si esclude il settore delle costruzioni in senso stretto, che per definizione produce esclusivamente per il territorio nazionale, gli altri settori del sistema italiano delle costruzioni mostrano una forte propensione all’export”. A spingere verso tale tendenza è stato innanzitutto il settore delle piastrelle e ceramica sanitaria, con una percentuale di destinazione esterna pari al 72% dell’intera produzione; a seguire, la produzione di macchine per il movimento terra, con una propensione del 61% nel 2010, in rialzo rispetto al 58% individuato nel 2009; poi il comparto delle tecnologie meccaniche per le costruzioni (dal 49% al 51%), l’elettronica per l’edilizia (dal 37% al 38%), il settore del legno e dell’arredamento (dal 35% al 36%), la siderurgia (33%), i servizi di ingegneria, architettura, analisi e consulenza tecnica (28%), il settore della chimica per l’edilizia (22%), i prodotti vetrari (15%), il settore stradale e del bitume (13%), la filiera del cemento e del calcestruzzo (3%), i laterizi (1%) e, infine, il commercio macchine per il movimento terra, da cantiere e per l’edilizia (0%).

Ecco, allora, che la prospettiva delineata da Unioncamere e Cresme sembra quasi proseguire idealmente il filone dell’indagine di Federcostruzioni e offrire un’alternativa commerciale alle imprese italiane che operino nel settore delle costruzioni.

I tempi di crisi, si sa, impongono la ricerca di nuove opportunità legate alle trasformazioni in corso e sono proprio le imprese che si dimostrano capaci di cogliere tali opportunità – penetrando in mercati e settori dalle forti potenzialità ancora parzialmente o quasi totalmente inespresse – che usciranno meno indebolite dalla difficile situazione attuale.

Una piccola premessa: come evidenzia uno studio realizzato dall’Area Research della Banca Monte dei Paschi di Siena – attraverso il quale si è cercato di analizzare “l’impatto che le turbolenze politiche hanno avuto sui sistemi bancari locali e come stia proseguendo il processo di bancarizzazione” – dopo una crescita del 3,8% del PIL nordafricano nel 2010, le previsioni per il PIL 2011 sono di una modesta crescita per Tunisia (+0% rispetto al +3,1% del 2010) ed Egitto (+1,2% rispetto al +5,1% del 2010) e di un calo a doppia cifra per la Libia. Algeria e Marocco, scosse in misura inferiore dal movimento rivoluzionario, dovrebbero attestarsi su una crescita di circa i4 punti percentuali, in linea con il 2010.

Veniamo ai dati dell’indagine Unioncamere-Cresme: complessivamente considerate, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco ed Egitto hanno conosciuto un incremento annuo medio (a valori costanti) degli investimenti in edilizia pari al 5,6%, nell’intervallo temporale compreso tra il 2000 e il 2009; il valore totale di questo mercato è giunto nel 2010 quota 57 miliardi di euro, dei quali ben 48 miliardi (la quasi totalità) sono riferiti a nuove costruzioni e il cui valore è pari quasi quanto l’intero mercato del nuovo in Italia (intorno ai 63 miliardi).

A causa della crisi, nel 2009, si è registrata in Occidente una contrazione, talvolta fino al 15-20%, degli investimenti e, allo stesso modo, anche il Nord Africa (a esclusione della Libia) ha conosciuto, a partire dall’inizio del 2010, una forte riduzione del proprio mercato (-0,9% negli investimenti complessivi in costruzioni: -1,3% in Algeria, -5,0% in Egitto, +5,5% in Marocco, -1,2% in Tunisia).

L’incertezza politica lamentata con particolare forza nell’anno in corso avrà, poi, conseguenze negative sul comparto costruzioni ancor più marcate, con la previsioni di una riduzione dell’1,4% dell’ammontare complessivo di investimenti nel 2011.

Grazie, tuttavia, al graduale stabilizzarsi della situazione economica, il 2012 pare sarà caratterizzato da una ripresa della crescita a ritmi simili a quelli registrati nel periodo precedente alla crisi: le stime parlano di un aumento complessivo annuale degli investimenti in costruzioni pari al 4,9% nel 2012 (così suddiviso: +7,1% in Algeria, +2,5% in Egitto, +4,7% in Marocco e +3,2% in Tunisia), al 4,7% nel 2013 (+ 4,2% in Algeria, +4,8% in Egitto, +5,7% in Marocco e +4,1% in Tunisia), al 5,1% nel 2014 (+3,8% in Algeria, +6,7% in Egitto, +5,8% in Marocco, +4,3% in Tunisia).

Nel 2007 gli investimenti pro-capite sono stati superiori ai 600 euro, quota che sale ai 680 euro nel 2009, per poi riscendere ai 650 euro nel 2010 (comunque 158 euro a persona in più rispetto al 2000): lo scarto evidente con gli standard occidentali (dove le stime parlano di circa 2.000 euro pro-capite) lascia intendere quanto elevati siano i potenziali margini di crescita per il settore.

Nel Nord Africa si sono concentrati anche molti investimenti esteri diretti, registrando il passaggio dai 3 miliardi del 2000 ai 13 miliardi di euro nel 2009.

Nonostante la crisi, risultano pressoché raddoppiate le importazioni tra il 2000 (quando raggiungevano i 75 miliardi di euro) e il 2009 (arrivavano a 152 miliardi di euro), e, nello stesso intervallo temporale, sono risultate in crescita anche le esportazioni (passate da 81 a 125 miliardi di euro).

Nel periodo compreso tra il 2000 e il 2010, l’economia nordafricana è salita di quasi 55 punti percentuali in termini di Pil reale e di 30 punti percentuali in termini di ricchezza pro-capite.

La popolazione attuale, ancora molto “giovane”, è di oltre 163 milioni di persone e gli analisti evidenziano il trend di un vero e proprio boom anagrafico, trend che potrebbe condurre tra quattro anni al superamento dei 177 milioni di persone.

Il peso del turismo è oggi maggiore del 4% del Pil (pari a 17 miliardi di euro nel 2008), con un percentuale che supera – giusto per rendere l’idea – quella riferita al contesto italiano, a quello spagnolo e a quello francese. La crescita stimata è del 9% tra il 2005 e il 2008 e le prospettive sembrano essere notevolmente positive, grazie al probabile incremento dei flussi turistici ad opera dei Paesi emergenti quali Cina, India e Russia. Non bisogna dimenticare, tuttavia, come gli effetti della “Primavera araba” siano stati avvertiti anche in questo settore così strategico: se per Egitto e Tunisia rappresenta addirittura il 10% del PIL, dall’inizio del 2011 esso ha visto crollare gli arrivi del 40% per l’Egitto ed in misura più significativa per la Tunisia, come evidenzia lo studio della Banca Monte dei Paschi di Siena.

Unioncamere e Cresme hanno, poi, concentrato la propria attenzione sulle prospettive del mercato delle costruzioni in Libia, teatro delle più recenti sommosse: dopo il brusco arretramento registrato negli ultimi due anni, pare che, a partire dal 2012, il settore conoscerà un intenso rilancio, con investimenti vicini ai 4 miliardi di euro, dovuto primariamente alla progressiva stabilizzazione e democratizzazione del Paese. Il governo, scosso dalle distruzioni portate dalle lotte armate, dovrà, procedere alla ricostruzione di vaste aree e si presume continuerà nell’operazione d’infrastrutturazione avviata dal precedente apparato dirigente.

Veniamo ai numeri: prima dello scoppio della guerra, il reparto costruzioni complessivamente considerato valeva, in termini di investimenti, più di 5 miliardi di euro (più precisamente: 5,1 miliardi nel 2007, 5,6 miliardi nel 2008, 6,7 miliardi nel 2009 e 5,3 miliardi nel 2010). Scomponendo gli investimenti in maniera più dettagliata, le stime parlano di: un settore residenziale valutato 1,2 miliardi di euro nel 2007, nel 2008 e nel 2010 e 1,6 miliardi nel 2009 (anno d’oro per il mercato delle costruzioni in Libia); un settore delle infrastrutture che coinvolge quasi la metà dell’intero mercato costruzioni, con investimenti che da 1,9 miliardi nel 2007 sono passati a 3,0 miliardi nel 2008, addirittura 3,2 miliardi nel 2009 e 2,3 miliardi nel 2010; infine il settore del non residenziale che valeva 2,1 miliardi nel 2007, 1,3 miliardi nel 2008, 1,9 nel 2009 e 1,7 nel 2010.

In dieci anni (tra 2000 e 2010) gli investimenti in opere pubbliche sono stati di entità pari a circa 26 miliardi di euro, corrispondenti a più di 5.500 Euro pro-capite (a parità di potere d’acquisto), dunque – ci dicono Unioncamere e Cresme –  quasi il doppio rispetto alla media mondiale.

La difficile situazione dell’anno in corso ha più che dimezzato il valore del mercato costruzioni, tuttavia le previsioni vedono un ritorno, entro due o tre anni, ai livelli precedenti la crisi: gli investimenti coinvolgeranno primariamente le attività di nuova costruzione, nel settore residenziale e dell’ingegneria civile. Stando alle stime, si passerà dai 3,8 miliardi di Euro impiegati nel 2012 (così suddivisi: 0,9 miliardi nel settore residenziale, con un incremento dell’82,7% rispetto all’anno precedente; 1,9 miliardi nelle infrastrutture, con un +77,8% annuale; 1 miliardo nel non residenziale, pari ad un +81,6%) ai 3,9 miliardi investiti nel 2013 (0,9 miliardi nel residenziale, 1,9 miliardi nelle infrastrutture e 1,1 miliardi nel non residenziale), ai 4,1 miliardi nel 2014 (1 miliardo nel residenziale, 2 miliardi nelle infrastrutture e 1,1 miliardo nel non residenziale) e alla stessa cifra spesa anche nel 2015 (suddivisione per settori uguale all’anno precedente).

I segnali per uno sviluppo, quindi, l’abbiam visto, ci sono: si tratta di uno sviluppo non solo economico, ma anche sociale, per un contesto in cui anche le imprese italiane hanno giocato e potrebbero giocare una parte tutt’altro che marginale.

Oggi l’Africa non rappresenta più un grande bacino di risorse naturali al quale attingere per sostenere il proprio sviluppo economico, ma un potenziale mercato di sbocco per le esportazioni italiane, soprattutto per quelle riferite ai settori tipici del made in Italy.

Pubblicazione: PMI-dome

Il Social media marketing nelle Piccole e Medie Imprese

Per inserirsi nei nuovi canali, le imprese devono pensare ad una strategia coerente con i servizi e i prodotti offerti

Cominciamo la nostra riflessione con un inquadramento terminologico. Il Search Engine Marketing, o SEM, rappresenta quella sezione del Web Marketing che si applica ai motori di ricerca e che, quindi, implica tutta una serie di attività volte a generare traffico qualificato verso un determinato sito web.

