Banche, PA e Social Network: tra consapevolezze e ritardi

Muta il volto del rapporto tra istituti finanziari e clienti e tra pubbliche amministrazioni e cittadini. Quello di FinecoBank è il profilo più seguito su Twitter, mentre Poste italiane è la pagina con più fan su Facebook. Sportelli sempre aperti, ma spesso incapaci di comprendere le reali potenzialità del mezzo. Scarsa presenza e capacità di coinvolgimento per comuni e regioni. Le migliori performance sono registrate da Milano, Torino e Lombardia.
Dovranno a questo punto ricredersi una volta per tutte quanti si ostinano a considerare le piattaforme di social network come semplici passatempi o come esclusiva sede di campagne comunicative più o meno originali. La ragnatela sociale e virtuale sembra ormai aver catturato, tra i suoi fili sottili, alcune tra le istituzioni più importanti dell’edificio societario, costrette ora a confrontarsi con le nuove formule e i rinnovati approcci dettati dalla condivisione. Due recenti indagini hanno cercato di fare il punto sulla presenza di banche e pubbliche amministrazioni negli apparati social, delineando, accanto alle nuove frontiere raggiunte nel rapporto con il cliente-cittadino, anche gli spazi in cui è possibile intravedere ampi margini di crescita.
SOCIAL BANKING
Ad aver analizzato lo stato del social banking è KPMG, indagando, in particolare, le strategie adottate da un campione di 21 banche, nazionali e internazionali, attive in Italia, che gestiscono il 60% degli asset del settore. Ben l’80% del campione ricorre ad almeno a un social media per gestire la comunicazione con i propri clienti, l’81% ne riconosce l’importanza per il proprio business e il 43% attribuisce un ruolo “fondamentale” a questa presenza. Stando alle previsioni future, pare che tra un anno il 95% del campione sarà presente su Facebook, l’84% su Youtube e il 79% su Twitter. Solo il 17% delle banche riporta sul proprio sito un link al proprio profilo social e se Facebook risulta il network più usato dalle aziende (71%), seguito da Youtube (40%), Linkedin (36%), Twitter (32%) e Flickr (15%), per le banche al primo posto si colloca Linkedin (71%), seguito da Facebook, Youtube (29%) e da Twitter (21%).
Gli istituti bancari sembrano poi usare i social soprattutto come canale strategico di comunicazione e marketing, per promuovere il marchio e particolari iniziative o prodotti commerciali (il 100% del campione dichiara questo scopo). Buona parte del campione (72%) sembra inoltre ricondurre la propria presenza alla volontà di potenziare il coinvolgimento dei propri utenti e il loro senso di appartenenza all’universo valoriale veicolato dalla banca (in una parola, l’engagement). Il 56% ricorre ai social network per migliorare il servizio clienti e solo il 39% per l’innovazione e la creazione partecipativa (crowdsourcing e co-creation) di nuovi prodotti e servizi. Non sono in molti a credere all’importanza di queste piattaforme per la promozione di un’educazione finanziaria (33%) o per l’analisi di particolari trend e del sentiment proprio della clientela di riferimento (sempre 33%), nonostante l’immenso bacino cui sarebbe possibile eccedere. Solo il 17% sfrutta inoltre i network come strumento di social CRM. Al di là delle intenzioni – ci dice KPMG – le reali potenzialità di simili strumenti non sembrano essere sfruttate appieno, se si considera che, malgrado il notevole vantaggio in termini di riduzione dei costi di gestione, in molti casi solo il 7% delle richieste è gestito tramite essi. Certo per un soggetto finanziario decidere di aprirsi al grande pubblico per stimolare il dibattito attorno al proprio operato è qualcosa di molto coraggioso e rischioso, considerando il ruolo centrale attribuito al sistema finanziario nel fomentare una crisi apparentemente insuperabile. Tuttavia, raccolta una buona dose di prudenza, il mezzo deve essere rispettato per quello che è, deve consentire il coinvolgimento costruttivo degli utenti, non dovrebbe fungere da mera cassa di risonanza per proposte commerciali o prodotti finanziari caduti dall’alto.
Non a caso ciò che spinge i clienti ad utilizzare i canali social per entrare in contatto con una banca è innanzitutto – ci dice KPMG – la possibilità di esprimere liberamente le proprie opinioni su servizi e prodotti offerti, mettendo queste stesse opinioni a disposizione di tutta la comunità, grazie alla potente arma della condivisione. Il ricorso ad essi rappresenta poi, in molti casi, una “ultima spiaggia”, che va percorsa quando gli altri canali non sono stati in grado di fornire la dovuta assistenza e che risulta preziosa in un’ottica di contenimento dei costi, non richiedendo alcuna spesa aggiuntiva.
Da un punto di vista organizzativo” – sottolinea Paolo Capaccioni, Partner Kpmg e tra i curatori della ricerca – “la definizione di una strategia social implica la gestione di una serie di aspetti non banali: dall’integrazione degli aspetti IT alla creazione di una cultura social nel top management, dalla gestione delle informazioni che arrivano dall’interazione con la clientela ai profili di risk management”. Ma per le banche – prosegue Capaccioni – “si tratta anche di una straordinaria opportunità per entrare in presa diretta con la clientela e definire un nuovo modello di servizio”.
Per l’indagine Kpmg dedicata al social banking, un importante contributo è stato offerto da Ecce Customer, la soluzione di CRM sociale sviluppata da Decisyon, che monitora in tempo reale l’engagement sociale e la brand reputation sui social media.
Ecce Customer ha analizzato la presenza e i KPI (Key Performance Indicator) su Facebook e Twitter di un campione di 18 banche italiane, con diverse caratteristiche, sia per dimensione (maggiori, grandi, medie, piccole), sia per profilo (banche tradizionali, banche online, operatore postale): Intesa Sanpaolo, UniCredit, Fineco, Mps, Bnl – Bnp Paribas, CheBanca! (gruppo Mediobanca), Webank, IWBank (gruppo Ubi), Ing Direct, Banca Mediolanum, Banca Sella, Banca Popolare di Vicenza, Gruppo Creval, Gruppo Veneto Banca, Ibl Banca, Banca Ifis, Findomestic Banca e Poste Italiane. Tra queste, ben 17 risultano avere una pagina attiva su Facebook, raccogliendo in totale 684.055 fan, e 14 sono dotate di un account Twitter, per un totale di 24.484 follower. Gli account sociali delle principali banche italiane forniscono, dunque, complessivamente, assistenza a 710.000 italiani, fungendo da sportelli virtuali sempre aperti.
In testa alla classifica delle fanpage Facebook più seguite, troviamo Poste italiane, con ben 146.301 fan per la pagina ufficiale e 6.798 per la pagina dedicata a Postepay. Tra le prime posizioni troviamo, accanto ai grandi gruppi bancari, anche banche online e operatori con un limitato bacino di clienti, ma particolarmente attivi sui social: è il caso di IBL Banca, cui va la medaglia d’argento (d’oro, se si considerano le sole banche), con 97.634 fan. Al terzo posto UniCredit Italia, seguita da Che Banca! e da una delle pagine di BNL (BNL People, alla quale si sommano BNL Educare, BNL Job e BNL Mestiere Impresa).
Su Twitter, la classifica vede invece protagoniste assolute le banche dalla forte vocazione online: in cima troviamo FinecoBank (4.718 follower), seguono ING DIRECT Italia (3.263 follower) e Webank (2669 follower).
I follower di Twitter sono meno numerosi dei fan di Facebook perché i canali nella prima piattaforma sono nati solo di recente. Tuttavia la quota di supporter attivi per account è più elevata su Twitter che su Facebook (22,8% di follower attivi ad aprile 2013, contro 1% di fan attivi).
Dal 1° al 30 aprile 2013 – riporta Ecce Customer – sono state circa 5.900 le attività generate dalle banche (circa 200 in media al giorno, weekend compresi), tra post, commenti, tweet e reply: 1.000 su Facebook e 4.900 su Twitter, grazie al vantaggio assicurato dalla brevità dei contenuti postati e dalla rapidità prevista nei tempi di risposta. Gli sportelli sociali sono, inoltre, aperti 24 ore su 24 e sette giorni su sette: su Facebook le banche sono attive dalle 6.00 alle 19.00 (con picchi di attività alle 6.00, alle 9.00 e alle 19.00.), mentre gli utenti lo sono dalle 7.00 alle 21.00 (raggiungendo il picco massimo alle 13.00); su Twitter le banche si attivano dalle 8.00 alle 19.00 (picchi massimi alle 11.00 e alle 15.00), gli utenti dalle 8.00 alle 23.00 (momento di massima attività alle 11.00). Gli account sono attivi anche nel weekend, quando le banche generano il 9% dell’attività settimanale su Facebook e l’1% su Twitter, mentre gli utenti generano l’11% delle attività settimanali su Facebook e il 5% di quelle su Twitter .
La frequenza della pubblicazione di nuovi contenuti nei profili varia da banca a banca: in media su Facebook troviamo un post ogni 20 ore, su Twitter, dove i tempi sono più rapidi, incontriamo un tweet ogni 12 ore.
I termini che i fan delle pagine Facebook maggiormente hanno usato sono: conto, carta, codice, poste, devo, sapere, possibile. La lista lascia intendere come i clienti considerino i social, nel rapporto con la banca, quale canale alternativo di customer care (nonostante tale funzione, come abbiamo visto, sia sottovalutata dagli istituti finanziari).
Le banche italiane – sostiene Cosimo Palmisano, VP Social CRM di Decisyon – “attraverso i propri account Facebook e Twitter, mostrano consapevolezza della valenza strategica e del potenziale, ancora inespresso, delle loro pagine dei social media. Per questo hanno stabilito linee editoriali diverse che vanno dall’intrattenimento (UniCredit Champions), al posizionamento (Superflash.it), al customer care (Intesa Sanpaolo Servizio Clienti) fino ad arrivare al job recruitment (BNL). Si nota in ogni caso una forte propensione dei fan/follower ad utilizzare il canale social come strumento di caring per la richiesta di risoluzione problemi e di informazioni sui prodotti finanziari”.
Le tendenze rilevate, osserva ancora Palmisano, dovrebbero condurre gli istituti bancari a strutturare dei team trasversali con competenze di marketing, comunicazione e customer care, che si occupino della presenza sui social. “Twitter sarà oggetto di sempre maggiori investimenti e continuerà a crescere più velocemente di Facebook” – azzarda infine – “ma troverà la sua naturale collocazione come strumento prevalentemente giornalistico, legato ad eventi istituzionali quali sponsorizzazioni, informazioni, start-up”.
SOCIAL PA
La pervasività del fenomeno e la crescente propensione degli italiani verso i social network hanno imposto, dunque, anche alle banche di comprendere come nel prossimo futuro la competizione si svolgerà su canali di questo tipo, che necessitano di un approccio particolare e di competenze nuove, capaci di garantire la trasparenza comunicativa e di prevenire i rischi per la reputazione. Una simile consapevolezza, pur presente, sembra ancora molto lontana dal trovare un riscontro effettivo nell’approccio social adottato dalle pubbliche amministrazioni italiane. A quasi due anni dalla pubblicazione delle linee guida del Ministero della Funzione Pubblica, si nota ancora una scarsa presenza e uno scarso seguito per comuni e regioni sulle piattaforme di social network, una limitata propensione al dialogo e una bassa capacità di coinvolgimento. A rilevarlo è stato Blogmeter, grazie allo strumento Social Analytics, con un’indagine quali-quantitativa sulle performance dei comuni capoluogo di provincia e delle regioni nelle piattaforme Facebook e Twitter, presentata al Forum PA 2013.
Per quanto riguarda i comuni, solo il 37% ha un account su Twitter e il 48% ha una pagina Facebook. Soltanto otto regioni su venti sono presenti su Facebook, contro le nove su Twitter.
Il comune che raccoglie il maggior seguito è Torino, che può vantare ben 68.000 follower su Twitter – seguito a grande distanza dai comuni di Napoli (circa 18.000) e Firenze (circa 13.700) – e poco meno di 25.000 fan su Facebook, seguito dai comuni di Modena (poco più di 14.000) e Genova (circa 13.400).
Tra le regioni, la Lombardia svetta su Twitter con poco più di 12.000 follower, seguita, a poca distanza, dal Piemonte, mentre su Facebook la medaglia d’oro va alla Puglia, con poco meno di 17.000 fan, seguita da Lombardia ed Emilia Romagna.
Blogmeter evidenzia come le PA utilizzino due modi distinti e prevalenti per realizzare la propria presenza sui social media: alcune preferiscono dare maggiore spazio a notizie sulla città e alle informazioni di pubblica utilità (modalità di servizio), altre cercano di coinvolgere i cittadini attraverso elementi ludici e visivi (modalità display), sfruttando al meglio le possibilità offerte dai mezzi
Con riferimento alla capacità di suscitare engagement, tra i comuni, le migliori performance sono realizzate da Milano, che su Twitter fa registrare il maggior numero di citazioni (13.386 in più di sei mesi) – seguita a lunga distanza da Firenze (7.834) e Roma (7.715) – e su Facebook genera a una media di 385 interazioni al giorno, in termini di like, commenti, condivisioni e post spontanei, seguita da Rimini e Modena.
 Guardando alle regioni, a suscitare il maggior coinvolgimento su Twitter è la Lombardia (1.111 mentions), seguita dall’account del Consiglio Regionale del Piemonte (916), mentre su Facebook è l’Abruzzo (pur stimolando soltanto 554 interazioni in un mese).
Nella maggioranza dei casi le Amministrazioni impiegano Facebook e Twitter come estensione digitale dell’Ufficio Stampa, comunicando in modalità broadcast”, evidenzia Vincenzo Cosenza, Social media strategist di Blogmeter. “Capacità di dialogo significa anche rispondere puntualmente e velocemente alle domande poste dagli utenti”. Oggi – prosegue – “su Facebook solo 15 comuni su 57 permettono ai cittadini di scrivere spontaneamente sulla bacheca. Ma quelli che lo consentono presentano bassi tassi di risposta e tempi di reazione agli input dei cittadini molto dilatati”. Solo il comune di Milano – conclude – “fa eccezione con 488 risposte date in 18 ore e 48 minuti”.
Pubblicato su: PMI-dome
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Testate tricolori e social media: ancora poca interazione

