Crowdsourcing: sfruttare il potenziale creativo della Rete

L’esempio di TheBlogTv spinge a riflettere sulle implicazioni positive e negative veicolate da questo nuovo modello di business e comunicazione aziendale

Facendo zapping in questi giorni potrebbe esser capitato a qualcuno di voi di imbattersi in un nuovo format crossmediale e innovativo, capace di creare una reale sinergia tra TV e Web, un ponte tra tradizione e sperimentazione. Mi riferisco a Top 5, un programma di Giorgio Carpinteri, prodotto da RAI 5 – il giovane canale Rai dedicato alla cultura e all’intrattenimento – in collaborazione con TheBlogTV, in onda dal lunedì al venerdì (la prima puntata era del 17 ottobre), alle ore 17:00, in replica più volte nella giornata.

L’idea alla base del progetto (mutuata, rivelano i promotori, dal romanzo “High Fidelity” di Nick Hornby) è di per sé piuttosto semplice: ideare un’originale classifica composta da cinque posizioni e capace di rappresentare pienamente la propria personalità e le proprie inclinazioni. La particolarità, tuttavia, sta nella ricerca di un linguaggio fondato sull’ironia e sul paradosso e nella volontà di coinvolgere nella creazione tutti gli utenti potenzialmente in grado di fare delle riprese e un rapido montaggio.

A realizzare il programma sono, infatti, di fatto, “video-maker, video-artisti, illustratori, designer, ecc. rintracciati sul web e attraverso le principali scuole di creatività come lo IED o il Centro Sperimentale di Cinematografia”: un contest realizzato su Nuovi talenti, il portale di talent-scouting della Rai, invita chiunque a scegliere un tema qualsiasi e ad offrirne un personale punto di vista in una classifica, appunto, con la promessa, per i risultati migliori, di ottenere una finestra televisiva nel nuovo programma Rai; allo stesso modo un “contest privato Top 5” presente su Userfarm Italia – “il network di videomakers numero 1 in Europa” di proprietà di TheBlogTV – riserva a tutti i Videomakers Pro (degli utenti privilegiati del canale, che, per merito, godono di particolari vantaggi sull’accesso ai progetti e sulla remunerazione per gli stessi) la possibilità di veder trasmessa sul canale Rai la propria classifica a 5 posti.

Telespettatore, utente web, creativo, creatore, geek, aspirante attore, sceneggiatore, regista, ideatore: tutti questi ruoli sembrano fondersi e rendersi interscambiabili, in una forma di intrattenimento fondata su una logica collaborativa che pare apportare benefici a tutti i soggetti che liberamente vi prendono parte e che pare rivelare, se estesa nel giusto senso, un modello comportamentale per molte realtà aziendali italiane. Per i creatori si tratta di un’opportunità di crescita professionale, di confronto con gli altri partecipanti, di possibile guadagno, di rendersi visibili in importanti vetrine. Per brand e aziende si traduce nella possibilità di ridurre costi e di accedere ad un immenso bacino di idee, dando origine anche a durature collaborazioni.

Linguaggi rinnovati come quello appena descritto rispondono, in sostanza, alle esigenze di un nuovo pubblico sempre meno incline ad accettare passivamente una campagna comunicativa, ad essere un bersaglio facile da colpire, e sempre più propenso, al contrario, a rendersi parte attiva nel processo produttivo e distributivo. Gli sviluppi più attuali della rete mostrano come ci si stia un po’ alla volta slegando completamente dai supporti fisici e dal concetto di bene di consumo, per passare all’esperienza del consumo in senso stretto; tale esperienza rappresenta, allora, l’unica reale fonte di interesse per degli utenti continuamente sottoposti a nuovi stimoli, tanto da mettere in dubbio il tradizionale binomio pavloviano stimolo-risposta, rendendo di fatto impossibile l’automatismo e, di conseguenza, necessaria un’attività di selezione attiva del soggetto cui gli stimoli stessi si rivolgono. In un simile contesto, una delle parole chiave sembra essere proprio la condivisione, sulla quale si fonda, ad esempio, la forza dei più famosi network sociali. Condivisione e co-creazione, nell’intento di sfruttare in senso positivo l’immenso e ricchissimo patrimonio umano che abita la rete.