All’acquisto di spazi pubblicitari e all’adozione di campagne Pay per Clic (PPC), deve necessariamente far seguito, in questo senso, uno specifico piano di Search Engine Optimization (SEO), intendendo con questo termine l’analisi approfondita e l’ottimizzazione di una pagina o di un intero sito web al fine di migliorarne il posizionamento nelle serp dei motori di ricerca, attraverso strumenti onpage (keyword, tag, metatag…) e offpage (link building, promozione su blog, forum, article marketing e comunicati stampa…).

A metà strada tra uno sviluppatore web e un esperto di web marketing, l’addetto al SEO risulta la figura più “tecnica” del fare marketing online, poiché egli deve avere conoscenza base di alcuni strumenti di sviluppo web.

Il recente e massiccio sviluppo dei social network ha, tuttavia, imposto la ricerca di nuove metodologie per ottenere visibilità nel web, che vanno sotto il nome di Social Media Optimization (SMM) e l’approccio più nuovo del marketing, quello collegato ai social media, assume la definizione di Social Media Marketing (SMM), appoggiandosi – ci dice Jason Jantsch (citato da Maltraversi in “SEO e SEM – Guida avanzata al web marketing”) – sulle quattro C (contenuto, contesto, connettività e community): “Tons of relevant, education based, and perhaps ‘user generated’ content that is filtered, aggregated, and delivered in a context that makes it useful for people who are starving to make connections with people, products, and brands they can build a community around”.

Grazie all’integrazione della propria attività in questi canali, le imprese possono riuscire a veicolare nuove visite nel proprio sito web principale e a migliorare la propria reputazione online. Alla base vi è l’idea che, essendo presenti in più parti, sarà più facile attirare nuovi clienti, ma certo, affinché tale idea risulti efficace, è necessario che l’inserimento dell’impresa nei nuovi mezzi avvenga in modo coerente al target individuato, al prodotto o servizio che si intende presentare e al mezzo stesso che si è scelto di utilizzare.

È importante sottolineare come quella dei social non rappresenti una strada obbligatoria a prescindere da altre considerazioni, come non sia sufficiente avere una pagina Facebook per dirsi al passo coi tempi e con l’evoluzione; la facilità e il costo pressoché nullo con cui è possibile realizzare e gestire un account aziendale spingono spesso le piccole e medie imprese a intraprendere il nuovo percorso senza prima stilare un’adeguata politica di web marketing integrata e senza pensare a delle risorse umane e temporali dedicate in via esclusiva allo sviluppo di tale percorso. I canali social vengono visti come un aspetto pressoché ludico, qualcosa di simile ad un volantino pubblicitario e, come nella più solida prassi aziendale, la loro gestione viene spesso affidata allo stagista di turno o ai ritagli di tempo di impiegati dediti abitualmente ad altre attività.

A differenza di un sito internet, che potrebbe idealmente rimanere invariato anche per settimane, i social network necessitano di un aggiornamento costante, richiedono uno sforzo maggiore, impongono un confronto diretto con i propri utenti, un’esposizione alle critiche e un’immensa pazienza poiché i risultati sono tutt’altro che immediati per le piccole e medie realtà.

Non una strada obbligata, dunque, ma un’opportunità di crescita. Questi network permettono di conoscere i propri utenti, di capire quello che cercano e quali sono i loro interessi, consentono la realizzazione di nuove formule originali per la propria attività aziendale e possono condurre a degli sviluppi inattesi e certo graditi in termini di evoluzione qualitativa della stessa attività. Il limite estremo di un loro intenso utilizzo potrebbe essere l’elaborazione di un nuovo approccio collaborativo alla produzione di beni e servizi e, dunque, la creazione di nuovi modelli di business; da un’idea di impresa quale ambiente chiuso e gerarchico, basato su un rapporto rigido tra un titolare e i suoi dipendenti, a “una serie di ‘reti del capitale umano’ sempre più distribuite – collaborative e basate sull’organizzazione autonoma – che traggono conoscenza e risorse dall’interno come dall’esterno” (Don Tapscott e Antony D. Williams, “Wikinomics 2.0 – La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo”).

Con riferimento al rapporto impresa – cliente, l’aspetto da più parti evidenziato è come questi canali raggruppino di fatto già tutta una serie di potenziali utenti inquadrati per categorie più o meno stardard: gruppi, pagine d’appartenenza e caratteristiche anagrafiche sono in grado di fornire delle informazioni utili all’azienda, la quale deve essere capace di intercettare quelle fasce di pubblico coerenti con la propria attività, dunque potenzialmente interessate ad esserne coinvolte.

Alla base vi sono, comunque – anche per le piccole imprese, quelle con scarse risorse ma molta voglia di mettersi in gioco – la capacità di ascolto, la creazione di contenuti di qualità, diversificati e pensati esclusivamente per il nuovo canale, l’abilità nel riuscire a far parlare di sé e della propria attività, di incuriosire i propri visitatori, di offrire una comunicazione veramente multimediale e di avere una certa costanza nella propria presenza.

Qualsiasi azione idonea a promuovere il proprio brand attraverso i social media “non dura 15 giorni”, come evidenzia Giorgio Soffiato di MarketingArena Consulting ai margini di un incontro tenutosi qualche giorno fa a Rovigo (dal titolo “Il Social Media Marketing per le piccole e medie imprese: un approccio operativo”): “abbiamo recentemente sviluppato una campagna di comunicazione off line per Prontocapelli, manifesti in tutta la città ed ottimo ritorno in termini di branding. Un effetto che va però scemando alla fine del costoso investimento. Un lavoro di 15 giorni sui social media può essere utile per mettere le basi su un progetto di lungo periodo, e soprattutto con quel budget si possono fare un sacco di prove”; si rende allora necessaria una “complementarietà tra questi strumenti, ma è innegabile che il web marketing nel lungo periodo può fare molto”. “I first mover o early adopters – prosegue Soffiato – “portano sempre a casa più degli altri, e il lavoro nel lungo periodo paga. I trucchetti lasciamoli a chi vuole ottenere ‘risultati flash’ ma non si ritroverà su questi schermi tra 1 anno”.

Muoversi subito e saper realmente innovare, avendo la costanza e al contempo la pazienza necessarie ad ottenere dei risultati tangibili. Questo, dunque, in estrema sintesi, ciò che viene auspicato per le piccole e medie imprese italiane.

Altro aspetto da non sottovalutare è che, contrariamente a quanto si è portati a pensare, Facebook non rappresenta l’unica potenziale destinazione per una discesa efficace sul lato social: gli strumenti potenzialmente utili alle aziende sono moltissimi e una strategia di Social Media Marketing realmente funzionale deve essere in grado di capire su quali di questi strumenti sia meglio orientarsi, in relazione al proprio brand, ai prodotti e servizi offerti, alle risorse di cui si dispone e al pubblico che si intende raggiungere.

Dal networking professionale di LinkedIn e Xing, al microblogging di comunicazione aperto e multipiattaforma targato Twitter; dagli strumenti Google, sicuramente utili anche ai fini del buon posizionamento, all’ampia personalizzazione permessa da MySpace, uno dei primi social, utilizzato soprattutto da giovani (dai 14 ai 25 anni) e – seppur tendenzialmente snobbato dagli esperti di marketing, che lo ritengono tra gli strumenti meno validi – potenzialmente funzionale ai fini di una campagna di marketing dedicata alla musica o, genericamente, ad un pubblico di adolescenti; dal proprio canale video personalizzato su Youtube, alla pubblicazione di album fotografici su Flickr; dalla condivisione di documenti e presentazioni su SlideShare, alla condivisione trasversale di FriendFeed; dalla possibilità di accrescere la propria reputazione online offerta da Wikipedia, ai numerosi siti di social bookmarking (Del.icio.us, StrumbleUpon, Diigo) e di social news (Digg, Reddit, Yahoo!Buzz, Newsvine, Mixx); e ancora, meno conosciuti, ma di potenziale interesse: Bebo (usato soprattutto in Australia e nel Regno Unito, quindi funzionale ad una eventuale espansione verso quei mercati), Orkut (ha avuto successo soprattutto in Brasile e in India), Hi5 (in America Latina, Asia, Africa), DeviantArt (dedicato a chi ama l’arte e la fotografia), Yelp (particolarmente usato negli Stati Uniti e indicato per i locali di ristorazione), Scribd (per la condivisione di documenti ed e-book, simile a SlideShare), Epinions (per recensire prodotti, dunque utile per una campagna di brand marketing o per incrementare la online reputation) e Squidoo (consente di creare pagine web, sfruttando modelli standard).

Sono tutti strumenti adatti ad inserire la propria attività nella Rete e, in alcuni casi, a potenziare il proprio servizio clienti, per il supporto alla vendita o all’assistenza; a vincere su tutto, in questi canali, è il valore della relazione che si viene a creare tra imprese e clienti, dunque un linguaggio di natura commerciale non sembra essere idoneo, a meno che esso non rimandi a offerte pensate ad hoc, periodiche ed esclusive, capaci di creare una certo grado di fidelizzazione.

I mezzi, in definitiva, ci sono, spetta alle aziende, in particolare a quelle più piccole, l’arduo compito di comprendere quale sia la posizione ideale con riferimento ai propri obiettivi aziendali.

Pubblicato su: PMI-dome

L’Agcom fotografa l’Italia delle telecomunicazioni

Diminuiscono gli accessi alla rete fissa, aumentano quelli della banda larga e del traffico dati su rete mobile

“Fornire una visione di sintesi sul quadro congiunturale dei mercati TLC”.

È questo l’obiettivo dichiarato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) nel dare avvio alla pubblicazione di un “Osservatorio trimestrale sulle telecomunicazioni”.

Compiendo una serie di stime ed elaborazioni su dati forniti direttamente dagli operatori, l’Autorità metterà a disposizione delle imprese, dei consumatori e dei media una fedele fotografia del mercato, evidenziandone l’andamento, le tendenze e le forze competitive.

Nel comunicato stampa che presenta e formalizza la nuova istituzione si sottolinea come inizialmente le valutazioni siano basate “su un ristretto numero di indicatori (abbonati, ricavi, quote di mercato, etc.)”, lasciando intendere un futuro e progressivo affinamento nelle modalità di monitoraggio dei mercati di rete fissa e mobile.

Cerchiamo, allora, di comprendere la situazione delineata dal primo rapporto dell’Osservatorio, riferito al secondo trimestre 2011.

Si riducono, in generale, gli accessi alla rete fissa, mentre sembrano aumentare banda larga e traffico dati su rete mobile.

