OS X Lion per Mac

Mission Control, Launchpad, nuove gestures multi-touch, modalità full-screen, salvataggio automatico, AirDrop e nuovo servizio di mail: ecco le principali funzionalità introdotte nel nuovo sistema operativo per Mac

L’innovazione tecnologica porta inevitabilmente con sé il ricorso ad un rinnovato ventaglio terminologico che, attraverso l’acuta arma della metafora, reinterpreta ed unisce parole e concetti tradizionalmente lontani tra loro. Nessuno si spaventi, dunque, se in questi giorni sentirà da più parti affermare che “è stato finalmente liberato dalla gabbia il leone”!

La segnalazione non arriva da uno zoo di provincia, ma dalla Apple Inc., che, dopo averlo annunciato dal palcoscenico californiano della Worldwide Developers Conference 2011, ha reso disponibile all’acquisto l’ottava importante release del sistema operativo pensato per Mac, OS X Lion 10.7, considerato da molti il più evoluto al mondo: dopo il ghepardo (Cheetah, versione 10.0), il puma (10.1), il giaguaro (Jaguar 10.2), la pantera (Panther 10.3), la tigre (Tiger 10.4), il leopardo (Leopard 10.6) e il leopardo delle nevi (Snow Leopard 10.7), è toccato al re della savana prestare il proprio nome per l’ultimo rilascio ufficiale, seguendo, appunto, una prassi ormai consolidata in casa Apple.

Quando parliamo dell’azienda di Cupertino, sappiamo di riferirci ad un brand capace di creare il massimo dell’aspettativa attorno ad ogni singola imminente novità, aspettativa che si accompagna poi subito al desiderio di possesso per quel folto e fedele pubblico fatto di persone affascinate dal magico connubio proposto tra caratteristiche tecniche, design, funzioni innovative, esclusività e immediatezza nell’approccio. I trend di crescita registrati nel terzo trimestre fiscale non fanno che confermare una simile considerazione.

“Lion è la migliore versione di OS X mai realizzata finora, ed è pieno di funzioni innovative, come i nuovi gesti Multi-Touch, il supporto a livello di sistema per le applicazioni a schermo intero, e Mission Control per accedere istantaneamente a tutto quanto è in esecuzione sul Mac”: con queste parole, a inizio luglio, Philip Schiller (vicepresidente senior del Worldwide Product Marketing di Apple) annunciava al grande pubblico la prossima uscita della nuova creazione a forma di mela. Cerchiamo allora di cogliere nello specifico quelle che sono le reali novità – migliorative, peggiorative o ininfluenti che siano – introdotte nel sistema.

La prima assume forse più i toni della curiosità e dell’aneddoto, ma nasconde tuttavia una significativa dichiarazione di intenti: ci riferiamo all’eliminazione del prefisso “Mac” dal nome del sistema operativo, allo scopo, pare, di aumentare sempre più i punti di contatto ideali tra OS (X) e iOS, il sistema operativo per dispositivi mobile, seguendo una via delineata già a fine ottobre dell’anno scorso, in occasione dell’evento di presentazione “Back to the Mac”.
Lion introduce, infatti, nuovi paradigmi di utilizzo, che si ispirano apertamente ai modelli fruitivi pensati per iPhone e soprattutto per iPad e che fanno della gestualità la reale chiave di svolta: “l’interazione con il computer non è mai stata così diretta”, afferma Graig Federighi, vicepresidente Os X Software, nel video che sul sito ufficiale introduce le principali features del nuovo prodotto.

A muoversi in questa direzione vi è innanzitutto Launchpad: cliccando sulla relativa icona nel Dock, le finestre aperte svaniranno e verranno sostituite dalla visualizzazione a schermo pieno di tutte le applicazioni possedute, che potranno essere organizzate dall’utente in categorie tramite delle cartelle di raggruppamento, proprio come avviene per iPhone e iPad. Alcuni hanno sottolineato come, in realtà, Launchpad non soddisfi le aspettative degli utenti: esso non compie un radicale cambiamento nell’approccio, non elimina completamente la metafora desktop, al contrario richiede dei passaggi e clic intermedi che nulla aggiungono, in quanto a immediatezza, alla ricerca tramite Finder.

A inseguire l’integrazione tra OS X e iOS vi sono poi anche le nuove gestures multi-touch, aumentate e migliorate, poichè pensate per un’interazione più immediata ed intuitiva, che permetta una risposta più fluida e realistica ai gesti dell’utente. Scorrendo tre dita in giù sul Trackpad o sul MagicTrackpad, si potranno vedere tutte le finestre aperte sul Mac (Mission Control); muovendo tre dita a destra o sinistra si potranno sfogliare le applicazioni aperte a tutto schermo; sfiorando con due dita in su e in giù, le pagine di documenti, siti e simili scorreranno in verticale; facendo doppio tap con due dita, verranno ingrandite rapidamente le pagine; pizzicando con indice e pollice, l’ingrandimento sarà più preciso (pinch-to-zoom). La particolare ricerca di realismo si nota con riferimento all’effetto elastico delle pagine, che rimbalzano leggermente quando si giunge al loro inizio o alla loro fine. Si è rilevato tuttavia un problema con riferimento al fatto che stesse gesture implementano azioni diverse a seconda dell’applicazione attiva: per spostarsi tra gli spazi, si deve, ad esempio, scorrere con tre dita, ma se ci si trova dentro Launchpad la stessa cosa deve essere fatta con due dita; una simile incoerenza rischia di vanificare qualsiasi sforzo indirizzato all’intuitività del sistema.

