




Pubblicato da robertabarbiero in 6 giugno 2013
https://robertabarbiero.wordpress.com/2013/06/06/banche-pa-e-social-network-tra-consapevolezze-e-ritardi/
Ben 11,5 milioni di interazioni su Facebook e Twitter indagate da Blogmeter allo scopo di comprendere il modo in cui i principali quotidiani italiani gestiscono i social media. Poco sfruttate le foto e gli altri mezzi ad alta capacità virale
Pubblicato da robertabarbiero in 10 Maggio 2013
https://robertabarbiero.wordpress.com/2013/05/10/testate-tricolori-e-social-media-ancora-poca-interazione/
I candidati italiani consultano gli annunci per un posto dietro ai fornelli, ma le maggiori opportunità sono tra le scrivanie di un ufficio. Sempre più importante l’online reputation nel processo di reclutamento, il 12% dei selezionatori ha scartato nominativi dopo aver informazioni raccolto in rete
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 11 aprile 2013
https://robertabarbiero.wordpress.com/2013/04/11/le-dinamiche-della-domanda-offerta-lavoro-in-tempi-di-crisi-e-web-2-0/
Alcune recenti indagini dimostrano come gli utenti dei principali social network interagiscano con i propri contatti replicando di fatto i modelli fruitivi propri della loro quotidianità, rendendo sempre più sfumati i confini tra virtualità e realtà
Identità virtuale cercasi. Solida, credibile e, soprattutto, sopportabile.
Pare questi siano tempi particolarmente duri per i maghi di age- e genderswitching, per chi ama, insomma, fingersi qualcun altro, in un eterno – a volte spassoso, altre volte dannoso – carnevale virtuale. Gli utenti dei network sociali, sempre più disincantati, non sembrano, nelle proprie scelte di condivisione, cercare un approccio generalizzato, ma, al contrario, privilegiano quelle relazioni che, in un modo o in un altro, possiedono per loro un qualche legame con la propria personale quotidianità.
Alcune recenti indagini hanno mostrato come si sia assottigliato il confine tra mondo reale e mondo digitale, teorizzando una sostanziale compenetrazione tra le due e una singolare manifestazione del concetto di “realtà aumentata”: la simulazione sottesa all’utilizzo dello strumento web muta, allora, la propria essenza e si fa realtà essa stessa; la rete diventa uno spazio sociale in cui si realizzano delle pratiche fruitive legate, in primo luogo, all’universo di appartenenza e all’identità reale degli attori coinvolti, con delle conseguenze che devono inevitabilmente essere prese in considerazione da chi si occupa di comunicazione e marketing online.
In un articolo pubblicato sulla rivista dell’Accademia Nazionale delle Scienze Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences) sono stati riportati i risultati di uno studio condotto da alcuni ricercatori della Harvard University che ha inteso indagare quanto le similitudini rilevate tra profili “amici” sui social network siano da ricondurre all’effetto cosiddetto “virale” dei contenuti veicolati e quanto dipendano, invece, da altri fattori. Ad esser stati presi in esame sono i comportamenti e le abitudini di duecento studenti di college, seguiti su Facebook per quattro anni di vita accademica, dal 2006 al 2010.
Viene confermata l’importanza del network virtuale nell’avvicinare persone che hanno una certa affinità di pensiero e di passioni, come avviene, del resto, anche al di fuori dell’ambito digitale. Tuttavia pare molto improbabile ai ricercatori di Harvard che possano essere mutuati gusti, interessi e preferenze dei propri amici digitali, se non inizialmente condivisi.
Si inverte, dunque, il processo: le vicinanze tra profili non sarebbero conseguenza dell’amicizia virtuale, ma ne costituirebbero la causa. Stando a tale interpretazione, inoltre, sarebbe necessario abbandonare l’idea di piattaforma aperta, inclusiva e potenzialmente in grado di connettere chiunque, per ripiegare, al contrario, su una visione ghettizzante del mezzo, che vede confermata la segmentazione sociale ed economica propria della vita reale.
Alcune critiche sono state avanzate circa il metodo utilizzato per l’indagine, basato sull’utilizzo dei dati segnalati come preferiti nelle schede informative personali dei profili analizzati e non anche sui contenuti postati, forse maggiormente rappresentativi delle reali inclinazioni dei soggetti. Allo stesso modo alcuni sostengono la fondamentale importanza dei network sociali – ai fini di una qualunque campagna marketing – come strumento di data mining, a prescindere dalla loro forza virale. Tuttavia l’esito delineato dalla ricerca, frutto di un canale istituzionale, non può essere ignorato da chi giornalmente spera nel contagio virale e sociale di un proprio messaggio, magari di velata natura commerciale o funzionale alla creazione della brand identity.
A risultati in parte simili conduce anche una recente indagine di NM Incite, la società di ricerca fondata dalla Nielsen e dalla McKinsey, attiva nella raccolta dati e consulenza marketing; tale indagine (titolata “State of Social Media Survey”) ha cercato di circoscrivere i fattori che spingono gli utenti dei social network ad accettare o cancellare qualche profilo dai propri contatti e le motivazioni che portano alla creazione stessa di un proprio profilo sociale. Si è scelto di analizzare – per un periodo compreso dal 31 marzo al 14 aprile 2011 – un campione rappresentativo composto da 1.865 individui adulti e utenti di social media, intendendo, con questo termine, chiunque sia solito condividere informazioni e partecipare a discussioni sul web, tramite Facebook, Twitter e altre piattaforme di social networking.
Veniamo ora ai risultati: in media un utente di Facebook possiede 130 contatti e, in linea con la tendenza evidenziata, le principali motivazioni che spingono gli utenti ad aggiungere qualcuno ai propri amici sono la conoscenza reale della persona (82% di preferenze) e l’esistenza di amicizie comuni (60%). Al terzo posto le questioni di lavoro – l’11% chiede o accetta il legame sociale per l’esistenza di un legame di collaborazione effettivo o per sfruttare la conoscenza a livello professionale – mentre l’attrazione fisica influenza solo l’8% del campione nella scelta di accettare o meno l’amicizia. Smentiti, dunque, tutti i luoghi comuni che vedono nella virtualità di questi mezzi un luogo privilegiato per l’approccio sociale e l’estensione a non finire della propria rete reale di amicizie. In penultima posizione, con il 7% ciascuna di preferenze, troviamo la volontà di incrementare le proprie conoscenze, la qualità della foto di profilo visualizzata (una versione contemporanea della cosiddetta “prima impressione”, che, in questo caso, pare non essere così importante) e la prassi di accettare la richiesta di amicizia da chiunque provenga. Infine un misero 4% si dichiara influenzato nella scelta dal numero di contatti rientranti nella cerchia di chi ha avanzato la richiesta.
La ricerca ha poi analizzato le motivazioni che spingono a chiudere un contatto virtuale su Facebook: anche in questo caso in testa alla classifica si collocano la scasa conoscenza nella realtà della persona (41%) e la pubblicazione di commenti considerati offensivi (55%) e, dunque, potenzialmente lesivi della propria social identity. Al terzo posto (36%) troviamo il tentativo di vendere qualcosa, a conferma dell’impossibilità di utilizzare i network sociali a scopi puramente commerciali e della necessità, al contrario, di identificare nuove forme di diffusione dei messaggi aziendali. Nel 23% dei casi, poi, la rottura avviene perché non si riesce più a sopportare i commenti tristi e depressi postati in bacheca dal contatto, nel 20% per mancanza di interazione effettiva con esso e nel 14% per un eccesso di messaggi politici.