Entrando un po’ più nello specifico del fenomeno indagato e analizzando distintamente le diverse componenti del settore, si apprende che complessivamente, nel periodo considerato, gli accessi diretti alla rete fissa erano 21.264.000, dei quali 14.990.000 riconducibili a Telecom Italia e 6.274.000 ad operatori alternativi (OLO).

Questi dati risultano omogenei con quanto indicato nella tabella 2.15 della Relazione Annuale Agcom 2011, includendo, oltre agli accessi fisici Telecom Italia, anche gli accessi full unbundling (voce e dati), Dsl Naked e Fibra.

Rispetto al secondo trimestre dello scorso 2010, gli accessi totali si sono ridotti di 353.000 unità (erano 21.617.000, di cui 15.770.000 Telecom e 5.847.000 altri operatori): Telecom ha registrato in un anno una flessione pari a 780.000 accessi, mentre gli operatori alternativi hanno conosciuto un incremento di 427.000 accessi.

Di conseguenza, scende anche la quota di mercato riferita a Telecom (-2,5 punti percentuali), che passa dal 73% al 70,5%. Le uniche imprese a crescere in maniera abbastanza significativa nel periodo considerato sono Wind – con un +1,2% (da una market share del 10,1% nel 2010 a una di 11,3% nel 2011) – e Vodafone Italia – con un +1,1% (da 6,7% a 7,8%): esse si confermano rispettivamente come primo e secondo operatore alternativo di rete fissa. Seguono Fastweb (quota di mercato pari al 7,4% in lievissimo aumento rispetto al 7,3% rilevato nel 2010), Tiscali (1,9%, stessa percentuale del 2010), BT Italia (0,4%, come nel 2010) e altri (0,6%).

Restringendo la prospettiva ai soli operatori alternativi, l’Agcom evidenzia come le linee xdsl rappresentino la modalità di accesso diretto più utilizzata. A giugno 2011 gli accessi in unbundling (sia ULL sia VULL) hanno superato i 4.900.000, con un incremento di 315.000 unità rispetto a giugno 2010.

Al primo posto della classifica relativa alle quote di mercato dei soli OLO si colloca Wind (38,4%, in aumento rispetto al 37,2% evidenziato nel secondo trimestre 2010), seguita, in ordine decrescente, da Vodafone (26,5%, in crescita rispetto al 24,8% del 2010), Fastweb (25,2% contro 26,9% nel 2010, con un leggero calo), Tiscali (quota del 6,3%, in decremento rispetto al 2010, quando era del 7,1%) e BT Italia (1,4% contro 1,6% nel 2010, in lieve diminuzione).

Nel secondo trimestre 2011 gli accessi alla banda larga sono stati in totale 13.516.000, registrando un incremento di 664.000 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, in cui gli accessi erano 12.852.0000.

Aumenta, quindi, la velocità di accesso in download: negli ultimi dodici mesi gli accessi con velocità nominale pari o superiore a 2Mbit/s sono passati da quasi l’80% a quasi l’84%; tale variazione non appare, tuttavia, particolarmente significativa, se si considera l’estesa definizione di “banda larga” offerta da Agcom (2Mbit/s non rappresenta, infatti, un livello particolarmente elevato di banda larga).

Sempre con riferimento agli accessi a banda larga, è stata, inoltre, rilevata una riduzione della quota di mercato riferita a Telecom Italia (53,1%, contro 55,6% del secondo trimestre 2010, con un -2,5 punti percentuali), a vantaggio sostanziale di Vodafone (12,5%, contro 10,4% dello scorso anno, con un +2,1 punti percentuali) e Wind (15,6%, contro 13,9% del 2010, con un +1,7 punti). Gli altri operatori perdono circa l’1,5%.

Per quanto riguarda le linee mobili, quelle attive risultavano essere, nel secondo trimestre 2011, ben 91.132.000, in consistente crescita rispetto al dato (89.084.0000) riferito al secondo trimestre 2010.

Tale crescita sembra derivare principalmente dal sempre più intenso utilizzo di sim per il traffico dati: nel primo semestre 2011 il numero di sim che hanno effettuato traffico broadband dati è stato pari a 17.305.000, in aumento del 12% rispetto allo stesso periodo 2011, quando le stime parlavano di 15.445.000. Sempre a giugno 2011 le “connect card” dedicate raggiungevano quota 5.803.0000, registrando un incremento sulla quota riferita al 2010 (pari a 4.801.000) di 20,8 punti percentuali. Complessivamente il traffico dati sembra aver conquistato gli 85.189 terabyte da inizio anno e fino a giugno, con una dilatazione pari al 53,2% rispetto ai 55.600 terabyte riferiti al 2010.
Anche il traffico telefonico appare, nel primo semestre 2011, in aumento, precisamente dell’8% rispetto allo stesso arco temporale riferito al 2010, riuscendo a raggiungere gli oltre 65 miliardi di minuti; in rialzo del 6% anche il numero di SMS inviati, che arriva quasi a quota 44 miliardi da inizio anno. Risulta “prepagato” l’83,6% delle linee attive, con una leggera flessione rispetto a giugno 2010, quando la percentuale era dell’84,7%. Nel 2011 la clientela business è passata dall’11,8% al 12,3% del totale, arrivando a superare, in giugno, quota 11,2 milioni di sim.
Sale di circa un punto percentuale la quota di mercato mobile detenuta da Wind (che passa dal 21,6% del 2010 al 22,6% del 2011), a svantaggio, in particolare, di Vodafone (che passa, invece, dal 34,1% al 33,2%). Con il 34,3% di share (stabile rispetto allo scorso anno), è comunque Telecom Italia che si riconferma a capo del mercato mobile, mentre 3 Italia mantiene la propria quota del 10,0% (la stessa del 2010).
Crescono di anno in anno gli abbonati tramite Mobile Virtual Network Operator (MVNO: operatore virtuale di rete mobile), che arrivano a sfiorare i 4 miliardi (per la precisione 3.922.000): nel 2011 e rispetto all’anno precedente, questi operatori hanno visto incrementare di 795.000 unità le proprie linee d’utenza e sono riusciti a guadagnare complessivamente una quota di mercato pari al 4,3%. Il traffico consumato tramite MVNO aumenta, di conseguenza, del 25,7%, allo stesso modo gli sms inviati nei primi sei mesi del 2011 hanno conosciuto un incremento del 55,7%.

La fetta più grande del mercato MVNO è occupata da Poste Italiane, che, con un aumento di 5 punti rispetto al 2010 e grazie anche alla progressiva integrazione della telefonia mobile con i servizi postali, ha raggiunto una percentuale del 50,6%. Al secondo posto si colloca Fastweb (13,9%, con un aumento di 0,9 punti rispetto alla quota del 13,0% individuata nel 2010), poi seguono Coop Italia (10,8%, in diminuzione di 1,9 punti rispetto al 12,7% del 2010), Carrefour (6,3%, contro il 7,0% del 2010), Daily Telecom (5,4% contro 6,3%), e Erg Petroli (5,5% contro 4,6%).

Con riferimento, infine, alle linee telefoniche mobile portate, pare che esse abbiano raggiunto quota 32.821.000 a giugno 2011 (si tratta di un dato cumulato).
La procedura della portabilità del numero, lo ricordiamo, si sviluppa attorno a tre soggetti: l’utente che decide di cambiare gestore telefonico pur mantenendo il proprio numero, l’operatore cedente (definito donating) e l’operatore ricevente (chiamato recipient).

Nel primo semestre 2011, gli operatori mobili virtuali hanno svolto la funzione di recipient per circa 900.000 linee, delle quali poco meno di 100.000 sono relative al solo secondo trimestre 2011. Il saldo “donating-recipient” relativo a Telecom Italia – ricorda ancora Agcom – rimane negativo per tutto il primo semestre 2011, tuttavia tende a migliorare nel secondo trimestre (-143.000) rispetto al primo (- 253.000). Peggiorano parallelamente il saldo Vodafone, che addirittura passa da +69.000 del primo trimestre a -31.000 del secondo, e quello Wind (da 150 a 130.000 circa).

Pubblicato su: PMI-dome

La rivoluzione è mobile

Stando a quanto riportato da The Economist, il 2011 sarebbe l’anno in cui ha inizio dell’era “post-pc”

The revolution is mobile” scriveva qualche giorno fa il settimanale britannico The Economist  compiendo una serie di riflessioni circa la portata attuale e futura del paradigma mobile.

Tra quelli riportati, il dato che maggiormente ha creato stupore è stato quello riferito alla vendita combinata di smartphone e tablet che, in base alle stime fornite dalla banca d’affari Morgan Stanley, sarebbe, per l’anno in corso, superiore a quella dei personal computer, portatili compresi.

Secondo alcuni si tratterebbe di una svolta storica, l’inizio dell’era cosiddetta “post Pc”, come profetizzato anche da Steve Jobs: l’anno della sua morte verrebbe, allora, a coincidere con la fine dell’epoca definita “Wintel” (termine che sta ad indicare, con un’accezione leggermente negativa, il regime di monopolio instaurato dal connubio tra Microsoft e Intel per la realizzazione di computer dotati di sistema operativo Windows e hardware Intel) e con il parallelo ed effettivo avvio dell’epoca mobile e delle sue molteplici manifestazioni, quasi una celebrazione del mondo intero alla sua visione sul futuro dell’innovazione tecnologica e sociale.

Il mercato dei PC, fissi e portatili, non pare certo in totale declino, anzi, dicono le previsioni, saranno tra i 350 e i 360 milioni gli esemplari venduti quest’anno, segnando una tendenza di crescita, seppur piuttosto lenta. Ovviamente, poi, alcune attività rimarranno ancora per molto tempo di esclusivo appannaggio dei PC, i quali, grazie a tastiera, grande schermo e connettività veloce, consentono delle prestazioni che, al contrario, mal si conciliano con gli inevitabili limiti fisici del mobile; rimane, allora, in capo a questi strumenti il primato relativo alla produzione di contenuti (al contrario dell’esperienza fruitiva, conquistata dal mobile). I PC tradizionali, inoltre, stanno attraversando una sottile rivoluzione interna, con l’uscita di modelli sempre più leggeri, come l’“ultrabook”. Tuttavia il decennale dominio dei personal computer, che ha visto un passaggio da cento milioni di esemplari nel 1993, a un miliardo nel 2008, viene ora superato dal vero e proprio boom nel mobile, con l’attesa di dieci miliardi di device (smartphone e tablet) nel 2020.

Termina, dunque, si sottolinea dalle file del settimanale The Economist, il dominio, che per una trentina d’anni è stato incontrastato, del PC, mezzo fondamentale di democratizzazione, nel permettere un incremento nella produttività personale e nel dare libero accesso, tramite la rete, ad una serie di servizi, rimanendo comodamente a casa o in ufficio. In questa chiave vanno forse letti i recenti rumors in base ai quali Hewlett-Packard (HP) starebbe valutando lo scorporo della divisione Personal Systems Group.