Continuando la nostra disamina sulle novità, incontriamo la possibilità, a livello di sistema, di visualizzare qualsiasi applicazione in una modalità full-screen, che permette di “lavorare e giocare senza distrazioni sfruttando ogni millimetro del tuo display”; questo è importante per applicazioni come iPhoto, iMovie, GarageBand, Keynote, Pages e Numbers, progettate per dare il meglio di sé a tutto schermo. È possibile, inoltre, tenere aperte più app a tutto schermo contemporaneamente, assieme a finestre di dimensione standard, muovendosi tra esse attraverso un movimento orizzontale verso sinistra o destra su Mouse o TrackPad.

Se si volesse, a questo punto, visualizzare tutte le app full-screen aperte, si dovrebbe attivare Mission Control, scorrendo, come abbiamo visto, verso l’alto con tre dita o cliccando sull’icona relativa nel Dock. Mission Control ha inteso unire “Dashboard, Exposé e Spaces in un’unica, nuova funzione che ti dà una visione d’insieme del tuo Mac”. In alto è presente una serie di miniature, che rappresentano Dashboard, le altre Scrivanie e le app a tutto schermo; in basso si trovano invece, in forma Exposé, le finestre aperte sulla Scrivania attiva, raggruppate per applicazioni. Qualcuno ha sottolineato la complessità che, tuttavia, risulta sottesa ad un simile sistema, che cerca di mescolare in un’unica piattaforma il controllo di numerose e differenti entità.

Il salvataggio automatico è un’altra delle nuove funzionalità di Lion, importante nella creazione e modifica di qualunque file; l’utente non deve più far attenzione a salvare manualmente e ad intervalli regolari il proprio lavoro, ci penserà il sistema e, quando avrà ultimato tale lavoro, potrà bloccarlo, per impedire modifiche accidentali (se proverà a modificare il file bloccato, Lion chiederà se si intenda sbloccarlo o usarlo come modello per un nuovo file). A questo si unisce la funzione Versioni, “una sorta di Time Machine dedicata ai soli file modificati dall’utente”: permette di ripristinare una vecchia versione di un file modificato, o di comparare le due versioni.

Con la feature “Riprendi” è possibile ritrovare una qualsiasi applicazione esattamente come la si era lasciata prima di chiuderla.

Fortemente ispirato a quello realizzato per iPad, il nuovo servizio mail di Lion presenta una visualizzazione widescreen a due colonne, dove da una parte troviamo l’elenco dei messaggi, accompagnati da qualche riga di anteprima, dall’altra la mail che sto leggendo; sotto la barra degli strumenti, la barra dei preferiti permette di catalogare le proprie mail. Nuovi criteri di ricerca e suggerimenti aiutano a recuperare facilmente le mail di interesse, mentre la funzione conversazioni riunisce in automatico i messaggi di uno stesso thread, nascondendo il testo duplicato delle mail precedenti.
AirDrop permette di scambiare file tra computer vicini (entro un raggio di 10 metri) via Wi-Fi senza che essi siano connessi alla rete.

Infine il Mac App Store arriva come strumento integrato nell’OS, su modello dei dispositivi mobile: si possono scaricare applicazioni gratuite o a pagamento, utilizzandole su tutti i Mac autorizzati e il sistema si preoccuperà di avvisare l’utente qualora ci siano degli update disponibili.

A tal proposito evidenziamo come l’acquisto e l’installazione di Lion, per aggiornare il proprio Mac, possa avvenire solo tramite Mac App Store: abolita definitivamente la distribuzione tramite supporti fisici.

Quelli elencati sono solo i principali tra i 250 cambiamenti realizzati da Apple per questa nuova versione del sistema operativo del Mac. Da più parti se ne sono tessute le lodi, ma c’è anche chi ha sottolineato, l’abbiamo visto, la marginalità nella portata degli interventi realizzati: Apple avrebbe “fallito l’obiettivo principale che era fondere iOS e Mac OS X per creare una nuova interfaccia desktop che fosse semplice, immediata e pulita e questo potrebbe aver compromesso anche il resto, in termini di accettabilità da parte dell’utente”; “se non fosse per Unix, che è veloce e solido come una rocca, per la grafica e per il networking, Lion potrebbe trasformarsi nel Vista di Apple”. Non un “must have”, dunque, ma poco più di un aggiornamento, per un sistema che “nel tentativo di soddisfare contemporaneamente il target di consumer e quello di professionisti ha prodotto un’interfaccia che rischia di non piacere né agli uni né agli altri”. Non un “ruggito”, per tornare alla metafora, ma un tenue vagito.

Non resta dunque che attendere per sapere quanti, tra gli apple-addicted, sceglieranno di seguire il Mac nel suo “più grande balzo in avanti”, come recita la schermata principale di presentazione nel sito.