Dovrebbero riflettere su questo dato, in particolare, i molti personaggi della sfera politica impegnati nella discesa in campo social, in particolare quelli meno conosciuti, che non possono contare sulla visibilità mediatica per strappare un’amicizia: per incrementare i propri consensi, la tecnica potrebbe, forse, essere quella di alternare, ai messaggi di stampo prettamente politico, quelli di natura più personale, relativi ai gusti e alle abitudini quotidiane, messaggi che – volenti o nolenti – raccolgono maggiormente l’attenzione di chi abita i network sociali.
Una rottura o un divorzio nella vita reale costituisce la causa dell’eliminazione per l’11% del campione, mentre per l’8% questa va rintracciata nel mancato interesse che si nutre verso gli amici del contatto che si decide di eliminare.
L’eccessiva invadenza del contatto (modificare troppo frequentemente il proprio profilo e chiedere l’amicizia a troppe persone) conduce il 6% degli utenti ad eliminare lo stesso, mentre la prassi di modificare solo raramente il proprio profilo è quasi ininfluente (3%).
La ricerca ha poi approfondito un altro aspetto riferito alle piattaforme sociali, l’uso, cioè, che gli utenti fanno delle stesse. Pare che i motivi principali di utilizzo siano la necessità di rimanere in contatto con la propria famiglia (89%), la volontà di ritrovare o mantenere vecchie amicizie (88%) e la voglia di cercare nuove conoscenze (70%). Con riferimento alla sfera dell’entertainment e lifestyle, il sondaggio ci dice che il 67% degli utenti si collega ad un social network per semplice divertimento e intrattenimento, il 64% come sbocco di creatività, il 47% per giocare, il 45% per offrire e ottenere informazioni, il 35% per seguire qualche celebrità e il 16% per trovare l’anima gemella.
Per quanto riguarda, invece, l’area prodotti/servizi, ci si connette principalmente per leggere i feedback degli altri consumatori (66%) o per avere informazioni e dettagli in merito ai prodotti prima di procedere con l’acquisto (60%), il 58% lo fa per sfruttare promozioni e acquistare coupon convenienti, il 54% per offrire un proprio feedback positivo e il 51% per offrirne uno negativo. Un po’ meno diffuso, invece, è l’utilizzo per motivi di lavoro: il 48% vede nei network un mezzo per mantenere contatti professionali e il 28% un modo per trovare un lavoro.
Vita digitale e vita reale dai confini sempre più sfumati, quindi. Un’amara consapevolezza per chi ha sperato e ancora spera di trovare un riscatto personale nella virtualità: curare la propria quotidianità e i propri rapporti reali sembra essere, in definitiva, la forma migliore di promozione sociale, per ottenere il successo ricercato in rete.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 8 marzo 2012
https://robertabarbiero.wordpress.com/2012/03/08/la-promozione-virtuale-impone-la-cura-della-propria-identita-reale/
Sheryl Sandberg, COO del famoso social network, promette una serie di strumenti per incrementare la presenza attiva delle più piccole realtà imprenditoriali
Prima di iniziare la lettura di questo articolo, consigliamo, a quanti di voi si considerino degli audaci utenti del più noto tra i social network, di scorrere rapidamente l’elenco delle pagine su cui avete cliccato “mi piace”: tra un “Io amo viaggiare” e un “Odore della benzina” ritroverete sicuramente anche alcuni marchi noti, delle impronte digitali lasciata da attività imprenditoriali che, in qualche modo, veicolano dei valori ai quali ritenete di appartenere o con i quali vi piacerebbe identificarvi; del resto, il fatto che Facebook venga utilizzato con successo dalle principali aziende italiane ed estere non rappresenta certo una novità.
Affinate poi la selezione cercando di capire quante, tra le pagine che arricchiscono il vostro profilo, siano da ricondursi a delle attività imprenditoriali di piccole dimensioni, includendovi pure quelle facenti capo ad amici e parenti del vostro quartiere, quelle, cioè, per le quali non nutrite particolare interesse, ma che avete incluso per una semplice questione di etichetta sociale. Siamo certi che, a questo punto, la proporzione relativa alla presenza sociale di grandi e piccole realtà si rivelerà a netto vantaggio delle prime.
Eppure ovunque si sottolinea come il tessuto imprenditoriale italiano si fondi sulle piccole e medie imprese; eppure moltissimi sono gli esempi di come la promozione di iniziative e prodotti aziendali su questi canali possa rivelarsi estremamente vantaggiosa; eppure, ancora, la sfida e l’innovazione dovrebbero essere le principali leve su cui puntare, in un periodo storico caratterizzato dall’immaterialità, da un consumo che non implica il possesso di un bene, da una costante volontà di condivisione e coinvolgimento diretto.
Mentre alcuni piccoli imprenditori si interrogano su come poter sfruttare al meglio i media sociali in una gestione rinnovata del rapporto con la propria clientela, la maggior parte è alla ricerca della soluzione più idonea ad impedirvi l’accesso da parte dei propri dipendenti: preoccupati all’idea che si possa perdere del tempo preziosissimo, questi ultimi non si accorgono di come ciò che rischiano di perdere sia, al contrario, un’occasione reale e potenzialmente fruttuosa.
Se è vero, tuttavia, senza voler essere dissacranti, che, quando Maometto non va alla montagna, è la montagna a raggiungere Maometto, è altrettanto vero che il team di Palo Alto ha ben compreso la portata del vantaggio che potrebbe derivare dal cercare di colmare questa lacuna e ha promesso importanti novità per il mondo della piccola e media imprenditoria. Proprio nei giorni in cui la sfida con Google plus – e con la sua apertura grande pubblico – sembra raggiungere il culmine, attraverso l’implementazione di nuove funzionalità pensate per il lato consumer (come le liste intelligenti, le nuove modalità di condivisione e la possibilità di ricevere gli aggiornamenti di persone che non sono nostre amiche, se queste hanno abilitato tale funzione); proprio nei giorni in cui si paventa la realizzazione del progetto “Facebook Music”, una piattaforma per fruire contenuti multimediali; proprio nei giorni in cui – focalizzando l’attenzione sul contesto italiano – la survey “Customer Experience & Social Network”, condotta dall’Osservatorio Business Intelligence di SDA Bocconi School of Managment su commissione di Alcatel-Lucent Enterprise, rivela come il ruolo dei media sociali sia, potenzialmente, di fondamentale importanza nelle strategie aziendali italiane, ma, per molti versi, ancora da esplorare (ben il 20% del campione si è dichiarato convinto, ad esempio, che strumenti come Facebook, Twitter e LinkedIn non aiutino a fare business e solo un 7% utilizza tali strumenti per dialogare con i propri clienti finali); proprio nei giorni, infine, in cui la discussione pubblica italiana ruota attorno alle riflessioni e agli stimoli della Social Media Week milanese; proprio in questi intensissimi giorni, Facebook annuncia un imminente ed organico piano di sviluppo di nuove potenzialità rivolte al mondo delle piccole imprese. Sheryl Sandberg, collocatasi alla quinta posizione nella classifica delle cento donne più potenti secondo Fortune, è dal 2008 chief operating officer di Facebook, giunta con lo scopo di monetizzare le prestazioni del colosso digitale, dopo aver ricoperto la carica di vice president of global online sales and operations a Google. Intervistata da USA Today, la Sandberg ha proposto alcune anticipazioni circa le nuove possibilità di fare business con i social network; si è parlato innanzitutto di 50$ offerti a 200.000 piccole imprese in forma di crediti pubblicitari, un’elargizione che coinvolgerebbe per ora il solo territorio americano ma che, certo, lascia presagire importanti attività di sostegno internazionale in tal senso. “Il mio sogno è molto semplice”: “ogni piccola impresa dovrebbe usare Facebook per il suo business. Non ci fermeremo fino a quando questo non accadrà”. “Crediti di questo tipo possono permettere degli ottimi sviluppi”, poiché “con 50$ le aziende più piccole possono raggiungere ogni singola persona che intendano raggiungere almeno una volta, per poi far crescere il proprio business a partire da questo”.
