PromovoShop: sfida digitale in un sistema di rete

Grazie alla collaborazione tra Ascom e Visionova, nasce a Brescia il primo “centro commerciale virtuale” che accompagna i commercianti lungo la strada dell’innovazione

PromovoshopIn un periodo caratterizzato da stime costantemente in negativo e da manovre lacrime e sangue, meritano una particolare attenzione tutti quei progetti che – frutto di una logica collaborativa e votati all’innovazione – sembrano offrire uno spiraglio concreto di ripresa per le piccole e medie imprese italiane. È il caso di PromovoShop, il primo “centro commerciale virtuale” nato a Brescia dall’incontro tra Ascom (l’Associazione dei commercianti) della provincia di Brescia e la Web Agency bresciana Visionova.

L’obiettivo è quello di accompagnare i commercianti lungo la strada dello sviluppo tecnologico, affiancando la loro presenza reale a quella virtuale e ponendoli, così, di fronte ad un bacino d’utenza potenzialmente illimitato. Nessuna contrapposizione sterile tra tradizione e innovazione, dunque, ma un passaggio morbido all’online, per sperimentare i vantaggi del canale digitale e di un sistema di “rete”, dove – al di là delle singole individualità aziendali – è l’unione stessa tra i vari professionisti a creare nuove opportunità di business. Un approccio nuovo al mercato, che permette di allargare il raggio dell’azione imprenditoriale, in termini sia spazio-temporali sia formali. Da una parte, infatti, i negozi virtuali potranno ottenere visibilità oltre i propri confini territoriali e saranno aperti 24 ore su 24, dall’altra essi potranno sfruttare innovativi strumenti di vendita, promozione e fidelizzazione.

Guardando ai trend più recenti, è facile comprendere come avere una presenza in rete sia qualcosa di assolutamente imprescindibile per qualunque azienda che intenda fare commercio e che voglia rafforzare la propria presenza nell’offline. Affrontare in solitudine la sfida digitale può, tuttavia, sembrare una scelta eccessivamente azzardata per molte realtà già strozzate da livelli di tassazione in rialzo e da un calo generalizzato dei consumi. Per questo PromovoShop rappresenta una perfetta alternativa, non richiedendo cifre eccessive da investire e potendo contare sul supporto dei professionisti web di Visionova, oltre che sull’appoggio istituzionale di Ascom.

Circa l’origine della collaborazione con l’Associazione dei commercianti, Giuseppe Sellini, Amministratore di Visionova ci rivela: “Ritenevamo indispensabile collaborare con un ente istituzionale, chi meglio dell’associazione dei commercianti. Abbiamo presentato la nostra idea che è stata ritenuta interessante da tutto lo staff dirigenziale”. “Avere un partner come Ascom significa principalmente credibilità e visibilità sul territorio“, aggiunge.

Lo scorso lunedì 17 giugno si è svolto a Brescia il primo evento di presentazione del progetto, al quale io stessa ho partecipato, cercando di delineare brevemente i principali dati e le più importanti statistiche del mercato e-commerce nel Belpaese. Elevato il livello d’interesse e positivo il riscontro tra il folto pubblico accorso.

Ad aprire l’incontro è stato il Presidente della Camera di Commercio di Brescia, Francesco Bettoni.

Egli ha innanzitutto sottolineato come in Italia vi sia una serie di emergenze da fronteggiare: “C’è l’emergenza delle famiglie, l’emergenza delle micro e piccole imprese […], l’emergenza della disoccupazione giovanile che […] ha ormai raggiunto il 40%”, contro una disoccupazione media europea del 25%. Un Paese – ha proseguito – che “non ha più la forza, il coraggio, la capacità di dare lavoro ai suoi giovani, specialmente a quelli diplomati e laureati”, è un Paese in cui qualcosa va drammaticamente storto, “è un Paese che ha perso le leve della competitività”, che va sempre di più invecchiando, “non tanto in termini di vecchiaia fisica, quanto piuttosto in termini di vecchiaia progettuale”, di voglia di fare, di lavorare e di riprendersi, “è un Paese che, come direbbe Steve Jobs, non ha più fame”. Il commercio – ha detto ancora Bettoni – è entrato in una crisi pesantissima: “recentemente il Presidente nazionale di Confcommercio Carlo Sangalli ha denunciato la crisi dei consumi, il mercato interno ha registrato un -3,5% nell’ultimo mese […]. A Brescia abbiamo fatto, come Camera di Commercio, insieme alle istituzioni della finanza pubblica, un calcolo del reale livello di tassazione delle nostre piccole e medie imprese (piccoli artigiani e commercianti)”, che è risultato essere pari al 78%. “Sfido qualsiasi imprenditore in qualsiasi Paese del mondo ad andare avanti con uno Stato esoso che si porta via il 78%”, ha sostenuto polemico il Presidente.