Ben 11,5 milioni di interazioni su Facebook e Twitter indagate da Blogmeter allo scopo di comprendere il modo in cui i principali quotidiani italiani gestiscono i social media. Poco sfruttate le foto e gli altri mezzi ad alta capacità virale

Quello del giornalismo in tempo di Web 2.0 è un tema destinato a suscitare un dibattito piuttosto acceso, sul quale, alle opinioni discordanti, si aggiunge la difficoltà nel comprendere una situazione in continuo divenire. Si moltiplicano le competenze richieste alle nuove leve, si diversificano i mezzi, si perdono, allo stesso tempo, alcune originali convenzioni, la passione si trasforma, a volte, in copiaincolla e sfruttamento, i ritmi si plasmano su una notizia dalla vita sempre più breve. Le informazioni si preparano a viaggiare lungo canali molto distanti tra loro, la cui integrazione, seppur auspicabile, non sembra essere così semplice. Qual è, allora, la risposta delle principali testate all’avvento delle nuove dinamiche sociali della rete? Come si relazionano i quotidiani italiani alla massa di potenziali lettori che ha ormai da tempo invaso i diversi social media? A simili interrogativi ha provato a offrire una risposta BlogMeter, attraverso un’indagine presentata lo scorso 25 aprile, nel corso del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia (dal 24 al 28 aprile 2013), da Vincenzo Cosenza, social media strategist di BlogMeter. A commentare i risultati della ricerca, sono intervenuti anche Peter Gomez (ilfattoquotidiano.it), Raffaela Menichini (repubblica.it), Marta Serafini (corriere.it) e Daniele Bellasio (social media editor de ilsole24ore.com).
Sfruttando lo strumento di analisi Social Analytics, sono state messe a fuoco 11,5 milioni di interazioni nei primi tre mesi del 2013, sviluppate da 56 pagine Facebook e 38 account Twitter delle maggiori testate giornalistiche italiane, allo scopo di rilevare le performance sul lato social dell’intero settore e di individuare le principali pratiche di gestione.
Si è partiti dall’analisi della piattaforma leader, Facebook: il numero di fan rappresenta solo il punto di partenza per una strategia di presenza efficace, tuttavia esso ci offre un’importante stima circa l’ampiezza della community di riferimento. In base a questa tradizionale metrica, le pagine analizzate possono essere raggruppate in tre gruppi: vi sono cinque pagine che superano i 700 mila fan, tra le quali in cima troviamo la testata all digital Fanpage.it, con oltre 1,4 milioni di fan, pari a oltre 300 mila fan in più rispetto alla seconda classificata, La Repubblica (1.140.234 fan); al terzo posto Il Fatto Quotidiano (897.236), seguito da La Gazzetta dello Sport (857.484) e dal Corriere della Sera (778.034). Al secondo gruppo appartengono le nove pagine che arrivano alla soglia dei 300 mila fan, il terzo raggruppa tutte le altre pagine che si posizionano al di sotto dei 100 mila fan.
Si è passati poi ad indagare il livello di engagement sviluppato da ciascuna pagina, che rappresenta in sostanza la sfida maggiore per ciascun operatore presente nel network. Il total engagement è dato dalla somma dei like, dei commenti, delle condivisioni e dei post spontanei pubblicati dai fan in bacheca. Posizione leader da questo punto di vista spetta a La Repubblica, con quasi 5 milioni di interazioni (4.902.110), seguita da Il Fatto Quotidiano (2.002.230) e da Fanpage.it (1.827.173). Quest’ultima sale al secondo posto se si considera la sola capacità di stimolare le condivisioni, mentre Libero eccelle nel rapporto tra engagement e fan (il cosiddetto Page engagement), riuscendo a sviluppare 186 interazioni per ogni 1000 fan. A sorpresa il quarto posto della classifica del total engagement è occupato dalla free press, con ben 1.523.645 interazioni di Leggo, testata che raggiunge la medaglia di bronzo se si considerano i soli like o i soli commenti.
Altro dato interessante è il livello di engagement per post, cioè la capacità dei contenuti di essere apprezzati e di generare interazioni, viralità. La media del settore si aggira intorno alle 78 interazioni per post, tuttavia La Repubblica distanzia di molto gli altri, ricevendo in media 1.124 interazioni per ogni post; seguono Il Fatto Quotidiano (574 interazioni per post), Il Giornale (316,4), Leggo (244,6) e La Gazzetta dello Sport (190).
Considerando qualitativamente i contenuti, ci si accorge di come le testate tendano a postare principalmente link per rilanciare le notizie e portare dunque traffico al proprio sito web. Meno utilizzate invece le foto e nessuno sembra utilizzare le funzionalità multimediali aggiuntive offerte da Facebook (come album, video o sondaggi). Il paradosso è che sono proprio le foto – com’è facilmente intuibile – il contenuto in grado di essere maggiormente virale; non a caso sono accompagnati da immagine i due post che hanno suscitato, nei tre mesi di indagine, il numero più elevato di interazioni: la prima, dalle file del Corriere della Sera, raffigura la salita al soglio pontificio di Bergoglio (23.392 like, 14.712 condivisioni e 1.215 commenti, per un totale di 39.319 interazioni), la seconda è la raffigurazione un po’ simbolica, apparsa sulla bacheca de La Repubblica, di un fulmine sulla cupola di S. Pietro nel giorno delle dimissioni di Papa Benedetto XVI (11.595 like, 19.743 condivisioni e 1.168 commenti, per un totale di 32.506 interazioni).
Le performance dei quotidiani su Facebook sono state poi riassunte in una “Engagement Map”, che mostra sull’asse delle ascisse il numero di fan, nell’asse delle ordinate il total engagement (like, commenti, share e post spontanei) e nell’ampiezza della bolla il numero di post scritti. Tale schema permette di individuare quattro quadranti: il primo in alto a destra è costituito dai “leaders”, cioè da coloro che hanno saputo raccogliere un gran numero di fan e un buon livello di engagement (La Repubblica, Il Fatto Quotidiano, Fanpage.it, seguiti da Corriere della Sera, La Gazzetta dello Sport e Leggo). Il secondo in basso a destra è rappresentato dai “fan collectors”, cioè dai giornali che sono riusciti a raccogliere un buon numero di fan, ma senza sfruttare la viralità del mezzo (L’Unità, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Tuttosport ). In alto a sinistra troviamo gli “engagers”, coloro che hanno ancora pochi fan, ma sono capaci di sviluppare un livello di engagement superiore alla media (Il Messaggero, Il Giornale, Libero, The Huffington Post), dunque con buone potenzialità di sviluppo nel prossimo futuro. La maggior parte delle testate si colloca nel quadrante in basso a sinistra, formato dai ritardatari in termini di fan e di coinvolgimento, i cosiddetti “laggards”.
La disanima si sposta poi su Twitter. Anche qui si parte con la classifica per numero di followers, sempre nella consapevolezza che questa metrica tradizionale, pur non essendo la più rilevante, permette di rilevare il bacino potenziale dell’audience. Al primo posto troviamo La Repubblica, con 787.126 follower, seguita da La Gazzatta dello Sport (728.587), Il Fatto Quotidiano (539.091), Corriere dello Sport (306.712) e Corriere della Sera (275.644).
A conoscere il tasso di crescita maggiore nel periodo analizzato sono La Repubblica, il Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport, con un range che va dai 900 ai 1200 followers nuovi al giorno, grazie agli investimenti pubblicitari e al fatto che gli account di tali testate rientrano tra quelli consigliati da Twitter agli utenti.
Il grado di affezione e awareness (in sostanza l’engagement) su Twitter può essere indagato attraverso il numero di mentions (retweet, reply e citazioni spontanee ricevute). Se La Repubblica e Il Fatto Quotidiano mantengono le posizioni viste nella classifica per followers, il Corriere della Sera guadagna la seconda posizione, La Stampa sale alla quarta e spuntano le testate online (Linkiesta, Il Post e Fanpage.it). Se si considerassero, tra le menzioni, solo i retweet comparirebbe, nella classifica dei top ten, anche Libero, a scapito de Il Giornale.
Per comprendere l’ampiezza effettiva dell’audience, sono stati stimati anche gli autori unici delle menzioni. Al primo posto per singoli utenti che hanno menzionato almeno una volta la testata si trova, anche in questo caso, La Repubblica (72.062 utenti), seguita da Corriere della Sera (49.438) e Il Fatto Quotidiano (39.119). Il confronto tra mention e unique authors permette di capire se si ha di fronte un pubblico ristretto che twitta molto o il contrario: La Stampa, ad esempio, che si collocava all’ottava posizione per followers, sale qui alla quarta posizione, ad indicare degli utenti molto attivi.
L’analisi passa poi a occuparsi dell’engagement sviluppato da ciascun tweet, dato dal rapporto tra menzioni dell’account e tweet prodotti dallo stesso, al fine di apprendere la capacità di ciascun tweet di stimolare retweet e reply, dunque di generare delle interazioni. La media del settore è di sole 3,5 reazioni per cinguettio e la testata che più delle altre riesce a sfruttare la viralità del mezzo è Il Fatto Quotidiano, con 18 reazioni per tweet, seguito da La Repubblica (15), Il Sole 24 Ore (11,2) e Corriere della Sera (8,6).
Un aspetto interessante da valutare su Twitter è l’utilizzo degli hashtag: La Gazzetta dello Sport è il quotidiano che più utilizza questo meccanismo (ricorre soprattutto a #calcio #news e #gds). Il Corriere del Mezzogiono usa spesso #Campania e #Puglia per etichettare le notizie a livello territoriale, Il Fatto Quotidiano #fattotv. Per contro gli utenti preferiscono, nelle interazioni con le testate, ricorrere ad hashtag che fanno riferimento ad eventi raccontati; ciò significa che se le testate riescono a seguire il flusso dell’interazione, possono incrementarne la portata inserendovisi con hashtag pensati proprio in relazione ad eventi particolari.
Ad aver suscitato il numero maggiore di menzioni sono un tweet de La Repubblica in cui vengono riportate le parole di De Gregorio che ammette di aver preso soldi da Berlusconi per fare cadere Prodi (584 retweet e 79 reply per un totale di 663 interazioni) e un tweet de Il Fatto Quotidiano sulla morte di Jannacci (516 retweet e 73 reply, per un totale di 589).
I risultati sono stati anche in questo caso raccolti in una “Engagement Map”, che allo stesso modo evidenzia nell’asse delle ascisse il numero di followers, in quello delle ordinate il numero di mentions e nell’ampiezza della sfera il numero di tweet pubblicati dalle testate. Il quadrante dei “leader” è popolato da La Repubblica, Corriere della Sera (che su Facebook era meno presente), Il Fatto Quotidiano, La Gazzetta dello Sport, La Stampa, Il Sole 24 Ore (ben più forte su Twitter) e Il Post; tra gli “engagers”, troviamo Linkiesta e Fanpage.it, mentre tra i “follower collectors” Il Giornale, Dagospia, Tuttosport e Corriere dello Sport.
Rispetto allo scorso anno si nota una maggiore attenzione delle testate tradizionali ai social media”, commenta Vincenzo Cosenza, “soprattutto a Facebook, che lo scorso anno risultava un po’ snobbato”. La strategia più evidente è quella di mero presidio dei social media: non si punta al coinvolgimento di fans e followers ma si cerca piuttosto di catturarli per indirizzarli al proprio sito web principale. Si tratta certo di un atteggiamento “figlio delle metriche di valutazione vigenti nel settore”, ma che non consente la fidelizzazione del cliente. Le tecniche tipiche delle piattaforme, le sue potenzialità sono, allora, scarsamente sfruttate (poco usare le foto, l’immagine di copertina viene cambiata solo raramente, non si interagisce nei commenti, non si lanciano materiali esclusivi). Su Twitter buona parte del coinvolgimento “viene demandato alla volontaria capacità dei giornalisti di interagire e portare acqua al molino della testata”. Non poca sembra, in conclusione, la strada che il settore informazione deve ancora percorrere per raggiungere un livello elevato di coinvolgimento e stimolo per il lettore attraverso le piattaforme social, ma non pochi sono i segnali che fanno presagire un possibile imminente sviluppo in tal senso.
Pubblicato su: PMI-dome

