Tra crisi e nuove opportunità digitali, muta il volto del libro in Italia

Il Salone di Torino ha fornito la sede ideale per approfondire le più recenti tendenze del mercato editoriale tricolore: il segmento bambini e ragazzi salva le vendite, crescono il ruolo dell’online e la presenza nei social, seppur in modo non costante

Grande successo di pubblico per il 26° Salone Internazionale del Libro di Torino, chiusosi lo scorso lunedì 20 maggio 2013 con un +4% di ingressi rispetto al 2012. Stima che si pone in controtendenza rispetto alla dinamica del consumo di libri in Italia e alla congiuntura negativa che sembra non voler abbandonare il settore editoriale.
L’appuntamento si è posto, allora, come sede privilegiata per un’approfondita riflessione circa le più recenti tendenze di questo mercato. I dati diffusi per l’occasione dall’Associazione Italiana Editori sulla base delle stime realizzate da Nielsen, mostrano la centralità del segmento bambini e ragazzi per la sopravvivenza del libro in Italia, in un periodo storico segnato da non poche avversità, in primis dal netto calo dei lettori.
Il 2012 chiude con un -7,8% sulle vendite a valore (pari ad un fatturato di 1.320.538.000 euro, contro 1.432.506.000 euro nel 2011) e un -7% sulle vendite a copie (corrispondente a 101.536.000 copie libri vendute, contro le 109.121.000 del 2011) nei canali trade (dunque sulle librerie di catena, su quelle indipendenti, sugli store online, sulla Gdo, esclusi tutti i vari canali alternativi, come cartolerie, uffici postali, negozi specializzati in articoli per bambini, collezionabili per bambini venduti in edicola…).
A risentire meno della crisi nel 2012 è stato il settore della fiction (-3,6% a valore e -2% a volume), seguito appunto dall’editoria per ragazzi (-6,2% a valore e -5% a volume), mentre ha continuato a soffrire la non fiction.
Calando il focus sui primi quattro mesi del 2013, si evidenzia come, nel canale trade, siano state vendute 27.816.000 copie libri, poco meno rispetto alle 28.015.000 copie dello stesso periodo 2012 (-0,7%). Ben più significativo il calo registrato nelle vendite a valore (-4,4%), che passano dai 361.955.000 euro del 2012 ai 346.024.000 euro in questo primo quadrimestre 2013. Sembra diminuire, dunque, il giro d’affari, mentre resta sostanzialmente stabile il numero di copie vendute. Ciò è dovuto all’aumento del peso dei paperback (costituiscono il 17% del totale, contro il 7% dello scorso anno) e alla diminuzione dei prezzi dei libri, in risposta ad un cliente che si orienta sempre più nella fascia più bassa di prezzo al momento dell’acquisto di nuovi titoli. Cala, in altri termini, il potere di spesa del lettore italiano.
Svanisce, allora, del tutto l’illusione di un mercato immune alla difficile situazione economica generale: se all’inizio della crisi esso sembrava resistere malgrado tutto, con tassi di crescita attorno all’1-2 punti percentuali, a partire dal 2011 si è assistito ad un’inversione di tendenza, con un’intera filiera – dalla stampa alla distribuzione alle librerie – che ha cominciato ad accusare i colpi del cambiamento. Sono mutate le percezioni del pricing, del valore dei marchi e della funzione stessa dell’editoria. Si è sviluppato il self-printing, sono cresciuti il commercio on-line e il mercato degli ebook (oggi, in poco più di due anni, il 46% delle novità del mese sono in digitale), si è potenziato il ruolo dei blog letterari e dei canali social nella comunicazione editoriale. Le difficoltà economiche hanno imposto un’intensa accelerazione delle trasformazioni in atto nel complesso dell’ecosistema editoriale, fatto da poco più di 25-26 milioni di clienti potenziali, di cui 22-23 milioni acquirenti.
Per quanto riguarda i canali di vendita, sembra crescere, nel primo quadrimestre 2013, il ruolo dell’online, che arriva ad occupare il 6,3% del fatturato (contro il 5,5% del 2012) e il 4,6% delle vendite a volume (contro il 4,3% dell’anno scorso). Dalle rilevazioni è rimasto, tuttavia, escluso un colosso come Amazon (che non fornisce i propri dati) e ciò lascia ipotizzare che la percentuale di fatturato complessivamente realizzata dal digitale possa essere, in realtà, molto più vicina al 10% del totale. Il primo posto in cui si comprano i libri sono comunque le librerie di catena, che passano da una quota di mercato del 41,5% nel 2012 a una del 42,2% nel 2013 (mentre resta stabile, flettendosi leggermente, la percentuale di vendita a volume, dal 41% al 40,8%). La grande distribuzione organizzata cresce in termini di copie acquistate (dal 22,2% al 24%) e resta sostanzialmente stabile a valore (dal 16% al 15,8%). Soffrono, invece, notevolmente le librerie indipendenti, che riducono ulteriormente la propria quota di mercato a valore (dal 37,1% del 2012 al 35,6% di quest’anno) e a volume (dal 32,5% al 30,5%).
Con riferimento ai settori, in questo primo scorcio del 2013, l’unico positivo sembra essere quello dei bambini e ragazzi (+4% a valore nei canali trade, +6% a volume). Le giovani famiglie sembrano investire sul futuro dei propri figli, spendendo sempre più per i libri a loro destinati, ed è in particolare la fascia dei più piccoli, quella da zero a cinque anni, a trainare la crescita del segmento. Perde invece il 10,7% a valore e l’11,1% a volume la non fiction pratica (guide cucina, viaggi, lifestyle…). Cala dell’ 8,7% a valore e dell’8,4% a volume anche la non fiction specialistica (testi di management, computer, professionale…). Più contenuta, invece, la riduzione delle vendite per la fiction (-3,7% a valore e -3,2% a volume) e per la non fiction generale (la saggistica, che registra un  -1,9% di fatturato e un -1,2% di copie vendute).
All’interno di un quadro certamente negativo” – ha commentato il Presidente di AIE Marco Polillo, nell’ambito del convegno torinese “Scene di paesaggio all’uscita dal tunnel. Editori e canali di vendita con lo sguardo puntato al di là della crisi” – “aggrappiamoci al dato in controtendenza che ci arriva dal settore dei libri per ragazzi”. “Ci auguriamo che questi nuovi ‘lettori’, che si avvicinano al libro fin dalla tenera età, riescano a mantenere quel rapporto anche per gli anni a venire, invertendo quell’avvilente dato che contraddistingue il nostro Paese, che vede ancora più della metà della popolazione totalmente estranea al libro”.
