Internazionalizzazione: la nuova strada verso la ripresa

Il settimo Rapporto UniCredit Piccole Imprese evidenzia come l’espansione verso i mercati esteri rappresenti la principale leva delle PMI italiane per il superamento della crisi

 

Presentata la settima edizione del Rapporto UniCredit Piccole Imprese dedicato questa volta alla “sfida dell’internazionalizzazione quale strategia di rilancio per il Paese in generale e per il sistema delle piccole imprese in particolare”.

Ciò che ne emerge è come sia cambiato, in seguito alla crisi, il modo in cui si considerano le esportazioni, prima semplice “componente dinamica della domanda aggregata italiana”, ora principale mezzo per giungere a quell’accelerazione della crescita indispensabile per la nostra economia, soprattutto se rivolte ai mercati più dinamici dei Paesi emergenti. Nella situazione attuale, in cui “la produzione viene organizzata dalle medie imprese multinazionali su scala geografica più ampia lungo le fasi di filiere produttive globali”, la relazione tra dinamiche globali e dimensione locale è diventata, per le piccole imprese, “più rilevante e allo stesso tempo più fluida”.

L’analisi – frutto di oltre 6.000 interviste rivolte a piccoli imprenditori italiani e clienti UniCredit e di un questionario pensato per oltre 200 Associazioni di categoria e Confidi – si articola attorno a tre filoni che, in maniera interconnessa, approfondiscono quelle che sono le leve a disposizione delle piccole e medie imprese per affrontare l’importante sfida posta dai mercati esteri: la valorizzazione del territorio, l’innovazione e la rete tra imprese.

Viene innanzitutto delineato il contesto congiunturale in cui operano le piccole imprese: tra aprile e maggio 2009 sembrano essere emersi, seppur in misura meno vivace rispetto ad altri Paesi, i primi segnali di ripresa per l’Italia, mentre si osserva un rallentamento di tali segnali nel secondo semestre 2010.

Dal confronto tendenziale del PIL e delle sue componenti si evidenziano, dopo due anni di contrazione, dei ritmi contenuti di recupero per gli investimenti e per i consumi privati, frenati principalmente dalla debolezza del mercato del lavoro e da una disoccupazione che ha conosciuto nel secondo trimestre 2010 un aumento dal 6% all’8,5%. Si conferma invece il contributo positivo delle esportazioni nette, con un aumento delle vendite all’estero del 9,2%, rispetto al secondo trimestre 2009. Si denota sostanzialmente una generale situazione di incertezza, caratterizzata da un unico elemento positivo: “le imprese esportatrici mostrano maggiore solidità, segno che l’esposizione ai mercati internazionali ha probabilmente comportato cambiamenti rilevanti vantaggiosi”.

Dalla consueta indagine UniCredit per la determinazione dell’indice di fiducia delle piccole imprese (quelle con meno di 50 addetti), emerge poi un grado di fiducia maggiore per gli imprenditori che svolgono attività all’estero, con un indice pari a 94, superiore di tre punti rispetto all’indice sintetico 2010 e di ben sei punti rispetto all’indice espresso dalle aziende non internazionalizzate; una correlazione, a tal proposito, si legge anche tra fiducia e intensità dell’internazionalizzazione: l’indice degli imprenditori intervistati cresce notevolmente al crescere della quota di fatturato realizzata nei mercati esteri. In termini generali l’indice di fiducia sintetico scende di due punti rispetto allo scorso anno, passando da 93 a 91, probabilmente a causa,  rivela il Rapporto, del “protrarsi delle difficili condizioni che da più di un anno caratterizzano il contesto dell’economia globale, e che hanno colpito in maniera diffusa tutti i settori dell’imprenditoria”.

Nonostante le dimensioni contenute delle loro strutture organizzative ed operative, emerge come una parte delle PMI indagate abbia saputo presentarsi all’estero facendo leva sul know how specialistico accumulato nel tempo, su una “filosofia di processo improntata alla qualità e all’utilizzo delle reti d’impresa”: non si esportano solo beni e servizi, ma anche veri e propri modelli di business e, per questa via, si rafforza la valorizzazione del patrimonio territoriale e il successo del made in Italy nel mondo (sul quale, si sottolinea, è necessario puntare, creando dei prodotti quasi “su misura” per i clienti esteri).

Dall’analisi si evidenzia poi quanto sia centrale il ruolo della domanda estera, sia rispetto alla domanda del settore privato (che – si ricorda – “probabilmente rimarrà debole a causa della scarsa crescita demografica e dei problemi connessi, anche in termini di redistribuzione del reddito”), sia rispetto alla componente pubblica, “vincolata da necessità di risanamento del debito”. La crescita dell’Italia pare quindi essere vincolata alla capacità delle aziende di esportare e conquistare crescenti quote di mercato, soprattutto nei Paesi emergenti, dotati di più elevati tassi di crescita. Il confronto a livello internazionale rivela come l’Italia sia ben posizionata dal punto di vista dello scambio di beni e servizi, ma rimanga carente sul lato degli investimenti diretti, a causa della struttura produttiva italiana in cui prevale la piccola dimensione.