Le dinamiche della domanda-offerta lavoro in tempi di crisi e Web 2.0

I candidati italiani consultano gli annunci per un posto dietro ai fornelli, ma le maggiori opportunità sono tra le scrivanie di un ufficio. Sempre più importante l’online reputation nel processo di reclutamento, il 12% dei selezionatori ha scartato nominativi dopo aver informazioni raccolto in rete

Quelli attuali non sono certo tempi d’oro per il mercato del lavoro. Pochi giorni fa il Ministero del Lavoro ha evidenziato come, nell’arco del 2012, i licenziamenti – sia quelli collettivi sia quelli singoli, per giusta causa o giustificato motivo – abbiano superato quota un milione (1.027.462), con un aumento del 13,9% sul 2011 (quando furono 901.796) e a fronte di 200 mila assunzioni in meno. Nel solo ultimo trimestre si sono registrati 329.259 licenziamenti, in incremento del 15,1% rispetto allo stesso periodo 2011. Nell’intero 2012 sono stati attivati circa 10,2 milioni di rapporti di lavoro, contro i quasi 10,4 milioni complessivamente cessati, tra dimissioni, pensionamenti, scadenze di contratti e licenziamenti. L’ANSA, elaborando gli archivi Istat, ha, inoltre, rilevato come sia aumentato nel 2012 il numero degli scoraggiati nel Belpaese, stimati in 1,6 milioni di unità. Si tratta di coloro che non cercano più lavoro perché sono convinti di non riuscire a trovarlo. Essi rientrano nella categoria degli inattivi (che non fanno parte della forza lavoro, poiché non classificati come occupati o in cerca di occupazione), che comprende anche studenti, casalinghe e pensionati. Se gli inattivi sono, nel complesso, diminuiti del 3,9%, a causa della crisi, gli scoraggiati sono invece aumentati del 5,3%; tale crescita ha coinvolto soprattutto le fasce d’età più alte (+13,3% tra i 45-54enni e +23,1% tra i 55-64enni) e le donne (+8,6%, giungendo a quota 1 milione 96 mila unità). Tra gli scoraggiati, 1 milione e 150 mila ha un’età compresa tra i 35 e 64 anni (+10,1%).
In un contesto così drammaticamente mutato, si rinnova la struttura stessa del gioco domanda-offerta lavoro e si evolvono, di conseguenza, i processi di reclutamento. Su questi ultimi si sono, in particolare, concentrate due interessanti indagini, promosse recentemente da due realtà che basano la propria intera attività sul cercare di far incontrare esigenze lavorative con posti vacanti. I risultati possono aiutarci a comprendere meglio la portata del cambiamento in atto.
INDAGINE SUBITO.IT
Subito.it – il famoso portale di annunci per la compravendita e il lavoro – ha evidenziato, a inizio 2013, un’inattesa crescita nelle richieste di personale, pari al 17% rispetto a inizio 2012. Parallelamente sale, tuttavia, anche il numero degli annunci di candidati alla ricerca di lavoro, che raggiungono quota 200mila, registrando un +37% sul 2012. Finisce così per accentuarsi lo scarto tra candidature spontanee e posizioni aperte: se a febbraio 2012 le prime superavano le seconde del 134%, nello stesso periodo di quest’anno la percentuale sale al 175%.
Un ulteriore scostamento si rileva anche dal punto di vista qualitativo, con riferimento alle posizioni aperte e quelle invece più ambite da chi è in cerca di occupazione: le maggiori opportunità (52%) sono nell’ambito del “lavoro d’ufficio” (responsabili commerciali e agenti di vendita, specialisti IT, programmatori, grafici, manager e operatori di call center) e, a seguire, nel campo del turismo e della ristorazione (7%), infine nel commercio o all’interno di vari negozi (6%); per contro le oltre 670 mila ricerche di lavoro (in crescita di 24 punti percentuali sul 2012) sembrano più orientate ai fornelli. I candidati italiani recuperano le proprie tradizioni gastronomiche e ambiscono primariamente ad una professione nel settore Food & Beverage o nella ristorazione: il 16% circa di coloro che navigano su Subito.it alla ricerca di lavoro aspira alla posizione di chef/cuoco (27,50%), aspirante tale (5,57%), barman (21,15%), pizzaiolo (20,38%) o, ancora, pasticcere, gelataio, fornaio, lavapiatti e maître di sala.
Al secondo posto tra le figure più ambite troviamo quella dei collaboratori domestici, che occupa il 13,4% delle ricerche di occupazione, suddivisa tra le posizioni di badante (52,13%), dama di compagnia (0,44%), baby sitter (29,19%), colf/domestico (16,51%) e dog sitter (1,30%). Quest’ultima categoria è stata, in particolare, oggetto di ben 2500 candidature spontanee (quasi la metà distribuite, nell’ordine, tra Lombardia, Lazio e Piemonte), trasformando quella che nasce come passione in una vera e propria professione.
In terza posizione troviamo gli aspiranti autisti (7%).
Gli aumenti individuati possono essere in parte spiegati con “la crescita dell’utilizzo di Internet che, nel periodo considerato, è stata di circa il 7% (dati Audiweb)” – come ha sottolineato l’Amministratore Delegato di Subito.it, Daniele Contin – e che ha imposto agli utenti un’evoluzione nei modelli di fruizione del mezzo. I segni più riflettono, dunque, una tendenza più generale, ciononostante è importante notare come “a fronte di una contrazione generale del mercato” del lavoro, la Rete venga sempre più considerata come “strumento immediato e affidabile di ricerca di opportunità professionali e di business, sia dal lato della domanda che dell’offerta”.
L’analisi di Subito.it si spinge poi all’individuazione di alcune differenze di ordine territoriale. Assumendo una prospettiva regionale, si nota una sostanziale omogeneità nella distribuzione delle opportunità professionali: al primo posto per numero di posizioni aperte si colloca la Lombardia (16%), subito seguita da Campania (13%) e Lazio (11%). Le sproporzioni più elevate tra offerte di lavoro sul sito e annunci dei candidati (a sfavore, come abbiamo visto, delle prime) si hanno in Sardegna (310%), in Sicilia (270%) e in Piemonte (229%), mentre quelle più basse si rilevano in Umbria (88%), Calabria (79%) e Basilicata (73%).
Dal punto di vista provinciale, la posizione di cuoco o chef è in assoluto la più ambita ad Ancona, Genova, Palermo e Trieste. Quella di autista è la più ricercata a Milano (11%, seguita da badante al 10% e cuoco al 5%), a Roma (10%, seguita da cuoco al 7% e segretaria al 6%) e a Firenze (14,5%, seguita da badante al 5% e operaio al 5%).
A Torino si cercano soprattutto lavoro come badante (13%), operatore specializzato (12% tra operai, muratori, elettricista, saldatori, fresatori, serramentisti, imbianchini) e autista (7%). Qui chi offre lavoro si orienta invece più sul personale specializzato in ambito IT o vendite.
A Palermo le aziende cercano poi soprattutto personale qualificato per lavori “di ufficio”, mentre i potenziali candidati aspirano a fare il cuoco (9%), la badante (8%) e, a pari merito, il baby sitter e l’autista (6%).
A sorpresa, il pizzaiolo è una delle posizioni più ambite in laguna: a Venezia è al terzo posto tra le più ricercate (6%) e a Padova addirittura al secondo (8%).
INDAGINE ADECCO ITALIA
Sempre più il Web assume, quindi, un ruolo di primo piano nella dinamica dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro e sempre più le relazioni sociali costruite online sembrano influire sulle probabilità di trovare un’occupazione. Avere una rete ricca e integrata di rapporti, tanto nell’offline quanto nelle diverse piattaforme di social network, permette di incrementare il proprio “capitale sociale integrato”. Ciò significa avere la possibilità di allacciare nuove relazioni con persone di status superiore, di rafforzare, allo stesso tempo, la frequenza e la stabilità dei legami già esistenti e, di conseguenza, di intercettare più facilmente tutte le informazioni utili a trovare lavoro. Tale capitale sociale integrato viene ormai considerato un aspetto fondamentale da parte dei responsabili risorse umane, incaricati del processo di reclutamento.
È questa una delle principali evidenze emerse nell’indagine 2013 “Il lavoro ai tempi del #socialrecruiting e della #digitalreputation” condotta sotto forma di sondaggio online da Adecco Italia, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, tra novembre 2012 e febbraio 2013. Giunta alla terza edizione, la rilevazione ha inteso far emergere il ruolo che i legami personali hanno, in tempo di Web 2.0, nella ricerca di una posizione professionale. A essa hanno partecipato 13.283 candidati e 479 selezionatori, dei quali si è cercato innanzitutto di costruire un identikit.
I responsabili HR hanno un’età distribuita in modo piuttosto omogeneo tra le diverse fasce, con una prevalenza di 36-45enni (37%), e risiedono prevalentemente al Nord (73%, contro il 15% che risiede al Centro e il 12% al Sud). Quest’ultimo dato riflette il fatto che molte aziende abbiano il proprio dipartimento HR a Milano, soprattutto quando si tratta di realtà di grandi dimensioni. Singolare, a tal proposito, è l’evidenza che la maggior parte dei responsabili intervistati (57%) appartenga a grandi aziende (con più di 250 addetti), nonostante il tessuto imprenditoriale italiano sia composto in prevalenza da PMI; ciò potrebbe, in parte, essere dovuto allo svolgimento online del sondaggio, dunque dalla potenziale esclusione da parte delle realtà meno digitalizzate.
Tra i candidati prevale la fascia dei 26-35enni (36%), con un 21% di giovanissimi (18-25enni) e un 25% di 36-45enni; bassa risulta la percentuale degli over 45 alla ricerca di lavoro (15%), probabilmente a causa della modalità online del sondaggio. Anche la maggior parte dei candidati si trova al Nord (ma il tasso di concentrazione è meno elevato, essendo pari al 54%, contro il 19% situato al Centro e il 27% al Sud).
Sia tra i responsabili HR sia tra i candidati, la presenza di donne e uomini è pressoché omogenea, con una leggerissima prevalenza di donne.
L’utilizzo dei social network è molto diffuso tra i selezionatori che vi ricorrono per uso personale e professionale nell’88% dei casi (percentuale che sale al 94% se si considerano anche gli utilizzi come azienda). Meno rilevante è invece l’uso di questi strumenti per la ricerca di lavoro da parte dei candidati (53%), nonostante il 99% di essi vi ricorra in generale, anche per altri scopi. Più nel dettaglio, Linkedin sembra essere il canale privilegiato dei recruiter per trovare nuovi profili, con il 42% delle preferenze, seguito da Facebook (29%) e da Twitter (9%), mentre tra i candidati la ricerca di lavoro in Rete avviene prevalentemente attraverso i siti di lavoro (94%), le App (39%) e Facebook (30%); solo il 26% usa Linkedin e solo il 5% Twitter.
Quali sono i vantaggi che derivano dall’utilizzo di questi canali online? Per chi è alla ricerca di un’occupazione, questi risiedono nella possibilità di trovare un maggior numero di offerte (44%), poi nell’opportunità di dare maggiore visibilità al proprio CV (38%) e di trovare offerte di lavoro più interessanti (32%) specialmente all’interno delle pagine aziendali; solo il 16% considera l’importanza nel creare relazioni professionali e solo il 6% è interessato a monitorare in questo modo la propria reputazione online. I responsabili HR ricorrono invece agli strumenti di recruiting online principalmente per allargare il bacino dei candidati (16%) e verificare la completezza e la solidità dei CV ricevuti (16%), oltre che per trovare profili più mirati (15%), per informarsi sulle relazioni professionali del candidato (14%) e per controllare i contenuti da questo pubblicati (10%).
Adecco passa poi ad analizzare la valutazione che selezionatori e candidati danno circa l’utilità di alcune piattaforme online. In linea con le proprie prassi fruitive, i primi apprezzano principalmente Linkedin (78% valutazioni positive) e i siti di matching (72%). I candidati mettono invece al primo posto per utilità i siti (70%) e al secondo Linkedin, che, nonostante raggiunga solo il 29% delle valutazioni positive, conquista comunque una posizione di estremo rilievo, che non trova corrispondenza nelle scelte di utilizzo prima descritte: in sostanza chi cerca lavoro considera Linkedin più utile di Facebook (29% contro 20%), ma sfrutta primariamente – e paradossalmente – quest’ultimo come canale per la ricerca.
Stando a quanti un lavoro l’hanno trovato, la formula più efficace per trovare un posto è quella di utilizzare un mix di differenti strumenti che comprenda in primo luogo gli annunci online (40%), le agenzie per il lavoro (34%) e la rete di parenti e amici (32%).
Per il 50% dei responsabili risorse umane i social media hanno reso più facile la ricerca di candidati e il 34% ha effettivamente utilizzato questi strumenti  per assumere. Per contro il 75% dei candidati sostiene che i social non sono stati d’aiuto e solo un misero 2% dice di aver trovato lavoro esclusivamente attraverso essi (su un 30% che ha inviato la propria candidatura e un 8% che è stato in seguito contattato), ma – a giudicare dalle precedenti risposte – ciò potrebbe dipendere da un uso scorretto e poco ragionato del mezzo.
La forza di questi strumenti risiede soprattutto nel potere delle relazioni. Il 50% di chi ha trovato lavoro attraverso i social network dispone di una rete sociale ricca, contro il 27% di chi lo ha trovato tramite i centri per l’impiego, il 30% di chi si è rivolto alle agenzie per il lavoro e il 33% di chi si ha sfruttato reti sociali tradizionali (amici e famiglia). Usare queste piattaforme semplicemente per recuperare nuovi annunci rappresenta un’operazione piuttosto sterile; la vera utilità sta nella possibilità di allargare e rafforzare la propria rete di contatti professionali. “Questi risultati sono molto interessanti”, ha commentato Ivana Pais, docente di Sociologia economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, “perché mostrano il valore delle relazioni che si stabiliscono e si alimentano attraverso la Rete. In particolare, l’uso di social network si rivela molto efficace nella fase di ricerca di un lavoro in quanto consente di facilitare i flussi informativi tra persone già in contatto tra loro, di entrare in relazione con persone chiave nei processi selettivi e di abbattere alcune barriere comunicative rendendo più diretta e veloce la comunicazione”.
L’importanza della digital reputation viene comunque percepita sia dai recruiter sia dai candidati. Il 70% di questi ultimi verifica le informazioni personali che circolano online “googlando” il proprio nome, lo stesso fa il 77% dei recruiter con i nominativi dei candidati. Due sono, infine, i dati che hanno fatto particolarmente discutere: il 12% dei selezionatori dichiara di aver escluso dei candidati proprio per le informazione reperite su di essi in Rete; il 5% sostiene di aver chiesto al candidato di accedere al proprio profilo Facebook, con una evidente lesione della privacy (pratica confermata però solo dall’1% dei candidati).
“Il problema è che con la carenza di lavoro che c’è, i recuiter si trovano ad avere una sovrabbondanza di profili validi, e la presenza sui social media e il loro uso corretto diventano un ulteriore filtro per scremarli”, ha spiegato Silvia Zanella, Marketing e Communication Manager di Adecco Italia. “Quello che infastidisce di più è la mancata corrispondenza fra ciò che si scrive sui profili social e il Cv in mano al selezionatore; molti fingono, esagerano…”. Curare i propri profili può rivelarsi, allora, utile anche ai fini di una possibile assunzione. Ciò non significa scadere nell’autopromozione smaccata, al contrario ogni voce digitale deve essere comprovata da fatti reali. Condividere, partecipare, allacciare nuovi rapporti permette di curare la propria online reputation, con effetti benefici anche nell’offline.