Al Salone del Libro si è cercato anche di comprendere come sia cambiata la comunicazione per le case editrici librarie, presentando i risultati di un’indagine condotta dall’Ufficio studi dell’AIE, in collaborazione con IE-Informazioni Editoriali, nel periodo che va da settembre 2012 a marzo 2013, sui 13 più noti blog letterari in Italia, selezionati in base a criteri di rappresentatività e notorietà. Ciò che è emerso è, in particolare, l’importanza crescente dei blog virtuali nel garantire una sorta di coda lunga in termini di visibilità, apprezzamento e vendite. I blog rappresentano una nuova piazza per gli editori: quasi il 3% dei titoli pubblicati in Italia è presente sui post analizzati (sono stati considerati solo i post in cui si parla in maniera estensiva di un singolo libro, escludendo quelli in cui i titoli vengono solo brevemente citati), il 39,1% dei quali rappresentano opere dei piccoli editori. In base all’analisi di alcuni casi specifici, il report mostra come il parlare di un libro in una simile vetrina digitale sposti al rialzo le vendite reali, soprattutto quando il titolo di cui si parla rientra nei gusti del pubblico cui fa riferimento la vetrina. Si tratta di cifre molto lievi, nell’ordine delle decine o centinaia di copie, ma che permettono comunque di delineare una tendenza percorribile nei prossimi anni.
Se il Web rappresenta una sede privilegiata per la comunicazione di un titolo nel suo intero ciclo di vita, la televisione sembra essere la sede ideale per garantire un più intenso “effetto lancio”. Programmi come “Che tempo che fa” risultano molto utili nell’ottimizzare la fase di lancio di un libro, anche se il loro forte effetto sulle vendite si indebolisce in circa una settimana. Questa politica comunicativa coinvolge solo lo 0,1% dei libri, per l’88% di grandi editori.
L’indagine mostra – come ha sottolineato Giovanni Peresson, Responsabile Ufficio studi AIE – “la consapevolezza diffusa da parte delle case editrici del ruolo che iniziano ad avere forme di comunicazione legate al web e quindi la creazione di competenze necessarie a gestire questo processo dal punto di vista dei linguaggi, dei tempi, della community”. “L’uso di una trasmissione di successo come ‘Che tempo che fa’ in fase di lancio, con risultati importanti, e dei blog come modo per gestire le altre parti del ciclo di vita del titolo con effetti minori ma di tutto interesse” rappresentano “altri tasti di un pianoforte comunicativo a disposizione dell’editore che li può suonare a seconda dei titoli o generi, o in relazione alla vita del libro”.
Ultimo spiraglio torinese aperto sul futuro dell’editoria italiano ha riguardato il mondo dei social network. L’Ufficio studi AIE ha mostrato anche come l’uso di simili piattaforme sia sempre più ampio, fornendo una sede di grande visibilità per i libri.
Cresce la percentuale di quanti scelgono un determinato titolo da acquistare attraverso il Web: era l’11% nel 2007, il 15% nel 2009 e arriva al 19% nel 2012 (contro il 68% di chi lo sceglie in base all’interesse per l’argomento, il 36% che si affida ai consigli degli amici, il 15% che punta a sconti o campagne promozionali, il 12% che fa riferimento a recensioni trovate sulla carta stampata, il 5% che si lascia guidare dall’esposizione nel punto vendita, un ulteriore 5% che va a vedere le classifiche di vendita, infine un 3% che è spinto dalla semplice pubblicità).
Il 58,9% delle case editrici che pubblicano più di 16 titoli l’anno usa i social, pari a 506 su 8440 editori. In primis utilizzano Facebook (circa la metà di tutti gli editori italiani, ma ben l’84,2% di chi è attivo in rete con un proprio canale), seguito da Twitter (il 39,3% degli editori, ma ben il 66,8% di quelli attivi in rete), YouTube (18,8% e 31,9%), Pinterest (12,6% e 21,1%), aNobii (7,7% e 13,1%), LinkedIn (7,3% e 12,4%), Google+ (4,5% e 7,7%), Flickr (1,6% e 2,7%) e Instagram (0,6% e 1%). Il 41,8% delle case editrici attive in rete usa più di tre strumenti simultanemente.
L’attenzione crescente verso questi mezzi multimediali evidenzia un mutamento nelle politiche comunicative degli editori, laddove alle copertine dei libri da sfogliare si va sostituendo un mix di video, booktrailer e immagini per catturare l’attenzione. Questo risulta vero tanto per le case editrici grandi, mainstream, quanto per le più piccole, specializzate su nicchie di domanda di lettura.
A fronte di un’ampia diffusione delle nuove tecnologie, non corrisponde tuttavia una costanza e intensità nell’utilizzo, se si considera che il 90% degli editori che usano Twitter non crea più di 5 tweet al giorno. Solo il 2,5% crea 10 o più tweet giornalieri, solo il 2,5% totalizza più di 90mila followers e solo il 3,5% più di 1.000 following. È dal 2007 che le case editrici italiane si sono avventurate su Twitter. La prima a farlo è stata la Elliot, seguita, l’anno successivo, da Apogeo, Edizioni Piemme, Minimum fax, Edizioni Coocole&Caccole. Nel 2012 se ne sono aggiunte ben 53, segnando un +11,3% sul 2011. Complessivamente sono 199 le aziende editoriali che cinguettano.
I tre mesi che precedono il Natale sembrano essere i preferiti dagli editori per attivare un profilo Twitter, dato che uno su tre (il 33,8%) sceglie proprio questo periodo, forse sulla scia di precisi piani commerciali, in vista di uno dei momenti più caldi a livello di vendite.
Si intravede, sottolineano in conclusione i promotori, la necessità di compiere investimenti in nuove competenze, linguaggi e paradigmi, capaci di cogliere l’essenza delle nuove forme comunicative che si stanno diffondendo accanto a quelle tradizionali. Allo stesso tempo il ritardo degli editori italiani, lamentato dai più con riferimento alla sfida digitale e social, viene giustificato con l’esigenza di seguire le tendenze del pubblico di riferimento: “Credo che” – ha sottolineato Peresson – “come qualunque impresa, gli editori non possono non aver tenuto conto di due elementi: i bassi indici di lettura nella popolazione, e il fatto che i ‘forti lettori’, quelli più motivati ad accedere a nuove fonti informative su cosa leggere, sono comunque il 12-13% dei lettori di libri. Dall’altro, il fatto, che abbiamo ancora scarsi (o occasionali) utilizzi ‘evoluti’ del web da parte della popolazione, al di fuori di community o di appassionati molto riconoscibili attorno ad alcuni generi”.
Pubblicato su: PMI-dome
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Editoria e crisi: cala il giro d’affari, diminuiscono i lettori, cresce il digitale