Altri due aspetti si rilevano dal punto di vista dei processi di internazionalizzazione: “la relazione biunivoca tra innovazione e commercio estero, e la forte connessione esistente tra miglioramento della produttività e rapido diffondersi delle filiere globali”.
Due risultano, allora, nel futuro, le principali sfide per le PMI: il miglioramento del rapporto qualità/prezzo, puntando sulla qualità del prodotto italiano, e la conquista della nuova classe di consumatori benestanti nei Paesi emergenti, grazie alle produzioni di beni di consumo di fascia medio-alta. Per arrivare a questo, occorre una rinnovata attenzione alle strategie di marketing e comunicazione, che consenta di segmentare il mercato di riferimento ed individuare i target più idonei.
Le PMI, ci dice ancora il Rapporto, sembrano aver reagito alla crisi seguendo due principali strategie: un cosiddetto “upgrading qualitativo”, già avviato con la crisi e proseguito con maggior controllo dei costi, e un “upgrading strategico”, ovvero maggiore “sofisticazione del business e un approccio più elaborato ai mercati secondo strategie di marketing-mix”. Ogni singola impresa punta ad ottenere un vantaggio competitivo legandosi al territorio, inteso come patrimonio conoscitivo, produttivo (soprattutto nel settore della manifattura di qualità) e naturale (soprattutto per quanto riguarda il settore agro-alimentare e quello del turismo).

L’indagine conferma poi come i vincoli di natura dimensionale comportino alcune criticità: la “polarizzazione su un numero limitato di mercati di sbocco”e “l’individuazione di controparti commerciali”. Quest’ultima è spesso frutto di iniziative autonome (passaparola tra imprese, ricerca diretta su internet, la partecipazione a fiere di settore…), non del ricorso a soggetti esterni, forse a causa dell’innata tendenza a “fare da sé; importante, allora, è stato e sarà il contributo dell’attività informativa e di consulenza svolta da soggetti specializzati, banche in primis, per accompagnare le imprese nei loro primi passi verso i mercati esteri.

In un Paese in cui l’incontro con gli investitori istituzionali è ancora difficile e a fronte del profondo mutamento nello scenario globale, appare sempre più fondamentale la concertazione tra attori del territorio. Andrebbero incentivati i meccanismi di imitazione tra imprese di diverse dimensioni in modo che “le più grandi siano spinte a valorizzare al meglio le competenze distintive delle più piccole, e le più piccole riescano a sfruttare maggiormente i propri vantaggi competitivi”. Importante è, inoltre, la creazione di reti di imprese, necessaria “a far massa critica e consolidare il posizionamento competitivo sui mercati internazionali”: attualmente esse non appaiono particolarmente sviluppate, prevalendo, da un lato, dei rapporti a carattere locale e perdendosi, dall’altro, i legami storici.

Al mondo delle imprese, duramente colpito dalla crisi finanziaria, l’indagine di UniCredit ha inteso offrire degli elementi di valutazione in merito ai vincoli e alle opportunità proprie di questo momento di transizione. Il Rapporto rappresenta, allora, un “importante momento di riflessione di UniCredit su come gli attori del territorio – in particolare le imprese, le banche e i mediatori sociali, quali Associazioni di categoria e Confidi – possano affrontare e superare in modo cooperativo l’attuale fase, densa di incognite e difficoltà”; esso, inoltre, sembra offrire un fondamentale contributo “all’individuazione delle strategie territoriali volte a promuovere una crescita sostenibile nel lungo periodo per le piccole imprese, che tengano conto dei punti di forza delle economie locali in un’ottica di competizione globale”.

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La strategia di rilancio economico per uscire dalla crisi

Una relazione della Commissione europea presenta lo scenario relativo agli ostacoli che impediscono un accesso libero ed equo al mercato globale

Il 3 marzo 2010 la Commissione europea presentava la propria strategia di rilancio economico per uscire dalla crisi, denominandola Europa 2020 e indicando tre linee prioritarie di crescita da seguire: crescita intelligente (“sviluppare un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione”), crescita sostenibile (“promuovere un’economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva”) e crescita inclusiva (“promuovere un’economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale”).

Obiettivi condivisi e sensati che, tuttavia, non possono esaurirsi nella sola dimensione interna dell’UE, ma che, inevitabilmente, finiscono per coinvolgere l’intero sistema di scambi e investimenti rivolti ai Paesi terzi.

Affinché tali obiettivi si realizzino pienamente, l’Ue deve essere in grado di garantire l’ampia apertura ed equità nelle condizioni di accesso ai mercati globali e questo è tanto più vero se si considera il fatto che la stessa Unione rappresenta “la maggiore potenza commerciale al mondo e la più importante fonte e destinazione di investimenti esteri diretti”, così come si legge nella Relazione 2011 sugli ostacoli agli scambi e agli investimenti della Commissione al Consiglio Europeo (la prima su questa fondamentale tematica). A ciò si aggiunga che, stando alle ultime stime, entro il 2015 il 90% della crescita mondiale sarà generato al di fuori dell’Europa, stime che impongono all’Ue una rinnovata strategia commerciale, caratterizzata da un “approccio più assertivo” e capace di permettere alle imprese europee di accedere ai mercati e di far valere i propri legittimi diritti, partendo da condizioni equilibrate.