 

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La promozione virtuale impone la cura della propria identità reale

Alcune recenti indagini dimostrano come gli utenti dei principali social network interagiscano con i propri contatti replicando di fatto i modelli fruitivi propri della loro quotidianità, rendendo sempre più sfumati i confini tra virtualità e realtà

Identità virtuale cercasi. Solida, credibile e, soprattutto, sopportabile.

Pare questi siano tempi particolarmente duri per i maghi di age- e genderswitching, per chi ama, insomma, fingersi qualcun altro, in un eterno – a volte spassoso, altre volte dannoso – carnevale virtuale. Gli utenti dei network sociali, sempre più disincantati, non sembrano, nelle proprie scelte di condivisione, cercare un approccio generalizzato, ma, al contrario, privilegiano quelle relazioni che, in un modo o in un altro, possiedono per loro un qualche legame con la propria personale quotidianità.

Alcune recenti indagini hanno mostrato come si sia assottigliato il confine tra mondo reale e mondo digitale, teorizzando una sostanziale compenetrazione tra le due e una singolare manifestazione del concetto di “realtà aumentata”: la simulazione sottesa all’utilizzo dello strumento web muta, allora, la propria essenza e si fa realtà essa stessa; la rete diventa uno spazio sociale in cui si realizzano delle pratiche fruitive legate, in primo luogo, all’universo di appartenenza e all’identità reale degli attori coinvolti, con delle conseguenze che devono inevitabilmente essere prese in considerazione da chi si occupa di comunicazione e marketing online.

In un articolo pubblicato sulla rivista dell’Accademia Nazionale delle Scienze Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences) sono stati riportati i risultati di uno studio condotto da alcuni ricercatori della Harvard University che ha inteso indagare quanto le similitudini rilevate tra profili “amici” sui social network siano da ricondurre all’effetto cosiddetto “virale” dei contenuti veicolati e quanto dipendano, invece, da altri fattori. Ad esser stati presi in esame sono i comportamenti e le abitudini di duecento studenti di college, seguiti su Facebook per quattro anni di vita accademica, dal 2006 al 2010.

Viene confermata l’importanza del network virtuale nell’avvicinare persone che hanno una certa affinità di pensiero e di passioni, come avviene, del resto, anche al di fuori dell’ambito digitale. Tuttavia pare molto improbabile ai ricercatori di Harvard che possano essere mutuati gusti, interessi e preferenze dei propri amici digitali, se non inizialmente condivisi.
Si inverte, dunque, il processo: le vicinanze tra profili non sarebbero conseguenza dell’amicizia virtuale, ma ne costituirebbero la causa. Stando a tale interpretazione, inoltre, sarebbe necessario abbandonare l’idea di piattaforma aperta, inclusiva e potenzialmente in grado di connettere chiunque, per ripiegare, al contrario, su una visione ghettizzante del mezzo, che vede confermata la segmentazione sociale ed economica propria della vita reale.

Alcune critiche sono state avanzate circa il metodo utilizzato per l’indagine, basato sull’utilizzo dei dati segnalati come preferiti nelle schede informative personali dei profili analizzati e non anche sui contenuti postati, forse maggiormente rappresentativi delle reali inclinazioni dei soggetti. Allo stesso modo alcuni sostengono la fondamentale importanza dei network sociali – ai fini di una qualunque campagna marketing – come strumento di data mining, a prescindere dalla loro forza virale. Tuttavia l’esito delineato dalla ricerca, frutto di un canale istituzionale, non può essere ignorato da chi giornalmente spera nel contagio virale e sociale di un proprio messaggio, magari di velata natura commerciale o funzionale alla creazione della brand identity.

A risultati in parte simili conduce anche una recente indagine di NM Incite, la società di ricerca fondata dalla Nielsen e dalla McKinsey, attiva nella raccolta dati e consulenza marketing; tale indagine (titolata “State of Social Media Survey”) ha cercato di circoscrivere i fattori che spingono gli utenti dei social network ad accettare o cancellare qualche profilo dai propri contatti e le motivazioni che portano alla creazione stessa di un proprio profilo sociale. Si è scelto di analizzare – per un periodo compreso dal 31 marzo al 14 aprile 2011 – un campione rappresentativo composto da 1.865 individui adulti e utenti di social media, intendendo, con questo termine, chiunque sia solito condividere informazioni e partecipare a discussioni sul web, tramite Facebook, Twitter e altre piattaforme di social networking.

Veniamo ora ai risultati: in media un utente di Facebook possiede 130 contatti e, in linea con la tendenza evidenziata, le principali motivazioni che spingono gli utenti ad aggiungere qualcuno ai propri amici sono la conoscenza reale della persona (82% di preferenze) e l’esistenza di amicizie comuni (60%). Al terzo posto le questioni di lavoro – l’11% chiede o accetta il legame sociale per l’esistenza di un legame di collaborazione effettivo o per sfruttare la conoscenza a livello professionale – mentre l’attrazione fisica influenza solo l’8% del campione nella scelta di accettare o meno l’amicizia. Smentiti, dunque, tutti i luoghi comuni che vedono nella virtualità di questi mezzi un luogo privilegiato per l’approccio sociale e l’estensione a non finire della propria rete reale di amicizie. In penultima posizione, con il 7% ciascuna di preferenze, troviamo la volontà di incrementare le proprie conoscenze, la qualità della foto di profilo visualizzata (una versione contemporanea della cosiddetta “prima impressione”, che, in questo caso, pare non essere così importante) e la prassi di accettare la richiesta di amicizia da chiunque provenga. Infine un misero 4% si dichiara influenzato nella scelta dal numero di contatti rientranti nella cerchia di chi ha avanzato la richiesta.

La ricerca ha poi analizzato le motivazioni che spingono a chiudere un contatto virtuale su Facebook: anche in questo caso in testa alla classifica si collocano la scasa conoscenza nella realtà della persona (41%) e la pubblicazione di commenti considerati offensivi (55%) e, dunque, potenzialmente lesivi della propria social identity. Al terzo posto (36%) troviamo il tentativo di vendere qualcosa, a conferma dell’impossibilità di utilizzare i network sociali a scopi puramente commerciali e della necessità, al contrario, di identificare nuove forme di diffusione dei messaggi aziendali. Nel 23% dei casi, poi, la rottura avviene perché non si riesce più a sopportare i commenti tristi e depressi postati in bacheca dal contatto, nel 20% per mancanza di interazione effettiva con esso e nel 14% per un eccesso di messaggi politici.
Dovrebbero riflettere su questo dato, in particolare, i molti personaggi della sfera politica impegnati nella discesa in campo social, in particolare quelli meno conosciuti, che non possono contare sulla visibilità mediatica per strappare un’amicizia: per incrementare i propri consensi, la tecnica potrebbe, forse, essere quella di alternare, ai messaggi di stampo prettamente politico, quelli di natura più personale, relativi ai gusti e alle abitudini quotidiane, messaggi che – volenti o nolenti – raccolgono maggiormente l’attenzione di chi abita i network sociali.

Una rottura o un divorzio nella vita reale costituisce la causa dell’eliminazione per l’11% del campione, mentre per l’8% questa va rintracciata nel mancato interesse che si nutre verso gli amici del contatto che si decide di eliminare.
L’eccessiva invadenza del contatto (modificare troppo frequentemente il proprio profilo e chiedere l’amicizia a troppe persone) conduce il 6% degli utenti ad eliminare lo stesso, mentre la prassi di modificare solo raramente il proprio profilo è quasi ininfluente (3%).