Un settore che, da sempre considerato anticiclico, sembra ora scontare il difficile peso della congiuntura economica negativa (fatturato in calo del 4,6%), malgrado una diversificazione dell’offerta editoriale e i dati positivi sul versante e-book

È un invito a correre subito ai ripari quello lanciato dal presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE) Marco Polillo dal palco d’onore della Buchmesse, la Fiera internazionale del libro di Francoforte, giunta quest’anno (dal 10 al 14 ottobre 2012) alla sua 64esima edizione. “Non è più il tempo di parole per il mondo del libro. Ci servono fatti”, ha sottolineato. “La tempesta perfetta si è scatenata sul libro, travolto dal calo della domanda e dalle difficoltà di accesso al credito, in un momento in cui gli editori sono chiamati a ingenti investimenti sul digitale”, ha proseguito Polillo. “Non chiediamo soldi […], così come non li abbiamo mai chiesti. Chiediamo, invece, misure sostenibili, per dare opportunità e risposte”: una politica pensata per uno sviluppo reale del libro, capace di dare sostegno alle librerie indipendenti e maggiori risorse alle biblioteche, di introdurre nei programmi scolastici l’educazione alla lettura e di considerare il ruolo centrale degli editori quali “operatori culturali”.
Quella che spaventa Polillo e l’intero mondo dell’editoria è, in fondo, una “tempesta” confermata dai numeri.
Dopo un 2010 caratterizzato da un andamento in positivo (fatturato in crescita di 0,5 punti percentuali), torna, infatti, a riaffacciarsi, sul mercato dell’editoria, l’allarme crisi scattato nel 2008 (quando si è assistito ad una riduzione del fatturato nell’ordine del 4,3%), travolgendo in maniera ancor più ampia un prodotto, il libro, da sempre ritenuto anticiclico.
Il Rapporto 2012 sullo stato dell’editoria in Italia, a cura dell’ufficio studi AIE, fotografa la situazione relativa al 2011 e ai primi nove mesi del 2012 e ufficializza l’ingresso di questo mercato in una zona d’ombra, in linea, per la prima volta, con tutti gli altri beni e segmenti.
Da un fatturato complessivo di 3.470 milioni di euro nel 2010, si è passati, allora, ai 3.309 milioni di euro del 2011, con una flessione pari al 4,6%. Forte la diminuzione delle vendite, in particolare, per i canali trade (librerie, Gdo, edicole, vendita al dettaglio, librerie online e vendita tramite web, e-book), che hanno segnato un -3,7%.
Con riferimento ai generi, si conferma la crescita del segmento bambini e ragazzi, mentre tutti gli altri mostrano segni di sofferenza più o meno marcati: la non-fiction specialistica (dove si concentra l’offerta di saggistica di cultura, accademico-universitaria e professionale) sembra essere il segmento che più risente della situazione negativa, l’editoria scolastica di adozione segna invece una crescita ma piuttosto lieve (+0,2%).
Per quanto riguarda i canali di vendita, nel 2011 diminuisce di 4,2 punti percentuali il fatturato delle librerie, con le librerie di catena che sembrano ormai aver abbondantemente superato la quota di mercato delle soluzioni indipendenti e a conduzione familiare (41,3% le prime, contro il 37,9% delle seconde, capovolgendo la situazione del 2008, quando le prime occupavano il 36% e le seconde il 43,3%). Crolla la Gdo (banchi libri in supermercati e ipermercati), con un -17,9%, calano anche le vendite di libri in edicola (-10%), mentre crescono del 14,2% le vendite on line di libri (si appropriano di una fetta pari al 9,7% dei canali trade) e del 2,3% i collaterali editoriali (quei prodotti diffusi unitamente al bene editoriale principale), spostatisi su offerte “super economiche”. Pur rappresentando un mercato ancora embrionale (12,6 milioni di fatturato nel 2011, pari a un peso dello 0,87% dei canali trade e dello 0,38% del mercato complessivo), cresce notevolmente il canale e-book, che registra un +740% sulle vendite del 2010 e che moltiplica il numero dei titoli disponibili (così come dei dispositivi di lettura in circolazione).
Crescono anche i lettori degli e-book (gratuiti e a pagamento) che, tra la popolazione con più di 14 anni, sono stati stimati, nel 2011, in 1,1 milioni (pari al 2,3% del totale), contro i 691 mila del 2010 (1,3%). Di questi lettori, 567 mila (pari all’1,1%) hanno acquistato almeno un e-book (365 mila nel 2010, pari allo 0,7%). Il dato si dimostra in controtendenza rispetto alla generale riduzione dei lettori in Italia, stimati in 25,9 milioni nel 2011 (-723 mila sul 2010) e in una percentuale pari al 45,3% (contro il 46,8% del 2010) dell’intera popolazione con più di 6 anni.
Buone le performance dell’intero mercato digitale, che coinvolge, oltre agli ebook, anche le banche dati e servizi a carattere editoriale e che rappresenta nel 2011 il 4,8% del mercato libraio. Esso non riesce, tuttavia, a compensare la generale flessione del settore editoriale.
In leggera crescita pure il numero delle case editrici attive in Italia, divenute 2.225 nel 2011 (+0,9% sul 2010), con almeno 10 titoli attivi all’anno e con circa 32 mila addetti. I grandi gruppi editoriali (Mondadori, Rcs, Gruppo GeMS, Gruppo Giunti e Feltrinelli editori), con i loro marchi e le loro imprese collegate, coprono oggi il 13,6% dei titoli pubblicati e distribuiti, contro l’80,4% della piccola e media editoria.
Segno più per la produzione, con 63.800 titoli (+10,8%), 39.000 novità (+8,2%) e 213 milioni di copie (+2,5%), secondo i dati Istat. Rispetto al 2000, tuttavia, si stampano ben 53,9 milioni di copie in meno, nonostante i 3 mila titoli in più. Il prezzo medio del libro di carta è diminuito, nel 2011, di 3,1 punti percentuali, attestandosi a 20,45 euro (al netto dell’Iva al 4%, il prezzo medio è di 19,66 euro).
Praticamente immutato, nel 2011, il giro d’affari dell’export, con 41 milioni di euro e una quota dell’1,2% sul mercato complessivo del libro. Crescono i fenomeni di internazionalizzazione: oltre all’ingresso di alcune case editrici in società straniere, aumentano le vendite dei diritti e le coedizioni con case editrici straniere (a un tasso del 16% medio annuo, passando da 1.800 a 4.629 titoli in dieci anni), che non coinvolgono più solo la narrativa letteraria e d’autore (17%), ma anche di genere (rosa, giallo, fantasy), bambini (25%), saggistica (16%), arte e illustrati (21%). Calano, invece, le traduzioni da varie lingue straniere, che costituiscono il 19,7% dei titoli nel 2011 (erano il 24,9% nel 1997), con il 35,8% delle copie stampate e distribuite riconducibili ad autori stranieri (40,3% nel 2012). Ad alimentare la crescita dei titoli a catalogo sembrano essere, oggi, soprattutto gli autori italiani (+2% di crescita media).
Le stime provvisorie relative al 2012 non fanno che confermare e aggravare i segnali di una crisi strutturale del settore, con 27 mila titoli pubblicati e immessi nel mercato nei primi cinque mesi (pari al 9,1%), contro i 29.900 del corrispondente periodo 2011. Peggiorano anche le performance dei canali trade, con un -8,7% a copie e un -7,3% a valore registrati nei primi nove mesi. In controtendenza, ancora una volta, il segmento e-book, che segna una crescita del 59%, in meno di sei mesi, nel numero di titoli disponibili (si è passati dai 19.884 di fine dicembre ai 31.615 di inizio giugno).
È su tale segmento, così promettente e allo stesso tempo così ostacolato (non solo dalle resistenze di pubblico, ma anche dalle politiche economiche) che si concentrano innanzitutto le speranze degli editori. Il presidente Polillo auspica, infatti, l’estensione anche agli e-book del regime agevolato di IVA al 4%, attualmente previsto per i soli libri cartacei (visto il loro fondamentale ruolo nella promozione della cultura e dell’istruzione). Egli parla di una vera e propria “discriminazione fiscale” tra libri di carta e libri digitali (sottoposti all’IVA ordinaria del 21%), incomprensibile e sempre più dannosa, poiché traducibile in un “disincentivo al consumo e all’innovazione in un settore importante anche ai fini dell’implementazione dell’Agenda digitale europea”.
L’editoria libraria è “l’unico segmento dell’industria culturale dove le imprese europee sono leader nel mondo”, prosegue Polillo, rivolgendo al Governo la richiesta di un aiuto concreto nel mantenere tale posizione di leadership. “Nonostante la crisi, nonostante le difficoltà finanziarie, l’editoria italiana sta dimostrando tutta la sua capacità di innovazione”, come dimostrano alcuni progetti seguiti da AIE: il progetto LIA (Libri italiani accessibili), che punta ad aumentare la disponibilità sul mercato di e-book in versione accessibile per persone non vedenti e ipovedenti; il progetto TISP (Technology and Innovation for Smart Publishing), che prevede di realizzare una piattaforma innovativa frutto della collaborazione tra industria editoriale e fornitori di tecnologia europei.
L’art. 8 della Legge 62 del 2001 (Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali) riconosceva un credito d’imposta pari al 3% del costo sostenuto dalle imprese per gli investimenti in innovazione. Polillo ne chiede, allora “il rifinanziamento, per sostenere il processo di transizione al digitale” e favorire, dunque, la sostenibilità dei molti cambiamenti strutturali che gli editori stanno realizzando “sui propri cataloghi, sui processi interni, sulle attrezzatture, sulla formazione e riqualificazione del personale”.
Un ulteriore ingrediente della ricetta Polillo è “una politica coordinata per il libro”, capace di superare gli eccessivi e frammentati rapporti e interlocutori coinvolti nel settore: “Dobbiamo evitare inutili sovrapposizioni e una svantaggiosa dispersione delle azioni da intraprendere”, sottolinea. Un efficace coordinamento delle azioni a sostegno del libro e della lettura “è l’unico modo per affrontare la crisi del mercato del libro e il dramma dei bassi indici di lettura in Italia”.
Infine la richiesta di una gestione attiva e più avanzata dei diritti d’autore, la cui tutela “deve essere presidiata” e “non deve limitarsi alla protezione e alle sanzioni”, ma difendere e valorizzare l’innovazione.
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Investimenti pubblicitari: boom per il digitale