Priorità dell’Unione deve diventare, allora, aiutare le imprese ad accedere ai mercati dei Paesi terzi, eliminando gli ostacoli e realizzando un’agenda di negoziazione in un rinnovato spirito di collaborazione tra Stati e imprese, capace di offrire, oltre agli ovvi vantaggi economici, anche un importante contributo alla dimensione esterna degli obiettivi di “Europa 2020”.
“La Commissione – si assicura da Bruxelles – seguirà la realizzazione della suddetta agenda con decisione e fermezza. La Commissione è inoltre determinata a continuare la lotta contro il protezionismo. Proprio perché crede nei vantaggi di un mercato aperto in Europa e all’estero, l’UE deve poter coinvolgere i suoi partner nella realizzazione dei suoi obiettivi, in uno spirito di reciprocità e di mutuo vantaggio”.

Le esportazioni europee potenzialmente oggetto di restrizioni e ostacoli di varia natura ammontano a cifre comprese tra i 96 e 130 miliardi di euro (tra il 9 e il 12% delle esportazioni totali nel 2009), mentre le importazioni UE di materia prime potenzialmente colpite coinvolgono circa 6 miliardi di euro.

Ma quali sono questi ostacoli?
Leggendo la relazione ci si rende conto di come essi non siano, per la maggior parte, collegati ai costi diretti, e quindi alla necessaria riduzione dei dazi applicati alle merci. Certo, gli ostacoli tradizionali di tipo doganale continuano ad esistere, ma le sfide maggiori sono legate ad altre questioni.

Innanzitutto a quella normativa, con riferimento, cioè, ai regolamenti tecnici e alle norme tecniche spesso in contrasto tra Paesi diversi. Talvolta le difficoltà derivano semplicemente da differenze nell’approccio, differenze che riflettono l’evoluzione storica dei Paesi; tuttavia, in molti casi, tali difficoltà (ad esempio quelle legate alle eccessive formalità documentarie richieste) sono frutto di una prassi volta esclusivamente a favorire o proteggere la produzione nazionale: “mentre – sottolinea la Commissione – quest’ultimo problema va affrontato con energia, impegno e decisione, il primo richiede […] una strategia più sistematica, la cooperazione ed il dialogo a lungo termine, per migliorare in particolare la trasparenza e la prevedibilità dei sistemi normativi”.

Le imprese dell’UE partecipano sempre più alle catene di approvvigionamento globale e le differenze di questo tipo aumentano il costo da sostenere per tale partecipazione, riducendo, di conseguenza, la competitività delle imprese locali sull’economia globale.

Un secondo ostacolo riguarda il mercato degli appalti pubblici, mercato sottoposto ad un regime di forte asimmetria, nel quale cioè l’Ue si è dimostrata molto più aperta rispetto ai propri partner commerciali, i quali mantengono una forte chiusura alla partecipazione estera. Nella relazione si ricorda come solo 14 Paesi abbiano sottoscritto l’accordo sugli appalti pubblici (GPA) e come, dopotutto, questi stessi Paesi abbiano negoziato notevoli limitazioni dei loro impegni di apertura del mercato, stabilendo delle soglie minime o delle esclusioni di settori o di entità. Sarà necessario, ricorda a tal proposito la Commissione, esercitare “una forte pressione per ottenere un maggiore accesso agli appalti pubblici, in particolare per quanto riguarda i nostri partner strategici che non hanno assunto impegni reciproci a quelli dell’UE”. Sarà necessario, inoltre, “adoperarsi con maggiore decisione per ampliare gli impegni internazionali, sia nell’ambito delle attuali negoziazioni GPA e l’adesione di nuovi paesi, sia tramite gli accordi di libero scambio negoziati dall’UE o attraverso iniziative bilaterali mirate”.

Un terzo ordine di problemi è legato all’esigenza di tutelare e attuare i diritti di proprietà intellettuale (DPI). In un’economia globalizzata il vantaggio competitivo dell’economia UE è sempre più spesso costituito “dall’elevato valore aggiunto e dai beni e servizi cui si applica la tutela dei DPI” e, di conseguenza, la crescita, l’occupazione e l’innovazione nell’UE sono strettamente legati alla tutela dei DPI, contro la pirateria e la contraffazione delle idee, dei marchi e dei prodotti europei.

Un quarto ostacolo coinvolge l’approvvigionamento sostenibile di materie prime. Le importazioni di materie prime costituiscono circa un terzo delle importazioni dell’UE e, per la produzione e l’esportazione di molti prodotti ad alta tecnologia e più ecologici, l’industria dell’UE dipende in gran parte dalle importazioni di specifiche materie prime. Il ricorso a restrizioni negli scambi di tali merci può, quindi, compromettere la competitività nell’industria dell’UE: stando alle stime relative al 2009, tali restrizioni hanno colpito le importazioni di materie prime dell’UE per un valore di 6 miliardi di Euro. Cina, Russia, Argentina e Ucraina risultavano, in quell’anno, i Paesi ad imporre il più elevato numero di misure, mentre i settori maggiormente colpiti sembravano essere quelli dei prodotti agricoli, dei minerali, delle sostanze chimiche, delle pelli gregge, del legno e dei prodotti del legno nonché il settore dei metalli. Se la produzione di una determinata materia prima è concentrata, poi, in un numero limitato di Paesi, le restrizioni delle esportazioni hanno un notevole impatto sul mercato globale della materia prima in questione poiché spingono gli altri esportatori a proteggere nello stesso modo la propria industria nazionale, scatenando una reazione a catena che fa aumentare i prezzi.

Gli ultimi due settori su cui si concentrano le preoccupazioni della Commissione sono quello dei servizi e quello degli investimenti.