Tuttavia – ha anche aggiunto – “io sono abituato a guardare il bicchiere mezzo pieno”. Oggi abbiamo una straordinaria opportunità, rappresentata dal “superamento del digital devide e dall’utilizzazione delle nuove tecnologie informatiche che possono rilanciare l’e-commerce. I dati sono estremamente positivi: entro il 2015, il 50% della popolazione europea effettuerà acquisti online”. “Come Camera di Commercio di Brescia” – ha ricordato, inoltre, orgoglioso – “siamo stati tra i primi a livello mondiale a creare una borsa merci telematica: è stato il concept che ha consentito a Milano di vincere la sfida contro la città turca di Smirne per l’Expo 2015”. “Tra l’altro anche il nostro governo nazionale ha creato proprio nei giorni scorsi l’esperto digitale, il dr. Francesco Caio[…], per superare il digital devide, promuovere la diffusione della banda larga, extralarga e satellitare, in una logica di complementarietà con le reti terrestri, con le reti fisiche infrastrutturali”. Questa sembra essere una delle questioni centrali per aiutare le piccole e medie imprese a superare la difficile congiuntura economica.

Non a caso – ha rilevato ancora il Presidente Bettoni – “da questa crisi stanno uscendo quelle imprese che, avendo la capacità, si sono rivolte alle esportazioni (export oriented), che hanno creduto in alcuni mercati e che si sono dotate di una cultura e una struttura aziendale capace di operare a livello internazionale”; oppure “stanno crescendo le imprese che hanno puntato sull’innovazione”. Quindi “l’e-commerce dovrà sicuramente essere, per una realtà come la nostra, la chiave di successo per coloro che vorranno puntare sull’innovazione e sfruttare le nuove tecnologie mobile, ormai alla portata di tutti”. Simili parole di fiducia verso la strada del commercio elettronico sono, del resto, supportate dai dati del settore: in base alle ultime stime Eurispes disponibili, riferite al 2012, gli italiani online si sarebbero attestati a quota 26 milioni e la metà di questi internauti (pari a 13 milioni) avrebbe effettuato almeno un acquisto online. A fronte di un calo generalizzato dei consumi tradizionali, le vendite realizzate attraverso il canale digitale continuano ad aumentare, di anno in anno, a doppia cifra (+32,1% nel 2011 e +25,5% nel 2012), raggiungendo un volume di affari pari a 12,8 miliardi di euro. Tra gli acquirenti italiani online, inoltre, ben 1 su 10 utilizza i dispositivi mobile per portare a termine le proprie transazioni.

L’ampia espansione del fenomeno e-commerce è probabilmente la conseguenze di una serie di tendenze economico-sociali sviluppatesi negli ultimi anni: innanzitutto la crisi ampiamente diffusa, che ha spinto gli internauti più incerti e insicuri a rompere gli indugi e a passare dalla fase informativa online all’acquisto vero e proprio; in secondo luogo la capillare diffusione di dispositivi mobile (in base a dati Audiweb, sono 19,3 milioni gli Italiani che possono accedere a internet da cellulare o smartphone e 4,8 milioni da tablet), che ha reso più immediato l’accesso a internet in ogni momento della giornata, educando quindi al consumo digitale. Infine l’evoluzione dell’offerta digitale, laddove sembrano diffondersi sempre più modelli innovativi, quali offerte a coupon, flash sales e deal of the day. Riferendosi più precisamente al progetto PromovoShop, il Presidente Bettoni ha poi annunciato: “Il sogno che noi abbiamo è che qualsiasi piccolo commerciante possa vendere il frutto del suo lavoro, del suo ingegno, della sua creatività e della sua professionalità in tutto il mondo attraverso questi strumenti”. “La borsa merci telematica è partita proprio con l’idea che un piccolo produttore […] potesse vendere il suo prodotto a qualsiasi cliente nel mondo”, ha sottolineato. “Il commercio elettronico ha delle potenzialità straordinarie, è un percorso estremamente importante che ci avvicina a Expo 2015: se è vero che ci saranno 20 milioni di concittadini che visiteranno l’Expo e circa 7 milioni di imprese e turisti che proverranno da tutto il mondo, è una grande occasione per proporre quello che noi di meglio abbiamo”.