Secondo lo studio “Comunicare Domani” curato da AssoComunicazione, il settore starebbe subendo un momento di crisi generale, con la previsione di un 2012 in chiusura al -7% nella raccolta. Crescono per contro le formule più innovative, in testa il Video Adv
La convergenza al digitale ha imposto agli utenti, sempre più evoluti, una necessaria riformulazione nei modelli fruitivi di contenuti e informazioni. La rete diventa sempre più un canale preferenziale per il consumo di quanto veicolato un tempo da altri media più tradizionali. Mutano le pratiche di lettura, mutano le esperienze e le percezioni. Mutano, di conseguenza, anche i comportamenti di quanti, tra tutti i media resi disponibili dallo sviluppo tecnologico, devono scegliere quali e in quale formula veicolare il proprio messaggio promozionale, il proprio credo aziendale.
AssoComunicazione (l’associazione che riunisce le imprese operanti nel campo della consulenza di comunicazione), ha presentato lo scorso venerdì a Milano i risultati del suo annuale studio “Comunicare Domani”: condotto su 133 attività di comunicazione operanti in territorio italiano, esso ha inteso delineare un quadro generale relativo agli investimenti in ambito pubblicitario, alle evoluzioni e ai nuovi scenari che si stanno affacciando in questo ambito.
Il dato generale è di un settore in crisi, che prevede di chiudere il 2012 con una contrazione di circa 7 punti percentuali nella raccolta pubblicitaria (per un valore di 8.650 milioni di euro, la cifra più bassa dell’ultimo decennio).
All’interno di tale trend negativo pare, tuttavia, sia possibile rilevare un andamento dal segno opposto, con riferimento al digitale: gli investitori sembrano, infatti, essere sempre meno interessati ai media tradizionali, a favore delle nuove opportunità digitali (TV Sat e Digitale terrestre, Internet, Video Outdoor). Per queste ultime le previsioni parlano di un 2012 in chiusura positiva addirittura in doppia cifra (+12,7%), con il 15,1% degli investimenti totali ad esse destinate (pari a ben 1.309 milioni di euro): i settori trainanti si confermano Automotive e Finanza-Assicurazioni, ma si registra un forte incremento anche per il comparto Alimentare.
Crescono con la stessa intensità Web/Display Advertising (spazi pubblicitari a pagamento) e Email, da una parte, Search advertising Classified/Directories (pubblicità per categorie) dall’altra, facendo segnare entrambe le formule un +13%: sulla prima le aziende investiranno, nel 2012, 545 milioni di euro, sulla secondo 681 milioni.
Un fenomeno destinato a diventare protagonista nel prossimo futuro è poi il Video Advertising, che registrerà nel 2012 un’esponenziale aumento degli investimenti, pari al +93%, pur restando in termini assoluti ancora su cifre limitate (le stime parlano di 88 milioni di euro di investimenti).
La potenza di questo nuovo mezzo è stata del resto rilevata a gran voce nel corso dello Iab Seminar 2012, l’evento tenutosi il 28 giugno scorso a Milano, che ha focalizzato quest’anno la propria attenzione proprio sul tema del Video Advertising. Nella sua presentazione, Fabiano Lazzarini, General Manager di IAB Italia, ha evidenziato come, a fronte di un cambiamento dei modelli di consumo dei media, anche la pianificazione pubblicitaria stia modificando i propri confini. Ad oggi, ha riportato, il 2,5% degli investimenti pubblicitari si sta spostando dalla TV al Video Online, mezzo che permette di pianificare seguendo logiche simili a quello che è da sempre il media preferito dagli italiani. A ciò si aggiunge il fatto che esso offre numerose opportunità ai diversi attori coinvolti nella filiera pubblicitaria: i creativi, ad esempio, possono realizzare campagne che viaggiano in rete al di là dei vincoli spazio-temporali e le aziende possono diventare fornitrici di contenuti e raccontare storie che gli utenti si scambiano, manipolano e modificano per creare nuovi originali spunti. Il Video Adv rappresenta, allora, oggi – secondo Lazzarini – il 10,5% della pubblicità display, pari a 455,6 milioni di euro, e nel 2012 egli prevede un aumento degli investimenti pari all’85%, raggiungendo gli 89 milioni di euro (si tratta di stime leggermente diverse rispetto a quelle riportate da AssoComunicazione, ma la sostanza rimane invariata).
In aumento, malgrado rimanga ancora poco utilizzato, è anche il Mobile Adv (8%), con 38 milioni di euro che dovrebbero essere elargiti dagli investitori nel 2012. Segno più anche per la formula Performance (pagamento in base alle visualizzazioni), con 46 milioni di euro previsti per l’anno in corso, pari a 8,5 punti percentuali di aumento sul 2011.
Con riferimento alla composizione assoluta degli investimenti pubblicitari nel mezzo digitale, l’indagine Assocomunicazione ci dice che la quota maggioritaria (52%) è occupata da Search advertising e Classified/Directories, seguita da Web/Display Adv e Email (41,6%). La market share per Performance è poi del 3,5%, quella per il Mobile Adv del 2,9%.
E sui canali televisivi?
Il mercato degli investimenti pubblicitari starebbe, dunque, vivendo una profonda trasformazione, fondata sul ridimensionamento della propria portata, a causa della persistente congiuntura economica negativa, e, allo stesso tempo, sulla ridistribuzione delle risorse alla propria base.
Se è vero, infatti, che la televisione continua ad essere, anche nel 2012, il mezzo prediletto dagli investitori italiani, la market share occupata da questo canale sembra essere in calo, passando dal 52% del 2011 al 51% dell’anno in corso. La flessione è conseguenza diretta della contrazione prevista nella raccolta di investimenti, pari a -8,6% (cioè a 4.411 milioni di euro destinati al media).
I due big players del mercato, Rai e Mediaset, vedono una decisa riduzione degli investimenti nei loro canali “tradizionali”, rispettivamente del 12,2% e del 11.2%. Nonostante la buona crescita dei rispettivi canali digitali, sia Rai che Mediaset chiudono, inoltre, in negativo il 2012, con un -10,9% previsto per la RAI (pari a 967 milioni di euro di investimenti) e un -9,6% per Mediaset (pari a 2628 milioni). Continueranno comunque a rappresentare il 38% del totale investimenti pubblicitari.
Secondo le previsioni, La7 e La7D incrementeranno anche nel 2012 la loro raccolta pubblicitaria (+7,9%, pari a 202 milioni di euro), seppur in misura più contenuta rispetto al 2011.
Soffrono, oltre alle TV generaliste, anche quelle locali, segnando un calo di raccolta pari al 51,9%. Per contro, TV Satellitare e Digitale faranno registrare degli andamenti positivi, con quote a loro destinate rispettivamente al +6,4% e al +6,6%. A influire sul dato sono, da una parte, l’abbiamo visto, il processo di convergenza al digitale, che spinge a una crescita dell’audience, dall’altra l’ampliamento dei canali, dunque dell’offerta proposta.
La stampa ancora resiste
Al secondo posto per quota di mercato si posiziona poi ancora la stampa, tuttavia essa continua a subire perdite piuttosto rilevanti di tale quota (canalizza nel 2012 il 22,1% della raccolta, in calo di 11,9 punti percentuali sul 2011). Più in particolare, nel comparto Quotidiani, gli investimenti, pari a 1.153 milioni di euro, sono in continua e forte flessione (-11,5%). Sia il settore FMCG (beni di largo consumo) che gli altri comparti continuano a ridurre, infatti, l’utilizzo di questo mezzo.
Soffre in maniera ancor più netta il settore della free press, facendo segnare perdite a doppia cifra (-43% sulla free press nazionale). A tagliare decisamente gli investimenti, sono anche e soprattutto i settori Finanza/Assicurazioni e GDO, dunque i tradizionali main spender di questo media.
Infine il reparto Periodici, dove la raccolta pubblicitaria si attesta per il 2012 sui 758 milioni, facendo registrare una contrazione sul 2011 di 12,6 punti percentuali, nonostante le molte iniziative editoriali multipiattaforma che coinvolgono i nuovi tablet e devices. Anche il settore Abbigliamento, investitore di primo rilievo per questo mezzo, inizia a disinvestire, facendo segnare un -10% nel primo trimestre 2012.
Si difendono tutti gli altri canali
Al terzo posto per quota di mercato si posiziona poi il digitale (15,1%), al quarto la radio (5,9%). Per quest’ultimo mezzo è prevista una chiusura al -6% nel 2012 (pari a 507 milioni di euro), dato tuttavia positivo, se paragonato al -12% registrato nel 2011. Le posizioni riguadagnate dipendono in larga parte dalle buone performance delle radio commerciali, che passano dal -9% nelle raccolte pubblicitarie del 2011 al -3% del 2012 (pari a 303 milioni di euro), grazie soprattutto a un ampliamento della loro offerta, caratterizzata ora da una più ampia personalizzazione dei progetti e da una comunicazione multipiattaforma. Migliora la situazione anche per le radio locali, che da -19% si collocano nel 2012 a -8,5% (pari a 135 milioni di euro). Peggiorano invece le prestazioni di Radio Rai, che da -9% arriva addirittura -14% (raccolta pari a 70 milioni di euro).
Al quinto posto per market share abbiamo poi il comparto “Esterna” (5,5%), dove continua la flessione degli investimenti pubblicitari, con la previsione di un -14% per il 2012 (pari a 475 milioni di euro). Tutti i comparti “classici” sembrano essere in crisi: -21,7% per i poster (pari a 100 milioni di euro), -12,2% per la dinamica (pari a 87 milioni di euro), -16,2% per le maxiaffissioni (48 milioni) e -14,1% per i circuiti tematici (15 milioni). Segno meno anche per l’arredo urbano (-13,3%, pari a 91 milioni investiti) e gli aeroporti (-9,6%, cioè 76 milioni di euro), mentre registrano performance positive i formati più innovativi come i Video OOH (+8,6%, pari a 22 milioni di euro).
Sesta e ultima posizione per quota di mercato occupata dal cinema (0,4%), dove si assiste ormai da tempo ad una vera e propria emorragia di investimenti, nonostante il rinnovamento del mezzo legato a digitalizzazione, 3D e al recente rilascio al mercato dei software di pianificazione. Si prevede in particolare per il 2012 una chiusura negativa a -25%.
Cambiano dunque, nell’era della multimedialità, le formule adottate dagli investitori per le proprie scelte di advertising, in riflesso al rinnovarsi delle politiche fruitive dell’utente e al mutare dell’approccio che lega questo stesso utente al mezzo. Come dimostra, ad esempio, la ricerca “Interactive Europe”, diffusa l’11 giugno 2012 da Cbs Outdoor Italia, azienda specializzata nel settore dell’advertising out of home, sembra essersi totalmente modificato il modo che il consumatore ha di interagire con la pubblicità. Riferendosi alle campagne pubblicitarie in esterna, i promotori del report rilevano come l’81% degli italiani reagisca ad esse in diversi modi, andando online per cercare ulteriori informazioni sui contenuti pubblicizzati (38%), cliccando “Mi piace” sulla pagina Facebook del marchio (17%) e comprando il prodotto (34%). L’interazione aumenta fino all’85% nel caso degli utilizzatori di smartphone o tablet, confermando il ruolo crescente del mobile, nel dare visibilità ai brand e nel coinvolgimento delle audience, sempre più in movimento.
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Italia digitale tesa tra decrescita e opportunità emergenti