La ricerca ha poi approfondito un altro aspetto riferito alle piattaforme sociali, l’uso, cioè, che gli utenti fanno delle stesse. Pare che i motivi principali di utilizzo siano la necessità di rimanere in contatto con la propria famiglia (89%), la volontà di ritrovare o mantenere vecchie amicizie (88%) e la voglia di cercare nuove conoscenze (70%). Con riferimento alla sfera dell’entertainment e lifestyle, il sondaggio ci dice che il 67% degli utenti si collega ad un social network per semplice divertimento e intrattenimento, il 64% come sbocco di creatività, il 47% per giocare, il 45% per offrire e ottenere informazioni, il 35% per seguire qualche celebrità e il 16% per trovare l’anima gemella.

Per quanto riguarda, invece, l’area prodotti/servizi, ci si connette principalmente per leggere i feedback degli altri consumatori (66%) o per avere informazioni e dettagli in merito ai prodotti prima di procedere con l’acquisto (60%), il 58% lo fa per sfruttare promozioni e acquistare coupon convenienti, il 54% per offrire un proprio feedback positivo e il 51% per offrirne uno negativo. Un po’ meno diffuso, invece, è l’utilizzo per motivi di lavoro: il 48% vede nei network un mezzo per mantenere contatti professionali e il 28% un modo per trovare un lavoro.

Vita digitale e vita reale dai confini sempre più sfumati, quindi. Un’amara consapevolezza per chi ha sperato e ancora spera di trovare un riscatto personale nella virtualità: curare la propria quotidianità e i propri rapporti reali sembra essere, in definitiva, la forma migliore di promozione sociale, per ottenere il successo ricercato in rete.

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Facebook apre alle PMI

Sheryl Sandberg, COO del famoso social network, promette una serie di strumenti per incrementare la presenza attiva delle più piccole realtà imprenditoriali

Prima di iniziare la lettura di questo articolo, consigliamo, a quanti di voi si considerino degli audaci utenti del più noto tra i social network, di scorrere rapidamente l’elenco delle pagine su cui avete cliccato “mi piace”: tra un “Io amo viaggiare” e un “Odore della benzina” ritroverete sicuramente anche alcuni marchi noti, delle impronte digitali lasciata da attività imprenditoriali che, in qualche modo, veicolano dei valori ai quali ritenete di appartenere o con i quali vi piacerebbe identificarvi; del resto, il fatto che Facebook venga utilizzato con successo dalle principali aziende italiane ed estere non rappresenta certo una novità.

Affinate poi la selezione cercando di capire quante, tra le pagine che arricchiscono il vostro profilo, siano da ricondursi a delle attività imprenditoriali di piccole dimensioni, includendovi pure quelle facenti capo ad amici e parenti del vostro quartiere, quelle, cioè, per le quali non nutrite particolare interesse, ma che avete incluso per una semplice questione di etichetta sociale. Siamo certi che, a questo punto, la proporzione relativa alla presenza sociale di grandi e piccole realtà si rivelerà a netto vantaggio delle prime.

Eppure ovunque si sottolinea come il tessuto imprenditoriale italiano si fondi sulle piccole e medie imprese; eppure moltissimi sono gli esempi di come la promozione di iniziative e prodotti aziendali su questi canali possa rivelarsi estremamente vantaggiosa; eppure, ancora, la sfida e l’innovazione dovrebbero essere le principali leve su cui puntare, in un periodo storico caratterizzato dall’immaterialità, da un consumo che non implica il possesso di un bene, da una costante volontà di condivisione e coinvolgimento diretto.

Mentre alcuni piccoli imprenditori si interrogano su come poter sfruttare al meglio i media sociali in una gestione rinnovata del rapporto con la propria clientela, la maggior parte è alla ricerca della soluzione più idonea ad impedirvi l’accesso da parte dei propri dipendenti: preoccupati all’idea che si possa perdere del tempo preziosissimo, questi ultimi non si accorgono di come ciò che rischiano di perdere sia, al contrario, un’occasione reale e potenzialmente fruttuosa.
Se è vero, tuttavia, senza voler essere dissacranti, che, quando Maometto non va alla montagna, è la montagna a raggiungere Maometto, è altrettanto vero che il team di Palo Alto ha ben compreso la portata del vantaggio che potrebbe derivare dal cercare di colmare questa lacuna e ha promesso importanti novità per il mondo della piccola e media imprenditoria. Proprio nei giorni in cui la sfida con Google plus – e con la sua apertura grande pubblico – sembra raggiungere il culmine, attraverso l’implementazione di nuove funzionalità pensate per il lato consumer (come le liste intelligenti, le nuove modalità di condivisione e la possibilità di ricevere gli aggiornamenti di persone che non sono nostre amiche, se queste hanno abilitato tale funzione); proprio nei giorni in cui si paventa la realizzazione del progetto “Facebook Music”, una piattaforma per fruire contenuti multimediali; proprio nei giorni in cui – focalizzando l’attenzione sul contesto italiano – la survey “Customer Experience & Social Network”, condotta dall’Osservatorio Business Intelligence di SDA Bocconi School of Managment su commissione di Alcatel-Lucent Enterprise, rivela come il ruolo dei media sociali sia, potenzialmente, di fondamentale importanza nelle strategie aziendali italiane, ma, per molti versi, ancora da esplorare (ben il 20% del campione si è dichiarato convinto, ad esempio, che strumenti come Facebook, Twitter e LinkedIn non aiutino a fare business e solo un 7% utilizza tali strumenti per dialogare con i propri clienti finali); proprio nei giorni, infine, in cui la discussione pubblica italiana ruota attorno alle riflessioni e agli stimoli della Social Media Week milanese; proprio in questi intensissimi giorni, Facebook annuncia un imminente ed organico piano di sviluppo di nuove potenzialità rivolte al mondo delle piccole imprese. Sheryl Sandberg, collocatasi alla quinta posizione nella classifica delle cento donne più potenti secondo Fortune, è dal 2008 chief operating officer di Facebook, giunta con lo scopo di monetizzare le prestazioni del colosso digitale, dopo aver ricoperto la carica di vice president of global online sales and operations a Google. Intervistata da USA Today, la Sandberg ha proposto alcune anticipazioni circa le nuove possibilità di fare business con i social network; si è parlato innanzitutto di 50$ offerti a 200.000 piccole imprese in forma di crediti pubblicitari, un’elargizione che coinvolgerebbe per ora il solo territorio americano ma che, certo, lascia presagire importanti attività di sostegno internazionale in tal senso. “Il mio sogno è molto semplice”: “ogni piccola impresa dovrebbe usare Facebook per il suo business. Non ci fermeremo fino a quando questo non accadrà”. “Crediti di questo tipo possono permettere degli ottimi sviluppi”, poiché “con 50$ le aziende più piccole possono raggiungere ogni singola persona che intendano raggiungere almeno una volta, per poi far crescere il proprio business a partire da questo”.

Il punto di forza su cui puntare sembra essere la semplicità veicolata dal social network, che permette ad un’azienda di farsi conoscere e di promuovere la propria attività con costi e tempi notevolmente inferiori rispetto a quelli propri di strategie più tradizionali; esso, inoltre, assicura alle aziende una certa visibilità, potendo contare su un parco utenza potenziale già presente all’interno del network, e garantisce, di conseguenza, un notevole traffico rivolto al proprio sito, agevolando le complesse strategie di Search Engine Optimization pensate per far salire di posizione il proprio sito web nelle serp dei motori di ricerca.

Stando a quanto riportato dalla Sandberg, 9 milioni di piccole imprese americane, su un totale di circa 30 milioni, utilizzano regolarmente Facebook per instaurare delle conversazioni e connessioni con la propria comunità di utenti o per tramutare i clienti da latenti ad effettivi.

Facebook mette a disposizione delle imprese molti strumenti e funzionalità gratuite, grazie alla presenza di pagine personalizzabili e integrabili a tutti gli altri canali promozionali, comunicativi e commerciali utilizzati; alcune di queste imprese hanno iniziato anche a realizzare delle campagne a pagamento di inserzioni su Facebook, per cercare di incrementare la propria attività, tuttavia le intenzioni delle menti economiche che governano l’infrastruttura digitale sembrano voler superare questi esili risultati.

Greg Sterling, un analista di Opus Research, sottolinea come siano proprio le imprese più piccole a presentare le maggiori remore nell’inserirsi in questo circuito a pagamento, probabilmente perché non hanno abbastanza tempo da dedicarvi, forse semplicemente perché preferiscono accontentarsi dei servizi gratuitamente offerti: “Facebook ha un enorme potenziale monetario a livello pubblicitario”, “ma in questo momento le piccole aziende non capiscono la necessità di spendere del denaro, hanno la loro pagina libera e sono soddisfatti di questa”. I crediti di 50$ potranno, allora, essere d’aiuto in tal senso, invitando le imprese “almeno a provare”, incentivandole nell’intraprendere questa strada per la prima volta, al fine di scoprirne le reali potenzialità: interazione diretta con i clienti, innovative campagne di marketing virale, aumento delle vendite e della credibilità.

Quella dei social non è certo una strada facile per le piccole realtà, poiché impone un esposizione diretta dell’impresa e dell’universo che la circonda, rendendola spesso, per questo motivo, anche più vulnerabile, più facilmente oggetto di critiche e lamentele. Si rende necessaria la destinazione di importanti risorse interamente dedicate, capaci di dare una risposta immediata alle esigenze degli utenti e, ancor prima, di comprendere la reale portata di tali esigenze.
A tal proposito è interessante citare i risultati di una ricerca dal titolo “Cosa vogliono gli utenti dalle pagine aziendali di Facebook?”, realizzata da Lorenzo Amadei e Claudia Zarabara, referenti dell’area social media marketing della Fondazione vicentina CUOA, e svoltasi completamente online: studiando il mezzo dal punto di vista degli utenti e non delle aziende, i due hanno cercato di indagare quali siano i valori ricercati e richiesti in una pagina aziendale, valori che non possono non essere presi in considerazione da una qualsiasi attività di comunicazione social. “L’aspetto cruciale che emerge dalla nostra ricerca – hanno commentato Zarabara e Amadei – è rappresentato dalla necessità di una comunicazione corretta, che coinvolga l’utente/fan, che gli riconosca l’importanza di aver associato il proprio nome a quello della pagina, che gli riconosca correttamente ruolo e intelligenza. L’utente, infatti, non gradisce messaggi troppo o esclusivamente commerciali, mentre cerca/chiede un dialogo trasparente e diretto”.

Più di otto persone su dieci hanno affermato di essere fan di almeno una pagina aziendale, scelta spesso per effetto virale (il 75% lo diventa su suggerimento di amici); nel 72,8% dei casi a spingere a legarsi ad una pagina aziendale è l’interesse personale, nel 55,6% dei casi è la volontà di essere informati rapidamente, nel 48,4% è l’interesse professionale, nel 31% il senso di appartenenza. Tra i motivi che, al contrario, spingono un utente ad abbandonare la pagina aziendale, vi sono i troppi messaggi, al 64,7%, i messaggi troppo o solo pubblicitari (49,6%), i messaggi ripetuti troppe volte (41,5%), le notizie non interessanti o utili (40,1%) e i messaggi non tempestivi (28,2%); anche l’aspetto etico è sentito da alcuni, dato che il 25,8% del campione dichiara di essersi distaccato a causa di azioni dell’azienda che non si condividono.

Il canale sociale impone un cambiamento di approccio, veicola le azioni imprenditoriali ad un livello valoriale con il quale far identificare l’utente, impone un abbandono di logiche utilitaristiche e una chiara manifestazione della propria identità di impresa. La speranza è che i nuovi strumenti previsti da Palo Alto sappiano realmente aiutare le imprese nell’intraprendere questa nuova esperienza e non si risolvano in una semplice – quanto inutile per il nostro tessuto imprenditoriale – speculazione.

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Marketing sociale: quando un “like” diventa virale

Un rapporto di comScore sottolinea la potenziale diffusione dei messaggi veicolati dalle pagine Facebook tra gli amici dei fan e impone una riflessione circa le nuove frontiere del marketing

Non serve un intuito particolare per rendersi conto di quanto rilevante sia ormai diventata la presenza delle piattaforme di social network all’interno della rete, presenza che non può non essere presa in seria considerazione da una valida attività di promozione aziendale, relativa a prodotti o servizi offerti.