La vera parola d’ordine che si sta affermando – ha sottolineato Giovanni Trotto, Head of marketing & community, Userfarm è ‘consumer engagement’, aprirsi verso l’esterno non solo per trarre vantaggio dal potenziale creativo e di idee che una moltitudine di persone esperte ti può dare, ma anche per far interagire i tuoi clienti o potenziali tali in maniera diretta con il tuo brand. Questo è un approccio sottovalutato da molte aziende in Italia ma all’estero, soprattutto nel mondo anglosassone, va per la maggiore ed ha permesso ad alcuni brand di trarre vantaggi di comunicazione enormi partendo da un investimento molto basso. Il crowdsourcing semplifica e snellisce i processi, porta un vantaggio sia in termini economici che in termini temporali, dunque perché un’azienda dovrebbero fare a meno di servirsene?

Userfarm rappresenta in sostanza una piattaforma internazionale di video crowdsourcing (raccoglie oltre 25.000 videomaker), facente capo a TheBlogTV, la prima social media company in Europa, fondata dall’italiano Bruno Pellegrini ma attiva, oltre che in Italia, anche in Francia, Spagna e Regno Unito.

Per quanti non avessero familiarità con il tecnicismo, sottolineiamo come il termine crowdsourcing derivi dalla sintesi delle parole “crowd”, folla, e “outsourcing”, la pratica di affidare all’esterno alcune attività. Consegnato alla storia da Jeff Howe che nel giugno 2006 titolava un suo articolo su Wired US “The Rise of Crowdsourcing” (seppur esempi di crowdsourcing siano rintracciabili ben prima della definizione ufficiale), esso sta, allora, ad indicare una prassi commerciale in cui un marchio, un’azienda o un’istituzione decide di delegare l’ideazione e/o la creazione di un particolare progetto o prodotto ad un insieme di persone organizzate in una comunità virtuale. Per certi versi potremmo considerarla un’attività di esternalizzazione della creatività, risorsa sempre più fondamentale alla sopravvivenza o allo sviluppo aziendale. D’altro canto esso ha imposto la formalizzazione di un vero e proprio nuovo modello di business, rintracciabile in numerosi portali web.

Il crowdsourcing rappresenta ormai un orientamento imperante in rete e il successo dei vari Wikipedia, Zoopa e Saperlo.it ne è la manifestazione più lampante; a ben vedere, poi, la logica alla base dei portali di crowdsourcing è la stessa su cui si fondano numerose campagne marketing sviluppate dai grandi marchi tramite i network sociali, nelle quali si cerca di coinvolgere il cliente per la creazione di contenuti e per la diffusione dell’universo di valori veicolato dal brand. Dal diventare “fan del mese con Scotty”, all’applicazione Fb “Crea il tuo Panino”, sviluppata da Panino Giusto, che ha offerto la possibilità ai fan di creare il proprio panino scegliendo tra diversi ingredienti e dando un nome alla propria creazione, con la promessa, per la miglior combinazione, di essere presente per una settimana nel menù del locale convenzionato scelto dal vincitore; dalla celebre campagna Unhate di Benetton, al concorso Personal Shopper di Goldenpoint; dal continuo coinvolgimento dei propri utenti nell’ideazione creativa delle t-shirt prodotte e vendute da Threadless (@threadless), fino alla possibilità offerta ai fan di Activia di scegliere il gusto del prossimo yogurt da distribuire nei banco frigo.
Si tratta di strategie diverse ma che hanno in comune il fatto di essere consumer driven, dunque l’aspirazione a creare qualcosa di concreto – se non altro un insieme di valori capaci di generare significato per i clienti – attraverso l’arma dello user generated content, dell’invito, rivolto ad un pubblico potenzialmente esteso, a partecipare.