Si procede, a ben guardare, lungo la strada della miniaturizzazione tecnologica, con degli strumenti che, grazie al loro essere estremamente maneggevoli, leggeri e portatili, continuano ad incontrare il crescente favore del pubblico. A questo si aggiungano i passi avanti compiuti nel senso della velocità di connessione e dello sviluppo di applicazioni ad hoc, capaci di rendere la fruizione del tutto originale e ritagliata sulle specifiche esigenze dell’hic et nunc. Una fruizione, dunque, ancor più intima e personale di quella sviluppata con i personal computer, che pure nel nome rimandano a questo rapporto di unicità. Una fruizione, in definitiva, che potrebbe facilmente tradursi in una sorta di dipendenza, nel dialogo con il dispositivo e, attraverso questo, con la cerchia dei nostri conoscenti.

Alcuni hanno cercato di ridimensionare il dato riferito al sorpasso, collocandolo in una situazione di semi-saturazione del mercato PC, nella quale i nuovi acquisti vanno semplicemente a sostituire i vecchi dispositivi, le cui prestazioni, con riferimento all’utente medio, possono durare anche quattro-cinque anni.

Dal mio punto di vista, invece, simili confronti, seppur estremamente significativi, mancano di cogliere come, in realtà, ci si stia riferendo a due strumenti molto diversi tra loro, accumunati da alcune funzionalità di base, ma destinati a due modelli percettivi e fruitivi completamente differenti. I dispositivi mobile ben si prestano, ovviamente, ai ritmi di vita sempre più frenetici e dinamici e si candidano – in Italia lo sappiamo meglio di chiunque altro – a diventare indice immancabile di un particolare status symbol. Tuttavia la loro esistenza termina laddove vengano richieste delle performance più tecniche e pensate, appunto, per una attuazione non mobile. Ben vengano, dunque, i confronti, mantenendo, però, sempre ben presente il fatto che l’evoluzione tecnologica implichi sempre una riformulazione dei rapporti tra media, ma ciò non significa che vi siano necessariamente dei vinti e dei vincitori.

La diffusione riflette, forse, il cambiamento sociale, laddove si confondono sempre più sfera lavorativa e personale, con la tendenza a portare le pratiche anche fuori dall’ufficio, e si utilizza sempre più il mezzo internet per portare a termine qualsiasi azione, dall’informarsi, al fare shopping, al socializzare.

Altri due sono, poi, gli aspetti sui quali è necessario concentrare l’attenzione: innanzitutto l’aumento esponenziale, nei prossimi anni, della diffusione di laptop, aumento che pare essere molto simile a quello che conosceranno i tablet portatili; inoltre l’aumento nelle vendite di smartphone si accompagna ad una riduzione nelle vendite di cellulari tradizionali, il che starebbe ad indicare non una crescita incredibile dei cosiddetti cellulari intelligenti, ma una graduale sostituzione dei vecchi cellulari, a vantaggio di dispositivi simili ma dotati di maggiori funzionalità.

Ofcom, l’autorità competente e regolatrice indipendente per le società di comunicazione nel Regno Unito, ha recentemente rilevato come più di un adulto su quattro possieda ed utilizzi uno smartphone. Anche Nielsen, “leader mondiale nelle informazioni di marketing e nella rilevazione di dati sui consumi e sull’utilizzo dei media”, ha evidenziato come simili dispositivi costituiscano la maggior parte della spesa in telefonia mobile realizzata in America.

Secondo Yankee Group, una società di ricerche di mercato, le vendite di smartphone supereranno quelle dei telefoni normali nei prossimi anni; la loro diffusione sta coinvolgendo anche i mercati dei Paesi emergenti: in Indonesia, ad esempio, i dispositivi BlackBerry realizzati dalla canadese Research in Motion (RIM) stanno diventato uno status symbol tra la classe media del Paese, in rapida ascesa.

Parallelamente aumentano, seppur in misura inferiore, anche le vendite di tablet; in particolare, da quando l’iPad di casa Apple ha fatto la sua comparsa lo scorso anno, si è materializzata una serie di epigoni concorrenti, dal Playbook di RIM, al Galaxy Tab di Samsung, al Tablet di Sony, fino al nuovissimo Fire Kindle di Amazon.

Il sorpasso di smartphone e tablet sui computer evidenzia, inoltre, anche un grande cambiamento in atto nel mondo stesso della tecnologia digitale: i principali progressi registrati nell’ambito dei personal computer sono stati, per molto tempo, frutto di ricerche sviluppate tra le file delle forze armate e del big business, ricerche capaci di realizzare innovazioni e scoperte successivamente adattate e destinate al consumo di massa; la stessa rete Internet, ad esempio, è stato ispirato da una tecnologia sviluppata, in piena guerra fredda, dal sistema della difesa degli Stati Uniti. Tale tendenza pare essersi invertita negli ultimi dieci anni, con un mercato del consumo di massa destinato a farsi sempre più promotore di nuove formule e prassi digitali, da applicarsi solo in un secondo momento ad ambienti sofisticati e complessi. “Il consumatore è il re”, evidenzia, allora, il The Economist, rilevando un fenomeno che gli addetti ai lavori definiscono “consumerizzazione” dell’IT.

È ragionevole affermare che eserciti, università e altre istituzioni continueranno a spendere ingenti somme per finanziare la ricerca tecnologica, tuttavia alcune recenti tendenze fanno capire come tale fenomeno sia in continua crescita; l’aumento dei redditi in primis ha portato alla formazione di un vasto e globale pubblico early adapter per questi dispositivi: “queste persone saranno in grado di assorbire la nuova tecnologia su una scala che è semplicemente stupefacente”, afferma Craig Mundie, responsabile ricerca e strategia di Microsoft. Il costo, poi, di queste nuove tecnologie è in progressiva discesa, dando un continuo impulso ai consumi; l’e-reader Kindle, ricorda il settimanale, è arrivato ora a costare 79$, contro i 399 $ previsti per la prima versione lanciata nel 2007, inoltre vi sono alcune compagnie di telecomunicazioni che propongono l’acquisto a rate dei devices, accompagnato a piani tariffari per il loro utilizzo particolarmente convenienti. La crescita nella diffusione della rete e della connettività a banda larga hanno favorito i consumi, per questo motivo società forti quali Apple, Google e Amazon continuano a rivolgere in via preferenziale le proprie proposte innovative ai consumatori finali piuttosto che agli interlocutori istituzionali o a partner aziendali.

La combinazione tra nuovi dispositivi, connettività diffusa e abbondanza di contenuti online sta incrementando le aspettative dei cittadini circa i traguardi che la tecnologia può raggiungere. Allo stesso modo si tende a portare con sé tali dispositivi anche all’interno del proprio ambiente di lavoro, laddove, cioè, le tecnologie messe a disposizione sembrano non reggere il confronto in quanto a prestazioni; per questo motivo molte sono le aziende che sono chiamate a rivedere la propria abitudine a considerare i dipendenti del dipartimento IT come servi digitali, capaci di eseguire solo ciò che viene detto loro.

Il fiorente mercato della tecnologia intelligente di consumo può, in definitiva, rappresentare una forza fondamentale per dare nuovo impulso all’energia imprenditoriale, capace di creare nuovi prodotti dal forte impatto; esso, inoltre, incoraggia le organizzazioni di qualsiasi tipo ad adattare ai propri specifici scopi le innovazioni provenienti dal mondo consumer. Molte, quindi, in questo senso, le possibilità per emergere offerte alle imprese.

Pubblicato su: PMI-dome

 

Smart Cities, le sfide poste dalle “città intelligenti”

Nel corso dello Smau 2011, una serie di incontri e dibattiti dedicati alle Smart Cities impongono un momento di riflessione

Non molti giorni fa la mia attenzione si era soffermata su un video realizzato dalla Bit Editor Srl nel quale si dava voce e animazione ad una notizia relativa alla presentazione di alcuni progetti in materia di efficienza energetica, trasporti e pianificazione, in risposta ad un avviso pubblico del comune di Milano. In quell’occasione mi ero interrogata circa l’efficacia di simili campagne comunicative, mentre le contingenze attuali mi spingono a riflettere sul contenuto specifico veicolato da quella notizia: si è chiusa, infatti, lo scorso venerdì l’edizione 2011 di SMAU, l’evento fieristico milanese dedicato all’Information & Communications Technology, nel corso della quale è stata ospitata una due giorni (giovedì 20 e venerdì 21 ottobre) di laboratori e convegni dedicati al tema delle città cosiddette “intelligenti”, inaugurata da un convegno titolato “Smart Cities nel contesto italiano: le novità e riferimenti normativi europei e italiani, lefonti di finanziamento, le potenzialità di partnership pubblico/private”.

Con il termine “città intelligente” (o “smart city”) si intende un ambiente urbano nel quale sia possibile garantire uno sviluppo economico sostenibile, equilibrato e bilanciato con la domanda di benessere proveniente dalle persone che vi abitano; un ambiente in cui le tecnologie più avanzate strutturano infrastrutture di comunicazione, servizi e applicazioni di avanguardia, allo scopo di semplificare la vita dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni; un  ambiente alla ricerca di soluzioni avanzate nella gestione della mobilità e che punti all’efficienza energetica; un ambiente, in definitiva, interconnesso, sostenibile, confortevole, attraente e sicuro.

I progetti presentati nel video cui si faceva inizialmente riferimento, si inseriscono, allora, nell’iniziativa “Smart Cities and Communities”, promossa dalla Commissione europea e lanciata ufficialmente nel corso di una conferenza tenutasi il 21 giugno scorso a Bruxelles; essa prevede un programma di supporto (si è parlato di un primo finanziamento pari a 80 milioni di euro) rivolto ad un numero limitato e selezionato di città europee che abbiano presentato progetti di sviluppo innovativo, allo scopo di rendere le città del vecchio continente più sostenibili, efficienti, tecnologicamente e socialmente avanzate. In quell’occasione, il commissario europeo per l’Energia, Günther Oettinger, aveva sottolineato come le città abbiano un ruolo fondamentale “per gli obiettivi Ue sul risparmio energetico del 20% entro il 2020 e per lo sviluppo di un’economia a basse emissioni di carbonio entro il 2050, perché il 70% dell’energia dell’Unione viene consumata nelle città. Le città hanno inoltre un enorme potenziale per il risparmio energetico attraverso l’integrazione di tecnologie per favorire un uso efficiente delle risorse”.