Con riferimento al primo, si ricorda come esso contribuisca per i tre quarti al PIL dell’UE, creando oltre il 70% dei posti di lavoro e realizzando circa il 30% delle esportazioni dell’UE. Si tratta di un settore “in rapida espansione e contribuisce più di ogni altro settore alla crescita economica e all’occupazione a livello mondiale”. In questo ambito l’UE assume il ruolo di leader mondiale, avendo realizzato nel 2009 il 27% delle esportazioni mondiali ed il 25% delle importazioni mondiali. Tuttavia su tale vantaggio competitivo gravano gli ostacoli agli scambi di servizi (che coinvolgono il solo 20% del commercio mondiale), sottoforma di “discriminazione diretta tra fornitori di servizi nazionali ed esteri o di barriere normative che si applicano a tutti i fornitori ma che creano, de facto, ulteriori ostacoli per i fornitori esteri”.

Con riferimento, invece, al settore degli investimenti, si sottolinea come esso costituisca “uno dei fattori principali di promozione della crescita economica, anche per i paesi in via di sviluppo” e come esso sia fondamentale nel garantire l’occupazione nell’UE. Nella fase di globalizzazione attuale è importante mantenere delle catene integrate di approvvigionamento globale, e a tale scopo sono fondamentali gli investimenti esteri diretti (IED). Gli ostacoli agli investimenti esteri sono stati classificati dall’OCSE in tre ampie categorie: “restrizioni alla proprietà estera di capitale azionario”; “procedure obbligatorie di controllo e approvazione che aumentano i costi d’ingresso”; “restrizioni operative quali limitazione del numero di cittadini stranieri che lavorano nelle filiali oppure requisiti relativi alla nazionalità e alla residenza per i membri del consiglio di direzione, restrizioni degli input e regolamenti governativi discriminanti, oppure restrizioni sulla rimpatrio dei profitti”.

La relazione della commissione concentra, inoltre, la propria attenzione sugli ostacoli presenti in sei particolari partner strategici, con delle considerazioni che di seguito cercheremo di riassumere.

Viene presa innanzitutto in considerazione la Cina, che rappresenta “il secondo maggiore partner commerciale dell’UE”, mentre l’UE rappresenta “il maggiore partner commerciale della Cina”. Fonte di beni di consumo a basso prezzo e di fattori di produzione per le nostre industrie manifatturiere, la Cina è diventata il mercato a più rapida crescita per le esportazioni di beni e servizi dell’UE: nonostante la crisi, nel 2009 il valore delle esportazioni era pari a 82 miliardi di euro, con un incremento di 4 punti percentuali rispetto al 2008, mentre alla fine di ottobre 2010 le nostre esportazioni erano salite del 38% su base annua; più in generale, tra il 2005 e il 2010, il livello di esportazione è più che raddoppiato (121%). Tuttavia sussistono numerosi ostacoli che impediscono agli esportatori ed investitori europei di partecipare integralmente alla fortissima crescita economica cinese: misure restrittive nel mercato delle materie prime (dazi all’esportazione e contingenti), che nel 2009 hanno colpito le importazioni UE per circa 1,2 miliardi di euro, pari al 6% delle importazioni totali di tali beni dell’UE; prescrizioni formali più severe per l’attuazione dei DPI delle imprese estere (ad esempio l’obbligo di registrare i propri DPI in Cina), soprattutto di quelle che operano in settori creativi ed innovativi; contesto degli appalti pubblici “incompleto e privo di trasparenza” (positivo, da questo punto di vista, il fatto che la Cina stia negoziando la propria adesione all’accordo GPA); una politica di “innovazione interna” volta a sostenere le imprese cinesi; richiesta di conformità a specifiche norme cinesi e a relative onerose procedure di prova e certificazione da parte di terzi, spesso in contrasto con norme e prassi internazionali; mancanza, infine, di trasparenza e prevedibilità nel settore degli investimenti (soprattutto per quanto riguarda l’ambito delle energie rinnovabili), con un vasto potenziale inutilizzato (gli oltre 5 miliardi di euro investiti in Cina dalle imprese europee nel 2009 rappresentano, in realtà, il solo 3% del flusso totale di investimenti in uscita).

Il secondo Paese indagato è l’India, “una delle economie mondiali a più rapida crescita” (tasso annuo tra +8 e +10%), con un reddito pro capite più che raddoppiato nel periodo compreso tra il 1990 e il 2005. Gli scambi tra UE e India sono aumentati del 31% tra il 2005 e il 2009 (fino a raggiungere gli oltre 53 miliardi di euro nel 2009) e gli investimenti UE in India sono più che quadruplicati dal 2003 (raggiungendo 3,1 miliardi di euro nel 2009). Il potenziale mercato rimane, tuttavia, ben al di sotto delle potenzialità a causa di: ostacoli tariffari e procedure doganali lunghe e complicate; la proposta di nuove disposizioni di sicurezza che impongono requisiti onerosi relativi alle licenze e che influiscono soprattutto nel settore delle telecomunicazioni (ad esempio l’obbligo di sostituire ingegneri stranieri con ingegneri indiani); le recenti misure sulla restrizione delle esportazioni di cotone, con notevoli ripercussioni sull’offerta mondiale del cotone e dunque sul rialzo dei prezzi, visto che l’India è il secondo produttore mondiale di cotone (nonché prima fonte d’importazione di prodotti di cotone per l’UE); politiche che disincentivano gli investimenti esteri, per garantire il massimo vantaggio alle imprese locali; prescrizioni sanitarie e fitosanitarie per le importazioni, che vanno oltre gli standard internazionali ma sono prive di giustificazione scientifica (soprattutto su pollame, carni suine, verdura, frutta e legno).