Il punto di forza su cui puntare sembra essere la semplicità veicolata dal social network, che permette ad un’azienda di farsi conoscere e di promuovere la propria attività con costi e tempi notevolmente inferiori rispetto a quelli propri di strategie più tradizionali; esso, inoltre, assicura alle aziende una certa visibilità, potendo contare su un parco utenza potenziale già presente all’interno del network, e garantisce, di conseguenza, un notevole traffico rivolto al proprio sito, agevolando le complesse strategie di Search Engine Optimization pensate per far salire di posizione il proprio sito web nelle serp dei motori di ricerca.
Stando a quanto riportato dalla Sandberg, 9 milioni di piccole imprese americane, su un totale di circa 30 milioni, utilizzano regolarmente Facebook per instaurare delle conversazioni e connessioni con la propria comunità di utenti o per tramutare i clienti da latenti ad effettivi.
Facebook mette a disposizione delle imprese molti strumenti e funzionalità gratuite, grazie alla presenza di pagine personalizzabili e integrabili a tutti gli altri canali promozionali, comunicativi e commerciali utilizzati; alcune di queste imprese hanno iniziato anche a realizzare delle campagne a pagamento di inserzioni su Facebook, per cercare di incrementare la propria attività, tuttavia le intenzioni delle menti economiche che governano l’infrastruttura digitale sembrano voler superare questi esili risultati.
Greg Sterling, un analista di Opus Research, sottolinea come siano proprio le imprese più piccole a presentare le maggiori remore nell’inserirsi in questo circuito a pagamento, probabilmente perché non hanno abbastanza tempo da dedicarvi, forse semplicemente perché preferiscono accontentarsi dei servizi gratuitamente offerti: “Facebook ha un enorme potenziale monetario a livello pubblicitario”, “ma in questo momento le piccole aziende non capiscono la necessità di spendere del denaro, hanno la loro pagina libera e sono soddisfatti di questa”. I crediti di 50$ potranno, allora, essere d’aiuto in tal senso, invitando le imprese “almeno a provare”, incentivandole nell’intraprendere questa strada per la prima volta, al fine di scoprirne le reali potenzialità: interazione diretta con i clienti, innovative campagne di marketing virale, aumento delle vendite e della credibilità.
Quella dei social non è certo una strada facile per le piccole realtà, poiché impone un esposizione diretta dell’impresa e dell’universo che la circonda, rendendola spesso, per questo motivo, anche più vulnerabile, più facilmente oggetto di critiche e lamentele. Si rende necessaria la destinazione di importanti risorse interamente dedicate, capaci di dare una risposta immediata alle esigenze degli utenti e, ancor prima, di comprendere la reale portata di tali esigenze.
A tal proposito è interessante citare i risultati di una ricerca dal titolo “Cosa vogliono gli utenti dalle pagine aziendali di Facebook?”, realizzata da Lorenzo Amadei e Claudia Zarabara, referenti dell’area social media marketing della Fondazione vicentina CUOA, e svoltasi completamente online: studiando il mezzo dal punto di vista degli utenti e non delle aziende, i due hanno cercato di indagare quali siano i valori ricercati e richiesti in una pagina aziendale, valori che non possono non essere presi in considerazione da una qualsiasi attività di comunicazione social. “L’aspetto cruciale che emerge dalla nostra ricerca – hanno commentato Zarabara e Amadei – è rappresentato dalla necessità di una comunicazione corretta, che coinvolga l’utente/fan, che gli riconosca l’importanza di aver associato il proprio nome a quello della pagina, che gli riconosca correttamente ruolo e intelligenza. L’utente, infatti, non gradisce messaggi troppo o esclusivamente commerciali, mentre cerca/chiede un dialogo trasparente e diretto”.
Più di otto persone su dieci hanno affermato di essere fan di almeno una pagina aziendale, scelta spesso per effetto virale (il 75% lo diventa su suggerimento di amici); nel 72,8% dei casi a spingere a legarsi ad una pagina aziendale è l’interesse personale, nel 55,6% dei casi è la volontà di essere informati rapidamente, nel 48,4% è l’interesse professionale, nel 31% il senso di appartenenza. Tra i motivi che, al contrario, spingono un utente ad abbandonare la pagina aziendale, vi sono i troppi messaggi, al 64,7%, i messaggi troppo o solo pubblicitari (49,6%), i messaggi ripetuti troppe volte (41,5%), le notizie non interessanti o utili (40,1%) e i messaggi non tempestivi (28,2%); anche l’aspetto etico è sentito da alcuni, dato che il 25,8% del campione dichiara di essersi distaccato a causa di azioni dell’azienda che non si condividono.
Il canale sociale impone un cambiamento di approccio, veicola le azioni imprenditoriali ad un livello valoriale con il quale far identificare l’utente, impone un abbandono di logiche utilitaristiche e una chiara manifestazione della propria identità di impresa. La speranza è che i nuovi strumenti previsti da Palo Alto sappiano realmente aiutare le imprese nell’intraprendere questa nuova esperienza e non si risolvano in una semplice – quanto inutile per il nostro tessuto imprenditoriale – speculazione.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 26 settembre 2011
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Un rapporto di comScore sottolinea la potenziale diffusione dei messaggi veicolati dalle pagine Facebook tra gli amici dei fan e impone una riflessione circa le nuove frontiere del marketing
Non serve un intuito particolare per rendersi conto di quanto rilevante sia ormai diventata la presenza delle piattaforme di social network all’interno della rete, presenza che non può non essere presa in seria considerazione da una valida attività di promozione aziendale, relativa a prodotti o servizi offerti.
Le possibilità offerte da questi canali sono moltissime, prime fra tutte quelle di far conoscere la propria azienda, di veicolare visite sul proprio sito web principale e di migliorare la propria reputazione. Tali canali possono rappresentare, in sostanza, un nuovo strumento pubblicitario per far parlare il proprio marchio e l’universo di valori ad esso riferito, ma, perché ciò avvenga, essi devono essere integrati in una politica di web marketing adeguata, che imponga una riformulazione dei tradizionali approcci. Il primo punto da tenere ben presente quando si decide di intraprendere questa affascinante strada è che essa richiede tempo e sforzi per ottenere dei risultati che possano dirsi significativi: a differenza di un sito web, un canale sociale non può rimanere invariato per molto tempo, ma impone aggiornamenti costanti e richiede delle competenze particolari, come la predisposizione al contatto diretto con la clientela; i contenuti devono essere diversificati, in relazione alle peculiarità del mezzo utilizzato e della clientela potenziale che si desidera raggiungere; è importante cercare di incuriosire i visitatori, magari attraverso le funzionalità multimediali messe a disposizione, in modo che si riesca a stimolare la conversazione attorno alla propria attività imprenditoriale; fondamentale è, poi, la capacità di rimanere in costante ascolto degli utenti, rispondendo prontamente ad eventuali domande, commenti e, soprattutto, critiche. Due nuove discipline si sono sviluppate attorno a questa attività di promozione all’interno dei social media, il Social Media Optimization (SMO) e il Social Media Marketing (SMM), e l’impostazione che le contraddistingue si appoggia su quelle che Marco Maltraversi – rifacendosi a Jason Jantsch – definisce le quattro C: Contenuto, Contesto, Connettività, Community (M. Maltraversi “SEO e SEM, Guida avanzata al Web Marketing”, 2011, p. 338).