Il Rapporto Assinform 2011 delude le previsioni di crescita e delinea una situazione di reale incertezza circa il futuro del mercato ICT italiano, anche se non mancano i segnali positivi. Ecco un’analisi dettagliata

I dati emersi dal Rapporto Assinform 2011, e presentati a Milano il 20 giugno 2011 sembrano confermare un quadro di forte incertezza per il settore ICT italiano, tra delusione delle previsioni di crescita e nuove opportunità emergenti: ripercorrere i punti principali della “fotografia piuttosto dettagliata” (come l’ha definita il direttore Federico Barilli) fatta da Assinform ci aiuterà sicuramente a comprendere meglio i pregi, le carenze e le contraddizioni del nostro contesto nazionale.

Assinform è una delle associazioni più numerose di Confindustria, inquadrando oltre 500 imprese (tra dirette e territoriali), sintomo del fatto che “l’IT è un settore estremamente importante in Italia”: in particolare esso risulta il quarto per importanza, con 390 mila addetti e quasi 100 mila imprese.

Come sottolinea innanzitutto il presidente Paolo Angelucci in una delle slide di presentazione, il Rapporto Assinform, “giunto alla sua 42esima edizione”, “rappresenta un punto di riferimento consolidato ed esaustivo per l’analisi del settore ICT in Italia, a confronto con le principali economie mondiali: abbiamo cercato di dare al rapporto oltre che al classico ruolo di enumeratore dei risultati, anche un ruolo di momento di discussione sulle prospettive future”.

Il quadro del mercato italiano ICT è stato interpretato alla luce di alcuni risultati dell’andamento congiunturale: ogni tre mesi Assinform realizza una survey sui propri associati, basandosi su un campione significativo dell’industria italiana; la composizione dell’ultimo panel era di 43 aziende (su circa 180,) equamente distribuite tra piccole, medie e grandi imprese, e il mercato rappresentato da questo panel era di 4,423 miliardi di Euro: si tratta delle risposte di circa il 20% del mercato italiano, quindi una percentuale piuttosto significativa. Con riferimento a tale analisi, si è in primo luogo cercato di cogliere il confronto tra l’andamento globale degli ordini nella rilevazione di febbraio, relativa al 31 dicembre dell’anno scorso, e l’andamento della rilevazione di aprile, relativa al 31 marzo: “da una grandissima positività […], la migliore da quando è partito il panel (attualmente noi siamo alla decima rilevazione), si è passati sempre ad un un ottimismo, perché siamo passati dall’82% di aumento di ordini al 53% di aumento degli ordini”, però le imprese che giudicano come “molto migliorato” l’andamento degli ordinativi, è passata dal 64,7% al 7,3%. Quindi “mentre a dicembre c’era una grande euforia sull’andamento degli ordini, adesso a marzo si è ridimensionata”, e questo anche in relazione alle dimensioni dell’azienda: “c’è un ottimismo meno forte nelle piccole, buono nelle medie e migliore nelle grandi; però mentre a febbraio il 100% delle grandi imprese prevedeva un aumento degli ordinativi, attualmente solo il 58%” lo prevede. “Non sono dati negativi – continua Angelucci – ma c’è sicuramente un ridimensionamento delle aspettative”.

L’analisi è stata estesa anche alla valutazione del sentiment sul budget e sulle previsioni di spesa dei clienti Assinform (“ciò che noi associati Assinform pensiamo che i nostri clienti siano disposti a spendere”), dividendo tale valutazione in due parti: spesa corrente e nuovi progetti o investimenti. Con riferimento alla prima parte, si nota un andamento costante da circa un anno e mezzo, nel senso che il 40% delle imprese continua a dichiarare di voler risparmiare sulla spesa corrente. Con riferimento, invece, alla seconda parte, si è toccato il massimo dell’ottimismo nel febbraio 2011, quando si pensava che il 65% dei clienti Assinform “volesse investire o spendere di più in nuovi progetti; questo dato purtroppo si è ridimensionato e siamo tornati indietro esattamente di 15 mesi”. “È come se – commenta Angelucci – il clima […] non [di] pessimismo, ma di nebulosità del futuro (sia quello economico, che quello finanziario, che quello politico), faccia sì che le imprese […] abbiano ridimensionato le prospettive di investimento”. Tutto questo con inevitabili e pesanti ripercussioni nel futuro e nella vitalità del tessuto imprenditoriale italiano.

Sono stati poi ripercorsi gli elementi fondamentali del piano digitale nazionale, dell’“Agenda digitale per l’Italia”, ricordando l’importanza della cosiddetta “Agenda UE 2020”, quella serie di “obiettivi comuni a tutta Europa, che noi dobbiamo porci”, punto di riferimento per tutti gli stati membri. Tuttavia, uno dei limiti di tali obiettivi – evidenzia Angelucci – è che essi sono quasi tutti di natura quantitativa; secondo Assinform, invece, ci si dovrebbe porre anche degli obiettivi di natura qualitativa e uno dei mezzi con i quali l’associazione pensa di poter incidere in tal senso è la neonata “Confindustria digitale”: si tratta di una nuova Federazione ICT, creata da quattro associazioni (Assotelecomunicazioni-Asstel, Anitec, Aiip e Assinform) con l’appoggio di Confindustria e “chiamata a elaborare e proporre un progetto di digitalizzazione del Paese”, portando all’attenzione di tutti gli stakeholder, sia quelli centrali sia quelli periferici, i diversi problemi e le numerose opportunità che derivano dall’adozione di un’agenda digitale.

Si è posto, inoltre, l’accento sulla diffusione definita “carsica” dell’ICT nel Paese, intendendo, con tale definizione, il fatto che imprese, pubbliche amministrazioni e cittadini hanno adottato in modo pervasivo e spontaneo le tecnologie ICT.
Sulla base degli elementi sin d’ora rilevati, Angelucci si è interrogato sulle strade da percorrere, giungendo alla conclusione che sia necessario innanzitutto assumere la consapevolezza della situazione e dell’uso delle tecnologie e subito dopo passare all’azione concreta, dando delle regole ben precise. In particolare, tre sono i filoni di interventi necessario, diretti al raggiungimento di tre specifici obiettivi.

Il primo riguarda l’efficienza dei servizi pubblici, il che significa: servizi condivisi e cooperazione applicativa tra le PA, accesso semplificato ai servizi (anche a pagamento), attivare un processo di switch-off (cioè di passaggio “forzato” ai servizi on-line) per le imprese e per i cittadini, che riduca  drasticamente il cartaceo; semplificazione, digitalizzazione e sburocratizzazione sono le tre parole d’ordine.

Il secondo obiettivo è rappresentato dall’innovazione nelle imprese: Assinform chiede “che venga rafforzato il concetto di utilizzo del credito d’imposta come misura coerente e costante, perché il credito d’imposta automatico è l’unica cosa che ci consente di rispettare i tempi dell’innovazione”. L’associazione, dal canto suo, deve “avere più stretti contatti e fare più sistema con le grandi filiere produttive” del Made in Italy (moda-tessile, alimentare, legno-arredo…), partendo dall’esperienza dei distretti e delle reti; questo perché lo sviluppo dell’economia italiana sarà legata principalmente all’expert, possibile solo attraverso un sistema di reti integrato, nel quale l’IT potrebbe fungere da “collante”. Assinform si dovrà, quindi, adoperare per attivare progetti basati sull’ICT, allo scopo di facilitare l’aggregazione per contesto produttivi tra grandi medie e piccole imprese.

Terzo e ultimo canale d’intervento coinvolge l’infrastrutturazione avanzata: la banda larga attualmente disponibile è sufficiente solamente per uso privato, per le imprese non sembra esserci abbastanza banda, soprattutto con riferimento ai distretti, dove “è indispensabile avere reti ad alta velocità, cioè reti ottiche”.