Con una quota del 4% circa nel 2009, il Giappone rappresenta, poi, il settimo mercato d’esportazione di beni e servizi per l’UE ma, nel periodo compreso tra il 2005 e il 2009, le esportazioni verso il Giappone sono diminuite del 6% – malgrado i dazi siano generalmente bassi – per il persistere di alcuni problemi all’accesso: barriere negli investimenti e negli appalti pubblici, nonostante il Paese abbia sottoscritto l’accordo GPA dell’OMC; difficoltà nell’introduzione di dispositivi medici sul mercato giapponese, per il mancato riconoscimento degli standard internazionali e per le lunghe procedure di omologazione; con riferimento ai servizi finanziari, infine, le preferenze accordate dai regolamenti ai player nipponici a discapito delle compagnie assicurative europee.

Nell’ambito del Mercosur, sono presi in considerazione dalla Commissione altri due soggetti strategici: Brasile e Argentina. Con riferimento al Brasile, si sottolinea come esso rappresenti il decimo partner commerciale dell’UE, con esportazioni di merci dall’UE per oltre 21 miliardi di euro; l’UE rappresenta, invece, il maggiore partner commerciale del Brasile, che effettua con l’Unione circa un quarto dei suoi scambi. Il Brasile è anche il principale esportatore di prodotti agricoli verso l’UE e l’UE è il più grande investitore estero in Brasile; ciononostante l’accesso equo è limitato da tariffe doganali elevare (in media almeno del 12%) e da una nuova legge che ha istituito un margine preferenziale del 25% per beni e servizi locali ed ha riservato ai fornitori nazionali gli appalti di beni e servizi ritenuti di interesse strategico nazionale.

Anche per l’Argentina l’Unione rappresenta il principale investitore estero in Argentina, tuttavia non mancano le restrizioni dovute ad una politica commerciale che ha reagito alla crisi economica incrementando le misure protezionistiche a partire dal 2008. Tale politica ha esteso il sistema di licenze non automatiche (prima riservato ai prodotti tessili, alle calzature e ai giocattoli) ad un’ampia gamma di prodotti, con perdite per gli esportatori europei quantificate in almeno 45 milioni di euro.

Sia in Brasile che in Argentina sono state applicate, poi, limitazioni del trasporto marittimo, che direttamente colpiscono le imprese europee, e misure di restrizione nell’esportazione di materie prime, soprattutto prodotti agricoli (ad esempio le tasse di esportazione per la soia raggiungono in Argentina il 35% e ad esse si aggiungono delle procedure onerose e le lungaggini di registro alla frontiera), pelli gregge e pelli “wet blue” (l’industria dei pellami dell’UE è fortemente dipendente dall’approvvigionamento dal Brasile).

I flussi di scambi bilaterali con la Russia sono cresciuti, ricorda ancora la Commissione, in modo sostenuto fino alla metà del 2008, quando la Russia ha adottato misure unilaterali di restrizione degli scambi in risposta alla crisi economica e finanziaria, allo scopo di proteggere le industrie nazionali. Alcuni dati aiutano a comprendere il danno conseguente nella relazione commerciale: dal 2007 al 2009 le esportazioni di merci dall’UE alla Russia sono passate dagli 89,1 miliardi di euro ai 65,6 miliardi di euro e le importazioni dalla Russia da 144,5 miliardi a 115 miliardi. In particolare gli ostacoli individuati riguardano: aumento dei dazi all’esportazione su molte materie prime, quali legname e cascami di metalli ferrosi e non ferrosi; procedure doganali onerose, comprendenti valutazioni arbitrarie e ricordo a prezzi minimi; pirateria e violazioni sistematiche di brevetti che impediscono l’attuazione dei DPI; politica di investimenti che intende tutelare le industrie nazionali; misure del settore sanitario e fitosanitario non conformi agli standard internazionali e prive di fondamento scientifico.

Gli Stati Uniti, infine, rappresentano il più grande partner dell’UE per il commercio e gli investimenti, con un alto grado di integrazione e reciprocità. Nel 2009 le esportazioni di merci e servizi commerciali dall’UE agli Stati Uniti ammontavano a 322 miliardi di euro (pari al 20,6% delle esportazioni totali UE), mentre le importazioni di beni e servizi dagli Stati Uniti ammontavano a 281,9 miliardi di euro (pari al 17,6% delle importazioni totali UE). I dazi sono piuttosto bassi (in media inferiori al 3%), tuttavia persistono alcuni problemi di tipo non tariffario, come ad esempio, il basso livello di apertura dei mercati degli appalti pubblici, dovuto, in parte, alla portata ridotta degli impegni assunti dagli USA nell’ambito del GPA (pari al 3,2% del mercato statunitense, contro il 15% dell’UE), in parte all’iniziativa Buy American e alle nuove disposizioni discriminanti ad essa legate, in parte, infine, al divieto di acquisti governativi presso le “inverted companies” (cioè imprese passate da una giurisdizione fiscale statunitense a quella di un altro Paese). Un altro problema è relativo alle prescrizioni cosiddette “100% scanning”, che andranno a regime entro il 1° luglio 2012 e che prevedono un controllo totale di tutti i container destinati agli USA, con l’intenzione di abbattere la minaccia terroristica nel traffico internazionale.