A tal proposito, una recente relazione dal titolo “The power of Like”, frutto della collaborazione tra comScore e Facebook, si è occupata della natura e della frequenza dell’accesso ai contenuti generati da alcuni brand sul famoso social network; tale relazione è basata principalmente sui risultati ottenuti nel mese di maggio 2011 da comScore Social Essentials (un servizio di misurazione basato su un panel di 2 milioni di utenti), ma include anche le rilevazioni della piattaforma di analisi interna a Facebook. Con un pubblico statunitense pari a 160 milioni di visitatori al mese (circa 3 su 4 utenti della rete) e con una percentuale di tempo trascorso pari al 90% del totale di tempo trascorso su tutte le piattaforme simili, Facebook – sottolinea il rapporto – risulta sicuramente il social network dominante nell’attuale contesto temporale. La sua evoluzione è stata a dir poco impressionante, dato che molte persone a digiuno di conoscenze informatiche si sono avvicinate al web al solo scopo di utilizzare Facebook: la potenza del passaparola, la forza dei legami sociali, il fascino del pettegolezzo da portinaia.
Da quanto emerge, Facebook avrebbe ridefinito non solo il panorama dei media digitali, ma, nel percorrere questa strada, sarebbe arrivato a modificare radicalmente anche le modalità e l’entità di diffusione dei messaggi pubblicitari: brands e consumatori vivono ora in un rapporto dialettico diretto, formato dalla condivisione di contenuti, notizie e feedback; la novità maggiore, tuttavia, si riscontra a livello di viralità nella trasmissione dei messaggi, accelerata dalla possibilità data agli utenti di condividere informazioni sul brand con i propri amici.
Le pagine fan rappresentano lo strumento principale del marketing su Facebook, usate per promuovere i propri prodotti, servizi e la propria attività: è possibile scegliere tra oltre sessanta categorie da cui iniziare a creare la pagina e, ovviamente, ai fini dell’ottimizzazione sui motori di ricerca, è necessario completare tutte le informazioni richieste, così da renderla unica e più interessante. Le numerose applicazioni disponibili permettono una ulteriore personalizzazione e l’attenzione deve essere posta anche nella scelta del nome da dare alla pagina (e alla vanity URL corrispondente, possibilità, questa, offerta dopo che si hanno raggiunto almeno 25 fan), che apparirà come title e come H1 nel codice sorgente e, una volta scelto, non potrà essere cambiato. Da martedì 26 luglio i responsabili del social network hanno messo a disposizione una pagina dedicata esclusivamente alle imprese di piccole, medie e grandi dimensioni (per ora solo in lingua inglese), che intendano utilizzare questo canale per incrementar il proprio business: in un contenitore unico sono state fornite e organizzate tutte le indicazioni relative alle possibilità offerte per gestire al meglio la propria presenza e reputazione. La scelta in direzione di un rafforzamento del rapporto tra Facebook e aziende potrebbe non essere, tuttavia, del tutto causale: essa nasce in risposta alla chiusura, da parte di Google+, di alcuni profili aperti dalle imprese sulla nuova piattaforma, e rientrerebbe, quindi, in un piano di controffensiva al consenso di pubblico avuto dal social network di Google.
Se da una parte si innalzano le aspettative delle aziende per simili potenzialità, dall’altra crescono le loro preoccupazioni per le difficoltà nel riuscire a sfruttare a pieno le funzionalità di questi media emergenti: in uno studio condotto dalla Harvard Business Review solo il 12% delle imprese esaminate ha dichiarato di essere utente effettivo di social media e solo il 7% si è detto capace di integrare davvero tali canali nelle proprie strategie di marketing. Come a dire che il terreno rimane ancora tutto da esplorare.
Il problema principale, ci dicono i promotori del rapporto comScore, sta nel fatto che i metodi tradizionali di valutazione della social activity d’impresa si sono concentrati su conteggi statistici relativi all’incidenza di questo tipo di contenuti pubblicitari e, ad un livello successivo, sulla sua categorizzazione in positivo o negativo, senza considerare la misura o la composizione dell’audience che ha ricevuto quel contenuto. Un simile approccio prende in considerazione il punto di vista dei soli creatori del messaggio e prescinde da una reale comprensione dell’entità di distribuzione. Al contrario un approccio come quello usato nel rapporto, basato sull’estensione e la frequenza dell’audience, sull’effetto del messaggio nell’audience, offre al brand la possibilità di delineare il profilo dei vari pubblici raggiunti con diversi tipi di contenuti pubblicitari e di capire il reale impatto di questi contenuti, permettendo, di conseguenza, l’integrazione con le altre parti del marketing mix.
Per questo motivo, nell’improntare una qualsiasi strategia di penetrazione nel canale, bisogna considerare il fatto che ci sono due fondamentali pubblici destinatari della comunicazione aziendale: i fans del brand (quelli che hanno esplicitamente cliccato sul “mi piace” della pagina riferita al brand), che sono i più facili da raggiungere con azioni dirette, e gli amici di questi fans, che constituiscono un potenziale incrementale di pubblico. Questo significa che quando l’azienda lancia un messaggio può sperare di contare non solo su un effetto diretto ai propri fans, ma anche su un effetto secondario tra i loro amici, che spesso sorpassa l’entità di diffusione tra i soli fan.
Veniamo ora ad alcuni dei dati più rilevati evidenziati nel rapporto: il 27% del tempo trascorso dagli utenti su Facebook è dedicato alla visualizzazione di homepage e, in particolare, dei news feed (la colonna centrale della home page, in sostanza “un elenco sempre aggiornato di contenuti delle persone e le pagine di cui sei seguace su Facebook”); il 21% è rivolto, invece, alla visualizzazione dei profili; il 17% a sfogliare gli album con le foto dei propri amici; il 10% è destinato all’utilizzo di applicazioni e il restante 25% è occupato da tutte le altre possibili attività.
Da ciò deriva che gli utenti tendono ad informarsi circa le ultime novità del brand principalmente attraverso i newsfeed, piuttosto che aprendo direttamente la pagina relativa: da una parte questo permette la moltiplicazione della visualizzazione, che si estende anche agli amici dei fan (si parla di 34 persone in più per ogni fan che segue un brand), dall’altra l’aggiornamento dei newsfeed potrebbe essere troppo veloce perché venga visualizzato e questo in relazione al numero di amici posseduti. ComScore ricorda anche un ulteriore limite nella diffusione delle informazioni attraverso Facebook: in media un messaggio pubblicato da un utente raggiunge il 12% dei suoi contatti, a causa di una formula matematica, chiamata EdgeRank, che seleziona i profili sui quali apparirà l’aggiornamento di status, a partire da particolari parametri. Si rende quindi necessario un aggiornamento costante dei propri post, pur evitando di creare noia e disturbo agli utenti, eccedendo nella quantità (la conseguenza potrebbe essere l’abbandono del nostro profilo aziendale da pare di un utente infastidito).