Nessuno potrà mai copiare il cervello degli italiani”, ha detto, infine, Bettoni. Per questo fondamentale è “cogliere le occasioni che ci offrono oggi le nuove tecnologie per aprire la nostra mente, cultura e il nostro modo di lavorare, basato su flessibilità, creatività, fantasia e capacità di ingegno uniche al mondo”. Così “potremmo creare le condizioni per uscire bene e presto da questa situazione difficile. Quantomeno questo è il mio auspicio”, ha concluso.

Particolarmente appassionato anche il contributo di Carlo Massoletti, Presidente ASCOM Brescia, il quale, dopo aver sottolineato l’estrema semplicità con cui PromovoShop consente alle aziende di approdare sull’online, ha espresso il proprio rammarico per l’incapacità del potere centrale di offrire garanzie di ripresa: “Avevamo grandi aspettative rispetto al nuovo governo”, ma questo “sta rifacendo gli errori del vecchio governo: ha prospettato l’aumento dell’Iva, non capisce che così si andrà ancor di più […] a deprimere il mercato interno e perciò a deprimere il PIL. La ricchezza del Paese Italia dipende quasi per il 70% da quanto viene prodotto dal settore del commercio, dal mercato interno, questo i nostri governanti non lo vogliono capire”, ha evidenziato Massoletti, incalzato poi dal boss di Visionova Sellini: “Un po’ tutti ci sentiamo in questa situazione difficile”, ovunque “regna l’incertezza e la difficoltà di guardare verso il futuro”. Forse però – ha aggiunto – “abbiamo anche perso la capacità di guardare ai dati positivi”, eppure “è difficile vedere settori che crescono a doppia cifra” come avviene per il commercio elettronico. Ancor prima della situazione economica – ha avvertito Sellini – la crisi che stiamo attraversando sembra coinvolgere le idee. Il consumatore “è cambiato, è diventato più attento, sicuramente spende meno (la crisi c’è), ma spende anche in maniera diversa”, confronta i prezzi su internet, è più esigente, preparato ed informato, diventa sempre più difficile da influenzare. “I commercianti lo sanno: entrano i clienti in negozio, provano i prodotti, poi escono e vanno a comprarli su internet”.

È, infatti, un consumatore sempre più consapevole quello sfornato dallo sviluppo tecnologico e dalla crisi, che non acquista a caso o sulla base di una spinta esclusivamente emotiva, ma in modo estremamente ragionato, servendosi della rete anche ai fini dell’esperienza offline. A tal proposito, è interessante notare come il 94% degli utenti web utilizzi il mezzo come fonte di informazione (“E-Commerce Consumer Behaviour Report” firmato ContactLab e Netcomm), per poi procedere all’acquisto nel punto vendita fisico: si tratta di una pratica (definita info-commerce) che rappresenta una vera peculiarità del contesto italiano; grazie all’online, infatti, quasi tutti gli internauti tricolori arrivano in negozio con idee e informazioni già molto chiare.

Il nuovo consumatore sembra apprezzare sempre più il vantaggio che deriva da un utilizzo congiunto e integrato del canale fisico e del canale online; questo si traduce nella possibilità, ad esempio, di scegliere se ricevere la merce a casa oppure se ritirarla direttamente in negozio oppure nella possibilità di acquistare online e ottenere supporto direttamente in negozio. Se l’e-commerce rappresenta forse l’unico settore in forte crescita in Italia (le ultime stime Human Highway parlano di un +18% nel 2013 rispetto al 2012), esso pone, tanto i produttori quanto i rivenditori, di fronte ad una sfida piuttosto difficile, quella di dover soddisfare le attese di questo target così esigente, in un contesto di forte evoluzione.

Tre sono gli elementi che guidano primariamente questo nuovo consumatore: la libertà di scelta, la comparabilità dei prodotti (sia in-store sia on-line) e il prezzo, inteso non come low cost ma come prezzo che il consumatore ritiene giusto pagare in relazione al servizio offerto (il miglior rapporto qualità-prezzo). Parallelamente, i driver che sembrano guidare l’evoluzione in atto sono: la mobilità del servizio (che si traduce in una esperienza d’acquisto ubiqua, possibile in ogni luogo e in ogni momento), la trasparenza con cui le informazioni devono essere fornite, dall’inizio alla fine del processo di acquisto, la multicanalità e la personalizzazione di un prodotto fatto sempre più su misura. “Se è vero, tuttavia, che il consumatore negli ultimi 10-12 anni è cambiato” – ha sottolineato Sellini – “è altrettanto vero che nel commercio è cambiato molto poco (i negozi sono gli stessi, le tecniche e le logiche sono le stesse) quindi diventa difficile agganciare il consumatore online”.