Pensiamo al film di McDonald prodotto da Ridley Scott, Life in a Day: nessuna gara creativa, ma tanti contenuti di qualità, che si inseriscono in uno script e in una regia precisa per costruire un linguaggio completamente nuovo.

La mission dichiarata di TheBlogTv è, allora, “creare valore ‘partecipativo’ coinvolgendo e attivando le community grazie alle potenzialità del web 2.0 e a un innovativo modello di business: il Crowdsourcing”.

Tre, in particolare, le linee su cui si concentra l’attività della società. Innanzitutto “la gestione a 360° di value based community”, delle piattaforme partecipative in cui si delinea un’utenza ben definita e che, attraverso la collaborazione dei partecipanti, intende creare valore, misurabile secondo ritorni e parametri economici: vengono gestite tutte le fasi di vita della community, “dallo sviluppo alla produzione di contenuti, dal community management al social media marketing”. Ne sono esempi: Wind Business Factor, Nokia Play, Mamme nella rete e Sony Ericsson Mobile Festival, un progetto, quest’ultimo, piuttosto particolare, poiché l’azienda – per promuovere il nuovo smartphone – ha scelto di premiare cortometraggi e videoclip girati esclusivamente tramite un telefono cellulare con una somma in denaro e con la possibilità di ottenere proiezione al Circuito Off Venice International Short Film Festival 2012.

TheBlogTV si occupa, poi, della produzione di social video content per la televisione e per il web, in modalità tradizionale o, infine, in modalità crowdsourcing, dunque user generated, attraverso, appunto, Userfarm.
Sempre più applicato alla comunicazione aziendale di grandi marchi, il crowdsourcing è stato e continua ad essere accolto con pareri contrastanti dai vari pensatori nel web, come evidenzia perfettamente Stefano Torregrossa nel suo e-book gratuito “Masse Creative – Il fenomeno crowdsourcing: rivoluzione o fregatura?“.

Da una parte si tende ad elogiare una forma di business dalla quale tutti i soggetti coinvolti sembrano trarre vantaggio: per le aziende che commissionano un progetto non si tratta semplicemente della possibilità di aver libero accesso a risorse che, diversamente, sarebbero costrette a pagare rivolgendosi a ditte esterne; per le aziende il crowdsourcing si traduce anche nella comodità di una gestione completamente virtuale (si evitano eccessivi spostamenti e riunioni), nel potere di espandere notevolmente l’entità creativa dei propri progetti e la dimensione virale dei propri messaggi, nella capacità di entrare in contatto con i reali desideri dei propri consumatori (la community stessa può diventare un focus group), nella possibilità, infine, di sperimentare nuovi approcci aziendali, che le pongano sullo stesso livello dei propri utenti.

Allo stesso modo i cosiddetti “creativi” possono sperare di venire ricompensati, se particolarmente meritevoli, per la propria opera, oppure possono contare sulla visibilità che deriva dalla loro partecipazione; hanno la possibilità di lavorare con grandi brand (poiché ad essi non vengono richiesti requisiti particolari) e di crescere professionalmente, attraverso il confronto con gli altri membri e attraverso l’attivazione di una serie di contatti.

Infine i benefici si palesano anche per le società proprietarie delle piattaforme di condivisione in cui hanno luogo i contest: esse acquisiscono forza e fama al crescere della propria community, guadagnano per ogni progetto pubblicato, fanno emergere utenti creativi altrimenti sconosciuti e, grazie a essi, possono contare sul vantaggio di visibilità che deriva dal passaparola.
Anche la medaglia del crowdsourcing rivela, tuttavia, il proprio rovescio; esso, infatti, può essere visto come una minaccia per l’azienda che senta violate le proprie risorse, copyright e proprietà intellettuali. La riduzione del gap tra professionisti e dilettanti espone, poi, le aziende al rischio che i risultati ottenuti si collochino nel piano della mediocrità (o, peggio ancora, che siano copiati e plagiati, con pessime ripercussioni in termini di immagine), che un progetto venga scelto esclusivamente “perché è bello”, non perché sia realmente efficace. Si elimina il rapporto diretto tra azienda e committente e l’intero scopo della campagna aziendale cui si deve offrire soluzione si riduce a poche generiche righe di presentazione.
Una svalutazione della professionalità, dunque, che può voler dire – per il creativo che decida di prendere parte a simili pratiche – la perdita dei diritti sulla sua stessa creatività, l’incertezza sull’esito dei propri sforzi, la frustrazione dal vedersi superare da un dilettante, magari per logiche contorte di assegnazione della vittoria non al più meritevole, ma al più furbo; i tempi ristretti di scadenza, poi, impongono un’urgenza che mal si presta con la bontà di realizzazione, con possibili ripercussioni negative per la propria immagine.