Molte città italiane, tra cui appunto Milano (ma anche Bari, Torino Genova, Palermo e Catania e l’intera Sardegna), hanno già presentato la propria candidatura, proponendo investimenti indirizzati al patrimonio edilizio, all’efficacia energetica, alla pianificazione, al trasporto pubblico; sono numerose, quindi, le iniziative di ricerca, sperimentazione e dimostrazione poste in essere in tal senso, anche se non mancano i consueti ideologi del sospetto, i quali mantengono alcune remore circa l’efficacia di tali iniziative, essendo ancora difficile “capire se l’espressione ‘città intelligenti’ si connoterà davvero di nuova materia grigia foriera di soluzioni che coniugano ecologia ed economia, e non piuttosto della mistificazione finanziaria (un benedetto canale di fondi) per le magre casse comunali”.

Al di là dei legittimi sospetti, gli sforzi orientati in una questa direzione rappresentano sicuramente il presupposto fondamentale per l’elaborazione di una reale evoluzione urbana, dall’economia, al turismo, alla socialità, fino alla cultura stessa.

Una conseguenza diretta sarà, poi, la crescita del mercato delle tecnologie che alimentano i programmi di evoluzione in città intelligenti: pare che esso supererà in tutto il mondo i 39 miliardi di dollari nel 2016, contro gli 8 miliardi registrati nel 2010, mentre le città spenderanno complessivamente, in questi cinque anni, 116 miliardi di dollari per sostenere la propria trasformazione. Le stime appartengono ad Abi research, che ha esaminato 50 progetti in tutto il mondo, indagando, in particolare, le tecnologie più utilizzate per rendere una città “intelligente”, in modo da poter azzardare delle previsioni circa le possibili destinazioni dei soldi che verranno investiti. Le caratteristiche comuni a tutte i progetti sembrano essere: un’infrastruttura di rete, delle tecnologie Ict pensate per incrementare il benessere dei cittadini e la competitività delle imprese, l’innovazione, una pianificazione dello sviluppo urbano e regionale, l’attenzione alla sostenibilità sociale e ambientale (attraverso la partecipazione reale dei cittadini alla vita della città). Tuttavia, come aveva sottolineato Larry Fisher, practice director di Abi Research, nel presentare i risultati, i progetti variano molto da città a città e non esiste, dunque, un modello o un approccio unico di riferimento da applicare anche in contesti diversi: “nel lungo termine, l’adozione di standard aperti sarà di importanza fondamentale per le tecnologie che dovranno far funzionare e promuovere lo sviluppo delle Smart cities in tutto il mondo”.

Punto di partenza ideale per la ricerca di un comune denominatore tra i soggetti implicati nel processo, è stato allora, con riferimento al contesto italiano, lo Smau 2011. Svoltosi dal 19 al 21 ottobre a Fieramilanocity, esso rappresenta un “luogo privilegiato di incontro tra fornitori di soluzioni ICT e imprese e pubbliche amministrazioni che le utilizzano” e, nello specifico, la manifestazione dedicata al tema delle Smart Cities, sulla quale vorrei in questa sede soffermarmi, ha permesso ai Sindaci di alcuni Comuni italiani di far conoscere al pubblico la propria esperienza sul tema, i percorsi delineati e i programmi futuri; allo stesso tempo le aziende fornitrici di ICT hanno inteso illustrare le molteplici soluzioni e applicazioni messe a disposizione dallo sviluppo tecnologico, proponendosi come promotrici dell’avanguardia socio-ambientale. Tra le tematiche trattate, troviamo: l’efficienza energetica, il controllo dei consumi, l’edilizia sostenibile, la mobilità, la sicurezza pubblica, il turismo, la valorizzazione dei beni culturali e la ricerca dei finanziamenti necessari per dare avvio ai progetti. La tavola rotonda introduttiva – moderata da Giancarlo Capitani, Professore di Digital Cities & Urban Planning presso il Politecnico di Milano e Presidente di Net Consulting – si è aperta con l’intervento di Pierantonio Macola, Amministratore Delegato Smau, secondo il quale il tema delle Smart Cities “sta sempre più maturando presso gli amministratori locali italiani che intravedono, nell’utilizzo delle tecnologie, un’opportunità per gestire in modo efficiente i servizi al cittadino e, al tempo stesso, operare risparmi di costo destinati a durare nel tempo”; egli ha presentato l’Osservatorio Smau-Anci, realizzato, appunto, in collaborazione con l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, con l’obiettivo di “innescare un vero e proprio cambiamento culturale alla ricerca della ‘via italiana all’innovazione’”, cercando di promuovere “le eccellenze che l’Italia può offrire in questo settore” e facilitando il processo di rinnovamento attraverso “approcci adeguati per lo sviluppo di partnership pubblico-private tarate sulle esigenze dei comuni”.

Parlando per conto dell’Anci, è intervenuto, allora, Alessandro Cattaneo (Sindaco di Pavia), il quale ha cercato di affrontare il tema dal punto di vista delle amministrazioni pubbliche: “i sindaci dell’Associazione cercano costantemente di capire come dare risposta all’equazione solo apparentemente irrisolvibile di riuscire a offrire sempre più servizi con qualità maggiore e costi più ridotti”. Secondo Cattaneo la sfida maggiore e “non più rinviabile” che si pone per le P.A. sarebbe di ordine culturale più che tecnologico, poiché “esiste ancora una certa ritrosia” al pieno utilizzo delle tecnologie necessarie ad affrontare il cambiamento. “Guardare a eventi come questo, che uniscono allo stesso tavolo soggetti pubblici e privati, può configurarsi davvero come un primo banco di prova per apprendere quelle best practice che possono traghettare un progetto pilota fino a raggiungere una più vasta scala”, ha concluso.

Pier Francesco Maran, assessore alla Mobilità, Ambiente e Arredo urbano del comune di Milano, ha sottolineato come “gli investimenti in Smart City non sono […] solo spese ma modi per produrre risparmi che poi rientrano, che si tratti di energia o di rifiuti”; “se i problemi prima venivano impostati solo in ragione della buona volontà oggi esistono soluzioni tecnologiche su misura” e, affinché tali soluzioni si dimostrino efficaci ai fini dello sviluppo   “l’importante è saper declinare le potenzialità offerte dell’innovazione e riuscire ad andare oltre le singole esperienze di eccellenza lavorando in sinergia con altre realtà”.
Capitani, riportando delle stime, ha affermato che “nel 2025 le prime 1000 città del mondo contribuiranno da sole alla crescita di quasi il 70% del PIL mondiale. Questo significa che non si limiteranno solo ad aggregare popolazione ma anche i processi innovativi, diventando primo motore di sviluppo sociale”. Egli ha, allora, evidenziato come in Europa sia in atto “una presa di coscienza nelle trasformazioni delle città in ‘Smart Cities’”, i cui principali ambiti di intervento sono: Sustainable Living, Smart Economy, Smart Mobility, Smart Governance, Smart technologies Sustainable Environment e Smart People/Smart Tourist”. Il contesto italiano sarebbe, tuttavia, caratterizzato da una forte eterogeneità di progetti, non inquadrati in un coordinamento nazionale, i quali richiederebbero “un adeguato piano strategico, una roadmap che individui tempi e modalità di realizzazione e soprattutto una buonaGovernance, ovvero aver ben presente chi possiede le competenze e i poteri per realizzare detti piani”; Capitani arriva, infine, a suddividere i comuni in tre categorie – Anticipatori, Emergenti e Potenziali – in relazione alla loro capacità di candidarsi ad essere città “intelligenti”.

La parola è stata, poi, lasciata ai sindaci di diverse realtà italiane: riportando l’esperienza della propria città, Genova, il sindaco Marta Vincenzi ha parlato di una “necessità” sentita con riferimento alla conversione in una Smart City, “a partire dal nuovo piano urbanistico e dal piano strategico”, auspicando una risoluzione delle conflittualità, l’intensificazione dei rapporti e della rete infrastrutturale e di riuscire, infine, a far emergere il potenziale finora inespresso della popolazione più vecchia. Secondo Michele Emiliano, sindaco di Bari, “aver azzardato una sfida così grande per un sindaco del Sud può sembrare una velleità”, eppure “sono tante le iniziative che abbiamo messo in atto, tra cui il primo piano strategico dell’area metropolitana, l’avvio della pianificazione strategica e il documento preliminare del piano urbanistico generale, con occhi sempre attenti alla sostenibilità ambientale e di bilancio”. Flavio Zanonato, sindaco di Padova, ha presentato i progetti attivati per “la creazione di lavoro qualificato” e per “migliorare la viabilità e il sistema dei trasporti pubblici”; e ancora: gli “investimenti sia come protagonisti che in partnership con centri ricerca, ospedali e centri congressi”, il progetto Socrate, la banda larga, la lotta all’inquinamento attraverso l’aumento del numero di parchi, i mezzi di trasporto ecologici e l’introduzione dei pannelli solari.
Sono intervenute anche alcune aziende impegnate in progetti di sviluppo di Smart Cities. Nicola Ciniero, presidente e amministratore delegato di IBM Italia, ha parlato, ad esempio, dell’importanza di “una visione non monolitica ma sistemica sulla città che veda il cittadino sempre al centro”; “nel nostro peregrinare per l’Italia – ha proseguito – abbiamo riscontrato una situazione migliore di quella che la stampa ci offre. IBM offre anche soluzioni con ritorni sugli investimenti possibili entro un anno solare ma i problemi che restano sono piuttosto legati a chi gestisce l’Agenda Digitale e alla durata dei progetti che devono avere una visione sistemica a 3-5 anni”.

David Bevilacqua, amministratore delegato di Cisco, ha parlato di un approccio sistemico e di larga scala, necessario per evitare che questo tipo di progetti si limitino a rimanere pilota: “in Italia abbiamo tante piccole eccellenze che però non si mettono mai a sistema. Grandi investimenti magari sono impossibili ma progetti con rapidi ritorni sugli investimenti no, soprattutto quando entrano in gioco le partnership tra pubblico e privato. E poi ci sono i fondi europei”; Bevilacqua ha invitato, allora, tutti i player ad “uscire dalle logiche del ‘dopodomani’ e iniziare a cambiare mentalità”, “per riuscire ad allargare il mercato anziché entrare in competizione” ed ha auspicato “un nuovo ‘umanesimo’ che rimetta l’uomo al centro per migliorare i servizi”.