Il rapporto ha poi focalizzato la propria attenzione sulle pagine di tre fra i maggiori marchi statunitensi, Starbucks, Southwest e Bing, cercando di quantificare l’effetto di moltiplicazione del messaggio in esse veicolato. Ne deriva, ad esempio, che gli amici dei fan visitano il sito della marca di riferimento più spesso di quanto non faccia l’utente medio della rete.
Uno stesso brand solitamente aggrega profili demografici e comportamentali piuttosto eterogenei, indicando la necessità, appunto, di strategie di marketing del tutto nuove.
Il valore di un fan, conclude allora comScore, risiede in tre punti fondamentali: nell’incremento della forza e della fedeltà nel rapporto tra brand e fan, nello stimolare il comportamento d’acquisto di quest’ultimo e nella possibilità di influenzare i suoi amici.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 4 agosto 2011
https://robertabarbiero.wordpress.com/2011/08/04/marketing-sociale-quando-un-like-diventa-virale/
Il nuovo network di Google introduce numerose novità a livello di funzionalità ed approccio, inaugurando quella che si preannuncia essere una vera battaglia tra piattaforme a colpi di social
“I would like to have an invite to google+. When is it going to be open?”; “oh ragazzo fortunato… non è che per caso hai inviti per #googleplus?”; “anyone want a Google+ invite?”; “Ma chi devo conoscere per avere un invito a #googleplus?”; “I’m looking for an invite to #google+ plz!”; “is there anyone who can #invite me to #GooglePlus?”; “I’ve got access to #GooglePlus now 🙂 it’s amazing, so cool.. Anyone needs an #invitation? ;)”.
Sono questi solo alcuni dei numerosissimi “cinguettii” che, contenenti l’hashtag #googleplus, hanno popolato nell’ultima settimana il social network Twitter: un perfetto esempio di trasversalità mediatica; un sintomo di schizofrenia comunicativa digitale, direbbe qualcuno; un simbolo, in definitiva, dell’agitazione che attualmente anima il popolo dei social network per l’avvento del nuovo fenomeno che va sotto il nome di Google plus+.
Dopo i flop di Google Buzz, Google Wave, e Googl Orkut (popolare solo in Sud America), il colosso di Mountain View c’ha riprovato e lo ha fatto con un prodottino che a molti è sembrato un buon cocktail dei principali canali social attualmente in auge nella Rete.
Ad una home fatta a tre colonne, molto simile a quella di Facebook – come del resto buona parte della struttura sottesa al nuovo network – si aggiungono alcune particolarità che denotano, in fondo, il tentativo di compiere un salto di qualità (il tempo dirà se in positivo o in negativo), imparando, forse, dai tentativi pregressi propri e dei propri competitors. Innanzitutto la possibilità aggiuntiva di condividere, attraverso i post, la propria precisa posizione geografica anche da PC e non solo da mobile. Il “+1” al posto del tasto “like”, che si estende a qualsiasi risultato di ricerca all’interno del motore, conquistando una sezione appositamente dedicata. La visualizzazione completa, nella stessa pagina, di tutte le foto dei propri contatti, con possibilità, ovviamente, di rendere visibili solo le foto che rispondano a particolari criteri di selezione (le proprie immagini possono, inoltre, essere modificate tramite alcuni filtri predefiniti). I videoritrovi (Google Hangouts), accessibili direttamente senza dover scaricare alcun programma e ai quali possono partecipare fino a dieci persone contemporaneamente; con questo sistema “gli incontri casuali entrano per la prima volta nel Web”, sottolineano i suoi ideatori: “non sarà il teletrasporto, ma poco ci manca”. La sezione Spunti (Sparks), che permette di ricevere regolarmente i feed di notizie e video riguardanti alcune categorie da noi scelte, per guardare, leggere e condividere tutto ciò che potrebbe essere di nostro interesse: un approccio del tutto nuovo alla condivisione via web, che cerca di incentivare la comunicazione attiva degli utenti, stimolando “passivamente” l’originarsi della stessa, malgrado alcune riserve siano state avanzate circa i criteri di selezione delle notizie, non sempre congruenti alla reale sete informativa dei fruitori. La facoltà di aggiungere unilateralmente contatti, senza bisogno della loro accettazione (funzione mutuata da Twitter), ma semplicemente inserendoli in delle “cerchie”. Queste ultime, le cerchie, rappresentano, in definitiva, la novità più rilevante, che interviene risolvendo, almeno in parte, le problematiche di privacy lamentate sugli altri circuiti.
A tal proposito, gli ideatori del nuovo sistema devono certo aver avuto ben presenti le brillanti osservazioni fatte, in tempi tutt’altro che sospetti, dal sociologo tedesco Georg Simmel, secondo il quale la società andrebbe intesa come l’insieme di tutte le interazioni formali che ogni singolo individuo produce; compito della sociologia o – per usare una terminologia più attuale – delle nuove piattaforme virtuali sarebbe, allora, quello di indagare le forme concrete con cui si presentano tali interazioni, i modelli attraverso i quali le persone si associano fra di loro e interagisco. Da questa considerazione deriva l’idea che l’individuo appartenga a delle “cerchie sociali”, delle strutture, cioè, fondamentali per lo sviluppo dell’azione sociale; tali cerchie, da strette e concentriche quali erano un tempo, si son fatte sempre più larghe e solo parzialmente sovrapposte, imponendo, di fatto, una tensione verso la realizzazione individuale: la differenziazione delle cerchie implica il passaggio dall’omogeneità all’eterogeneità, dall’uniformità all’individualizzazione, dall’assimilazione alla differenziazione.
Il sistema di relazioni presente in Google+ sembra proprio rifarsi alla “grammatica” di vita sociale studiata da Simmel. Dal diventare “amici”, al “seguire”, fino all’“entrare in una specifica cerchia sociale”, l’evoluzione più attuale del social networking digitale passa attraverso quello che pare a molti essere un recupero della propria individualità, intendendo con tale termine la padronanza nella scelta di cosa condividere con chi. Si riduce l’ansia da prestazione, dettata dalla necessità di compiacere in egual misura differenti personalità; ci si riappropria delle molte “maschere” con cui si è soliti muoversi nella vita quotidiana, quella stessa vita che Erving Goffman assimila alla rappresentazione teatrale, tesa tra ribalta, retroscena e ruoli differenti (cfr. “La vita quotidiana come rappresentazione”, E. Goffman).
In realtà, una simile funzionalità era già prevista in Facebook, ma pare non abbia ottenuto, in sostanza, un forte riscontro nell’utilizzo, se non limitatamente a quella ristretta cerchia (appunto) di persone – blogger, programmatori, comunicatori, giornalisti, investitori – attente ad ogni nuovo stimolo virtuale, a maggior ragione se funzionale ai propri obiettivi professionali; ed è proprio su questa èlite digitale che, sostengono alcuni (forse a torto, forse a ragione), farà colpo il nuovo network di Google, poiché per essi «l’idea di spendere ore nella tassonomia di centinaia di propri contatti è utile ed eccitante. Porta ordine nella loro vita caotica», come sostiene Matteo Lenardon in un articolo dal titolo piuttosto significativo “Perché tua mamma non userà Google+”.