Pubblicato su: PMI-dome

Pubblicità

La situazione italiana dei media: tra conferme ed incertezze

I risultati fotografati da una ricerca del Politecnico di Milano evidenziano eccellenze e lacune di un settore, quello dei media, i cui confini sembrano sfumati nell’attuale contesto di convergenza al digitale

Il termine “medium”, pur essendo penetrato profondamente nel nostro linguaggio quotidiano, non presenta dei confini particolarmente definiti, ma si presta, al contrario, ad una molteplicità di interpretazioni. A qualcuno potrebbe ricordare semplicemente uno strumento fisico, a qualcun altro un intero apparato di trasmissione o il contenuto veicolato, e la definizione potrebbe arrivare ad abbracciare persone, ruoli, regole di codifica, linguaggi, relazioni e, come si dice in questi casi, chi più ne ha più ne metta.

Parlando di media non possiamo non scomodare McLuhan e la sua provocatoria definizione “the medium is the message”: su ciascun media, passato, presente e futuro che sia, si incrociano differenti variabili sociali, economiche e cognitive che inevitabilmente influiscono sul pensiero collettivo e sulla cultura stessa di una società. Nel contesto attuale la tecnologia è entrata a far parte in maniera integrante della nostra quotidianità, evolvendosi con essa in un rapporto dialettico: leggere queste riflessioni digitali non sarebbe stato possibile senza un’evoluzione tecnologica, la quale determina una costante condizione di novità e rielaborazione anche – e forse soprattutto – culturale. Al concetto di bene fisico si sostituisce sempre più quello di bene intellettuale, di contenuto, al concetto di distribuzione subentra quello di comunicazione, all’utilizzo il consumo. In sostanza i media rappresentano il mezzo attraverso il quale l’uomo si interfaccia con il mondo esterno, per qualcuno essi rappresentano addirittura una sorta di protesi sensoriale e percettiva, in grado di definire nuove pratiche intellettive e comunicative, nuovi linguaggi, nuove forme di produzione, gestione e diffusione della conoscenza.

Ai media tradizionali e nuovi si è rivolto l’interesse dell’Osservatorio New Media & Tv della School of Management del Politecnico di Milano, il quale, in una Ricerca riferita al 2010/2011, si è posto, come obiettivi, quelli di valutare quantitativamente il mercato di riferimento nelle sue principali articolazioni, di analizzare criticamente l’evoluzione dell’offerta sulle diverse piattaforme digitali, di studiare la convergenza tra tali piattaforme, di valutare l’impatto sul mercato dei nuovi canali fruitivi e di individuare nuovi modelli di business e possibili scenari futuri.

Rispetto all’anno precedente, nel quale aveva perso oltre il 10% a causa della crisi economica mondiale, nel 2010 il mercato complessivo dei media torna a crescere, registrando un + 3,6%, per un valore complessivo di 17 miliardi di Euro. Il dato considera sia la pubblicità, sia i ricavi provenienti dai servizi a pagamento: con riferimento al primo punto è stata valutata una crescita del 6% per il settore televisivo (canali tradizionali e all digital) e addirittura del 12% per la radio, mentre continua a decrescere, seppur in forma più contenuta, la raccolta sulla stampa (- 4%). Con riferimento al secondo punto, invece, aumentano i ricavi delle pay tv (+ 6%) e lievemente anche quelli della stampa (poco più dell’1%).

“LA DINAMICA DEL MERCATO DEI MEDIA”

Considerando la struttura dei media in Italia, ci si accorge di come, tutto sommato, essa si sia mantenuta piuttosto stabile: a dominare è sempre il settore televisivo che da solo vale il 55% del mercato, seguito dalla carta stampata (34%), dal web (6%), dalla radio (3%) e dal mobile (2%).

Tuttavia, proprio il 2010, dovrà essere considerato – assicurano i promotori della ricerca – come l’anno delle novità: “mai in passato si erano concentrate in un solo anno così tante innovazioni”. L’iPad e gli altri Tablet, “pensati appositamente per la fruizione di contenuti multimediali da Internet”, hanno avuto il merito di riformulare in modo innovativo le funzionalità del mobile computing; si è assistito al boom delle Mobile Application per Smartphone (le più recenti stime parlano di oltre 700 mila applicazioni) e il concetto di Application Store è stato introdotto anche nel mondo dei pc; si sono diffuse le Connected Tv, vale a dire quelle televisioni che consentono di fruire di contenuti multimediali provenienti dal mondo della rete, tramite scheda incorporata e con specifici widget.

“IL PESO DEI DIVERSI MEDIA”

Con una metafora azzeccata, l’analisi definisce il mercato dei media come una cipolla a strati concentrici, dove ad un nocciolo duro, “propriamente riconducibile al concetto di media in senso stretto”, si accompagnano le diverse accezioni di media, che arrivano, a volte, a confondersi con l’universo entertainment. Concentriamo, allora, la nostra attenzione sulle conseguenze della diffusione di contenuti e servizi digitali tra i media; tali conseguenze sono rappresentate, in definitiva, dal concetto di “new media”, o media digitali appunto, cioè da “tutti quei media che si basano su reti distributive digitali e vengono fruiti dagli utenti tramite terminali digitali”. Complessivamente i media digitali continuano a crescere (+10%), per un valore di mercato pari a 5 miliardi di Euro (29% del mercato complessivo dei media), grazie proprio alle sofa-tv digitali (+10%) – sia nella componente pay (+6%), sia, soprattutto, nella raccolta pubblicitaria (+47%) – e alla pubblicità su Internet (+13%).