Secondo Pietro Scott Jovane, amministratore delegato di Microsoft Italia, “il tema Smart City deve essere inquadrato in un sistema di priorità che porti a comprendere come la città vuole diventare fra 10-15 anni”; “una ‘Smart City’ dovrebbe interrogarsi quando prende decisioni su alcuni dei temi più importanti, come l’istruzione, la multiculturalità, l’inquinamento, il benessere. E la tecnologia, in quanto abilitatore, può essere di aiuto in questo senso, grazie anche al cloud che permette di portare tecnologia facilmente e in tempi rapidi, che si usa e si paga solo in base all’effettivo consumo”. Occorre tuttavia “che le amministrazioni capiscano l’importanza di avere una quota sempre maggiore di cittadini che sanno adoperare queste tecnologie che possono fungere da collante in società sempre più multiculturali”.

Infine Gianfilippo D’Agostino, responsabile public sector di Telecom Italia, pur non trovando che la situazione italiana sia “così indietro dal punto di vista tecnologico”, ha sottolineato come “la sostenibilità di cui si parla” debba essere “non solo ambientale ma anche economica e sociale affinché si possa parlare davvero di ‘Smart City’”.

A conclusione di questa carrellata di riflessioni, mi piacerebbe esporre il punto di vista, assolutamente condivisibile, offerto poche settimane fa da Carlo Ratti e Anthony Townsend per la rivista “Scientific American”. Stando ai due esperto, sarebbe il rapporto sociale, e non l’efficienza, “la vera killer app per le città. Anche se gli edifici più significativi sono quelli su cui basiamo la conoscenza di diverse città, nella realtà la gran parte della loro struttura fisica è stata elaborata dalle persone comuni. L’evoluzione delle città si è democratizzata, decentrata e adattata, proprio come la vita sociale ed economica”. Proprio tale evoluzione dovrebbe, allora, fungere la lezione per le Smart Cities del futuro: “imponendo un disegno preordinato, gli amministratori che centralizzano la pianificazione spesso non sono in grado di costruire una città che soddisfi le esigenze dei cittadini, che ne rifletta la cultura e che crei quell’integrazione di attività che caratterizza i grandi luoghi”; inoltre “le visioni top-down finiscono per ignorare l’enorme potenziale innovativo che proviene dalle persone”, poiché “annullano le capacità di inventare nuove idee per migliorare le città” e forniscono solamente “soluzioni preconfezionate piuttosto che materiali grezzi con cui costruire il tessuto fisico e sociale delle ‘città intelligenti’”.

I due arrivano, infine, ad auspicare “nuovi approcci all’efficienza”, che non si focalizzino, cioè, unicamente sull’efficienza – finendo per “ignorare le finalità civiche come la coesione sociale, la qualità della vita, la democrazia e il primato della legge” – ma che puntino a “migliorare la socialità mediante la tecnologia”.

 

Pubblicato su: PMI-dome

Il mercato del libro: tra conferme positive e stime disattese

L’Associazione Italiana Editori pubblica il Rapporto 2011 sullo stato dell’editoria in Italia e, in occasione della Frankfurter Buchmesse, il presidente Polillo esprime il proprio punto di vista sulle le principali questioni economiche coinvolte

È un intervento a suon di “non è vero che” quello delineato da Marco Polillo, presidente dell’AIE (Associazione Italiana Editori), nel corso della sessantatreesima edizione della Fiera internazionale del Libro di Francoforte (la Frankfurter Buchmesse), il più importante e prestigioso appuntamento mondiale rivolto agli operatori del settore editoriale, svoltosi dal 12 al 16 ottobre 2011.

Vantando la partecipazione, tra gli altri, di circa trecento editori italiani, la Fiera ha rappresentato un’occasione fondamentale per promuovere la cultura e il mercato italiano del libro all’estero, stimolando la riflessione circa gli scenari e gli sviluppi futuri: “non è nostra abitudine – sostiene Polillo cercando di correggere alcune false credenze riferite alla situazione editoriale italiana – perderci nelle lamentazioni, anche in tempi difficili. Ci piace guardare avanti. Ma almeno pretendiamo un po’ di rispetto. Non tanto per noi, ma per la verità. Per questo vogliamo approfittare di questa occasione di bilancio sul settore per fare chiarezza e smentire punto a punto tutto ciò che in questi mesi abbiamo sentito dire – spesso a sproposito – sul mondo del libro”.

La “verità” cui si fa riferimento è, in particolare, quella rilevata dall’Ufficio studi di AIE nel Rapporto 2011 sullo stato dell’editoria in Italia, che di seguito cercheremo di riportare.

Dopo la crisi iniziata nel 2008, che ha condotto ad una riduzione del fatturato nell’ordine del 4,3% (inferiore, tuttavia, rispetto ad altri settori), torna nel 2010 il segno positivo (+0,3% rispetto all’anno precedente) per il mercato editoriale italiano, il quale, con un fatturato complessivo di 3.417 milioni di euro a prezzo di copertina, conferma la propria posizione come primo settore per spese dei consumatori tra le industrie italiane dei contenuti (stampa quotidiana e periodica, home video, cinema, tv, musica…).

Tuttavia – sottolinea Polillo – “non è stato recuperato quanto perso in precedenza. Si potrebbe dire: resistiamo, con molta fatica e nonostante tutto”.

In crescita, in particolare, il settore dei libri per ragazzi che, tra novità e ristampe, supera i 4 mila titoli e conquista un +5,7% sul fatturato del 2009, arrivando ad occupare il 13,7% del mercato; per contro diminuisce di 2,8 punti percentuali (pari a 648 milioni di euro) il fatturato della scolastica e delle adozioni. Con riferimento al mercato trade (libreria, Grande distribuzione organizzata – GdO, librerie on line, edicola), si registrano, poi, l’avanzamento del 10,6% per il tascabile (che arriva a rappresentare il 20,3% del settore) e il ruolo sempre più rilevante della piccola editoria, che raggiunge il 13,5% del fatturato di tutti i canali trade.

Allargando un tantino la prospettiva e considerando i canali di vendita, si nota un consolidamento del mercato trade, il quale, registrando un + 4,2% nel 2010, conferma il trend di crescita già evidenziato nel 2009 (+ 3,5%). Più in particolare, le librerie tradizionali continuano ad essere la via preferenziale per l’acquisto di libri e, con un valore pari a 1,095 miliardi di euro (in aumento del 2,6%) rappresentano il 51% del mercato; sempre a conferma di una tendenza rilevata gli anni scorsi, perde 2,8 punti percentuali il mercato delle librerie a conduzione famigliare, mentre aumenta del 2,9% quello delle librerie di catena.

Salgono di 24,5 punti le vendite on line (sia per l’ingresso di nuovi operatori – laFeltrinelli.it a fine 2009, Amazon.it a fine 2010 – sia per i cambiamenti in atto nel comportamento d’acquisto del pubblico), di 5 punti le vendite in occasione di fiere del libro, di 3 punti la GdO (in rallentamento rispetto all’anno precedente) e di 2,6 punti l’edicola (principalmente per le rinnovate formule di franchising utilizzate). Diminuiscono, invece, alcuni canali ormai poco idonei alle pratiche di lettura, come il rateale (- 15,2%) e i collezionabili (-5%).

Ciò non significa, tuttavia, che la lettura rappresenti un’attività desueta, al contrario nel 2010 i lettori di almeno un libro non scolastico erano 26,4 milioni e costituivano il 46,8% della popolazione con più di 6 anni, con un incremento dell’1,7% rispetto al 2009 (il maggiore registrato dal 1998). La quasi metà dei lettori (44,3%) ha letto fino a tre libri l’anno, solo il 15,1% ne legge uno ogni mese (leggera decrescita rispetto al 2009) e le fasce più forti di lettori sono quelle infantili e giovanili: il 58,4% degli intervistati di età compresa tra i 6 e i 10 anni ha dichiarato di aver letto almeno un libro non scolastico negli ultimi 12 mesi (in crescita del 6,2%) e la percentuale sale al 59,1% per i 15-19enni e al 65,4% per gli 11-14enni.

Dal punto di vista della produzione, si rileva, invece, un trend in negativo per il numero di titoli pubblicati (dai 58.829 del 2009 ai 57.558 del 2010) e per le copie stampate e immesse nei canali di vendita (dai 213 milioni del 2009 ai 208 milioni del 2010, di cui 122 milioni, il 59%, sono prime edizioni); a lamentare maggiormente il calo è la produzione varia per adulti (- 3,5% nei titoli, – 7,5 nelle copie stampate), mentre crescono i libri per bambini e ragazzi (+ 9,2% nei titoli e + 9,3% nelle copie) e il settore educativo (+ 1,3% nei titoli e + 6,4% nelle copie).

I titoli commercialmente vivi sono, allora, nel 2010, più di 690 mila, con un incremento di 38,2 punti percentuali in cinque anni, doppio rispetto alla produzione in commercio (+ 19,7%).

Sono 2.500 le case editrici con una presenza attiva nel territorio italiano e gli addetti alla filiera sono all’incirca 32 mila.

Diminuisce il peso delle opere straniere sulla produzione libraria italiana: i libri tradotti passano dai 10.046 del 2009 ai 9.009 del 2010. Aumentano, allo stesso tempo, i diritti ceduti ad editori stranieri; nel settore dei libri per ragazzi, ad esempio, si è passati dai 486 diritti venduti (contro i 1.250 comprati) del 2001 ai 1.607 venduti (e 1.283 libri comprati) tra 2009 e 2010. Anche le coedizioni crescono (dal 44,1% del 1997 all’86% del 2010), soprattutto nel settore dei libri per bambini e dell’editoria d’arte.

Il valore dell’export del libro di carta si aggira sui 41,8 milioni di euro, circa l’1,2% del mercato, rimanendo di fatto stabile, anche se le editorie straniere sembrano accordare sempre più la loro preferenza alle pratiche di cessione dei diritti, a progetti di coedizione e alla realizzazione da parte di case editrici italiane di libri direttamente in lingua inglese, piuttosto che all’export.

Positive anche le prime stime relative al 2011, seppur, si sottolinea, con qualche segnale di incertezza; nel primo semestre si conferma la forza del mercato trade: – 0,1% per le librerie tradizionali, ma +1,5% per la Gdo, le librerie on line raggiungono una quota pari al 5,5% del mercato trade, le librerie a conduzione familiare diminuiscono e raggiungono il 36%, mentre le librerie di catena rappresentano il 41,8%.

Nel primo trimestre del 2011 è stato rilevato un incremento di 0,2 punti percentuali nel valore del mercato dei libri e di 1,2 punti nelle copie stampate e date alla vendita.

Soffermiamo ora la nostra attenzione sul mercato dell’editoria digitale, stimato, nel suo complesso, in 341 milioni di euro (9,9% di quello complessivo); esso raggruppa: comparto cd-rom e dvd-rom (214,2 milioni), banche dati on-line, servizi erogati attraverso internet (125,6 milioni), audiolibri (0,7 milioni), e-book (1,5 milioni di euro). Nel 2010 stupiscono, in particolare, il notevole aumento, + 29,9%, dei servizi collegati con le banche dati on line e la crescita, pari allo 0,04%, dunque al di sotto delle aspettative elaborate lo scorso anno, del segmento e-book.