Conclude la Commissione la sua relazione augurandosi un impegno proattivo di tutte le parti in causa: “un’azione concertata ai massimi livelli politici può fare la differenza a vantaggio delle esportazioni e degli investimenti delle imprese europee e, in ultima analisi, della crescita e dell’occupazione in Europa”.

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Ultima fase del procedimento di autotutela partito il 9 dicembre

Il Comune di Firenze annulla gli atti amministrativi che hanno portato nel 2006 a sottoscrivere sei contratti in derivati
La giunta comunale di Firenze ha approvato una delibera con la quale si dispone l’annullamento in autotutela degli atti amministrativi che hanno portato alla sottoscrizione di sei dei tredici contratti in derivati firmati nel giugno 2006: pare, infatti, che le verifiche effettuate abbiano fatto emergere importanti profili d’illegittimità, che hanno spinto il Comune ad attivarsi in nome della necessaria tutela alla difesa della finanza pubblica. Stipulati dalla precedente amministrazione Domenici con Dexia, Merrill Lynch e Ubs, i sei swap, frutto di un’unica operazione, dispongono nel loro insieme di un capitale nozionale pari a 177 milioni di Euro, circa il 75% dei derivati di Palazzo Vecchio.

«Questa scelta – ha dichiarato l’assessore al bilancio Angelo Falchettiè un atto dovuto, dopo che l’analisi dei derivati ha fatto emergere possibili illeciti su cui non abbiamo avuto risposte esaustive dalle banche; con questa consapevolezza sarebbe sbagliato stare fermi e continuare a pagare, con il rischio di vedersi poi contestare un danno erariale: finora tra flussi, upfront sui vecchi contratti e pagamenti l’operazione è a pari, ma con nuovi versamenti andrebbe in passivo».

In una nota ufficiale diffusa nel sito del Comune, l’assessore ripercorre le tappe salienti di un percorso scivoloso in cui l’autotutela decisa nei giorni scorsi rappresenta solo l’ultima tappa. Il 12 settembre 2009, a due mesi dall’insediamento della nuova Giunta Renzi, il Comune aveva avviato un’attività di verifica tecnica relativa a tutti i contratti in essere e, già a dicembre dello stesso anno, di fronte all’impellenza dei versamenti annuali, l’amministrazione «ha comunicato alle banche che avrebbe pagato con “riserva di rivalsa”. Nel frattempo ci siamo anche dotati di nuovi software finanziari, che anni fa non esistevano, che ci hanno permesso di sviscerare le variabili contrattuali e analizzarne i dettagli». Ricorda ancora Falchetti come nel marzo 2010 siano stati riportati durante la presentazione del bilancio “profili dubbi sul comportamento delle banche” e come, al termine dell’analisi tecnico-legale, sia stata rivolta agli istituti di credito la richiesta di «aprire un tavolo di confronto e fare partire una verifica congiunta con sospensione dei contratti». In seguito al rifiuto di tale richiesta, l’amministrazione, nel dicembre 2010 ha scelto di avviare un procedimento in autotutela e di sospendere unilateralmente il pagamento che ammontava a 9 milioni di euro (contro i 5 milioni versati a fine 2009). Negli stessi giorni erano anche scattati dei sequestri preventivi da 22 milioni di euro della Guardia di Finanza nei confronti di alcuni istituti di credito (Merill Lynch, Deutsche Bank, Ubs, la francese Natixis, Dexia Crediop e Mps) che avevano sottoscritto derivati con la regione e i comuni toscani.

Perciò «il provvedimento – ha sottolineato l’assessore – è stato adottato a chiusura del procedimento in autotutela avviato il 9 dicembre 2010. La decisione […] arriva al termine di un lavoro durato un anno e mezzo»; «abbiamo analizzato le deduzioni delle banche ma non hanno fornito una risposta convincente».

L’attesa è ora rivolta alle possibili retroazioni delle banche, le quali probabilmente faranno ricorso ai giudici amministrativi contro la decisione presa; tra gli scenari ipotizzabili vi è anche l’eventualità che Palazzo Vecchio richieda alle banche la restituzione dei soldi già pagati con riferimento ai contratti oggetto della procedura di autotutela, pari a circa 10 milioni di euro.
Lo scorso venerdì Moody’s aveva abbassato il rating del Comune di Firenze, portandolo da Aa2 a Aa3, con outlook negativo. Tuttavia Falchetti ricorda che «l’azione del Comune non ha provocato il default, che in genere viene dichiarato dalle agenzie di rating quando si sospendono i pagamenti» e sottolinea come il declassamento disposto da Moody’s sia «la conseguenza della nostra azione tecnico legale, ma la stessa agenzia ha confermato a pieno la solidità finanziaria del Comune di Firenze».
Rimbalzano, infine, le polemiche dei consiglieri del Pdl Marco Stella e Stefano Alessandri, i quali considerano «irrispettoso nei confronti del consiglio il comportamento dell’assessore Falchetti», il quale, prima di prendere una scelta di tale rilevanza avrebbe dovuto «relazionare all’assemblea»: «vogliamo sapere quali sono gli atti annullati, a cosa si riferiscono e quali saranno le ripercussioni per il Comune». «La decisione della Giunta […] conferma in pieno i nostri timori e le denunce fatte da anni», proseguono. «Il Comune di Firenze ha infatti investito 270 milioni di euro in Swap sottoscrivendo 13 contratti in derivati, e ogni anno paga milioni di interessi passivi, senza tenere conto che la scommessa del Comune ha prodotto un mark to market di 55 milioni di euro di perdite». «La decisione – ancora – da parte dell’Amministrazione di “stoppare” i sei prodotti “sospetti” è arrivata dopo aver appreso i risultati di una consulenza “ad hoc” della durata di 120 giorni per 24.957 euro affidata a un avvocato del Foro di Milano. Questo è un altro dato certo, e cioè che la macchina comunale, da sola, non ce l’ha fatta a stabilire la correttezza dell’andamento del debito legato agli “swap”, e comunque la decisione di andare a verificare come stavano le cose è arrivato a oltre un anno e mezzo dall’elezione del sindaco Renzi».