Allo scopo ottenere una reale integrazione, sarà necessario uno sforzo comune per combattere la disomogeneità nell’elaborazione e attuazione delle agende digitali da parte delle varie regioni italiane, con l’intento ultimo di giungere ad un allineamento delle agende digitali regionali all’agenda nazionale; questo sarà possibile, ovviamente, solo attraverso l’utilizzo di piani condivisi e tra loro coerenti e con lo sfruttamento delle best practices: “io credo – rivela Angleucci – che copiare in questo settore non sia mai un male, anzi un bene, e possibilmente […] copiare migliorando”.

Utilizzando un’azzeccatissima metafora, Giancarlo Capitani (amministratore delegato NetConsulting, che ha illustrato nel dettaglio i risultati del rapporto Assinform) descrive la situazione attuale del mercato ICT utilizzando “l’immagine del baco da seta che diventa farfalla: […] il baco a farfalla non perde la natura del baco, ma è un’evoluzione del baco”. Mentre, tuttavia, in natura questa metamorfosi avviene in quattro giorni, nel settore considerato questo processo di cambiamento è molto più faticoso e lento: nella fase attuale si assiste al passaggio dall’ICT tradizionale, come lo conosciamo, ad un’era digitale, quindi, rimanendo nella metafora, “dalla solidità un po’ vintage del baco, alla leggerezza e alla velocità della farfalla”. Vediamo, allora, un mercato fatto “a macchie”, con punti di crescita e di rallentamento, anche se una simile disomogeneità non rappresenta una prerogativa italiana, ma rappresenta un andamento generalizzato.

Il mercato mondiale dell’ICT nel 2010 è tornato ai livelli di crescita pre-crisi, ma anche in questo caso ragioniamo “a macchie”, a diverse velocità di sviluppo, con la zona Asia-Pacifico che ha quasi raggiunto l’Europa per dimensioni del mercato ICT, grazie alla presenza, in molti Paesi, di una classe media sempre più consistente e in grado di imporre un simile indice di sviluppo. Con riferimento alla crescita in volumi, complessivamente gli acquisti di tecnologie sono stati molto massicci: nel 2010 sono stati venduti quasi 1,5 miliardi di telefoni cellulari, 300 milioni di smartphone, 340 milioni di IPC; questo si è ripercosso nell’aumento del parco utenza legato alle nuove tecnologie: 2 miliardi di utenti internet (450 milioni solo in Cina), 537 milioni di utenti per la banda larga, quasi 5,3 miliardi gli utenti di cellulari (su una popolazione di 6,5 miliardi), 500 milioni gli utenti Facebook (ca. 18 milioni in Italia), 175 milioni gli utenti Twitter (1,3 in Italia). Questo indica che “siamo entrati nella fase di digitalizzazione di massa a livello mondiale”, ricorda Capitani.

Con riferimento non tanto alla penetrazione, ma soprattutto all’uso e al consumo delle nuove tecnologie, nel 2010 ci si è trovati di fronte ad una popolazione digitale ormai dipendente da tali tecnologie, costantemente connessa e, per questo, sempre più in grado di interagire e influenzare le scelte delle pubbliche amministrazioni, delle imprese e delle banche. Per questo motivo le nuove strategie di convergenza al digitale non sono più disegnate dai grandi strateghi dell’ICT, dai vendor ICT, ma sono le stesse modalità, gli stessi stili di utilizzo innovativo che impongono una ridefinizione dell’innovazione tecnologica e della formazione dell’ecosistema digitale.

Limitando la prospettiva al solo mercato italiano, è ovvio che la realtà delineata si ridimensioni e i tassi di sviluppo si appiattiscano: nel 2010 l’andamento di crescita ha conosciuto un segno negativo, con un – 2,5% rilevato, e all’interno di tale andamento, il settore dell’IT è decresciuto dell’1,4% e quello delle TLC del 3% (rispetto al -2,3% evidenziato nel 2009). A tal proposito si rileva un fenomeno in parte nuovo, secondo il quale a pagare il prezzo della decrescita sarebbero soprattutto le TLC mobili, con un -3,2%, rispetto al -2,6% riportato dal segmento del fisso. A nulla sembra servire, allora, il recupero di quasi dieci punti percentuali da parte dell’IT (“non è stato un anno bello – ha sottolineato Angelucci – anche se è stato un forte recupero rispetto all’anno precedente che vedeva un -8 addirittura”), visto che i tassi di crescita italiana non reggono il confronto con quelli registrati dagli altri grandi Paesi del mondo (che pure, lo abbiamo detto, sono legati a logiche definite “a macchia”, dunque non uniformi).

Si registrano degli andamenti costantemente negativi, in primis per il settore dei servizi, dovuti innanzitutto alla mancanza di nuovi progetti innovativi che diano un impulso significativo alla domanda e anche al permanere del processo vizioso di down pricing delle tariffe professionali, processo che sta rendendo il nostro Paese protagonista di un fenomeno di nearshoring, tale per cui numerose aziende straniere cominciano a trovar economicamente conveniente spostare in Italia, dove i costi sono convenienti, i propri processi di produzione. Non sembra essere sufficiente, per supplire le carenze in tal senso, il miglior andamento registrato nell’ambito del software e la tenuta di quello dell’hardware (grazie anche ai nuovi tablet pc).

Accanto a quelli che Capitani ha definito dei “bachi”, troviamo – è bene sottolinearlo – pure qualche “farfalla”. Ecco allora che un andamento positivo si riscontra in quei 13 milioni di accessi a banda larga, in crescita di quasi il 7%, ma anche nel numero di Sim che, nel nostro Paese hanno superato quota 95 milioni, a fronte di 46 milioni di utenti. Gli operatori virtuali di telefonia mobile (Mvno) hanno raggiunto, poi, i 3,7 milioni di utenti, anche se l’unico interlocutore realmente importante sembra essere Poste Italiane.

Con riferimento, poi, all’ultimo trimestre del 2011, la tendenza del mercato italiano continua a deludere le aspettative, disattendendo il segno positivo, nonostante la crescita dell’economia italiana, ma in linea con l’andamento di alcuni fondamentali indicatori rilevati dall’Istat: i consumi e la spesa corrente della Pubblica amministrazione sono fermi rispettivamente allo 0,7% e allo 0,1%, con investimenti fissi lordi in crescita di un solo punto e mezzo percentuale.
Più in particolare, il settore dell’Information Technology ha subito una nuova battuta d’arresto in questo intervallo di tempo, con un -1,3% registrato (contro il -2,9% nel primo trimestre 2010). La scomposizione della domanda rivela, in realtà, andamenti diversi: cresce dello 0,4% (contro un -1,5% del 2010) la parte software, dove la componente middleware si conferma la più dinamica, poiché di supporto a iniziative di datacenter trasformation e implementazione di architetture cloud; come nel primo trimestre del 2010, la parte hardware decresce (-2,1%, contro un -2,3% del 2010), evidenziando livelli di vendite superiori al milione di pezzi per tutto il 2011 ma solo per i tablet pc. I servizi it si attestano a -1,5% (-3,8% nel 2010) e l’assistenza tecnica a -2,9% (-4,9% nel 2010).

Il calo più forte, comunque, si è registrato nel settore delle TLC, con un -4,2%.
Con riferimento alle imprese che utilizzano la banda larga, la media italiana si attesta all’83%, definendo il nostro Paese a metà nella classifica europea: più precisamente, Calabria, Sardegna, Basilicata, Puglia, Molise e Trentino, con 77%, si collocano in posizioni inferiori (affiancandosi a Rep.Ceca, Irlanda, Ungheria), mentre Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, con oltre l’86%, si collocano nella parte alta (confrontandosi con Paesi come la Germania, la Gran Bretagna e la Svezia).
Complessivamente considerata, comunque, l’Italia digitale si situa al di sotto delle medie raggiunte dai 27 paesi Ue: le Pmi che vendono online sono il 3,8%, contro la media europea del 13,4%; le imprese che acquistano online sono il 16,5%, contro 26,4%; la popolazione che usa frequentemente Internet è il 45,7%, contro 53,1%; la popolazione che usa servizi di online banking è il 17,6%, contro 36%; i cittadini che usano servizi di eGovernment sono il 17,4%, contro 31,7%; le famiglie con accesso a banda larga sono il 48,9%, contro 60,8%; le famiglie con accesso a Internet sono il 59%, contro 70,1%; la popolazione che acquista online è il 14,7%, contro 40,4%; il fatturato delle imprese attraverso eCommerce rappresenta il 5,4%, contro 13,9%.