Infine le piattaforme, terzo soggetto coinvolto nel crowdsourcing, sembrano, da certi punti di vista, legittimare una sorta di speculazione sul lavoro altrui, sfruttando creativi e offrendo alle aziende risultati a volte inadeguati; esse, inoltre, diffondo l’idea sbagliata secondo la quale una creatività remunerativa sia appannaggio di chiunque.

Sollecitato in merito alle possibili implicazioni negative derivanti dalla parificazione tra professionisti e dilettanti, Giovanni Trotto ha rassicurato: “il crowdsourcing si sta imponendo proprio perché questo gap […], grazie all’internet e alle possibilità tecniche e di apprendimento che oggi abbiamo si fa sempre più sottile. Rispetto a 10 anni fa è abbastanza evidente come il numero di persone in grado di girare video di alta qualità sia letteralmente esploso. Allo stesso tempo è aumentata anche la domanda di contenuti video da parte delle aziende. Se il cliente ha bisogno di video di altissima qualità, apriamo una call per gli utenti Pro che garantiscono l’eccellenza qualitativa. Ma a volte il cliente è interessato a ricevere una moltitudine di video amatoriali, per esempio per trovare ispirazione per i propri prodotti e in quel caso possiamo mobilitare un enorme numero di creativi”.

Nessuna implicazione negativa – almeno per Userfarm – nemmeno con riferimento ai diritti d’autore sulle “opere scartate”, non selezionate: “nel nostro caso”, prosegue Trotto, “rimangono di proprietà dell’utente, che può quindi scegliere di utilizzarle in altri contesti. A meno che non scelgano di eliminarle, restano pubblicate come contenuti dell nostra community, che serve ai videomaker anche come veicolo di promozione”.

Quali, allora, infine, le specifiche opportunità nel crowdsourcing per le piccole e medie realtà imprenditoriali, alla base del tessuto economico italiano?

Le piccole e medie imprese dovrebbero”, conclude Trotto, “sentire l’urgenza di aprirsi ad internet e di comunicare e competere su scala globale, dando così vitalità al commercio. Purtroppo, da questo punto di vista, abbiamo un’arretratezza di 4-5 anni rispetto ai paesi più all’avanguardia e questo è l’aspetto che più mi fa temere per la tenuta del nostro tessuto economico.
Le opportunità offerte dal crowdsourcing sono molteplici, prima di tutto i bassi costi rispetto ai metodi produttivi tradizionali, e secondo il potenziale di creatività illimitato. Per fare un esempio, se io azienda voglio promuovere il mio sito aziendale e quello che ho da offrire, farlo tramite un video è ciò che mi può portare più vantaggio (così dimostra la ricerca). Ma fare un video di qualità tramite i canali produttivi tradizionali costa troppo, e questo è il motivo per cui i risultati amatoriali abbondano, e questo non aiuta certo il business…
Il nostro sito permette di ottenere a basso costo non uno, ma più risultati di qualità tra cui scegliere, con la possibilità di avere il video di cui ho bisogno prodotto in più lingue. Se per esempio voglio attirare clienti americani il video posso farlo produrre a videomaker americani. La nostra community ospita oltre 25.000 videomakers da 125 paesi diversi, quindi le opportunità non mancano.
Alle piccole aziende in particolare suggerisco di provare il nostro self-service di prossima introduzione, facilissimo da usare e dai costi molto ridotti. Alle medie aziende invece consiglio una call tradizionale per ottenere video promozionali di alta qualità, oltre che a una consulenza di esperti di marketing online che li aiuta a definire la campagna ideale per trarre il massimo vantaggio dai video”.