I new media possono essere raggruppati in tre macro-categorie: i sofa-media, che si basano su piattaforme televisive digitali (Sat Tv, DTT, IpTv e Connected Tv) e sono resi disponibili su schermo televisivo “tradizionale”; gli internet-media, fruibili da un qualsiasi pc o tablet; mobile-media, che sfruttano telefoni cellulari o smartphone. Tra questi, a prevalere sono i sofa-media, con un peso pari a circa il 73%, mentre gli internet-media occupano il 22% e i mobile-media il 5%.

Con riferimento ai sofa-media, allora, si nota come l’offerta sia diventata sempre più ricca; il passaggio al digitale terrestre (DDT) ha riguardato, a fine 2010, il 64% della popolazione italiana ed è aumentato il numero dei canali che occupano le frequenze digitali (da 53 a 92 canali); cresciuta anche l’offerta di Sky sul satellitare, con 24 canali in più rispetto al 2009 e con un occhio particolare per l’alta definizione: attualmente sono ben 36 i canali in hd presenti sul satellite, contro i 7 del DDT (dove sono presenti limiti di banda). Continua, a tal proposito, la “ipercompetizione” tra Skype e Mediaset, con ripercussioni positive sul lato dell’offerta consumer; l’arricchimento di quest’ultima contribuisce alla crescita della pubblicità sui canali digitali terresti e satellitari (+ 26%, pari a 530 milioni di euro e al 14%  dell’intera raccolta pubblicitaria) e, di conseguenza, alla riduzione, di quasi dieci punti percentuali, nei ricavi complessivi dei servizi a pagamento. Due i fenomeni più innovativi, da questo punto di vista, del 2010: l’introduzione delle televisioni 3D (ancora fenomeno di nicchia, in realtà, a causa, da un lato, della necessità di indossare gli occhialini e, dall’altro, del numero limitato di contenuti 3D disponibioli) e la diffusione delle Connected tv (che a fine 2010 erano circa 2,7 milioni, anche se solo una piccola parte, 180 mila, pari al 10% circa, era realmente collegata alla rete).

“IL MERCATO DELLE TV DIGITALI: LA DINAMICA DELLE DIVERSE PIATTAFORME”

Passiamo ora agli internet-media: sarebbero quattro, stando alla ricerca, le novità principali rilevate nel periodo in esame. Le prime due rappresentano un’evoluzione di trend già in corso in precedenza, mentre le ultime due sono portatrici di “un cambiamento paradigmatico del concetto stesso di Internet”.

Di natura semplicemente evolutiva è stata la diffusione capillare dei social media: sarebbero oltre 21 milioni gli utenti registrati ad almeno un social network, pari ad oltre l’80% di tutti gli utenti Internet attivi italiani, con un ruolo dominante occupato da Facebook (a fine 2010 ha quasi raggiunto i 18 milioni di utenti, con una copertura pari al 90% dei giovani italiani tra 0 e 24 anni e al 63% di quelli di età compresa tra i 25 ed i 30 anni); il tempo medio mensilmente speso sui social media è di circa 7 ore e pare il fenomeno si stia spostando anche sulle piattaforme mobile (più di 4 milioni di Italiani accedono ai social network tramite smartphone). Persistono i dubbi circa le reali potenzialità di ricavo, basate essenzialmente sulla pubblicità, di un mezzo sviluppato attorno a contenuti non facilmente controllabili poiché user-generated. Il secondo fenomeno di natura evolutiva che ha riguardato la rete è stato lo sviluppo di contenuti video: i fruitori italiani mensili di questo canale sono stati a fine 2010 quasi 15 milioni, pari al 60% di tutti gli utenti attivi nella rete in Italia.

Dalla portata rivoluzionaria, invece, l’introduzione, da un lato, dei tablet e “la trasmigrazione – dall’altro –  del concetto di Application Store dal mondo degli smartphone al mondo dei pc”. Gli editori avrebbero sviluppato 221 applicazioni diverse per smartphone e 126 per iPad. Con riferimento alle prime, a guadagnare la fetta più grande di mercato sono i periodici con il 44% delle applicazioni disponibili (pari, tuttavia, al solo 4% dei periodici esistenti in edicola), seguiti dai quotidiani (24%, pari a uno su due), dalle radio (20%, pari al 70% delle radio presenti) e delle tv  ferme al 12% (8% delle emittenti italiane ha una sua app). Il  5% delle testate analizzate (tra quotidiani, periodici, canali tv e radio) possiede, a gennaio 2011, un’applicazione appositamente dedicata su iPad, anche se in realtà, nella maggior parte dei casi, le applicazioni considerate rappresentano una esclusiva trasposizione su iPad della testata cartacea. Il cuore della novità paradigmatica è rappresentato soprattutto dalla nuova architettura (Application-based e non più Browser-based), dalla nuova infrastruttura (Tablet-based e non più Pc-based) e dalla disponibilità degli utenti a passare da una fruizione completamente gratuita, tipica della rete, ad una fruizione a pagamento, che punta sulla disponibilità di contenuti di valore.

Con riferimento, poi, ai mobile-media, continua a decrescere il mercato legato a contenuti tradizionali (ad esempio: servizi informativi via sms, video e musica in streaming), mentre cresce con forza l’offerta di contenuti su nuovi canali mobili (mobile web e application store).