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L’indipendenza dei sindaci delle società

Gli aspetti controversi nel calcolo dell’indipendenza previsto dalle norme di comportamento del CNDCEC
L’indipendenza è certamente un requisito fondamentale per l’attività di vigilanza svolta dai sindaci delle società, permettendo loro di operare secondo un criterio di reale obiettività ed integrità.

A partire dal 1° gennaio 2011 sono entrate in vigore le norme di comportamento varate dal Consiglio Nazionale di Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (CNDCEC) nella seduta del 15 dicembre 2010, con la collaborazione della Commissione per le norme di comportamento degli organi di controllo legale delle società; si tratta di norme che suggeriscono e raccomandano il comportamento professionale da adottare per implementare correttamente l’incarico di sindaco; si tratta, ancora, di “norme di deontologia professionale rivolte a tutti i professionisti iscritti nell’Albo dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili emanate in attuazione del vigente Codice deontologico”; si tratta, infine, di norme che trovano applicazione “nei confronti dei componenti del collegio sindacale di tutte le società salvo che siano applicabili disposizioni di legge o regolamentari che disciplinano specifici settori di attività o mercati regolamentati”.

Il documento che le racchiude è articolato in 34 norme – ciascuna composta da Principi, Riferimenti Normativi essenziali, Criteri applicativi e brevi Commenti – e si occupa delle tematiche più rilevanti nella disciplina del sistema di controllo interno, tenendo conto sia delle modifiche apportate dalla riforma del diritto societario, con il D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, sia delle novità introdotte dal D.Lgs. 27 gennaio 2010 n. 39 che recepisce la direttiva 2006/43/CE in tema di revisione legale dei conti annuali e consolidati.

Data questa premessa, cerchiamo di approfondire quanto enunciato a inizio pagina circa l’importanza dell’indipendenza dei sindaci.

Ci riferiamo, in particolare, alla norma numero 1.4, rubricata “Obiettività, indipendenza e cause di ineleggibilità e decadenza”, nella quale si afferma che “i sindaci devono svolgere l’incarico con obiettività e integrità e nell’assenza di interessi, diretti o indiretti, che ne compromettano l’indipendenza”.

Al di là delle numerosi indicazioni che potremmo collocano sulla linea del principio generale, ciò che è particolarmente interessante è la previsione di un doppio test per calcolare e verificare l’indipendenza finanziaria di un sindaco che svolga anche altre attività a favore del cliente, con la precisazione che “il sindaco può, se lo ritiene, utilizzare limiti maggiormente stringenti”.

In sostanza, si tratta di calcolare il “peso” che ha un cliente sul totale dei compensi annuali di un professionista: i “compensi [del] professionista sulla società o sul gruppo per l’attività di sindaco” (S) vanno innanzitutto sommati ai “compensi [del] professionista sulla società o sul gruppo per attività diversa da quella di sindaco” (C), formati, questi ultimi, “dalla somma delle prestazioni da lui direttamente rese e di quelle prestate dalla rete professionale di appartenenza”.

L’importo totale va rapportato ai “compensi totali [del] professionista comprendenti sia quelli individuali che quelli provenienti dalla partecipazione alla rete” (CT), dunque ai compensi di tutte le attività svolte nei confronti di tutti i clienti.

Se il peso percentuale di un cliente è inferiore o uguale al 5%, l’indipendenza finanziaria non è a rischio, mentre, se si supera questa soglia, occorre accertarsi che l’attività di sindaco sia preponderante, e quindi si passa al secondo test: se il cliente ha un peso compreso tra il 5 e il 15%, i compensi da sindaco devono superare la metà del totale degli importi percepiti da quel cliente; in altre parole si richiede che i compensi da sindaco siano maggiori dei compensi per altre attività. Se, invece, il cliente supera il 15 %, i compensi da sindaco devono superare i due terzi del totale degli importi percepiti da quel cliente, quindi si richiede che i compensi da sindaco siano maggiori del doppio dei compensi per altre attività.

Il meccanismo è perfettamente illustrato nella tabella di seguito riportata, che va “utilizzata eseguendo prima la verifica prevista nella prima colonna e successivamente, se superata la soglia di rilevanza, quella prevista nella seconda colonna”.