Sia vera o meno una simile previsione, per il momento pare non placarsi – l’abbiamo visto – l’assalto mediatico alla novità sociale, dettato, quasi sicuramente, dal meccanismo di apparente esclusività del circuito, aperto solo a chi viene invitato a parteciparvi, e dalla conseguente curiosità che si viene a creare. Si aggiunga poi che, in seguito ad un numero di richieste considerato “folle”, lo stesso accesso ad invito è stato bloccato, accogliendo, quindi, solo in parte le richieste delle persone invitate e incrementando notevolmente l’aspettativa di quanti sono restati fuori. Per rendere l’idea del fermento in tal senso della rete, basti pensare che su eBay sono stati venduti inviti anche a 70 $. Il sistema “ad invito”, ricordiamolo, non è certo una novità per i dirigenti di Mountain View, avendo fatto la fortuna di Gmail qualche anno fa ed essendo stato adottato, con un riscontro decisamente inferiore, anche per Google Wave.
Se Facebook impone di creare una rete basata sull’eterogeneità dei rapporti e la massima condivisione; se Twitter permette di collegare a questa stessa rete chiunque solletichi il nostro interesse, prescindendo da una logica primariamente collaborativa e con funzione forse più informativa, di aggiornamento e assistenza piuttosto che emotiva; se LinkedIn crea relazioni basate sulla fiducia e l’affidabilità; se tutto questo è vero, Google Plus sembra riversare sull’utente la scelta di come e cosa condividere, di comprendere quale sia il perfetto mix tra gli approcci finora proposti nelle reti sociali, facendosi costruttore del proprio edificio relazionale.
Nella situazione attuale non sono presenti applicazioni esterne a Google, tuttavia si è diffusa la notizia secondo la quale l’apertura agli sviluppatori dovrebbe essere imminente: l’attesa è stata, probabilmente, motivata dalla volontà di presentare innanzitutto una versione definitiva del mezzo, che si dimostri capace di superare la fase momentanea di test. Altra indiscrezione riguarda la sicura introduzione di profili business, aperti alle aziende.
Sono stati già posti i primi problemi in tema di privacy, dunque in un terreno sul quale, l’abbiamo visto, si basa la possibile fortuna di Google+. Il giornalista del Financial Times, Tim Bradshaw, ha, infatti, spiegato come la funzione di “resharing” possa in parte ledere le volontà di condivisione degli utenti: «diciamo che un mio caro amico posti una fotografia dei suoi figli nel suo cerchio degli “amici”. Con l’opzione “condividi” presente su ogni post di Google+, possiamo ri-condividre con altri cerchi di contatti ai quali il mio amico non appartiene. Questo vale per qualsiasi tipo di post, non solo per le foto. Se il mio amico fosse consapevole di questo rischio, potrebbe aver disabilitato il resharing usando il menu a tendina che si trova sulla destra di ogni post, ma non sembra che questa opzione sia attivabile prima di aver condiviso il post. Google+, inoltre, per adesso non consente di disattivare il resharing di tutti i post dalle impostazioni».
A questo punto pare che lo scontro tra piattaforme sia inevitabilmente aperto: Facebook blocca Facebook Friend Exporter, il plugin per esportare gli amici su Google+, e propone – solo la prima, a suo dire, di una serie di novità – un nuovo servizio di videochat in collaborazione con Skype; BigG sceglie di non rinnovare l’accordo con Twitter per far comparire i tweet nei risultati delle ricerche; e in ambito business? Chi la spunterà?
Al via, dunque, alle scommesse sui futuri vincitori e vinti…
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 13 luglio 2011
https://robertabarbiero.wordpress.com/2011/07/13/google-plus-entra-nella-cerchia-del-web/
Due trentenni esperti di informatica rischiano la galera per aver aperto un profilo su Facebook a nome del ministro Tremonti
Un anno di reclusione. Questa la possibile condanna per i due trentenni, uno dalla provincia di Torino e uno dalla provincia di Firenze, rintracciati e denunciati dalla Guardia di Finanza per furto d’identità.
La gravità della pena preannunciata è dovuta, probabilmente, alle generalità e al ruolo istituzionale della vittima, il ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti. La piattaforma sede del reato, manco a dirlo, il diffuso social network Facebook: il falso profilo creato dai due giovani esperti di informatica era riuscito, in poche ore, a totalizzare ben cinquemila amici – “inutilmente orgogliosi di aver preso contatto con il ministro dell’Economia e delle Finanze”, come scrive la GdF – ed è finito sotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti in seguito ad alcuni post ritenuti sospetti perché “fuori protocollo”.
Le indagini sono state coordinate dalla procura di Roma e hanno coinvolto le forze congiunte del Gat, nucleo delle Fiamme Gialle specializzato in frodi telematiche, della polizia tributaria di Roma e delle tenenza di Pontassieve.
Stando a quanto riportato, i collegamenti alla rete, funzionali all’identificazione virtuale fasulla, sono avvenuti da postazioni diverse, tramite, cioè, connessioni intestate ad aziende per le quali i due lavoravano, o ad amici e conoscenti. Il nucleo frodi telematiche è comunque riuscito a ricostruire ogni singolo passaggio e a risalire all’identità dei due “ladri”, grazie anche alla logica di collaborazione alle indagini adottata dai dirigenti di Facebook, sintomo di una particolare attenzione alle implicazioni social in fatto di privacy.
Di profili palesemente falsi (magari riferiti a personaggi della nostra storia sociale e culturale, come Rino Gaetano, Marylin Monroe, Mike Buongiorno e addirittura Giovanni Giolitti e Giuseppe Garibaldi), di pagine ufficiose e di gruppi non autorizzati se ne trovano moltissimi all’interno dei network virtuali, non stupisce, dunque, una simile prassi, ormai consolidata. Essa rientra in quella serie di fenomeni non propriamente positivi (ma, ovviamente, si tratta pur sempre di giudizi controvertibili) studiati dagli esperti di sociolinguistica e funzionali alla volontà di creare, camuffare, deviare o impreziosire la propria social identity. Ci riferiamo, ad esempio, al code switching (la commutazione di codice, dunque, ad esempio, fingersi fruitori di una lingua diversa da quella madre), legato alla pratica più “ortodossa” delle enunciazioni mistilingue o code mixing; e soprattutto all’age- e gender switching (dichiarare un’età e un sesso diversi da quelli propri); e la lista potrebbe allungarsi con l’infinita serie di “bugie”, più o meno bianche che siano, confinate nei circuiti virtuali e destinate in buona parte alla costruzione di una nuova identità, dunque, in definitiva di un’approvazione sociale o, al contrario, di un rifiuto stesso alla socialità.