L’Osservatorio ha poi  concentrato la propria specifica attenzione all’editoria periodica, analizzando circa mille riviste, delle quali il 68% sono mensili, il 20% bimestrali, il 10% settimanali e il 2% quindicinali. Il quadro che emerge non è certo rassicurante: solo una testata su cinque ha una presenza su Internet di qualità soddisfacente, poco più della metà (52%) ha un sito o una sezione vera e propria all’interno di un sito condiviso (in particolare 397 realtà hanno una presenza sulla Rete avvertibile, 182 hanno puntato in qualche misura sul Web ignorando però il mondo delle applicazioni e solo 21 possono dirsi realmente multicanali). Tutto questo nonostante un rapporto Censis/Ucsi su “I media personali nell’era digitale” confermi come l’informazione, soprattutto con riferimento alle nuove generazioni, passi ormai quasi esclusivamente attraverso la rete; e nonostante il calo degli introiti pubblicitari sulla carta stampata, che dovrebbe spingere gli editori ad essere più dinamici sulla rete, proponendo contenuti predisposti ad hoc, adattati alla rete e alle esigenze fruitive proprie degli utenti.

“LA PRESENZA SUL WEB DELLE TESTATE PERIODICHE”

La conclusione cui si arriva dall’Osservatorio New Media & Tv del Politecnico è che non è “sufficiente cercare di interpretare in modo corretto le molteplici potenzialità offerte da tutte queste novità, ma occorre qualcosa di più”, occorre “interpretare in modo corretto la propria vera identità all’interno del nuovo mondo digitale”,  occorre, in definitiva,  “un passaggio da Media Company  a Media Entrepeneur”. Un simile passaggio impone un radicale cambiamento culturale, non sempre di immediata attuazione all’interno del tessuto imprenditoriale italiano.

Pubblicato su: PMI-dome

Marketing sociale: quando un “like” diventa virale

Un rapporto di comScore sottolinea la potenziale diffusione dei messaggi veicolati dalle pagine Facebook tra gli amici dei fan e impone una riflessione circa le nuove frontiere del marketing

Non serve un intuito particolare per rendersi conto di quanto rilevante sia ormai diventata la presenza delle piattaforme di social network all’interno della rete, presenza che non può non essere presa in seria considerazione da una valida attività di promozione aziendale, relativa a prodotti o servizi offerti.

Le possibilità offerte da questi canali sono moltissime, prime fra tutte quelle di far conoscere la propria azienda, di veicolare visite sul proprio sito web principale e di migliorare la propria reputazione. Tali canali possono rappresentare, in sostanza, un nuovo strumento pubblicitario per far parlare il proprio marchio e l’universo di valori ad esso riferito, ma, perché ciò avvenga, essi devono essere integrati in una politica di web marketing adeguata, che imponga una riformulazione dei tradizionali approcci. Il primo punto da tenere ben presente quando si decide di intraprendere questa affascinante strada è che essa richiede tempo e sforzi per ottenere dei risultati che possano dirsi significativi: a differenza di un sito web, un canale sociale non può rimanere invariato per molto tempo, ma impone aggiornamenti costanti e richiede delle competenze particolari, come la predisposizione al contatto diretto con la clientela; i contenuti devono essere diversificati, in relazione alle peculiarità del mezzo utilizzato e della clientela potenziale che si desidera raggiungere; è importante cercare di incuriosire i visitatori, magari attraverso le funzionalità multimediali messe a disposizione, in modo che si riesca a stimolare la conversazione attorno alla propria attività imprenditoriale; fondamentale è, poi, la capacità di rimanere in costante ascolto degli utenti, rispondendo prontamente ad eventuali domande, commenti e, soprattutto, critiche. Due nuove discipline si sono sviluppate attorno a questa attività di promozione all’interno dei social media, il Social Media Optimization (SMO) e il Social Media Marketing (SMM), e l’impostazione che le contraddistingue si appoggia su quelle che Marco Maltraversi – rifacendosi a Jason Jantsch – definisce le quattro C: Contenuto, Contesto, Connettività, Community (M. Maltraversi “SEO e SEM, Guida avanzata al Web Marketing”, 2011, p. 338).

A tal proposito, una recente relazione dal titolo “The power of Like”, frutto della collaborazione tra comScore e Facebook, si è occupata della natura e della frequenza dell’accesso ai contenuti generati da alcuni brand sul famoso social network; tale relazione è basata principalmente sui risultati ottenuti nel mese di maggio 2011 da comScore Social Essentials (un servizio di misurazione basato su un panel di 2 milioni di utenti), ma include anche le rilevazioni della piattaforma di analisi interna a Facebook. Con un pubblico statunitense pari a 160 milioni di visitatori al mese (circa 3 su 4 utenti della rete) e con una percentuale di tempo trascorso pari al 90% del totale di tempo trascorso su tutte le piattaforme simili, Facebook – sottolinea il rapporto – risulta sicuramente il social network dominante nell’attuale contesto temporale. La sua evoluzione è stata a dir poco impressionante, dato che molte persone a digiuno di conoscenze informatiche si sono avvicinate al web al solo scopo di utilizzare Facebook: la potenza del passaparola, la forza dei legami sociali, il fascino del pettegolezzo da portinaia.