Bisogna quindi essere ottimisti o pessimisti per il futuro? Partendo dal presupposto che l’imprenditore deve, per definizione, essere ottimista, ci dice Angelucci, l’analisi di alcuni ulteriori dati impone una riflessione sulle prospettive future.

Tali dati mostrano un Paese che, malgrado tutto “si sta strutturando”: gli accessi broadband si sono attesti nel 2010 intorno ai 13,2 milioni, con una crescita quasi del 10% in un anno; gli utenti internet mobili (6,2 milioni) sono aumentati di 44,4 punti percentuali in un anno; il numero di app medio per ogni utente smartphone è stato di 30; l’e-commerce, dove le carenze del contesto italiano sono piuttosto accentuate, è cresciuto del 14%; l’advertising del +15%; 1,3 milioni sono stati gli account su Twitter e 17,8 milioni gli utenti di Facebook, dei quali 4 miloni hanno preferito la soluzione mobile; l’anno scorso sono stati venduti circa 430.000 di tablet, mentre quest’anno tra gli 800mila e gli 1,2 milioni. Tutti questi dati sottolineano il fatto che “gli italiani sono più veloci di chi dovrebbe fare la politica industriale: noi abbiamo le infrastrutture, allora dobbiamo utilizzarle”. Il valore del cloud computing in Italia è stato stimato l’anno scorso in 130 milioni di Euro e si prevede che nel 2013 tale cifra possa salire a 410 milioni, con una crescita annuale di quasi 50 punti percentuali: “è un nuovo modo di fare informatica, è un nuovo modo di fruire, soprattutto, informatica e quindi c’è tutta un’opportunità di crescita” (Angleucci).

Si è cercato anche di capire quale percentuale della domanda ICT provenga da componenti classiche e quale da componenti innovative. Nei servizi di telecomunicazioni, la componente innovativa dal 2009 al 2010 è aumenta del 4,7%, quindi, mentre nel 2009 la componente innovativa occupava il 27,7% (pari a 9.475 milioni di Euro) della totalità dei servizi telco, nel 2010 ha raggiunto il 30% (pari a 33.070 milioni); di conseguenza, la componente cosiddetta “classica” è diminuita del 6,4% (da un valore di 24.740 milioni di Euro, ad un valore di 23.145 milioni). Il valore complessivo stimato per il settore telecomunicazioni era di 34.215 milioni nel 2009 e di 33.070 nel 2011, con una diminuzione del 3,3%. “Vuol dire che è un Paese che è pronto per fare un salto di qualità”.

Tuttavia le incertezza in merito alle previsioni sul 2011 non cadono, oscillando tra una prospettiva pessimistica ed una ottimistica: nel primo caso, di sostanziale conferma del quadro attuale, il mercato ICT continuerà a scendere di circa 4,5 punti percentuali, con il settore delle TLC in maggior spinta verso il basso (-5,8%) e il settore IT in discesa attenuata (-0,8%). Nel caso, invece, in cui l’economia nazionale migliorasse e si attivassero fruttuose politiche di innovazione, la crescita del mercato ICT si potrebbe attestare ad un -0,1%, con un -0,6% per le TLC e un +1,3% per il mercato IT.
Il problema centrale – suggerisce sapientemente Angelucci – non è tanto capire se sia meglio essere ottimisti o pessimisti nei confronti della situazione presente e futura del mercato ICT italiano: “bisogna essere semplicemente innovatori”!

 

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Le sfide poste dal nuovo consumatore digitale

Le innovazioni nella Rete obbligano le imprese a rivedere i propri approcci commerciali, che devono necessariamente legarsi alla logica collaborativa e virale del mezzo digitale

Se si osserva l’attuale scenario economico italiano, ci si rende immediatamente conto di come il legame tra vita digitale e business stia diventando sempre più stretto, con una evidente convergenza tra circostanze off ed esperienze on. Quella che a buon titolo è stata definita una “rivoluzione digitale” rappresenta ormai una componente fondamentale nella valutazione dei trend di mercato e il suo impatto nella filiera produttiva e distributiva nazionale costringe gli imprenditori di qualsiasi settore e dimensione ad affrontare sfide sempre più impegnative; sfide che impongono una riformulazione degli approcci tradizionali, sfide che richiedono elasticità mentale e rinnovate skills, sfide che portano a campagne commerciali il cui esito è tutt’altro che scontato, sfide, in estrema sintesi, che tendono spesso ad assumere la forma di un temuto punto interrogativo.

A tal proposito, un’analisi commissionata da Il Sole 24 Ore a IPR Marketing e presentata dal CEO dell’istituto di ricerca, Antonio Noto, in occasione del Forum Digital Media – svoltosi lo scorso mercoledì 25 maggio presso la sede milanese de Il Sole 24 Ore – delinea il profilo degli utenti digitali, dei nuovi consumatori web 2.0 e offre importanti spunti di riflessione circa i risvolti più attuali del commercio elettronico.

Complessivamente considerati, i dati – ha sottolineato Noto – denotano un consumatore in costante evoluzione, probabilmente più evoluto della stessa tecnologia di cui si serve. Il popolo degli internauti definiti “autonomi” rappresenterebbe il 54% dell’intera popolazione italiana, mentre il restante 46% non sembra essere connesso; tuttavia il 20% di questa seconda categoria è costituito dagli internauti cosiddetti “indiretti”, che utilizzano, cioè, la rete servendosi della mediazione di amici e parenti: essi, pur in assenza di alfabetizzazione informatica, sono, in definitiva, dei fruitori della rete, quindi la percentuale complessiva del popolo del web viene a coincidere con il 74% degli italiani.

Con riferimento al tempo trascorso on line, scopriamo che circa un terzo della popolazione che si collega lo fa per più di quattro ore al giorno e che donne e giovani rappresentano le categorie più attive, quelle che passano piu? tempo in internet: il 37% delle donne e il 39% dei 18-34enni risultano connessi per oltre 4 ore al giorno.

Due terzi degli italiani (66%) trascorrono questo tempo motivati da interessi di natura personale, mentre un terzo (34%) lo fa per motivi di lavoro; considerando anche i probabili intrecci tra le due spinte all’utilizzo (spesso si naviga per interesse personale anche durante le ore di lavoro) e considerando che la percentuale di chi naviga per interesse proprio sale al 72% negli over 54, si capisce bene come la rete abbia ormai un ruolo tutt’altro che marginale nella vita quotidiana di buona parte degli italiani, i quali navigano non perché obbligati da esigenze professionali, ma per una propria libera scelta. Di questo una qualsiasi campagna commerciale deve oggi inevitabilmente tener conto.

Due consumatori differenti si delineano, poi, con riferimento alla costanza di navigazione: il 71% si connette poche volte per periodi lunghi, mentre il 25% si connette più volte per tempi brevi (il restante 4% non sa o non ha risposto). Con riferimento al sesso, non si sono notate divergenze tra queste due tipologie, mentre rispetto all’età, negli under 54 è risultata superiore alla media la quota dei “sempre connessi” (circa 30%), negli over 54 quella dei connessi per tempi lunghi (80%).

Per navigare, dichiara di utilizzare il computer di casa il 94% degli italiani, la chiavetta il 34% (soprattutto donne under 54), la soluzione mobile (telefonino, i-phone) il 32% (in particolare maschi, under 34 e “sempre connessi”), l’i-Pad il 4% (in prevalenza under 34 e “sempre connessi”); in questo e nei prossimi casi il totale non è pari a 100 perchè la domanda prevedeva più risposte. Nonostante la bassa percentuale dichiarata, ricorda Noto, l’i-Pad sta avendo un rilevante successo di mercato e di marketing, frutto soprattutto di una strategia vincente fondata sul passaparola.

Più della metà degli intervistati, il 58%, ha un profilo su un social network e questa percentuale sale al 63% per gli internauti del sud e delle isole, al 67% per quelli di età compresa tra i 35 e i 54 anni e al 77% per quelli ancor più giovani (18-34 anni). Il 10% dichiara, poi, di partecipare a discussioni su Twitter (16% per i residenti al centro); breve parentesi: coordinati da Luca Conti, molti utenti hanno anche twitterato nel corso dell’evento di presentazione della ricerca, commentando in modo interattivo quando detto dagli ospiti. L’11%, ancora, possiede un blog (18% nei residenti al centro, 24% nei fruitori di età compresa tra 18 e 34 anni). Il 18% (27% nei residenti al centro) è iscritto ad una comunità virtuale nella quale si condividono interessi (come Anobii), dato in elevata ascesa, visto che lo scorso anno era pari al 5%. Infine il 15% sembra far parte di un gruppo di acquisto.