Per quanto riguarda quest’ultimo, si tratta di un mercato nato in buona parte tra maggio e giugno 2010, che comprende un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro e che dovrebbe – stando alle previsioni – attestarsi sui 4-5 miliardi a dicembre 2011; si innalza il numero dei titoli in italiano disponibili (a dicembre 2010 erano 6.950 titoli, a settembre 2011 l’offerta annovera 17.951 titoli e si stima che essi diverranno 20-21 mila a fine 2011), cresce il formato ePub come standard di produzione e si diffondono sempre più dispositivi tablet per la lettura (sono 390 mila gli e-reader venduti a giugno 2011), nonostante i prezzi ancora elevati (199-299 euro). Stabile il prezzo medio degli e-book italiani (11,18 euro).

“Non sperate di liberarvi dei libri” annunciava Eco all’edizione 2009 della Fiera Internazionale del libro di Torino, quasi a lanciare un monito a quanti vedevano l’e-book come il prossimo veicolo di conoscenza umana e dando, poi, a questo monito, un esito editoriale. A distanza di due anni e malgrado l’errore sotteso all’eterno dibattito tra cultori del cartaceo e del digitale (si tratta, infatti, di un dibattito che mette a confronto due mezzi che, di fatto, sono completamente diversi tra loro e dunque non richiedono necessariamente vinti ed vincitori) non si può che offrire vesta profetiche ad Eco. Sottolinea Polillo: “non è vero che il libro di carta è morto”, poiché tutti vogliono l’e-book, “tutti ne parlano, salvo poi avere prezzi quasi al livello dei tascabili a causa di un’IVA al 21%. Ci sembra illogico che l’innovazione debba scontare una tassa che si applica soprattutto ai servizi”. Allo stesso modo “non è vero che gli editori italiani sono stati lenti a entrare in questo nuovo mercato”: “gli editori italiani hanno proposto, da un anno a questa parte, circa il 20% delle proprie novità anche in edizione ebook”, questo perché “da tempo sono pronti avendo fatto i necessari investimenti per adeguare i propri processi produttivi”.

Polillo si è occupato, allora, anche delle politiche di prezzo, in un momento storico particolarmente delicato per l’Italia, vista, in particolare, la recente approvazione della Legge 27 luglio 2011, n. 128, ribattezzata Legge Levi o “Anti-Amazon”, che fissa dei tetti massimi agli sconti sui libri. “Non è vero che il regime del prezzo fisso”, ha affermato, “sia una stranezza italiana e un attentato alla libera concorrenza […]. Sistemi di prezzo fisso sono presenti nella gran parte dei paesi europei e la discussione in Europa è se debbano applicarsi anche agli ebook, non se debbano essere mantenuti nel resto del mercato. La legge italiana resta la più flessibile in Europa. In nessun caso sono permessi sconti fino al 15%, né campagne promozionali con sconti fino al 25%, né esistono così tante eccezioni. I nostri amici francesi, che hanno appena approvato la prima legge sul prezzo fisso per gli ebook, hanno addirittura ironizzato [non ci è difficile crederlo, visti i più recenti fatti di cronaca politica] sulla capacità tutta italiana di inventare una legge sul prezzo fisso flessibile”.

Secondo Polillo “non è vero che gli sconti spingono la vendita dei libri […]; l’agosto 2011 – quello con il 40% di sconti come reazione all’entrata in vigore della legge Levi dal 1° settembre – è andato meno bene dell’agosto 2010: – 7,6% a valore a prezzo pieno di copertina e – 8% a copie […]. Non è dallo sconto che passa il rinnovamento e lo sviluppo del mercato del libro, ma dall’aumento del livello di servizio, dalla tutela delle librerie indipendenti, dalla pluralità dell’offerta, che sono gli obiettivi della legge Levi”.

Attraverso i dati posseduti da Informazioni Editoriali (che implementa il Catalogo Alice), l’AIE ha analizzato i prezzi di copertina di tutta la produzione editoriali del 2010 (circa 60 mila novità) e il prezzo medio sembra essere di 21,6 euro: “rispetto al 2005 la crescita del prezzo medio è stata del +3,9%, quindi molto al di sotto del tasso di inflazione. In termini reali i prezzi dei libri sono diminuiti del 5,2%”. Anche nel confronto con quelli europei, i prezzi italiani risultano i più bassi.

Gli interventi di Polillo si sono, poi, rivolti a molti altri aspetti della situazione economico-politica italiana, riferita al mondo del libro. Ha corretto, ad esempio, la falsa convinzione che l’editoria sia sostenuta da contributi pubblici: “gli unici contributi esistenti – relativi alle riviste di elevato valore culturale – sono stati cancellati: si trattava di poche centinaia di migliaia di euro, non delle centinaia di milioni spesi per altri settori. E quest’anno saranno cancellati anche i contributi alle traduzioni del Ministero degli Affari Esteri”. Ha auspicato comunque un efficace supporto a livello governativo, senza il quale l’attività editoriale “è destinata a perdere significato e forza”; “gli editori hanno fatto, stanno facendo e continueranno a fare tutto il possibile per diffondere la cultura italiana, anche e soprattutto all’estero. Sono però consapevoli di una cosa: la diffusione della cultura non può competere solo a un’associazione di categoria”.

Con riferimento al tema intercettazioni, Polillo ha manifestato la propria “preoccupazione per le norme attualmente in discussione”, che, nate per i giornali, potrebbero avere effetti ancor più negativi sui libri; la rettifica immediata, in particolare, “sarebbe inefficace e impraticabile per il mondo del libro: inefficace per la separazione che esiste tra il mezzo di diffusione del contenuto da rettificare (il libro) e il mezzo attraverso il quale veicolare la rettifica (i quotidiani); impraticabile a causa degli ingiustificabili oneri che andrebbero a riversarsi sugli editori interessati (che dovrebbero accedere a mezzi informativi non propri) e, soprattutto, in ragione delle specifiche caratteristiche che contraddistinguono il rapporto con l’autore librario, la redazione e i tempi di pubblicazione di un libro”.

Due ultime riflessioni, riferite a delle tematiche particolarmente “calde”, meritano, infine, citazione.

Da una parte Polillo rassicura circa la presunta limitazione alla libertà d’opinione portata dagli strumenti messi a punto dall’Agcom: “le procedure di notice and take down sono quelle che forniscono la massima tutela possibile su questo profilo. Da un lato non toccano l’utente finale, come per esempio avviene in Francia, dall’altro consentono sempre a chi pubblica di ‘dire di no’ alla richiesta di rimozione […]. Tutti sanno che la rimozione avviene quasi sempre pacificamente alla prima richiesta, perché si tratta di casi eclatanti di copie illegittime del lavoro altrui […] e si finge di ignorare il fatto che questa procedura è la più garantista che si possa immaginare. È particolarmente triste che s’innalzino nobili bandiere per giustificare quello che in realtà altro non è se un utilizzo illegale del lavoro altrui per il proprio tornaconto personale”.

Dall’altra parte – e concludo – Polillo si occupa di tutela del diritto d’autore, sottolineando come essa non limiti assolutamente la conoscenza: “l’editoria non esisterebbe più senza il diritto d’autore. Nessuno creerebbe più nulla se non potesse avere un’adeguata remunerazione del suo lavoro […]. Sbaglia chi ritiene che il diritto d’autore sia superato nell’era digitale […]. La conoscenza è certamente un diritto di tutti, ma è anche un dovere rispettare e non impadronirsi illegittimamente del lavoro altrui. Per questo noi siamo e saremo sempre a favore della difesa del diritto d’autore”.

Pubblicato su: PMI-dome

Cala la fiducia delle imprese italiane

L’istituto nazionale di statistica ha rilevato come siano in forte decrescita gli indici destagionalizzati che misurano il livello di fiducia nelle attività di servizi e di commercio, nel settore manifatturiero e in quello delle costruzioni

Il bicchiere, per le imprese italiane, sembra essere mezzo vuoto: avanza la sfiducia nelle attività di servizi e di commercio, nel settore manifatturiero e in quello delle costruzioni. Per molti, forse, una simile considerazione non rappresenta un elemento di forte sorpresa, ma certo, quando ad ufficializzarla sono delle stime istituzionali, ecco che si crea la notizia. L’istituzione in questione è l’Istat, che ha pubblicato nei giorni scorsi alcuni dati riferiti alle attuali aspettative rilevate in un campione rappresentativo delle imprese italiane e messe in confronto con quelle fornite nelle trascorse misurazioni.

Più in particolare, nel mese di settembre, parallelamente ad un calo dell’indice di fiducia dei consumatori (da 100,3 di agosto a 98,5), l’Istat segnala una diminuzione piuttosto rilevante dell’indice destagionalizzato del clima di fiducia nelle imprese dei servizi, da 93,9 a 82,5. Tale indice rappresenta la “media aritmetica semplice dei saldi delle domande sui giudizi e le attese degli ordini e sulla tendenza dell’economia”: il questionario proposto al campione, infatti, si compone di una serie di domande che implicano genericamente tre modalità di risposta (ad esempio “alto”, “normale”, “basso”) e i risultati per ciascuna domanda sono espressi in termini di frequenze percentuali relative delle singole modalità di risposta. Con saldi si intendono, allora, le differenze fra le modalità di risposta favorevoli e sfavorevoli (dunque tra le frequenze percentuali corrispondenti alle modalità di risposta estreme, mentre la modalità centrale non viene considerata nel calcolo), che offrono indicazioni quantitative sintetiche dei fenomeni osservati.