Da quanto emerge, Facebook avrebbe ridefinito non solo il panorama dei media digitali, ma, nel percorrere questa strada, sarebbe arrivato a modificare radicalmente anche le modalità e l’entità di diffusione dei messaggi pubblicitari: brands e consumatori vivono ora in un rapporto dialettico diretto, formato dalla condivisione di contenuti, notizie e feedback; la novità maggiore, tuttavia, si riscontra a livello di viralità nella trasmissione dei messaggi, accelerata dalla possibilità data agli utenti di condividere informazioni sul brand con i propri amici.

Le pagine fan rappresentano lo strumento principale del marketing su Facebook, usate per promuovere i propri prodotti, servizi e la propria attività: è possibile scegliere tra oltre sessanta categorie da cui iniziare a creare la pagina e, ovviamente, ai fini dell’ottimizzazione sui motori di ricerca, è necessario completare tutte le informazioni richieste, così da renderla unica e più interessante. Le numerose applicazioni disponibili permettono una ulteriore personalizzazione e l’attenzione deve essere posta anche nella scelta del nome da dare alla pagina (e alla vanity URL corrispondente, possibilità, questa, offerta dopo che si hanno raggiunto almeno 25 fan), che apparirà come title e come H1 nel codice sorgente e, una volta scelto, non potrà essere cambiato. Da martedì 26 luglio i responsabili del social network hanno messo a disposizione una pagina dedicata esclusivamente alle imprese di piccole, medie e grandi dimensioni (per ora solo in lingua inglese), che intendano utilizzare questo canale per incrementar il proprio business: in un contenitore unico sono state fornite e organizzate tutte le indicazioni relative alle possibilità offerte per gestire al meglio la propria presenza e reputazione. La scelta in direzione di un rafforzamento del rapporto tra Facebook e aziende potrebbe non essere, tuttavia, del tutto causale: essa nasce in risposta alla chiusura, da parte di Google+, di alcuni profili aperti dalle imprese sulla nuova piattaforma, e rientrerebbe, quindi, in un piano di controffensiva al consenso di pubblico avuto dal social network di Google.

Se da una parte si innalzano le aspettative delle aziende per simili potenzialità, dall’altra crescono le loro preoccupazioni per le difficoltà nel riuscire a sfruttare a pieno le funzionalità di questi media emergenti: in uno studio condotto dalla Harvard Business Review solo il 12% delle imprese esaminate ha dichiarato di essere utente effettivo di social media e solo il 7% si è detto capace di integrare davvero tali canali nelle proprie strategie di marketing. Come a dire che il terreno rimane ancora tutto da esplorare.

Il problema principale, ci dicono i promotori del rapporto comScore, sta nel fatto che i metodi tradizionali di valutazione della social activity d’impresa si sono concentrati su conteggi statistici relativi all’incidenza di questo tipo di contenuti pubblicitari e, ad un livello successivo, sulla sua categorizzazione in positivo o negativo, senza considerare la misura o la composizione dell’audience che ha ricevuto quel contenuto. Un simile approccio prende in considerazione il punto di vista dei soli creatori del messaggio e prescinde da una reale comprensione dell’entità di distribuzione. Al contrario un approccio come quello usato nel rapporto, basato sull’estensione e la frequenza dell’audience, sull’effetto del messaggio nell’audience, offre al brand la possibilità di delineare il profilo dei vari pubblici raggiunti con diversi tipi di contenuti pubblicitari e di capire il reale impatto di questi contenuti, permettendo, di conseguenza, l’integrazione con le altre parti del marketing mix.

Per questo motivo, nell’improntare una qualsiasi strategia di penetrazione nel canale, bisogna considerare il fatto che ci sono due fondamentali pubblici destinatari della comunicazione aziendale: i fans del brand (quelli che hanno esplicitamente cliccato sul “mi piace” della pagina riferita al brand), che sono i più facili da raggiungere con azioni dirette, e gli amici di questi fans, che constituiscono un potenziale incrementale di pubblico. Questo significa che quando l’azienda lancia un messaggio può sperare di contare non solo su un effetto diretto ai propri fans, ma anche su un effetto secondario tra i loro amici, che spesso sorpassa l’entità di diffusione tra i soli fan.

Veniamo ora ad alcuni dei dati più rilevati evidenziati nel rapporto: il 27% del tempo trascorso dagli utenti su Facebook è dedicato alla visualizzazione di homepage e, in particolare, dei news feed (la colonna centrale della home page, in sostanza “un elenco sempre aggiornato di contenuti delle persone e le pagine di cui sei seguace su Facebook”); il 21% è rivolto, invece, alla visualizzazione dei profili; il 17% a sfogliare gli album con le foto dei propri amici; il 10% è destinato all’utilizzo di applicazioni e il restante 25% è occupato da tutte le altre possibili attività.

Da ciò deriva che gli utenti tendono ad informarsi circa le ultime novità del brand principalmente attraverso i newsfeed, piuttosto che aprendo direttamente la pagina relativa: da una parte questo permette la moltiplicazione della visualizzazione, che si estende anche agli amici dei fan (si parla di 34 persone in più per ogni fan che segue un brand), dall’altra l’aggiornamento dei newsfeed potrebbe essere troppo veloce perché venga visualizzato e questo in relazione al numero di amici posseduti. ComScore ricorda anche un ulteriore limite nella diffusione delle informazioni attraverso Facebook: in media un messaggio pubblicato da un utente raggiunge il 12% dei suoi contatti, a causa di una formula matematica, chiamata EdgeRank, che seleziona i profili sui quali apparirà l’aggiornamento di status, a partire da particolari parametri. Si rende quindi necessario un aggiornamento costante dei propri post, pur evitando di creare noia e disturbo agli utenti, eccedendo nella quantità (la conseguenza potrebbe essere l’abbandono del nostro profilo aziendale da pare di un utente infastidito).