Un sistema certo più raffinato rispetto al passato – quando la circolare 1 del 25 gennaio 2005 del consiglio nazionale si limitava a considerare la soglia critica del 15 % – ma che, tuttavia, non ha risparmiato incertezze e dubbi agli esperti di settore.

Un primo quesito riguarda i criteri con i quali determinare i compensi da indicare nel calcolo: secondo i più sarebbe preferibile utilizzare un criterio di competenza e non di cassa, dunque basato sugli importi previsti “da contratto” per lo svolgimento delle diverse attività, ma certo un intervento chiarificatore in tal senso sarebbe auspicabile.

Un secondo aspetto controverso riguarda la possibilità di considerare una nozione di gruppo allargata rispetto alle situazioni di controllo previste dall’art. 2359 del Codice Civile (rubricato “società controllate e società collegate”) per determinare il peso dei compensi derivanti dall’attività di sindaco rispetto all’importo totale percepito dal professionista.

La norma di comportamento del CNDCEC fa, infatti, riferimento non solo alla società in cui si svolge il mandato di sindaco, ma anche al “gruppo” di appartenenza, concetto i cui confini semantici non sono così ben definiti: nella realtà dei fatti esistono società che non hanno rapporti, ma la cui proprietà è concentrata nelle mani degli stessi soci.

Un altro problema è stato rilevato in riferimento alla potenziale situazione in cui vi siano dei compensi straordinari in un particolare anno, legati, ad esempio, alla realizzazione di incarichi particolarmente rilevanti da parte della rete cui appartiene il sindaco. In simili situazioni la mera applicazione del metodo indicato potrebbe portare a dedurre, sbagliando, che l’indipendenza del sindaco sia compromessa; si rendono quindi necessari ulteriori criteri di valutazione, capaci di considerare, magari, l’intero mandato su base triennale, piuttosto che il singolo anno.

Un’ultima questione in sospeso riguarda il caso in cui il sindaco svolga anche la funzione di revisore legale, percependo, per questa attività, dei compensi che devono rientrare nel test. Il dubbio si colloca nel modo in cui tali compensi debbano rientrare: pur non essendo esplicitato, si sarebbe razionalmente portati ad evitare separazioni tra l’attività di sindaco e quella di revisore, poiché si tratta, fondamentalmente, della stessa attività di controllo, che, se posta alla base di due test distinti, potrebbe paradossalmente offrire risultati opposti. Nel calcolo pratico, poi, è più sensato far confluire il compenso per la revisione nella voce S, rispetto alla voce C.

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Arretrati retributivi per l’industria tessile, abbigliamento e moda

La circolare n. 57 del 28/03/2011 precisa che tali arretrati valgono anche per malattia e congedi

Con la circolare n. 57 del 28 marzo 2011, l’Inps chiarisce che gli arretrati retributivi previsti dall’Accordo del 9 luglio 2010 per il rinnovo del C.C.N.L. per l’industria tessile, abbigliamento e moda “sono valutati pure ai fini della determinazione delle prestazioni economiche di malattia, di maternità, di congedo matrimoniale e di integrazione salariale”.

L’Accordo in questione ha, infatti, previsto, tra le altre cose, “la corresponsione a titolo di arretrati retributivi, ai lavoratori in forza alla data del 21 maggio 2010, di un importo forfettario di Euro 40,00 lordi, da corrispondere con la retribuzione del mese di giugno 2010 e da commisurare all’anzianità di servizio maturata nel periodo 1° aprile – 31 maggio 2010”.

La circolare precisa che l’una tantum prevista è ridotta proporzionalmente, con riferimento ai contratti di lavoro part-time, a causa del minor numero di ore lavorative; al fine, poi, di maturale l’una tantum – il cui importo è escluso dalla base di calcolo del trattamento di fine rapporto – sono considerate utili “le assenze dal lavoro per malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, congedo matrimoniale, donazione di sangue intervenute nel periodo 1° aprile 2010 – 31 maggio 2010, che abbiano dato luogo al pagamento di trattamenti economici previdenziali a carico dell’Istituto competente e, ove dovuto, all’integrazione a carico delle aziende”; al contrario non sono considerati utili i periodi di sospensione della prestazione lavorativa senza diritto alla retribuzione (ad esempio a causa di “servizio militare, aspettativa, congedo parentale, cassa integrazione guadagni a zero ore settimanali”).

In merito ai riflessi sulle prestazioni economiche di malattia e di maternità (e su tutte le altre prestazioni a carico dell’INPS conguagliabili con i contributi, come i riposi post-partum, le retribuzioni previste per i donatori di sangue…) erogate nel periodo a cui si riferiscono gli arretrati retributivi in questione, “detti emolumenti non devono essere presi in considerazione nel periodo di paga in cui sono stati effettivamente corrisposti, ma vanno conteggiati nei limiti del pro quota riferito al mese considerato, da computare secondo le regole previste per le mensilità aggiuntive o premi (v. circolare 127 del 17.05.1991 e le altre precedenti ivi richiamate, a cui si deve aver riguardo anche per le modalità di conguaglio)”.

Per quanto riguarda, infine, i riflessi sulle integrazioni salariali (sia ordinarie che straordinarie) erogate nel periodo dal 1° aprile 2010 al 31 maggio 2010, “devono applicarsi le istruzioni impartite in materia di ricalcolo delle prestazioni in argomento con la circolare n. 58 del 05.03.1991”.

 

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