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Privacy e Web: la percezione degli utenti

Un’indagine svolta da Human Highway per conto di Diennea MagNews ha indagato sull’effettiva conoscenza e considerazione dei navigatori italiani circa gli strumenti di tracciamento usati nella rete e i rischi in materia di riservatezza dei propri dati

Nel dibattito collettivo riferito alle tendenze sociali registrate nella modernità, ci si ritrova spesso a far riferimento alla figura, piuttosto inquietante, del Grande Fratello orwelliano, che dall’alto osserva, controlla e manipola le nostre stesse esistenze. Nessuno scomodi Alessia Marcuzzi per favore, l’intento della presente riflessione esula dai contenitori televisivi svuotati e coinvolge piuttosto la discussione che circonda il cosiddetto regime del controllo.

Nel dare corso alla nostra quotidianità, compiamo una serie di gesti che, più o meno volontariamente, lasciano delle tracce memorizzabili nei database di molte organizzazioni: parliamo al telefono, paghiamo con carta di credito, accumuliamo punti nella tessera del supermercato, salutiamo divertiti – quando la notiamo – la telecamera di videosorveglianza.
Per non parlare, poi, del web. Ogni attività da noi compiuta nel www rivela qualcosa di noi stessi, delle nostre inclinazioni, dei nostri interessi, delle nostre abitudini, delle nostre reti sociali, in una parola del nostro microuniverso esperienziale. Mentre tracciamo il nostro percorso lungo le infinite vie della rete (chattiamo, scambiamo foto, condividiamo dati personali e stati d’animo, realizziamo delle ricerche…), segniamo una serie di manifestazioni della nostra personalità che nel loro insieme vanno a costruire la nostra identità virtuale.

Questa cosa – tanto più vera nell’epoca dei molti network sociali e seppur apparentemente ovvia e banale – implica, in realtà, una serie di conseguenze che devono essere prese in seria considerazione e che hanno portano a non poche difficoltà nella ricerca di una regolamentazione giuridica equa della rete, capace, da un lato, di consentire l’acquisizione e il trattamento dei dati riferiti alle attività svolte in rete (spesso essenziali per la repressione e la prevenzione di comportamenti illeciti) e, dall’altro lato, di non comprimere il valore fondamentale della segretezza nelle comunicazioni (art. 15 della Costituzione italiana).

La particolare natura del dato informativo relativo al traffico generato dall’utente è in grado di documentare in modo oggettivo il fatto che determinati episodi sono avvenuti in un determinato arco temporale, a partire da determinati luoghi, manifestando determinati effetti.

Come reagiscono, allora, gli utenti ad una simile consapevolezza? E ancor prima: tale consapevolezza può dirsi realmente generalizzata? A quale livello si colloca la conoscenza degli strumenti di tracciamento e come ci si tutela da essi?
A queste e ad altre domande ha cercato di dare risposta il report 2011 “Privacy & Permission Marketing online”, con riferimento al contesto italiano: nel mese di settembre 2011 MagNews – “uno dei principali player dell’email marketing in Italia” e “core business di Diennea, azienda leader nella creazione di tecnologie per la comunicazione e il marketing” – ha commissionato a Human Highway un lavoro di ricerca con l’intento di “descrivere l’attuale percezione da parte dell’utenza internet italiana delle tematiche relative alla tutela della privacy nel Web e ai sistemi di profilazione e riconoscimento personale che sono comunemente utilizzati online”.

In seguito all’invio, tramite mail, dell’invito a partecipare, rivolto alle 2.765 persone appartenenti al panel OpLine di Human Highway, sono entrati a far parte del campione di riferimento 1.018 casi utili, rappresentativi della popolazione italiana con almeno 15 anni di età e con una frequenza di navigazione in rete non inferiore ad una volta la settimana (popolazione stimata in circa 26 milioni di individui).