Il rapporto ha poi focalizzato la propria attenzione sulle pagine di tre fra i maggiori marchi statunitensi, Starbucks, Southwest e Bing, cercando di quantificare l’effetto di moltiplicazione del messaggio in esse veicolato. Ne deriva, ad esempio, che gli amici dei fan visitano il sito della marca di riferimento più spesso di quanto non faccia l’utente medio della rete.
Uno stesso brand solitamente aggrega profili demografici e comportamentali piuttosto eterogenei, indicando la necessità, appunto, di strategie di marketing del tutto nuove.
Il valore di un fan, conclude allora comScore, risiede in tre punti fondamentali: nell’incremento della forza e della fedeltà nel rapporto tra brand e fan, nello stimolare il comportamento d’acquisto di quest’ultimo e nella possibilità di influenzare i suoi amici.

Pubblicato su: PMI-dome

La responsabilità sociale dell’impresa nell’era del Web 2.0

La realizzazione di un’enciclopedia virtuale sulla CSR, da parte dell’Osservatorio Socialis, ci spinge a riflettere sulle ultime tendenze studiate in materia, le quali rivelano una presa di coscienza sempre più forte per le imprese
La wikipedia della responsabilità sociale d’impresa”: con questi termini è stata presentata la nuova enciclopedia on line dedicata all’impegno sociale delle aziende italiane e sviluppata dall’Osservatorio Socialis di Errepi Comunicazione, la “piazza virtuale” nella quale vengono messe a disposizione di tutti, analizzate e promosse le informazioni, le buone pratiche e le esperienze dei diversi protagonisti in materia di CSR, sviluppo sostenibile, volontariato, ambiente, cultura, ricerca scientifica, servizi ai cittadini, staff involvement e risparmio di risorse. La nuova piattaforma web raccoglie in ordine alfabetico i 175 termini pubblicati nel Dizionario CSR, presentato il 18 luglio 2011, presso Palazzo Incontro a Roma, su iniziativa di Errepi Comunicazione, con il contributo della Provincia di Roma, della Banca Popolare di Puglia e Basilicata, di Conad, De Cecco e Novartis. Ospite d’eccezione: Renzo Arbore, in qualità di storico testimonial della Lega del Filo D’Oro; l’occasione: il decennale del Libro Verde della Commissione Europea sulla responsabilità sociale delle imprese.

La novità principale dell’iniziativa sta nella ricerca di un coinvolgimento diretto da parte degli utenti (“dai manager ai dipendenti delle imprese, dalle istituzioni, alle Università, dal non profit, ai giornalisti, agli studenti”), i quali sono invitati a contribuire alla crescita della struttura, arricchendola di nuove voci, proponendo spunti di riflessione e lasciando i propri commenti: un progetto culturale concreto, nato con l’intento di promuovere dal basso una profonda azione di sensibilizzazione verso tematiche che, proprio al basso, si rivolgono. Un circolo virtuoso, quindi, pensato in “un’ottica di condivisone e ascolto”, fondamentale “nell’era della comunicazione digitale e del web 2.0”, come ha sottolineato Roberto Orsi, direttore dell’Osservatorio Socialis e Presidente di Errepi Comunicazione, in occasione del sopracitato evento di presentazione. “Proprio la parola Ascolto” – ha proseguito Orsi – “è infatti una delle principali del dizionario perché la comunicazione con gli stakeholders diventa un importante momento di scambio e di coinvolgimento”.

Facciamo un piccolo passo indietro cercando di capire, allora, cosa si intenda per CSR, Corporate Social Responsibility (in italiano RSI, Responsabilità Sociale d’Impresa), e per farlo prendiamo a prestito, ovviamente, la definizione che della stessa viene data nell’enciclopedia virtuale, definizione che a sua volta si rifà a quella contenuta nel Libro Verde del 2001 della Commissione Europea: “Il concetto di responsabilità sociale delle imprese significa essenzialmente che esse decidono volontariamente di contribuire a una società migliore e ad un ambiente più pulito” e che quindi “la CSR è l’integrazione su base volontaria, da parte delle Imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo ‘di più’ nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le parti interessate”.

È la vendetta del povero Charlot di tempi moderni: il mito economico della creazione di un meccanismo, per così dire, perfetto, che conduca al massimo della produttività, passando per la spersonalizzazione e l’alienazione, viene superato, lasciando il posto ad un approccio ben più illuminato e lungimirante; tale approccio considera le persone e il contesto ambientale non come un mero strumento per l’attuazione delle esigenze commerciali d’impresa, da sfruttare, quindi, in modo massiccio, ma come un patrimonio, da coltivare e far fruttare in senso propositivo, grazie al contributo originale e talvolta inaspettato che qualunque personalità o risorsa può offrire se posta in condizioni ottimali.