Le possibilità offerte da questi canali sono moltissime, prime fra tutte quelle di far conoscere la propria azienda, di veicolare visite sul proprio sito web principale e di migliorare la propria reputazione. Tali canali possono rappresentare, in sostanza, un nuovo strumento pubblicitario per far parlare il proprio marchio e l’universo di valori ad esso riferito, ma, perché ciò avvenga, essi devono essere integrati in una politica di web marketing adeguata, che imponga una riformulazione dei tradizionali approcci. Il primo punto da tenere ben presente quando si decide di intraprendere questa affascinante strada è che essa richiede tempo e sforzi per ottenere dei risultati che possano dirsi significativi: a differenza di un sito web, un canale sociale non può rimanere invariato per molto tempo, ma impone aggiornamenti costanti e richiede delle competenze particolari, come la predisposizione al contatto diretto con la clientela; i contenuti devono essere diversificati, in relazione alle peculiarità del mezzo utilizzato e della clientela potenziale che si desidera raggiungere; è importante cercare di incuriosire i visitatori, magari attraverso le funzionalità multimediali messe a disposizione, in modo che si riesca a stimolare la conversazione attorno alla propria attività imprenditoriale; fondamentale è, poi, la capacità di rimanere in costante ascolto degli utenti, rispondendo prontamente ad eventuali domande, commenti e, soprattutto, critiche. Due nuove discipline si sono sviluppate attorno a questa attività di promozione all’interno dei social media, il Social Media Optimization (SMO) e il Social Media Marketing (SMM), e l’impostazione che le contraddistingue si appoggia su quelle che Marco Maltraversi – rifacendosi a Jason Jantsch – definisce le quattro C: Contenuto, Contesto, Connettività, Community (M. Maltraversi “SEO e SEM, Guida avanzata al Web Marketing”, 2011, p. 338).

A tal proposito, una recente relazione dal titolo “The power of Like”, frutto della collaborazione tra comScore e Facebook, si è occupata della natura e della frequenza dell’accesso ai contenuti generati da alcuni brand sul famoso social network; tale relazione è basata principalmente sui risultati ottenuti nel mese di maggio 2011 da comScore Social Essentials (un servizio di misurazione basato su un panel di 2 milioni di utenti), ma include anche le rilevazioni della piattaforma di analisi interna a Facebook. Con un pubblico statunitense pari a 160 milioni di visitatori al mese (circa 3 su 4 utenti della rete) e con una percentuale di tempo trascorso pari al 90% del totale di tempo trascorso su tutte le piattaforme simili, Facebook – sottolinea il rapporto – risulta sicuramente il social network dominante nell’attuale contesto temporale. La sua evoluzione è stata a dir poco impressionante, dato che molte persone a digiuno di conoscenze informatiche si sono avvicinate al web al solo scopo di utilizzare Facebook: la potenza del passaparola, la forza dei legami sociali, il fascino del pettegolezzo da portinaia.

Da quanto emerge, Facebook avrebbe ridefinito non solo il panorama dei media digitali, ma, nel percorrere questa strada, sarebbe arrivato a modificare radicalmente anche le modalità e l’entità di diffusione dei messaggi pubblicitari: brands e consumatori vivono ora in un rapporto dialettico diretto, formato dalla condivisione di contenuti, notizie e feedback; la novità maggiore, tuttavia, si riscontra a livello di viralità nella trasmissione dei messaggi, accelerata dalla possibilità data agli utenti di condividere informazioni sul brand con i propri amici.

Le pagine fan rappresentano lo strumento principale del marketing su Facebook, usate per promuovere i propri prodotti, servizi e la propria attività: è possibile scegliere tra oltre sessanta categorie da cui iniziare a creare la pagina e, ovviamente, ai fini dell’ottimizzazione sui motori di ricerca, è necessario completare tutte le informazioni richieste, così da renderla unica e più interessante. Le numerose applicazioni disponibili permettono una ulteriore personalizzazione e l’attenzione deve essere posta anche nella scelta del nome da dare alla pagina (e alla vanity URL corrispondente, possibilità, questa, offerta dopo che si hanno raggiunto almeno 25 fan), che apparirà come title e come H1 nel codice sorgente e, una volta scelto, non potrà essere cambiato. Da martedì 26 luglio i responsabili del social network hanno messo a disposizione una pagina dedicata esclusivamente alle imprese di piccole, medie e grandi dimensioni (per ora solo in lingua inglese), che intendano utilizzare questo canale per incrementar il proprio business: in un contenitore unico sono state fornite e organizzate tutte le indicazioni relative alle possibilità offerte per gestire al meglio la propria presenza e reputazione. La scelta in direzione di un rafforzamento del rapporto tra Facebook e aziende potrebbe non essere, tuttavia, del tutto causale: essa nasce in risposta alla chiusura, da parte di Google+, di alcuni profili aperti dalle imprese sulla nuova piattaforma, e rientrerebbe, quindi, in un piano di controffensiva al consenso di pubblico avuto dal social network di Google.

Se da una parte si innalzano le aspettative delle aziende per simili potenzialità, dall’altra crescono le loro preoccupazioni per le difficoltà nel riuscire a sfruttare a pieno le funzionalità di questi media emergenti: in uno studio condotto dalla Harvard Business Review solo il 12% delle imprese esaminate ha dichiarato di essere utente effettivo di social media e solo il 7% si è detto capace di integrare davvero tali canali nelle proprie strategie di marketing. Come a dire che il terreno rimane ancora tutto da esplorare.

Il problema principale, ci dicono i promotori del rapporto comScore, sta nel fatto che i metodi tradizionali di valutazione della social activity d’impresa si sono concentrati su conteggi statistici relativi all’incidenza di questo tipo di contenuti pubblicitari e, ad un livello successivo, sulla sua categorizzazione in positivo o negativo, senza considerare la misura o la composizione dell’audience che ha ricevuto quel contenuto. Un simile approccio prende in considerazione il punto di vista dei soli creatori del messaggio e prescinde da una reale comprensione dell’entità di distribuzione. Al contrario un approccio come quello usato nel rapporto, basato sull’estensione e la frequenza dell’audience, sull’effetto del messaggio nell’audience, offre al brand la possibilità di delineare il profilo dei vari pubblici raggiunti con diversi tipi di contenuti pubblicitari e di capire il reale impatto di questi contenuti, permettendo, di conseguenza, l’integrazione con le altre parti del marketing mix.

Per questo motivo, nell’improntare una qualsiasi strategia di penetrazione nel canale, bisogna considerare il fatto che ci sono due fondamentali pubblici destinatari della comunicazione aziendale: i fans del brand (quelli che hanno esplicitamente cliccato sul “mi piace” della pagina riferita al brand), che sono i più facili da raggiungere con azioni dirette, e gli amici di questi fans, che constituiscono un potenziale incrementale di pubblico. Questo significa che quando l’azienda lancia un messaggio può sperare di contare non solo su un effetto diretto ai propri fans, ma anche su un effetto secondario tra i loro amici, che spesso sorpassa l’entità di diffusione tra i soli fan.

Veniamo ora ad alcuni dei dati più rilevati evidenziati nel rapporto: il 27% del tempo trascorso dagli utenti su Facebook è dedicato alla visualizzazione di homepage e, in particolare, dei news feed (la colonna centrale della home page, in sostanza “un elenco sempre aggiornato di contenuti delle persone e le pagine di cui sei seguace su Facebook”); il 21% è rivolto, invece, alla visualizzazione dei profili; il 17% a sfogliare gli album con le foto dei propri amici; il 10% è destinato all’utilizzo di applicazioni e il restante 25% è occupato da tutte le altre possibili attività.

Da ciò deriva che gli utenti tendono ad informarsi circa le ultime novità del brand principalmente attraverso i newsfeed, piuttosto che aprendo direttamente la pagina relativa: da una parte questo permette la moltiplicazione della visualizzazione, che si estende anche agli amici dei fan (si parla di 34 persone in più per ogni fan che segue un brand), dall’altra l’aggiornamento dei newsfeed potrebbe essere troppo veloce perché venga visualizzato e questo in relazione al numero di amici posseduti. ComScore ricorda anche un ulteriore limite nella diffusione delle informazioni attraverso Facebook: in media un messaggio pubblicato da un utente raggiunge il 12% dei suoi contatti, a causa di una formula matematica, chiamata EdgeRank, che seleziona i profili sui quali apparirà l’aggiornamento di status, a partire da particolari parametri. Si rende quindi necessario un aggiornamento costante dei propri post, pur evitando di creare noia e disturbo agli utenti, eccedendo nella quantità (la conseguenza potrebbe essere l’abbandono del nostro profilo aziendale da pare di un utente infastidito).

Il rapporto ha poi focalizzato la propria attenzione sulle pagine di tre fra i maggiori marchi statunitensi, Starbucks, Southwest e Bing, cercando di quantificare l’effetto di moltiplicazione del messaggio in esse veicolato. Ne deriva, ad esempio, che gli amici dei fan visitano il sito della marca di riferimento più spesso di quanto non faccia l’utente medio della rete.
Uno stesso brand solitamente aggrega profili demografici e comportamentali piuttosto eterogenei, indicando la necessità, appunto, di strategie di marketing del tutto nuove.
Il valore di un fan, conclude allora comScore, risiede in tre punti fondamentali: nell’incremento della forza e della fedeltà nel rapporto tra brand e fan, nello stimolare il comportamento d’acquisto di quest’ultimo e nella possibilità di influenzare i suoi amici.

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Google Plus entra nella cerchia del Web

Il nuovo network di Google introduce numerose novità a livello di funzionalità ed approccio, inaugurando quella che si preannuncia essere una vera battaglia tra piattaforme a colpi di social

“I would like to have an invite to google+. When is it going to be open?”; “oh ragazzo fortunato… non è che per caso hai inviti per #googleplus?”; “anyone want a Google+ invite?”; “Ma chi devo conoscere per avere un invito a #googleplus?”; “I’m looking for an invite to #google+ plz!”; “is there anyone who can #invite me to #GooglePlus?”; “I’ve got access to #GooglePlus now 🙂 it’s amazing, so cool.. Anyone needs an #invitation? ;)”.

Sono questi solo alcuni dei numerosissimi “cinguettii” che, contenenti l’hashtag #googleplus, hanno popolato nell’ultima settimana il social network Twitter: un perfetto esempio di trasversalità mediatica; un sintomo di schizofrenia comunicativa digitale, direbbe qualcuno; un simbolo, in definitiva, dell’agitazione che attualmente anima il popolo dei social network per l’avvento del nuovo fenomeno che va sotto il nome di Google plus+.

Dopo i flop di Google Buzz, Google Wave, e Googl Orkut (popolare solo in Sud America), il colosso di Mountain View c’ha riprovato e lo ha fatto con un prodottino che a molti è sembrato un buon cocktail dei principali canali social attualmente in auge nella Rete.

Ad una home fatta a tre colonne, molto simile a quella di Facebook – come del resto buona parte della struttura sottesa al nuovo network – si aggiungono alcune particolarità che denotano, in fondo, il tentativo di compiere un salto di qualità (il tempo dirà se in positivo o in negativo), imparando, forse, dai tentativi pregressi propri e dei propri competitors. Innanzitutto la possibilità aggiuntiva di condividere, attraverso i post, la propria precisa posizione geografica anche da PC e non solo da mobile. Il “+1” al posto del tasto “like”, che si estende a qualsiasi risultato di ricerca all’interno del motore, conquistando una sezione appositamente dedicata. La visualizzazione completa, nella stessa pagina, di tutte le foto dei propri contatti, con possibilità, ovviamente, di rendere visibili solo le foto che rispondano a particolari criteri di selezione (le proprie immagini possono, inoltre, essere modificate tramite alcuni filtri predefiniti). I videoritrovi (Google Hangouts), accessibili direttamente senza dover scaricare alcun programma e ai quali possono partecipare fino a dieci persone contemporaneamente; con questo sistema “gli incontri casuali entrano per la prima volta nel Web”, sottolineano i suoi ideatori: “non sarà il teletrasporto, ma poco ci manca”. La sezione Spunti (Sparks), che permette di ricevere regolarmente i feed di notizie e video riguardanti alcune categorie da noi scelte, per guardare, leggere e condividere tutto ciò che potrebbe essere di nostro interesse: un approccio del tutto nuovo alla condivisione via web, che cerca di incentivare la comunicazione attiva degli utenti, stimolando “passivamente” l’originarsi della stessa, malgrado alcune riserve siano state avanzate circa i criteri di selezione delle notizie, non sempre congruenti alla reale sete informativa dei fruitori. La facoltà di aggiungere unilateralmente contatti, senza bisogno della loro accettazione (funzione mutuata da Twitter), ma semplicemente inserendoli in delle “cerchie”. Queste ultime, le cerchie, rappresentano, in definitiva, la novità più rilevante, che interviene risolvendo, almeno in parte, le problematiche di privacy lamentate sugli altri circuiti.