Sulla base delle informazioni rese disponibili dalla Ricerca di Base condotta a giugno 2011 da Human Highway su 2.000 casi CATI per descrivere l’universo Internet italiano, una prima preliminare analisi rivela un tasso generale di penetrazione della rete in Italia pari al 50% della popolazione, percentuale che si innalza al 91% se si considerano le sole persone di età compresa tra i 15 e i 24 anni, salvo ridimensionarsi al 68% per i 25-34enni e al 66% per i 35-44enni. In conformità con questa stessa Ricerca di Base il campione di partenza è stato suddiviso per sesso, età (cinque fasce) e area geografica di appartenenza.
Stando al Report, il grado di preoccupazione in merito al tracciamento dei propri comportamenti divide la popolazione italiana in tre gruppi principali, di dimensione simile ma con predisposizione diversa, confermando sostanzialmente i dati rilevati in una ricerca simile riferita al 2009: il 38% degli intervistati non sa se essere o meno preoccupato (37% nel 2009), il 31% si dichiara per nulla o poco preoccupato (29% nel 2009), mentre il 30% è abbastanza o molto preoccupato (34% nel 2009).

Cercando di cogliere la distribuzione della preoccupazione in relazione al mezzo utilizzato, il report rivela come Facebook rappresenti una sede privilegiata per i timori degli utenti, sia con riferimento ai contenuti propri diffusi, per il possibile uso improprio degli stessi da parte del sistema (39% si dichiara molto o abbastanza preoccupato), sia soprattutto con riferimento alla mancanza di controllo per i contenuti inseriti da altri (53% è molto o abbastanza preoccupato); ben il 44,1% degli intervistati ha, allora, dichiarato di essere influenzato molto o in diversi aspetti da simili timori, modificando di conseguenza il proprio agire all’interno della piattaforma sociale.
La forte diffusione dei Social Network e la discussione sulle problematiche di privacy che ne è derivata hanno fatto in modo che passasse in secondo piano la paura del tracciamento dei dati relativi alla propria carta di credito, paura che ha perso il primato detenuto nel 2009 ma che è comunque sentita da una quota consistente della popolazione (44%); il 36% del campione dichiara di lasciarsi influenzare da questa consapevolezza, tenendo sotto controllo l’utilizzo che si fa dello strumento carta di credito.
La geolocalizzazione turba il 34% della popolazione e influenza, di conseguenza, il comportamento del 30,5%, superando il timore – ben più sentito nel 2009 – di essere intercettati telefonicamente (che preoccupa il 29% e condiziona le azioni del 26,2%).
Più basso l’allarme per la chat e per la navigazione sul web, ciascuna delle quali preoccupa il 28% della popolazione (condizionando reciprocamente il 24,9% e il 24,4% degli utenti) e per l’intercettazione delle proprie mail (il 23% se ne dichiara preoccupato e il 20,8 modifica i propri comportamenti in relazione a tale preoccupazione). Seguono fare ricerche sul web, usare il telefono fisso e la possibilità di essere spiati per strada dai circuiti di sorveglianza, alternative che raggiungono ciascuna una quota di preoccupazione pari al 20% (e influenzano rispettivamente il 20,5%, il 19,3% e il 19,2% delle persone). Ad allarmare in misura inferiore sono, infine, l’uso di carte fedeltà per la raccolta punti (15% e un condizionamento valido per il 16,4% del campione) e utilizzo del fax (11% e influenza per il 10,5%).