Sempre con riferimento al mondo dei servizi, l’indagine Istat ha preso in considerazione più settori d’attività rientranti nella categoria di “servizi”, per ciascuno dei quali è stato misurato il grado di fiducia complessivo e il grado di fiducia corrispondente a tre variabili particolari: le attese circa l’andamento generale dell’economia, le attese sugli ordini e i giudizi sugli ordini. I settori economici oggetto di analisi – “individuati con riferimento alla classificazione Ateco 2007” – sono stati: servizi alle imprese e altri servizi (che comprendono attività immobiliari, attività legali e contabilità, attività di direzione aziendale e di consulenza gestionale, attività degli studi di architettura e ingegneria; collaudi e analisi tecniche, ricerca scientifica e sviluppo, pubblicità e ricerche di mercato, altre attività professionali, scientifiche e tecniche, attività di noleggio e leasing operativo, attività di ricerca, selezione, fornitura di personale, servizi di vigilanza e investigazione, attività di servizi per edifici e paesaggio, attività di supporto per le funzioni di ufficio e altre attività di supporto), trasporto e magazzinaggio (comprende trasporto terrestre e trasporto mediante condotte, trasporto marittimo e per vie d’acqua, trasporto aereo, magazzinaggio e attività di supporto ai trasporti, servizi postali e attività di corriere), informazione e comunicazione (vi rientrano attività editoriali, attività di produzione cinematografica, di video e di programmi televisivi, di registrazioni musicali e sonore, attività di programmazione e trasmissione, telecomunicazioni, produzione di software, consulenza informatica e attività connesse, attività dei servizi di informazione e altri servizi informatici), infine servizi turistici (alloggio, attività dei servizi di ristorazione e Attività dei servizi delle agenzie di viaggio, dei tour operator e servizi di prenotazione e attività connesse).
In linea generale, si può vedere come siano peggiorate le attese sull’andamento dell’economia italiana e, seppur in misura meno marcata, anche i giudizi e le attese sugli ordini. Si declina, inoltre, il giudizio delle imprese di servizio in merito all’occupazione e all’andamento degli affari e deteriorano le attese sul mercato del lavoro; si riduce il saldo delle attese sulla dinamica dei prezzi di vendita.


Concentrando l’attenzione sul confronto tra i singoli settori rilevati, si può dire che l’abbassamento della fiducia delle imprese di servizi sembra essere trasversale, passando, nei servizi alle imprese e altri servizi, da un indice di 93,5 registrato ad agosto a uno di 83,9 misurato a settembre, da 97,6 a 80,0 nei trasporti e magazzinaggio, da 88,9 a 73,9 nei servizi di informazione e comunicazione e da 94,2 a 86,2 in quelli turistici.
Allo stesso modo si presentano in calo anche tutti i saldi delle principali variabili riferite a ciascun settore, eccezion fatta per le attese sugli ordini nei sevizi di informazione e comunicazione, che da 2 son passate a 7. La discesa più rilevante è quella registrata dai saldi riferiti alle attese sulla situazione economica generale del Paese: nei servizi di informazione e comunicazione il saldo cade addirittura a -70 (da -28 stimato ad agosto, -30 a luglio, -18 a giugno e -13 a maggio), nei servizi alle imprese a -44 (da – 29 di agosto, -25 di luglio e -13 di maggio e giungo), nei servizi turistici a – 39 (contro – 26 ad agosto, -21 a luglio, -12 a giugno e -19 a maggio), nei servizi di trasporto e magazzinaggio, infine, a – 36 (- 28 ad agosto, -8 luglio, -10 a giugno e -13 a maggio). Degna di nota, poi, la contrazione delle attese sugli ordini nei trasporti e magazzinaggio (da 2 di agosto a -32).

L’analisi Istat è stata poi adattata alle quattro principali ripartizioni territoriali italiane, cioè Nord-ovest (Piemonte, Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Liguria e Lombardia), Nord-est (Emilia-Romagna, Veneto, Trentino-Alto Adige/Südtirol, Friuli-Venezia Giulia), Centro (Toscana, Marche, Umbria e Lazio) e Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna). In ognuna di queste ripartizioni l’indice di fiducia delle imprese di servizi scende: nel Centro si va dal 99,1 registrato ad agosto al 79,5 di settembre, nel Nord-ovest dal 92,1 all’83,5, nel Nord-est dall’88,0 all’84,6, e nel Mezzogiorno dal 90,5 all’87,7.
Analogamente, con riferimento alle stesse variabili identificate in precedenza, peggiorano i saldi dei giudizi sugli ordini, mentre le attese sugli ordini migliorano leggermente, ma solo nel Nord-ovest (da 1 di agosto a 2 di settembre). Si assiste ad un intenso abbattimento delle aspettative circa l’andamento economico generale nel Centro (da -27 a -58) e nel Nord-ovest (da -26 a -44); lieve miglioramento, invece, per il Mezzogiorno (da -44 a -41)

Altra grande area di interesse per l’Istituto nazionale di statistica è stata quella relativa alle imprese del commercio, suddivise, secondo la tipologia distributiva, in grande distribuzione (imprese che possiedono punti di vendita operanti nella forma di Supermercato, Ipermercato, Discount, Grande magazzino o altra grande superficie specializzata o non, con superficie di vendita superiore ai 400 mq) e distribuzione tradizionale (imprese che si configurano come punti di vendita specializzati non appartenenti alla grande distribuzione, caratterizzati da una superficie di vendita non superiore ai 400 mq).
Con riferimento alla prima, l’indice di fiducia destagionalizzato aumenta lievemente da 92,6 registrato ad agosto a 93,1 stimato in settembre, mentre, con riferimento alla seconda, l’indice scende ampiamente (da 104,1 a 97,8).

Tre sono, poi, le variabili individuate per ciascuna delle due tipologie: giudizi sulle vendite, attese a tre mesi sulle vendite e giudizio sulle scorte di magazzino.
Per la grande distribuzione, le prime due di queste variabili rimangono costanti, rispetto al mese scorso (si confermano rispettivamente a -8 e a 9), mentre diminuisce leggermente il saldo delle risposte sul livello delle scorte di magazzino (da 18 a 17). Nella distribuzione tradizionale si registra, infine, un segno meno nel trend di fiducia riferito a giudizi (da -24 a -34) e attese (da 4 a -2) sulle vendite e un segno più in quello riferito alle scorte di magazzino (da 6 a 8) .

L’Istat ha cercato di indagare anche l’indice destagionalizzato di fiducia del settore manifatturiero, elaborato “sulla base di tre domande ritenute maggiormente idonee per valutare l’ottimismo/pessimismo delle imprese (e precisamente: giudizi sul livello degli ordini, giudizi sul livello delle scorte di magazzino e attese sul livello della produzione)”.
Con riferimento sempre al mese di settembre, tale indice realizza, allora, un forte calo, scendendo da 98,6 (in agosto) a 94,5.
In linea generale peggiorano molto i giudizi sugli ordini e le attese di produzione, mentre lieve è la diminuzione del saldo relativo alle risposte sul livello delle scorte di magazzino.
Si è scelto di suddividere l’indagine nei tre principali raggruppamenti di industrie: beni di consumo, beni intermedi e beni strumentali. L’indice diminuisce in tutti e tre tali raggruppamenti, passando da 96,9 a 90,2 nei beni strumentali, da 99,3 a 95,5 nei beni di consumo e da 99,3 a 97,1 nei beni intermedi.

Calando la prospettiva sui singoli raggruppamenti, si nota che l’indice di fiducia si abbassa da 96,9 a 90,2 nei beni strumentali, da 99,3 a 95,5 nei beni di consumo e da 99,3 a 97,1 nei beni intermedi. Peggiorano trasversalmente i giudizi su ordini (da -22 a -28 per beni di consumo, da -18 a -21 per beni intermedi e da -17 a -30 per beni strumentali) e le attese sulla produzione (da 6 a3 per beni di consumo, da 5 a -3 per beni intermedi e da 5 a -4 per beni strumentali); risale leggermente il saldo riferito ai giudizi sul livello delle scorte nei beni di consumo (da -1 a 1), ma diminuisce in quelli intermedi (da 6 a 2) e strumentali (da 4 a 3).

Con riferimento alla ripartizione territoriale, l’indice di fiducia si riduce da 103,4 a 94,3 nel Nord-ovest, da 96,8 a 94,4 nel Nord-est, da 99,9 a 91,5 al Centro e da 92,9 a 92,6 nel Mezzogiorno. I giudizi sugli ordini e le attese di produzione peggiorano in tutte le ripartizioni territoriali, mentre quelli sulle scorte di magazzino hanno conosciuto un miglioramento nel Nord-ovest (da 2 a 4) e nel Centro (da -3 a -2), pur rimanendo in diminuzione nelle altre ripartizioni.

Sulla base delle consuete domande trimestrali rivolte alle imprese che svolgono attività d’esportazione, ricorda ancora l’Istat, i giudizi sul fatturato delle esportazioni rimangono invariati nel terzo trimestre, ma le aspettative in merito calano.

Diminuisce la quota di coloro che giudicano i prezzi all’export superiori a quelli praticati sul mercato interno e diminuisce pure l’incidenza dei paesi Ue tra le destinazioni delle esportazioni. La Cina si riconferma al primo posto (con il 26% di risposte) come maggiore concorrente internazionale percepito, seguita dalla Germania.
Aumentano (dal 34% al 36%) le imprese che lamentano la presenza di ingenti ostacoli all’attività di esportazione e tra tali ostacoli diminuiscono quelli legati ai tempi di consegna e alla differente qualità dei prodotti, mentre aumentano gli “altri motivi”.

Ultima zona di interesse per l’Istat è quella in cui risiedono le imprese di costruzioni, particolarmente interessante se si considerano i resoconti giornalistici dei giorni scorsi che vedevano il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Altero Matteoli, fischiato e contestato nel corso del suo intervento all’assemblea dell’Ance.
I settori individuati quali oggetto di indagine sono: costruzione di edifici (include lavori generali per la costruzione di edifici di qualsiasi tipo), ingegneria civile (comprende i lavori generali per la costruzione di opere di ingegneria civile quali autostrade, strade, ponti, gallerie, ferrovie, campi di aviazione, porti ed altre opere idrauliche, nonché la costruzione di sistemi di irrigazione e di fognatura, condotte e linee elettriche, impianti sportivi all’aperto, eccetera) e lavori di costruzione specializzati (includono attività specializzate –quali l’infissione di pali, i lavori di fondazione – attività di finitura e completamento degli edifici e attività di installazione di tutti i tipi di servizi, necessarie al funzionamento della costruzione).
L’indice di fiducia del settore delle costruzioni è stato, in particolare, “elaborato sulla base di due domande ritenute maggiormente rappresentative per valutare l’ottimismo/pessimismo delle imprese (e precisamente: giudizi sul livello degli ordini e/o piani di costruzione e attese sull’occupazione presso l’impresa)”. In via generale, l’indice sale dal 75,9 di luglio al 77 di agosto.
Con riferimento ai settori specifici, tale indice scende da 66,5 (luglio) a 66,1 (agosto) nella costruzione di edifici, ma sale da 77,2 a 91 nell’ingegneria civile e da 87,5 a 91,4 nei lavori di costruzione specializzati.
Nel comparto dell’ingegneria civile migliorano sia i giudizi sugli ordini e/o i piani di costruzione (da -26 a -9), sia le attese sull’occupazione (da -22 a -12); nei lavori di costruzione specializzati peggiorano i giudizi sugli ordini e/o i piani di costruzione (da -51 a -53) e migliorano le attese sull’occupazione (da -17 a -10). Nella costruzione di edifici entrambe le variabili risultano stabili (rispettivamente fisse a -61 e -18).

 

Pubblicato su: PMI-dome