A tal proposito, gli ideatori del nuovo sistema devono certo aver avuto ben presenti le brillanti osservazioni fatte, in tempi tutt’altro che sospetti, dal sociologo tedesco Georg Simmel, secondo il quale la società andrebbe intesa come l’insieme di tutte le interazioni formali che ogni singolo individuo produce; compito della sociologia o – per usare una terminologia più attuale – delle nuove piattaforme virtuali sarebbe, allora, quello di indagare le forme concrete con cui si presentano tali interazioni, i modelli attraverso i quali le persone si associano fra di loro e interagisco. Da questa considerazione deriva l’idea che l’individuo appartenga a delle “cerchie sociali”, delle strutture, cioè, fondamentali per lo sviluppo dell’azione sociale; tali cerchie, da strette e concentriche quali erano un tempo, si son fatte sempre più larghe e solo parzialmente sovrapposte, imponendo, di fatto, una tensione verso la realizzazione individuale: la differenziazione delle cerchie implica il passaggio dall’omogeneità all’eterogeneità, dall’uniformità all’individualizzazione, dall’assimilazione alla differenziazione.

Il sistema di relazioni presente in Google+ sembra proprio rifarsi alla “grammatica” di vita sociale studiata da Simmel. Dal diventare “amici”, al “seguire”, fino all’“entrare in una specifica cerchia sociale”, l’evoluzione più attuale del social networking digitale passa attraverso quello che pare a molti essere un recupero della propria individualità, intendendo con tale termine la padronanza nella scelta di cosa condividere con chi. Si riduce l’ansia da prestazione, dettata dalla necessità di compiacere in egual misura differenti personalità; ci si riappropria delle molte “maschere” con cui si è soliti muoversi nella vita quotidiana, quella stessa vita che Erving Goffman assimila alla rappresentazione teatrale, tesa tra ribalta, retroscena e ruoli differenti (cfr. “La vita quotidiana come rappresentazione”, E. Goffman).

In realtà, una simile funzionalità era già prevista in Facebook, ma pare non abbia ottenuto, in sostanza, un forte riscontro nell’utilizzo, se non limitatamente a quella ristretta cerchia (appunto) di persone – blogger, programmatori, comunicatori, giornalisti, investitori – attente ad ogni nuovo stimolo virtuale, a maggior ragione se funzionale ai propri obiettivi professionali; ed è proprio su questa èlite digitale che, sostengono alcuni (forse a torto, forse a ragione), farà colpo il nuovo network di Google, poiché per essi «l’idea di spendere ore nella tassonomia di centinaia di propri contatti è utile ed eccitante. Porta ordine nella loro vita caotica», come sostiene Matteo Lenardon in un articolo dal titolo piuttosto significativo “Perché tua mamma non userà Google+”.

Sia vera o meno una simile previsione, per il momento pare non placarsi – l’abbiamo visto – l’assalto mediatico alla novità sociale, dettato, quasi sicuramente, dal meccanismo di apparente esclusività del circuito, aperto solo a chi viene invitato a parteciparvi, e dalla conseguente curiosità che si viene a creare. Si aggiunga poi che, in seguito ad un numero di richieste considerato “folle”, lo stesso accesso ad invito è stato bloccato, accogliendo, quindi, solo in parte le richieste delle persone invitate e incrementando notevolmente l’aspettativa di quanti sono restati fuori. Per rendere l’idea del fermento in tal senso della rete, basti pensare che su eBay sono stati venduti inviti anche a 70 $. Il sistema “ad invito”, ricordiamolo, non è certo una novità per i dirigenti di Mountain View, avendo fatto la fortuna di Gmail qualche anno fa ed essendo stato adottato, con un riscontro decisamente inferiore, anche per Google Wave.

Se Facebook impone di creare una rete basata sull’eterogeneità dei rapporti e la massima condivisione; se Twitter permette di collegare a questa stessa rete chiunque solletichi il nostro interesse, prescindendo da una logica primariamente collaborativa e con funzione forse più informativa, di aggiornamento e assistenza piuttosto che emotiva; se LinkedIn crea relazioni basate sulla fiducia e l’affidabilità; se tutto questo è vero, Google Plus sembra riversare sull’utente la scelta di come e cosa condividere, di comprendere quale sia il perfetto mix tra gli approcci finora proposti nelle reti sociali, facendosi costruttore del proprio edificio relazionale.

Nella situazione attuale non sono presenti applicazioni esterne a Google, tuttavia si è diffusa la notizia secondo la quale l’apertura agli sviluppatori dovrebbe essere imminente: l’attesa è stata, probabilmente, motivata dalla volontà di presentare innanzitutto una versione definitiva del mezzo, che si dimostri capace di superare la fase momentanea di test. Altra indiscrezione riguarda la sicura introduzione di profili business, aperti alle aziende.

Sono stati già posti i primi problemi in tema di privacy, dunque in un terreno sul quale, l’abbiamo visto, si basa la possibile fortuna di Google+. Il giornalista del Financial Times, Tim Bradshaw, ha, infatti, spiegato come la funzione di “resharing” possa in parte ledere le volontà di condivisione degli utenti: «diciamo che un mio caro amico posti una fotografia dei suoi figli nel suo cerchio degli “amici”. Con l’opzione “condividi” presente su ogni post di Google+, possiamo ri-condividre con altri cerchi di contatti ai quali il mio amico non appartiene. Questo vale per qualsiasi tipo di post, non solo per le foto. Se il mio amico fosse consapevole di questo rischio, potrebbe aver disabilitato il resharing usando il menu a tendina che si trova sulla destra di ogni post, ma non sembra che questa opzione sia attivabile prima di aver condiviso il post. Google+, inoltre, per adesso non consente di disattivare il resharing di tutti i post dalle impostazioni».

A questo punto pare che lo scontro tra piattaforme sia inevitabilmente aperto: Facebook blocca Facebook Friend Exporter, il plugin per esportare gli amici su Google+, e propone – solo la prima, a suo dire, di una serie di novità – un nuovo servizio di videochat in collaborazione con Skype; BigG sceglie di non rinnovare l’accordo con Twitter per far comparire i tweet nei risultati delle ricerche; e in ambito business? Chi la spunterà?

Al via, dunque, alle scommesse sui futuri vincitori e vinti…

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Guai a rubare una social identity

Due trentenni esperti di informatica rischiano la galera per aver aperto un profilo su Facebook a nome del ministro Tremonti

Un anno di reclusione. Questa la possibile condanna per i due trentenni, uno dalla provincia di Torino e uno dalla provincia di Firenze, rintracciati e denunciati dalla Guardia di Finanza per furto d’identità.

La gravità della pena preannunciata è dovuta, probabilmente, alle generalità e al ruolo istituzionale della vittima, il ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti. La piattaforma sede del reato, manco a dirlo, il diffuso social network Facebook: il falso profilo creato dai due giovani esperti di informatica era riuscito, in poche ore, a totalizzare ben cinquemila amici – “inutilmente orgogliosi di aver preso contatto con il ministro dell’Economia e delle Finanze”, come scrive la GdF – ed è finito sotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti in seguito ad alcuni post ritenuti sospetti perché “fuori protocollo”.
Le indagini sono state coordinate dalla procura di Roma e hanno coinvolto le forze congiunte del Gat, nucleo delle Fiamme Gialle specializzato in frodi telematiche, della polizia tributaria di Roma e delle tenenza di Pontassieve.

Stando a quanto riportato, i collegamenti alla rete, funzionali all’identificazione virtuale fasulla, sono avvenuti da postazioni diverse, tramite, cioè, connessioni intestate ad aziende per le quali i due lavoravano, o ad amici e conoscenti. Il nucleo frodi telematiche è comunque riuscito a ricostruire ogni singolo passaggio e a risalire all’identità dei due “ladri”, grazie anche alla logica di collaborazione alle indagini adottata dai dirigenti di Facebook, sintomo di una particolare attenzione alle implicazioni social in fatto di privacy.

Di profili palesemente falsi (magari riferiti a personaggi della nostra storia sociale e culturale, come Rino Gaetano, Marylin Monroe, Mike Buongiorno e addirittura Giovanni Giolitti e Giuseppe Garibaldi), di pagine ufficiose e di gruppi non autorizzati se ne trovano moltissimi all’interno dei network virtuali, non stupisce, dunque, una simile prassi, ormai consolidata. Essa rientra in quella serie di fenomeni non propriamente positivi (ma, ovviamente, si tratta pur sempre di giudizi controvertibili) studiati dagli esperti di sociolinguistica e funzionali alla volontà di creare, camuffare, deviare o impreziosire la propria social identity. Ci riferiamo, ad esempio, al code switching (la commutazione di codice, dunque, ad esempio, fingersi fruitori di una lingua diversa da quella madre), legato alla pratica più “ortodossa” delle enunciazioni mistilingue o code mixing; e soprattutto all’age- e gender switching (dichiarare un’età e un sesso diversi da quelli propri); e la lista potrebbe allungarsi con l’infinita serie di “bugie”, più o meno bianche che siano, confinate nei circuiti virtuali e destinate in buona parte alla costruzione di una nuova identità, dunque, in definitiva di un’approvazione sociale o, al contrario, di un rifiuto stesso alla socialità.

Nel caso ad oggetto, certo, la pena è motivata dalla violazione dell’articolo 494 del codice penale ed è, dunque, oggettivamente riconducibile ad una disposizione normativa; rimane, tuttavia, da considerare se questa stessa violazione possa valere nella rete, dove – inutile affermare il contrario – le logiche vigenti, e dunque le conseguenze di simili azioni, sono completamente diverse da quelle reali.

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Sicurezza & PMI: ecco i virus dell’anno

A dominare la classifica i Trojan bancari, mentre Facebook e Twitter sono i network più coinvolti

Si sa, la crisi aguzza l’ingegno. È forse questo il principale motivo per cui il 2010 ha conosciuto un proliferare di virus rinnovati nella forma e nella manifestazione e studiati dai professionisti di Panda Security. Dopo aver ricevuto e analizzato oltre 20 milioni di nuovi esemplari di malware, anche quest’anno l’azienda attiva nel settore della sicurezza informatica ha pubblicato l’almanacco dei viruspiù bizzarri, che non sono stati i più prolifici o pericolosi, ma che semplicemente hanno destato maggiore curiosità”.

Panda Security è “una delle poche multinazionali europee a essere riuscita a posizionarsi tra i protagonisti [mondiali] del mercato della security” grazie alla creazione e allo sviluppo di “soluzioni di sicurezza integrate in grado di combattere efficacemente virus, hacker, trojan, spyware, phishing, spam e tutte le altre minacce provenienti da Internet”, “al più basso costo di gestione possibile”. Fondata nel 1990 a Bilbao (Spagna) da Mikel Urizarbarrena e con milioni di clienti in più di 200 paesi e prodotti disponibili in 23 lingue, l’azienda riassume nello slogan “One step ahead” (Un passo avanti) il proprio vantaggio competitivo, vantaggio fondato sull’“impegno nell’innovazione continua e nel cambiamento”, su “tecnologie di protezione preventiva integrate” “con capacità di rilevamento ed efficienza più elevate rispetto agli altri vendor”, su “un nuovo modello di sicurezza, appositamente progettato per combattere in modo adeguato tutti i nuovi tipi di criminalità informatica”.

Prima di conoscere nel dettaglio la lista dei “premiati” presenti nell’almanacco, non nuoce avere un quadro d’insieme relativo all’attuale stato di infezione virale del web. Stando al report annuale sulla sicurezza stilato dai laboratori della stessa Panda Security, The Cloud Security Company, nel 2010 gli hacker hanno realizzato e diffuso un terzo del totale di tutti i virus esistenti e, in 12 mesi, hanno creato il 34% di tutto il malware apparso finora. L’Intelligenza Collettiva, la nuova generazione di prodotti antivirus usata, che ha studiato e classificato in maniera automatica il 99,4% degli esemplari ricevuti, comprende attualmente 134 milioni di file unici, dei quali 60 milioni sono malware (virus, worm, Trojan e altre minacce). Una buona notizia, tuttavia, pare esserci: dal 2003 i nuovi codici infettivi aumentavano del 100% ogni 12 mesi, mentre nel 2010 sono incrementali del “solo” 50%, quindi la crescita di nuove minacce sarebbe in diminuzione.