Dai dati riportati emerge, allora, come sia presente una relazione diretta tra timore verso una particolare modalità di tracciamento e modificazione del comportamento in senso di difesa, dunque più è alto il primo, maggiore sarà l’entità dichiarata della seconda. È interessante, tuttavia, notare come questa correlazione venga in parte meno con riferimento alla navigazione via web: pur essendo consapevoli di lasciare tracce nel corso del proprio peregrinare lungo la rete, gli utenti intervistati si dimostrano meno propensi a variare il proprio atteggiamento in questo senso e, dunque, più propensi a rinunciare ad una piccola fetta della propria riservatezza, probabilmente a causa dei molti vantaggi veicolati dalla navigazione.
Particolarmente sentita e ricercata dagli intervistati è, poi, la tutela della privacy per i minori: ad essere predilette come soluzioni alla problematica sono la formazione rivolta ai bambini circa i rischi che in tal senso si possono incontrare in Internet e l’intervento a monte dei genitori, attraverso filtri o altri controlli speciali sugli account di posta e attraverso la limitazione dei siti sui quali i bambini possono navigare. Tali metodi sono ritenuti maggiormente efficaci rispetto ad interventi più coercitivi o di divieto, interventi, questi ultimi, comunque ritenuti utili, soprattutto considerando il dato in forma evolutiva: rispetto al 2009 l’atteggiamento di protezione sembra essersi intensificato, aumentando la quota di coloro che adotterebbero queste misure coercitive pur di tutelare la privacy minorile.

Il report passa poi ad analizzare il livello di conoscenza e l’atteggiamento generale verso gli strumenti di profilazione passiva presenti in rete (cookie, indirizzi IP o Google Dasahboard).
Gli utenti hanno dimostrato un livello di conoscenza discreto verso questi strumenti: il 63,3%, ad esempio, è consapevole del fatto che nel web è possibile rintracciate il link su cui si ha cliccato per arrivare ad un determinato sito, il 62% sa che è possibile conoscere il paese in cui ci si trova e 59,7% sa che può essere riconosciuto il modello di browser che si sta utilizzando. Tutte queste consapevolezze generano comunque la sensazione di sentirsi osservati e infastidiscono gli utenti.
Il 48%, poi, ha dichiarato di conoscere i cookie e di sapere a cosa servono o quale sia la loro funzione, il 25% di averne sentito parlare e di sapere vagamente di cosa si tratta. Il 71% ha rivelato di sapere cosa sono e a cosa servono o come funzionano gli indirizzi Ip e il 17% di averne una conoscenza vaga. Il 48% conosce i metodi di profilazione passiva dell’e-mail marketing (sa che, se si è iscritti alla newsletter di un sito, esso può sapere se apro le mail che mi invia o se clicco nei link in esse presenti). Minore, invece, la conoscenza di Google Dashboard, padronanza di un solo 16% degli intervistati, al quale si somma un 14% riferito a chi ne ha solo sentito parlare vagamente; tra le reazioni all’aver scoperto i contenuti presenti in Dashboard, la più comune è la sensazione di essere osservati (28,6%), seguita dal sentirsi incuriositi e interessati (26%), dall’indifferenza (19,7%) e dal fastidio (15,7%): delle reazioni, tutto sommato, di non eccessiva preoccupazione, dettate, forse, dall’utilità dello strumento, per chi se ne serve.
Sulla base delle risposte fornite circa la conoscenza dei meccanismi di profilazione passiva del web, la popolazione è stata suddivisa in tre categorie: gli utenti “evoluti” (22%), gli utenti con una conoscenza media della rete (42%) e quelli con una conoscenza scarsa (37%).
Si rileva una forte correlazione tra consapevolezza di questi strumenti e sesso e età del rispondente: gli utenti più evoluti sono uomini (28% degli utenti uomini è evoluto, contro il 15% delle donne) appartenenti alla fascia centrale d’età (dai 35 ai 44 anni) e dopo i 45 anni la percentuale di utenti evoluti diminuisce lasciando spazio agli utenti medi (che raggiungono il 49% nella fascia 45-54 anni e si ridimensionano ad un 42% nella fascia over 54) e agli utenti base (raggiungono il 46% tra gli over 54).

Con riferimento al titolo di studio conseguito e alla zona di residenza, pare che gli utenti più evoluti si concentrino prevalentemente tra i laureati, residenti nel Nord Ovest.