La novità del progetto presentato non sta, allora, tanto nella proposta di una soluzione di commercio elettronico, quanto piuttosto nella nuova prospettiva che tale soluzione impone: “Quello che proponiamo è un punto di vista diverso, in cui il sito vetrina, la paginetta web, le poche informazioni non bastano più”. Gli utenti in rete – ha precisato Sellini – “non cercano i negozi, cercano i prodotti, solo poi arrivano al negozio”; “l’e-commerce non è necessariamente uno strumento per vendere online, sembra strana come affermazione, ma è così: l’e-commerce è uno strumento che consente anche di avere moltissimi contatti tradizionali […], di avere maggiore visibilità, rappresenta un fattore distintivo”. “Il commercio elettronico è sempre stato visto come il grande nemico del commercio tradizionale”, in realtà esso è “uno strumento che non è in competizione” e lo si coglie nettamente se si considera che “Amazon, numero uno al mondo nelle vendite online, sta aprendo dei punti fisici”, sentendo “la necessità di essere e operare sul territorio”. Sembra, allora, cadere il noto luogo comune che imputa alla rete la morte dei negozi e delle attività tradizionali.

Al contrario, lo sfruttamento di innovative soluzioni digitali potrebbe permettere di risollevare le sorti della vendita al dettaglio e, addirittura, di incrementare le visite nei punti di vendita fisici tradizionali, attraverso la creazione di nuovi modelli di business e paradigmi di distribuzione. Gli sforzi dei retailer dovrebbero essere concentrati proprio nello sviluppo di strategie multipiattafome dinamiche, capaci di integrare tutti i canali potenzialmente coinvolti nel processo di acquisto. In questo modo, il commercio elettronico non si riduce a mero sostituto del commercio tradizionale, ma diventa complementare e benefico allo sviluppo di questo. Sellini ha poi elencato le principale difficoltà incontrate dalle piccole e medie imprese nell’affrontare la trasformazione tecnologica: le risorse umane spesso inadeguate o non preparate, le scarse competenze di web marketing (“Il problema più grosso che riscontriamo” – ha rilevato – “è il problema delle competenze: è difficile oggi per un operatore normale entrare nel merito di cosa vuol dire fare commercio online” e avere “la capacità di essere davvero incisivi, di fare dei progetti di successo”), gli elevati costi di gestione, i tempi di attivazione molto lunghi, la difficolta?, in sostanza, di rivedere il proprio modello di business. Non è sufficiente fare un sito di e-commerce – ha proseguito – “la vera sfida da affrontare non e? economica ma assolutamente culturale. Il negoziante non e? preparato ad affrontare questo nuovo consumatore” e le sue nuove abitudini. “La vendita tradizionale è più lenta”, in rete è diversa la gestione delle promozioni, vi è “molta più esigenza di rinnovare le proprie offerte”, le tecniche di fidelizzazione tradizionali non funzionano, “semplicemente perché non sappiamo chi è il cliente, non lo conosciamo”.

La crisi ci ha abituato ad un mercato competitivo, ci facciamo la guerra a suon di sconti, abbiamo perso un po’ la capacità di guardare a una logica più cooperativa”. PromovoShop intende, allora, riappropriarsi di questa logica, “cercando di mettere assieme tanti commercianti […] con l’obiettivo non solo di condividere una piattaforma per risparmiare, ma soprattutto di ottenere maggiore visibilità”.

Un modello di “rete” che non impedisce comunque ad ogni negozio di mantenere la propria identità, con un minisito all’interno del canale principale, che contiene le informazioni fondamentale dell’attività, e con la possibilità di fare offerte e proposte personalizzate. A differenza di altre piattaforme, inoltre, gli utenti pagheranno direttamente al venditore, senza alcun intermediario e, dunque, senza alcuna provvigione da versare sulle vendite effettuate.

Il supporto di Visionova non si limita poi alla sola infrastruttura tecnologica, al contrario si estende agli aspetti comunicativi, promozionali e di pubblicità online, offline e social (le potenzialità in questo senso del progetto bresciano sono state descritte nel dettaglio da Solange Bazzoli, la brillante Responsabile settore web e social marketing di Visionova), al posizionamento sui principali motori di ricerca, alla gestione della spedizione, alla sicurezza informatica, all’assistenza legale (le nuove problematiche legali poste dal commercio elettronico sono state indagate dall’avvocato Giovanni Santini, Professore di diritto dell’Unione Europea presso l’Università degli Studi di Brescia ed esperto in diritto dell’informatica e dell’e-commerce) e, infine, alla formazione (i commercianti e i commessi aderenti al progetto potranno partecipare ad un corso su come vendere in tempi di crisi, tenuto dalla Giornalista Giusi Legenzi e dalla Formatrice aziendale Monica Sirelli, che nell’evento di presentazione di PromovoShop hanno svelato alcuni “trucchi” alla base di una vendita efficace).