Nel caso ad oggetto, certo, la pena è motivata dalla violazione dell’articolo 494 del codice penale ed è, dunque, oggettivamente riconducibile ad una disposizione normativa; rimane, tuttavia, da considerare se questa stessa violazione possa valere nella rete, dove – inutile affermare il contrario – le logiche vigenti, e dunque le conseguenze di simili azioni, sono completamente diverse da quelle reali.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 7 luglio 2011
https://robertabarbiero.wordpress.com/2011/07/07/guai-a-rubare-una-social-identity/
A dominare la classifica i Trojan bancari, mentre Facebook e Twitter sono i network più coinvolti
Si sa, la crisi aguzza l’ingegno. È forse questo il principale motivo per cui il 2010 ha conosciuto un proliferare di virus rinnovati nella forma e nella manifestazione e studiati dai professionisti di Panda Security. Dopo aver ricevuto e analizzato oltre 20 milioni di nuovi esemplari di malware, anche quest’anno l’azienda attiva nel settore della sicurezza informatica ha pubblicato l’almanacco dei virus “più bizzarri, che non sono stati i più prolifici o pericolosi, ma che semplicemente hanno destato maggiore curiosità”.
Panda Security è “una delle poche multinazionali europee a essere riuscita a posizionarsi tra i protagonisti [mondiali] del mercato della security” grazie alla creazione e allo sviluppo di “soluzioni di sicurezza integrate in grado di combattere efficacemente virus, hacker, trojan, spyware, phishing, spam e tutte le altre minacce provenienti da Internet”, “al più basso costo di gestione possibile”. Fondata nel 1990 a Bilbao (Spagna) da Mikel Urizarbarrena e con milioni di clienti in più di 200 paesi e prodotti disponibili in 23 lingue, l’azienda riassume nello slogan “One step ahead” (Un passo avanti) il proprio vantaggio competitivo, vantaggio fondato sull’“impegno nell’innovazione continua e nel cambiamento”, su “tecnologie di protezione preventiva integrate” “con capacità di rilevamento ed efficienza più elevate rispetto agli altri vendor”, su “un nuovo modello di sicurezza, appositamente progettato per combattere in modo adeguato tutti i nuovi tipi di criminalità informatica”.
Prima di conoscere nel dettaglio la lista dei “premiati” presenti nell’almanacco, non nuoce avere un quadro d’insieme relativo all’attuale stato di infezione virale del web. Stando al report annuale sulla sicurezza stilato dai laboratori della stessa Panda Security, The Cloud Security Company, nel 2010 gli hacker hanno realizzato e diffuso un terzo del totale di tutti i virus esistenti e, in 12 mesi, hanno creato il 34% di tutto il malware apparso finora. L’Intelligenza Collettiva, la nuova generazione di prodotti antivirus usata, che ha studiato e classificato in maniera automatica il 99,4% degli esemplari ricevuti, comprende attualmente 134 milioni di file unici, dei quali 60 milioni sono malware (virus, worm, Trojan e altre minacce). Una buona notizia, tuttavia, pare esserci: dal 2003 i nuovi codici infettivi aumentavano del 100% ogni 12 mesi, mentre nel 2010 sono incrementali del “solo” 50%, quindi la crescita di nuove minacce sarebbe in diminuzione.
A dominare la classifica del malware nel 2010, con una percentuale del 55,91%, sono stati i Trojan bancari, seguiti da virus (22,13%) e worm (10,38%). L’11.6% di tutto il malware raccolto dall’Intelligenza Collettiva è costituito da rogueware (o fake-falsi antivirus), categoria che, pur presente da soli 4 anni, sta creando molti danni agli utenti di tutto il mondo: in sostanza si tratta di un software che, inserendosi nel computer, segnala la presenza di una miriade di virus, in realtà fittizi, e impone l’inserimento del codice d’acquisto di un particolare programma per tornare alla normalità.
A capo, invece, della classifica dei paesi più colpiti vi è la Thailandia, seguita da Cina e Taiwan, con 60-70% di computer infetti, mentre tra le tecniche di attacco più usate troviamo, innanzitutto, quelle rivolte ai social media: Facebook e Twitter sono stati i network più coinvolti, ma si sono verificati attacchi, ad esempio, anche su LinkedIn e Fotolog; gli utenti sono stati ingannati sfruttando il bottone “Mi piace” di Facebook, compiendo furti d’identità per inviare messaggi da fonti fidate, approfittando delle vulnerabilità di Twitter per eseguire codici javascript e diffondendo false applicazioni per deviare la navigazione su siti infetti. Altri metodi usati sono stati gli attacchi BlackHat SEO per l’indicizzazione e il posizionamento di falsi siti web (brillante metafora cinematografica che indica il parallelo tra il classico “cattivo” che nei film western indossava il cappello nero e un posizionatore che non si avvale di tecniche lecite, consentite dalle linee guida dei motori di ricerca, per scalare le serp) e lo sfruttamento di vulnerabilità zero-day (vulnerabilità del “giorno zero”, per le quali, cioè, non è ancora disponibile una patch risolutiva). Mantiene il proprio ruolo da protagonista pure lo spam, nonostante sembri diminuire la percentuale di spam nel traffico mail (nel 2009 era pari al 95%, nel 2010 è scesa all’85%).
Altri metodi, come le presentazioni PowerPoint inviate a catena tra amici, sembrano essere scomparsi, mentre preoccupa il proliferare sul web di kit per sferrare attacchi informatici già confezionati: delle vere e proprie “cassette degli attrezzi” – a disposizione non solo di esperti informatici, ma anche di aspiranti lamer o di criminali comuni con scarsa competenza informatica – la cui relativa semplicità d’accesso e d’utilizzo e la cui efficacia hanno contribuito ad un incremento del loro utilizzo per attività di cyber crime, come rivelano i risultati di un rapporto realizzato da Symantec Corp. e diffusi il 18 gennaio sul sito della stessa azienda statunitense. Stando a tale rapporto, l’uso di questi kit, che permettono di personalizzare le minacce per evitare di essere individuati e per automatizzare il processo di attacco, rappresenterebbe una delle maggiori minacce rivolte alla rete, generando un’economia sommersa di milioni di dollari, e costituirebbe i due terzi di tutti gli attacchi informatici individuati fra giugno 2009 e giugno 2010. “In passato, gli hacker dovevano creare le loro minacce dal nulla. Questo processo più complicato limitava il numero degli attaccanti ad una cerchia ristretta di cyber criminali molto competenti” ha dichiarato Stephen Trilling, senior vice president, Symantec Security Technology and Response. “Al giorno d’oggi i kit di attacco rendono relativamente semplice il lancio di un cyber attacco anche per un principiante. Per questo ci aspettiamo di assistere ad un incremento dell’attività in quest’area e che ci siano maggiori possibilità per l’utente medio di trasformarsi in vittima”.
Il 2010 è stato, inoltre, un anno caratterizzato, oltre che da cyber crimine (malware legato ad un business orientato alla creazione di ritorni economici), anche da due fenomeni completamente nuovi e presumibilmente in costante ascesa: stiamo parlando di “cyber guerra” e “cyber attivismo”. Quest’ultimo movimento è stato reso famoso dai gruppi Anonymous e Operation Payback e ha avuto come obiettivi primari quelli di colpire le organizzazioni che cercano di combattere la pirateria in rete e di supportare Julian Assange, autore di Wikileaks. Malgrado la legislazione mondiale si stia muovendo in direzione di una sempre più severa soppressione di tale forma di protesta, si è pronti a credere che essa sarà, nel prossimo anno, in continuo aumento, proprio per la capacità della rete di assicurare un canale di espressione relativamente anonimo e libero
Tuttavia, nonostante i riflettori degli ultimi mesi del 2010 siano rimasti puntati su Wikileaks e sugli attacchi online condotti dai suoi sostenitori o dai suoi detrattori, “non c’è niente di nuovo nel tipo di attacchi Distributed Denial of Service (DDoS) utilizzati per colpire aziende che si sono dissociate da Wikileaks, come Mastercard, Visa e Paypal”, ha dichiarato Mikko Hypponen, Responsabile dei Laboratori di Ricerca della società di sicurezza informatica finlandese F-Secure. Secondo uno studio della stessa società, la più importante novità nel campo del malware del 2010, e forse dell’intero decennio, è stata, invece, il sofisticatissimo worm Stuxnet, che può arrivare a colpire direttamente i sistemi industriali e a modificare i processi automatizzati, permettendo, così, di provocare danni gravissimi nel mondo reale. “Sfortunatamente – osserva Mikko Hypponen – è probabile che assisteremo ad altri attacchi di questo tipo in futuro”.