Gli utenti più esperti sono anche i più consapevoli della tendenza, propria dei mezzi di informazione, ad enfatizzare il rischio per la privacy veicolato dal web; ciononostante sono ben consapevoli circa la presenza reale di tale rischio; gli utenti evoluti, anzi, risultano più preoccupati degli altri per la propria privacy su molti degli aspetti considerati a inizio analisi (uso del cellulare e del telefono fisso, geolocalizzazione, ricerca e navigazione sul web, videosorveglianza, scrittura mail, uso di fax e carte fedeltà) e sono gli utenti maggiormente influenzati nei loro comportamenti di utilizzo di questi mezzi, poiché cercano continuamente di tutelarsi tramite piccoli accorgimenti.
Essi, tuttavia, accettato il rischio per la privacy in rete – principalmente per la convinzione che, sia sul mondo virtuale sia su quello reale, non esistano ormai più posti “sicuri” – e dichiarano che, se anche ne sapessero di più su queste tematiche, non sarebbero disposti a cambiare il proprio atteggiamento di utilizzo del mezzo e a rinunciare ai privilegi forniti dal web.
Si osserva anche come, al crescere dell’età dei rispondenti, l’atteggiamento verso il tema della privacy sulla rete diventi sempre meno severo, meno allarmistico rispetto a quello dei più giovani, poiché cresce, appunto, la consapevolezza – o la disillusione, dicono i promotori del report – che non si possa riuscire a tutelare pienamente la propria riservatezza nemmeno nel mondo fisico; ci si dimostra, piuttosto, sempre più disponibili a rinunciare alla propria privacy in cambio di servizi specifici o dei semplici vantaggi che derivano dalla navigazione sul web.
Anche per quanto riguarda il marketing comportamentale, cambia l’atteggiamento dell’utenza in relazione ad età e al livello di conoscenza della rete: i più vecchi e i più esperti sono consapevoli del fatto che esso rappresenti la normale evoluzione della pubblicità in rete.
Con riferimento alla propria reputazione on-line, si osserva come tre rispondenti su quattro abbiano dichiarato di aver cercato almeno una volta il proprio nome su Google (18% lo ha fatto una sola volta, il 42% qualche volta e il 12% spesso), mentre il restante quarto non se ne sia curato in nessun modo; di fronte alla scoperta che sono stati pubblicati a propria insaputa da altri contenuti riferiti a sé, gli utenti si dichiarano infastiditi, ma allo stesso tempo anche meravigliati e sorpresi.
Le informazioni potenzialmente “intercettate” ritenute più personali di tutte sono la capacità del sito di localizzare qualcuno, di riconoscere il cookie e di sapere se si siano aperti o meno i messaggi ricevuti.
Altri due sono, per concludere, gli aspetti indagati dal report: i sistemi di profilazione attiva sul web e la conoscenza degli utenti circa l’informativa sulla privacy.
Con riferimento al primo, si evidenzia come, nel momento in cui all’utente venga richiesto di compilare dei form online, i campi che provocano più fastidio siano quelli relativi alla richiesta di informazioni sul reddito, sul patrimonio, sui conti correnti e sulla sfera economica in generale. Risulta diminuita notevolmente la quota di utenti che non terminano la compilazione di un form poiché vengono richieste informazioni sulla composizione del nucleo familiare, sul titolo di studio e sul sesso, mentre sono aumentati gli utenti che interrompono la profilazione quando vengono richieste informazioni come la tipologia di abitazione o altre domande sul tempo libero; in ogni caso – l’abbiamo detto – le la sfera economica continua a rappresentare la maggiore inibitrice.

Con riferimento all’informativa sulla privacy, risulta che la maggior parte (41,6%) degli intervistati non legge il testo della normativa, mentre l’atteggiamento più scrupoloso di tutti, cioè di chi legge sempre per intero il testo e ne conserva una copia sul pc, è passato da rappresentare il 10,6% degli intervistati nel 2009 al 4,4% nel 2011.
Nonostante, infine, gli intervistati conoscano abbastanza bene i propri diritti in materia di privacy e dichiarino di sapersi muovere in caso di violazione, solamente il 17% si sente tutelato dalla normativa attuale e, di questi, solo l’1% completamente, contro una percentuale del 41% riferita agli utenti che si sentono poco o per nulla tutelati (in conformità con la tendenza evidenziata nel 2009).

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