A dominare la classifica del malware nel 2010, con una percentuale del 55,91%, sono stati i Trojan bancari, seguiti da virus (22,13%) e worm (10,38%). L’11.6% di tutto il malware raccolto dall’Intelligenza Collettiva è costituito da rogueware (o fake-falsi antivirus), categoria che, pur presente da soli 4 anni, sta creando molti danni agli utenti di tutto il mondo: in sostanza si tratta di un software che, inserendosi nel computer, segnala la presenza di una miriade di virus, in realtà fittizi, e impone l’inserimento del codice d’acquisto di un particolare programma per tornare alla normalità.

A capo, invece, della classifica dei paesi più colpiti vi è la Thailandia, seguita da Cina e Taiwan, con 60-70% di computer infetti, mentre tra le tecniche di attacco più usate troviamo, innanzitutto, quelle rivolte ai social media: Facebook e Twitter sono stati i network più coinvolti, ma si sono verificati attacchi, ad esempio, anche su LinkedIn e Fotolog; gli utenti sono stati ingannati sfruttando il bottone “Mi piace” di Facebook, compiendo furti d’identità per inviare messaggi da fonti fidate, approfittando delle vulnerabilità di Twitter per eseguire codici javascript e diffondendo false applicazioni per deviare la navigazione su siti infetti. Altri metodi usati sono stati gli attacchi BlackHat SEO per l’indicizzazione e il posizionamento di falsi siti web (brillante metafora cinematografica che indica il parallelo tra il classico “cattivo” che nei film western indossava il cappello nero e un posizionatore che non si avvale di tecniche lecite, consentite dalle linee guida dei motori di ricerca, per scalare le serp) e lo sfruttamento di vulnerabilità zero-day (vulnerabilità del “giorno zero”, per le quali, cioè, non è ancora disponibile una patch risolutiva). Mantiene il proprio ruolo da protagonista pure lo spam, nonostante sembri diminuire la percentuale di spam nel traffico mail (nel 2009 era pari al 95%, nel 2010 è scesa all’85%).

Altri metodi, come le presentazioni PowerPoint inviate a catena tra amici, sembrano essere scomparsi, mentre preoccupa il proliferare sul web di kit per sferrare attacchi informatici già confezionati: delle vere e proprie “cassette degli attrezzi” – a disposizione non solo di esperti informatici, ma anche di aspiranti lamer o di criminali comuni con scarsa competenza informatica – la cui relativa semplicità d’accesso e d’utilizzo e la cui efficacia hanno contribuito ad un incremento del loro utilizzo per attività di cyber crime, come rivelano i risultati di un rapporto realizzato da Symantec Corp. e diffusi il 18 gennaio sul sito della stessa azienda statunitense. Stando a tale rapporto, l’uso di questi kit, che permettono di personalizzare le minacce per evitare di essere individuati e per automatizzare il processo di attacco, rappresenterebbe una delle maggiori minacce rivolte alla rete, generando un’economia sommersa di milioni di dollari, e costituirebbe i due terzi di tutti gli attacchi informatici individuati fra giugno 2009 e giugno 2010. “In passato, gli hacker dovevano creare le loro minacce dal nulla. Questo processo più complicato limitava il numero degli attaccanti ad una cerchia ristretta di cyber criminali molto competenti” ha dichiarato Stephen Trilling, senior vice president, Symantec Security Technology and Response. “Al giorno d’oggi i kit di attacco rendono relativamente semplice il lancio di un cyber attacco anche per un principiante. Per questo ci aspettiamo di assistere ad un incremento dell’attività in quest’area e che ci siano maggiori possibilità per l’utente medio di trasformarsi in vittima”.

Il 2010 è stato, inoltre, un anno caratterizzato, oltre che da cyber crimine (malware legato ad un business orientato alla creazione di ritorni economici), anche da due fenomeni completamente nuovi e presumibilmente in costante ascesa: stiamo parlando di “cyber guerra” e “cyber attivismo”. Quest’ultimo movimento è stato reso famoso dai gruppi Anonymous e Operation Payback e ha avuto come obiettivi primari quelli di colpire le organizzazioni che cercano di combattere la pirateria in rete e di supportare Julian Assange, autore di Wikileaks. Malgrado la legislazione mondiale si stia muovendo in direzione di una sempre più severa soppressione di tale forma di protesta, si è pronti a credere che essa sarà, nel prossimo anno, in continuo aumento, proprio per la capacità della rete di assicurare un canale di espressione relativamente anonimo e libero

Tuttavia, nonostante i riflettori degli ultimi mesi del 2010 siano rimasti puntati su Wikileaks e sugli attacchi online condotti dai suoi sostenitori o dai suoi detrattori, “non c’è niente di nuovo nel tipo di attacchi Distributed Denial of Service (DDoS) utilizzati per colpire aziende che si sono dissociate da Wikileaks, come Mastercard, Visa e Paypal”, ha dichiarato Mikko Hypponen, Responsabile dei Laboratori di Ricerca della società di sicurezza informatica finlandese F-Secure. Secondo uno studio della stessa società, la più importante novità nel campo del malware del 2010, e forse dell’intero decennio, è stata, invece, il sofisticatissimo worm Stuxnet, che può arrivare a colpire direttamente i sistemi industriali e a modificare i processi automatizzati, permettendo, così, di provocare danni gravissimi nel mondo reale. “Sfortunatamente – osserva Mikko Hypponen – è probabile che assisteremo ad altri attacchi di questo tipo in futuro”.

Più in particolare, questo worm ha interferito nel 2010 con i processi delle centrali nucleari, colpendo quella di Bushehr, come confermato dalle autorità iraniane. È stato questo l’esito più eclatante di quella che abbiamo definito “cyber guerra”: azioni di guerrilla nelle quali non si riesce a comprendere chi sia l’esecutore e da dove provenga l’attacco, ma dalle quali si riesce a dedurre esclusivamente lo scopo. Altro esempio di tale fenomeno è stato “Here you have”, il worm, diffuso però con metodo classico, creato dall’organizzazione terroristica “Brigades of Tariq ibn Ziyad”, con l’obiettivo di ricordare agli Stati Uniti l’attacco dell’11 settembre e rivendicare il rispetto per la religione islamica, in risposta alla provocazione del pastore Terry di bruciare il Corano.

Sempre secondo lo studio F-Secure menzionato, il 2010 è stato l’anno in cui si è registrato il maggior numero di arresti e condanne per persone ree di aver commesso crimini online: l’Fbi ha arrestato più di 90 persone, sospettate di appartenere a una rete internazionale di criminali informatici e accusate di aver rubato circa 70 milioni di dollari da conti bancari negli Stati Uniti, ottenendo l’accesso ai dati di banking online attraverso messaggi spam infetti. Altri importanti arresti sono stati effettuati nel Regno Unito e in Ucraina.

Oltre agli ulteriori attacchi firmati Stuxnet, un’altra previsione dell’analisi F-Secure pare essere motivo di preoccupazione: “dal punto di vista della sicurezza mobile” – ha affermato Hypponen, “ci aspettiamo di vedere un numero crescente di malware progettato per colpire la piattaforma Android e gli iPhone jailbreak”.

Insomma, da quel gennaio di ben 25 anni fa, in cui nasceva il primo virus della storia dell’informatica, di strada se ne è fatta molta e l’evoluzione è stata notevole. Allora si trattava – è curioso ricordarlo – di un malware piuttosto innocuo, Brain, creato fai fratelli pakistani Basit e Amjad Alvi per punire chi copiava illegalmente i loro software, colpendo direttamente i floppy-disk, unità di archiviazione allora addirittura più utilizzata degli hard disk. I due avevano pure deciso di inserire nello stesso virus i loro contatti, con l’implicita volontà di ottenere guadagno dalle richieste di aiuto degli utenti infetti e con la speranza di venir contattati da qualche big del settore.

Facciamo ora un passo indietro in questa nostra disamina e concentriamo l’attenzione sulle voci presenti nell’almanacco dei virus 2010 pubblicato da Panda Security, elencandole in relazione al riconoscimento ottenuto:

Il dispettoso amante dei Mac.

Titolo vinto da HellRaiser.A, un programma di controllo remoto che colpisce solo i sistemi Mac e, una volta installato sul computer tramite la necessaria autorizzazione dell’utente, prende il controllo del sistema e realizza numerose attività, tra le quali, addirittura, l’apertura del cassettino DVD.

 

Il buon samaritano.

È Bredolab.Y il vincitore (Panda Security ne ha messo a disposizione un’immagine sul proprio profilo flickr), il quale si presenta sotto forma di messaggio da parte di Microsoft Support, richiedendo una nuova patch di sicurezza per Outlook; procedendo con il download, si installerà una falsa soluzione SecurityTool che segnalerà la presenza di codici pericolosi sul sistema e condurrà all’acquisto di una soluzione per eliminarli, soluzione che, inutile dirlo, non giungerà in seguito al versamento del denaro.

 

Il poliglotta dell’anno
Il premio va a MSNWorm.IE, un virus diffuso via Messenger tramite un link che invitava gli utenti a visualizzare un’immagine, in 18 lingue. Al termine della frase troviamo l’emoticon :D, che utilizza, quindi, un codice decisamente universale: date queste premesse, noi avremmo proposto un premio per il forte sentimento di interculturalità.
Oltre ad un’immagine del virus, Panda Security ha pubblicato anche la lista delle diverse manifestazioni dello stesso, che di seguito vi proponiamo:

Español: mira esta fotografia 😀
Inglés: seen this?? 😀
look at this picture 😀
Portugués: olhar para esta foto 😀
Francés: regardez cette photo 😀
Alemán: schau mal das foto an 😀
Holandés: bekijk deze foto 😀
Sueco: titta p? min bild 😀
Danés: ser p? dette billede 😀
Noruego: se p? dette bildet 😀
Finés: katso t?t? kuvaa 😀
Esloveno: poglej to fotografijo 😀
Eslovaco: pozrite sa na tto fotografiu 😀
Checo: pod?vejte se na mou fotku 😀
Polaco: spojrzec na to zdjecie 😀
Rumano: uita-te la aceasta fotografie 😀
Húngaro: n?zd meg a k?pet 😀
Turco: bu resmi bakmak 😀

Il più audace.

Come si deduce da quanto già abbiamo detto, il vincitore è indiscutibilmente Stuxnet.A, virus che, accompagnato metaforicamente dalla nota colonna sonora del film “Mission Impossible” o de “Il Santo”, colpisce i sistemi SCADA (“Supervisory Control And Data Acquisition”, ossia “Controllo di supervisione e acquisizione dati”, per il monitoraggio elettronico di sistemi fisici). Esso sfrutta falle di sicurezza di Microsoft attraverso dispositivi USB per raggiungere il cuore delle centrali nucleari.

 

Il più fastidioso.

Replicando la prassi di quei programmi che, una volta installati, pongono la domanda “Sei sicuro di voler chiudere il programma? Sì – No?”, Oscarbot.YQ mostra di continuo, ogni volta che si cerca di chiudere un programma o di aprire una finestra del browser, la stessa schermata con la ripetizione della domanda, mettendo seriamente alla prova la pazienza degli utenti. Un’immagine è disponibile su flickr.

 

Il worm più sicuro.

A vincere è Clippo.A, con questo nome che ricorda implicitamente “Clippy”, il supporto di Microsoft a forma di graffetta: una volta installato, inserisce una password su tutti i documenti Office, impedendo in qualunque modo agli utenti di aprirli.

Una vittima della crisi.

Vince Ransom.AB, un ransomware (programmi che bloccano il computer e richiedono un riscatto per renderli nuovamente operativi) che, vista la forte competizione e la recessione, “si accontenta” di soli 12 dollari per “liberare” il pc, diversamente da qualche anno fa, quando la richiesta si aggirava attorno ai 300 dollari.

 

Il meno sincero

SecurityEssentials2010 (la falsa versione dell’antivirus, non quella ufficiale Microsoft), sotto la falsa apparenza di adware, avvisa gli utenti di essere stati colpiti da codici pericolosi e conduce loro all’acquisto di un prodotto che fornisca protezione. Il design così convincente, con messaggi e schermate autentici, è stato causa delle 10 infezioni più estese dell’anno. Un’immagine è disponibile su flickr.

A chiusura dell’almanacco 2010, viene citato, infine, l’insetto dell’anno, Mariposa (farfalla in spagnolo), la botnet “estintasi” nel mese di marzo, con l’arresto dei suoi autori, grazie alla collaborazione tra Panda Security, Guardia Civil spagnola, FBI e Defense Intelligence.

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