Stando ai dati rilevati dal quarto e ultimo “Rapporto sull’Impegno Sociale delle Aziende in Italia”, condotto da Swg per conto dell’Osservatorio Socialis, si tratterebbe di un fenomeno in crescita, come a dire che le imprese hanno capito l’importanza dell’impegno umanitario, della salvaguardia dell’arte e dell’ambiente, del finanziamento alla ricerca scientifica, della tutela dei dipendenti, quali leve strategiche per uno sviluppo durevole, al di là dell’innovazione tecnologica: “meno forma e più sostanza”, riassume Orsi in una nota introduttiva al rapporto.

Nel promuovere una simile tendenza, sempre più importante risulta la capacità di sfruttare le strutture imprenditoriali di rete per lo scambio dei progetti, dei saperi e delle opportunità e sempre più apprezzabili appaiono i riconoscimenti e le risorse messe a disposizione a livello istituzionale, al fine di premiare i comportamenti virtuosi, svincolandoli un po’ dalla forma della volontarietà; “e sarebbe” – sottolinea sempre Orsi nel corso della serata di presentazione – “anche interessante promuovere l’istituzione di una sorta di 5 x mille per le aziende, per dare loro l’opportunità di testimoniare ancora più concretamente l’impegno a favore di iniziative meritevoli”.

Stando al rapporto – realizzata su un campione di 800 aziende con oltre 100 dipendenti – il 69,2% delle imprese (circa 7 su 10), ha investito in iniziative di responsabilità sociale (contro il 65,3% del 2007), confermando in realtà il trend positivo degli ultimi anni (il flusso globale dei finanziamenti, rispetto al 2001, si e? piu? che raddoppiato). Se si limitasse l’analisi alle sole aziende di grandi dimensioni (grandi sia in termini di fatturato, sia di dipendenti), tale percentuale salirebbe fino all’88%. L’asse principale degli investimenti si sposta dal nord al centro sud.

I risultati positivi evidenziati sono riusciti a scongiurare la temuta crisi generalizzata, ma certo pare che la percezione degli intervistati veda come solo marginale l’influenza della crisi nell’incremento della responsabilità sociale d’impresa (solo 4 aziende su 10 crede in questa correlazione): stiamo parlando, quindi, di una tendenza positiva che prescinde dalle mere imminenze del mercato, per rifarsi ad un ideale di socialità sempre più sentito.

Con riferimento alle tipologie di attività poste in essere, pare che le aziende si siano orientate soprattutto verso la “dimensione esterna” della CSR, quella proiettata, cioè, sulla propria comunità di riferimento: al primo posto troviamo le iniziative di solidarietà sociale e le azioni umanitarie, probabilmente in tempestiva risposta ai tragici accadimenti avvenuti nel corso del 2009. Un terzo delle aziende (soprattutto al nord e al centro) è parso, invece, orientato alla dimensione interna della responsabilità sociale, con una serie di servizi tesi, quindi, a migliorare le condizioni dei dipendenti. Le aziende più grandi puntano poi su un approccio multistakeholder, che guarda, cioè, ad entrambe le dimensioni.

La maggior parte degli interventi risultano di natura “passiva” (un terzo del campione si limita a delle erogazioni economiche e/o materiali), ma si fa strada l’idea di mettere a disposizione le proprie risorse o di attivare dei gruppi di lavoro interni, diffondendo questo tipo di cultura anche tra i dipendenti (più del 30% delle imprese risulta averli coinvolti in maniera diretta e/o indiretta, contro il 18% nel 2007).

Questa possibilità di coinvolgimento del personale (staff involvement) prevale anche tra i criteri per la scelta delle iniziative su cui puntare (il 28,5%, quindi quasi tre aziende su 10), accanto alle credenziali dell’ente proponente o beneficiario (27%); quella in corso sembra essere una vera rivoluzione sociale, che considera il buon business come necessariamente legato – non solo idealmente, ma soprattutto con azioni concrete – ad una dimensione sociale, seppur persista una parte di imprese (una su quattro) che punta su simili iniziative solo per averne un feedback in termini di immagini (25,1%).

Tra i requisiti di un buon progetto, al primo posto si piazza la rilevanza sociale e la ricaduta sul territorio (68,9%% del campione).

La mancanza di ritorni immediati è indicata come principale freno allo sviluppo di una responsabilità sociale d’impresa, a conferma della necessità di promuovere iniziative a livello istituzionale, che incentivino questa tendenza. Nella prospettiva, poi, di rafforzare il rapporto con le risorse interne, i due terzi del campione sono d’accordo con l’ipotesi di introdurre la CSR nel Dna di tutte le aziende.

Da quanto detto finora emerge l’importanza non solo dei network aziendali, ma anche delle relazioni, per così dire, interne all’azienda, quelle che si vengono a creare con i collaboratori, i fornitori, i partner e le istituzioni locali, che rappresentano il fulcro attorno al quale ruotano le diverse iniziative a carattere sociale dell’azienda. Conciliare sviluppo economico con sostenibilità ambientale (offrendo al termine “ambiente” un ampio significato, che arrivi a coinvolgere anche le risorse umane che in esso si muovono) risulta essere, in definitiva, una scelta tanto auspicabile, quanto fattibile per le aziende, che sembrano aver intrapreso la strada della consapevolezza relativamente all’importanza di una simile prospettiva. Il passo successivo sarà, ne siamo certi, una reale integrazione con le molteplici possibilità offerte dal web 2.0, che vadano al di là della semplice (ma comunque lodevole) possibilità di commentare le voci di un’enciclopedia virtuale.

Pubblicato su: PMI-dome