Più in particolare, questo worm ha interferito nel 2010 con i processi delle centrali nucleari, colpendo quella di Bushehr, come confermato dalle autorità iraniane. È stato questo l’esito più eclatante di quella che abbiamo definito “cyber guerra”: azioni di guerrilla nelle quali non si riesce a comprendere chi sia l’esecutore e da dove provenga l’attacco, ma dalle quali si riesce a dedurre esclusivamente lo scopo. Altro esempio di tale fenomeno è stato “Here you have”, il worm, diffuso però con metodo classico, creato dall’organizzazione terroristica “Brigades of Tariq ibn Ziyad”, con l’obiettivo di ricordare agli Stati Uniti l’attacco dell’11 settembre e rivendicare il rispetto per la religione islamica, in risposta alla provocazione del pastore Terry di bruciare il Corano.
Sempre secondo lo studio F-Secure menzionato, il 2010 è stato l’anno in cui si è registrato il maggior numero di arresti e condanne per persone ree di aver commesso crimini online: l’Fbi ha arrestato più di 90 persone, sospettate di appartenere a una rete internazionale di criminali informatici e accusate di aver rubato circa 70 milioni di dollari da conti bancari negli Stati Uniti, ottenendo l’accesso ai dati di banking online attraverso messaggi spam infetti. Altri importanti arresti sono stati effettuati nel Regno Unito e in Ucraina.
Oltre agli ulteriori attacchi firmati Stuxnet, un’altra previsione dell’analisi F-Secure pare essere motivo di preoccupazione: “dal punto di vista della sicurezza mobile” – ha affermato Hypponen, “ci aspettiamo di vedere un numero crescente di malware progettato per colpire la piattaforma Android e gli iPhone jailbreak”.
Insomma, da quel gennaio di ben 25 anni fa, in cui nasceva il primo virus della storia dell’informatica, di strada se ne è fatta molta e l’evoluzione è stata notevole. Allora si trattava – è curioso ricordarlo – di un malware piuttosto innocuo, Brain, creato fai fratelli pakistani Basit e Amjad Alvi per punire chi copiava illegalmente i loro software, colpendo direttamente i floppy-disk, unità di archiviazione allora addirittura più utilizzata degli hard disk. I due avevano pure deciso di inserire nello stesso virus i loro contatti, con l’implicita volontà di ottenere guadagno dalle richieste di aiuto degli utenti infetti e con la speranza di venir contattati da qualche big del settore.
Facciamo ora un passo indietro in questa nostra disamina e concentriamo l’attenzione sulle voci presenti nell’almanacco dei virus 2010 pubblicato da Panda Security, elencandole in relazione al riconoscimento ottenuto:
Il dispettoso amante dei Mac.
Titolo vinto da HellRaiser.A, un programma di controllo remoto che colpisce solo i sistemi Mac e, una volta installato sul computer tramite la necessaria autorizzazione dell’utente, prende il controllo del sistema e realizza numerose attività, tra le quali, addirittura, l’apertura del cassettino DVD.
Il buon samaritano.
È Bredolab.Y il vincitore (Panda Security ne ha messo a disposizione un’immagine sul proprio profilo flickr), il quale si presenta sotto forma di messaggio da parte di Microsoft Support, richiedendo una nuova patch di sicurezza per Outlook; procedendo con il download, si installerà una falsa soluzione SecurityTool che segnalerà la presenza di codici pericolosi sul sistema e condurrà all’acquisto di una soluzione per eliminarli, soluzione che, inutile dirlo, non giungerà in seguito al versamento del denaro.
Il poliglotta dell’anno
Il premio va a MSNWorm.IE, un virus diffuso via Messenger tramite un link che invitava gli utenti a visualizzare un’immagine, in 18 lingue. Al termine della frase troviamo l’emoticon :D, che utilizza, quindi, un codice decisamente universale: date queste premesse, noi avremmo proposto un premio per il forte sentimento di interculturalità.
Oltre ad un’immagine del virus, Panda Security ha pubblicato anche la lista delle diverse manifestazioni dello stesso, che di seguito vi proponiamo:
Il più audace.
Come si deduce da quanto già abbiamo detto, il vincitore è indiscutibilmente Stuxnet.A, virus che, accompagnato metaforicamente dalla nota colonna sonora del film “Mission Impossible” o de “Il Santo”, colpisce i sistemi SCADA (“Supervisory Control And Data Acquisition”, ossia “Controllo di supervisione e acquisizione dati”, per il monitoraggio elettronico di sistemi fisici). Esso sfrutta falle di sicurezza di Microsoft attraverso dispositivi USB per raggiungere il cuore delle centrali nucleari.
Il più fastidioso.
Replicando la prassi di quei programmi che, una volta installati, pongono la domanda “Sei sicuro di voler chiudere il programma? Sì – No?”, Oscarbot.YQ mostra di continuo, ogni volta che si cerca di chiudere un programma o di aprire una finestra del browser, la stessa schermata con la ripetizione della domanda, mettendo seriamente alla prova la pazienza degli utenti. Un’immagine è disponibile su flickr.
Il worm più sicuro.
A vincere è Clippo.A, con questo nome che ricorda implicitamente “Clippy”, il supporto di Microsoft a forma di graffetta: una volta installato, inserisce una password su tutti i documenti Office, impedendo in qualunque modo agli utenti di aprirli.
Una vittima della crisi.
Vince Ransom.AB, un ransomware (programmi che bloccano il computer e richiedono un riscatto per renderli nuovamente operativi) che, vista la forte competizione e la recessione, “si accontenta” di soli 12 dollari per “liberare” il pc, diversamente da qualche anno fa, quando la richiesta si aggirava attorno ai 300 dollari.
Il meno sincero
SecurityEssentials2010 (la falsa versione dell’antivirus, non quella ufficiale Microsoft), sotto la falsa apparenza di adware, avvisa gli utenti di essere stati colpiti da codici pericolosi e conduce loro all’acquisto di un prodotto che fornisca protezione. Il design così convincente, con messaggi e schermate autentici, è stato causa delle 10 infezioni più estese dell’anno. Un’immagine è disponibile su flickr.
A chiusura dell’almanacco 2010, viene citato, infine, l’insetto dell’anno, Mariposa (farfalla in spagnolo), la botnet “estintasi” nel mese di marzo, con l’arresto dei suoi autori, grazie alla collaborazione tra Panda Security, Guardia Civil spagnola, FBI e Defense Intelligence.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 31 gennaio 2011
https://robertabarbiero.wordpress.com/2011/01/31/sicurezza-pmi-ecco-i-virus-dellanno/
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