La rete rappresenta uno strumento privilegiato per l’acquisto di prodotti: viene utilizzata innanzitutto come fonte di informazione sulle caratteristiche dei prodotti stessi, attraverso la navigazione sul sito del produttore (67%); serve poi per verificare la presenza di offerte, sconti sui negozi virtuali (5%), ma anche per chiedere particolari informazioni sui prodotti agli altri consumatori (48%), o per cercare notizie su offerte o occasioni presso gli utenti (43%). Rispetto tutte queste modalità di utilizzo, gli utenti più attivi sono i 18-34enni e i residenti al centro, seguiti dai 35-54enni e dai residenti al sud e nelle isole. Da questi dati, ha evidenziato Noto, si capisce come l’acquisto di tipo “emotivo” – quello su cui solitamente fanno leva particolari campagne pubblicitarie attraverso le vetrine dei negozi o altri canali tradizionali – venga fortemente penalizzato in rete, dove sembra sostituirsi un acquisto più “razionale”: il packaging perde parte della propria funzione di guida al comportamento d’acquisto.

Entrando un po’ più nel dettaglio, apprendiamo che il 29% degli internauti ha fatto spesso acquisti in rete nell’ultimo anno (percentuale che sale al 33% per le donne, al 38% per i “sempre connessi” e al 44% per gli under 34), quasi la metà, il 49%, lo ha fatto solo occasionalmente e il 22% non ha acquistato nulla tramite web.

Il report si è concentrato, poi, sulla tipologia di prodotti comprati in rete: in testa al podio il consumo di cultura, dunque libri, film e musica (45%), acquistati soprattutto da donne e dagli over 54. Al secondo posto elettronica ed elettrodomestici (43%), comprati in maggioranza da uomini e da 34-35enni. Medaglia di bronzo per gli articoli di informatica (37%), acquisiti prevalentemente da uomini e da 18-34enni. Troviamo poi il settore abbigliamento/accessori (32%) e quello dei cosmetici/profumi (13%), scelti in particolare da donne e da under 34.

Il vantaggio maggiore evidenziato dagli utenti nell’acquisto in rete è quello di tipo economico: la possibilità di avere dei prezzi più vantaggiosi rappresenta la principale variabile nella motivazione all’acquisto (57%), seguita dalla possibilità di trovare prodotti difficilmente reperibili in altro modo (36%), dalla maggiore comodità e rapidità nell’acquisizione (31%), dal grado maggiore di libertà e conseguente riduzione dei condizionamenti (16%) e, infine, da una considerazione etica, che vede nel’abbattimento della filiera una valorizzazione dei produttori (6%). Per il solo 7% degli intervistati, l’acquisto in rete non porterebbe alcun vantaggio.

Tra gli svantaggi percepiti, il principale (40%) sembra essere la mancanza di fiducia nell’acquisto di prodotti che, in sostanza, non si sono visti fisicamente, seguito dalla difficoltà nel portare a termine una procedura che richiede particolari competenze informatiche (25%), dal timore di non vedersi recapitare a casa i prodotti (23%), dalla non sicurezza nei pagamenti (23%), dalla mancanza di una componente di divertimento (4%). Per l’11% la compravendita in rete non comporterebbe alcuno svantaggio.

Risulta iscritto a siti che propongono offerte e sconti su prodotti il 49% degli intervistati, del quale il 17% dichiara di utilizzare spesso questi canali, il 33% di utilizzarli qualche volta e il 50% di non utilizzarli mai. Offerte e sconti su prodotto che si ricevono via web rappresentano, poi, un incentivo all’acquisto per il 18%, mentre il 71% afferma di acquistare solo ciò a cui è già interessato (l’11% non ha risposto).

La rete è funzionale non solo alla valutazione di prodotti, ma anche per quella di vari servizi: canale preferenziale per l’acquisto di viaggi, vacanze e biglietti, essa sta nel tempo consolidando la propria valenza “relazionale”, come strumento di scambio ed incontro. Conosce ed è iscritto a siti come Groupon il 30% degli intervistati, del quale il 7% dice di sfruttare spesso le offerte da essi messe a disposizione, il 25% qualche volta, il 68% mai. Conosce questi siti senza esserne iscritto il 23%, non li conosce il 47%. Essi rappresenterebbero un incentivo a provare cose che non si conoscono per il 59%, mentre per il 35% non costituiscono un canale di sperimentazione (il 6% non sa o non ha risposto).

Internet, conclude la relazione, “batte i canali tradizionali in convenienza, originalità di offerta e sensazione di appagamento per l’acquisto”; persistono, tuttavia delle “resistenze rispetto ad affidabilità e sicurezza del mezzo”.

Sottolinea, riportando i piedi per terra, Roberto Liscia, Presidente Netcomm, sempre nel corso della giornata milanese, come l’Italia presenti una situazione ancora piuttosto arretrata, rispetto ad altri Paesi, innanzitutto per l’apparentemente insormontabile digital divide e, in secondo luogo, perché gli imprenditori non sembrano interessati ad investire realmente nell’e-commerce. Secondo Liscia possono essere delineate “tre Italie”: quella costituita da coloro che acquistano tramite il web, che ammontano a 9 milioni, a fronte di 26 milioni di utenti complessivi in rete (di questi 5,5 milioni sono “hard users”); poi abbiamo coloro che navigano pur non acquistando (i restanti 17 milioni) e, infine, quelli che nemmeno utilizzano la rete. I dati – continua Liscia – ci dicono che in rete importiamo più di quanto esportiamo, nonostante alcuni segnali positivi ci siano: nel 2010 si è assistito ad un aumento del 30% nelle vendite di prodotti italiani all’estero e ora lo scarto tra import e export digitale è di circa 1 miliardo. Eppure un reale problema di sicurezza nei pagamenti in rete non sembra sussistere, visto che solo lo 0,03% delle transazioni risulta fraudolente (i problemi di sicurezza riguardano semmai altri ambiti, come la privacy, l’identità, il diritto d’autore). Eppure l’attività commerciale in rete dovrebbe inserirsi in una perfetta logica di multicanalità, che vede la collaborazione e l’integrazione con gli altri mezzi a disposizione. Eppure il web rappresenta un canale potenzialmente fortissimo per la trasmissione dell’esperienzialità utile alla costruzione del brand e, forse, proprio in questo si esplicita uno spostamento nell’approccio che deve orientare la realizzazione di campagne commerciali: il 70% di coloro che fanno un viaggio passano successivamente un tempo piuttosto rilevante a trasmettere questa loro esperienza sui vari circuiti social (commenti, foto, aggiornamenti di stato) ed è proprio su questa trasmissione potenzialmente positiva che un’attività di marketing dovrebbe puntare.

In un simile contesto, merita, quindi, una particolare considerazione la nuova frontiera raggiunta dal commercio elettronico: il cosiddetto social commerce, ovvero i modi attraverso i quali le differenti piattaforme sociali possono contribuire a generare acquisti on-line. I vari Facebook, Twitter e LinkedIn possono contare sull’effetto virale e sulla crescita esponenziale del messaggio da essi veicolato: la grande rete unisce un numero decisamente elevato di potenziali destinatari di una campagna commerciale, di gran lunga superiore rispetto agli spettatori televisivi e ai lettori di giornali. Ciononostante il mercato pubblicitario pare ancora dominato, per quasi il 60%, dalla televisione. Le previsioni parlano, per il 2011, di un valore pari a oltre un miliardo di euro per l’advertising on line in Italia, sui 9,2 miliardi del mercato complessivo.

Le diverse piattaforma rappresentano una risorsa di dati relativi a potenziali clienti, dati che, ovviamente – ricorda Michele Raballo, Interactive Capability Lead Accenture – vanno rispettati: è possibile tenere sotto controllo gli umori dell’utenza cui ci si riferisce, senza imporre limiti o moderazioni, ma al semplice scopo di conoscere le reali tendenze nella spinta all’acquisto. Non deve essere il brand ad imporsi e a presentarsi – sottolinea, ancora, Pepe Moeder, Head of Digital Barilla Holding – ma devono essere le esigenze stesse, i bisogni manifesti e latenti degli utenti a guidare l’attività commerciale: “il digitale è come il pongo, cambia perché cambiano le persone”. Queste piattaforme possono servire anche a fornire un’assistenza clienti puntuale e personale, che certamente aiuta l’impresa nel costruirsi una certa credibilità e nel manifestare la propria trasparenza. Infine non bisogna tralasciare l’importanza che potrebbe avere il coinvolgimento in sé degli utenti nell’attività d’impresa, attraverso modelli innovativi di marketing, come rivela, ad esempio, il progetto Pepsi Refresh.

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