Ciò che PromovoShop propone è, dunque, lo sviluppo di una strategia di commercio online a 360 gradi, capace di sfruttare i meccanismi tipici del canale, aggiungendovi l’arma potentissima della condivisione. Il tutto con tempistiche decisamente brevi: “Il tempo di attivazione di un negozio online su PromovoShop è abbastanza ridotto, in meno di un mese si è pronti per vendere online. I primi benefici reali di un e-commerce in realtà sono più lunghi, almeno sei mesi”, ci spiega Sellini in seguito all’incontro. Un cambiamento possibile e alla portata di moltissime realtà: “Ovviamente esistono delle categorie merceologiche che non si prestano ad avere una presenza online: difficilmente si potrà vende online una casa”. Tuttavia “sono moltissime quelle che si prestano”.

Certo non è semplice eliminare le remore dei negozianti. “Il dubbio più grande è legato alla capacità effettiva del commerciante di capire le dinamiche del commercio online: prodotti, campagne e tempistiche”, evidenzia Sellini. “Noi rispondiamo aumentando la formazione legata alle tecniche di Web Marketing”. E così facendo i risultati iniziano già a vedersi: a pochi giorni dalla presentazione ufficiale del progetto, “il riscontro è stato molto elevato, direi al di sopra delle aspettative tenendo conto della complessa situazione di mercato. Abbiamo avuto una ventina di adesioni che, sommate ai primi clienti pilota, consentiranno a PromovoShop di avere più di 25 negozi entro settembre”.

Interrogato sull’opportunità di alzare ulteriormente il tiro, rivolgendosi ad un contesto territorialmente più esteso rispetto alla provincia di Brescia, Sellini sottolinea infine: “Siamo già partiti su Mantova, Cremona e Verona”.

A lui e a tutti i partecipanti a questa sfida digitale va, allora, il nostro più sincero in bocca al lupo…

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Acquisti online e offline, alla ricerca di un’integrazione

Sulla scia di una tendenza globale, cresce anche in Italia il volume d’affari del commercio elettronico e aumentano gli acquirenti, diventando nel 2013 quasi 14 milioni. Negozi fisici e virtuali devono sempre più collaborare per consentire ai clienti esperienze multicanali e personalizzate

Pur essendo ancora lontana dal colmare lo storico gap digitale che la allontana da altri paesi ben più avanzati, l’Italia cavalca l’onda della crescita sul fronte del commercio elettronico, incalzata da una tendenza che sembra essere mondiale. Ciò si traduce in un consumatore sempre più attento ed esigente, alla ricerca di un’integrazione ampia tra virtuale e reale nelle proprie esperienze percettive, nel nome della multicanalità e dell’interattività.
Nel 2012 gli italiani online si sono attestati a quota 26 milioni e, tra essi, sono ben 13 milioni coloro che hanno effettuato almeno un acquisto online. A fronte di un calo generalizzato dei consumi tradizionali, le vendite realizzate attraverso il canale digitale continuano ad aumentare, di anno in anno, a doppia cifra (+32,1% nel 2011 e +25,5% nel 2012), raggiungendo un volume di affari pari a 12,8 miliardi di euro. A evidenziarlo è stato l’istituto di ricerca Eurispes, attraverso il suo “Rapporto Italia”, giunto nel 2013 alla 25a edizione.
Nelle sezioni dedicate a e-commerce e contenuti digitali, le stime riferite al Belpaese vengono innanzitutto inquadrate nel contesto globale, che vede gli Stati Uniti protagonisti incontrastati, come singolo paese, con 297 miliardi di dollari. I paesi europei, a livello aggregato, arrivano a quota 307 miliardi di dollari, con ricavi che sono aumentati del 22% nel 2012, grazie al contributo significativo dell’Est (Polonia e Repubblica Ceca in testa), e con il 70% del mercato occupato da Regno Unito, la Francia e la Germania. Alla fine del 2012 – ci dice ancora il rapporto Eurispes – sono più di 2 miliardi le persone collegate alla Rete in tutto il mondo (il 78% della popolazione statunitense e il 64,5% di quella europea) e si prevede che entro il 2013 il giro di affari complessivo del settore e-commerce business to consumer supererà l’1 trilione di euro. Malgrado la crisi abbia frenato, soprattutto nei paesi più sviluppati, tanto la produzione quanto l’offerta in quasi tutti i settori economici, ovunque si segnalano indicatori di crescita, con riferimento al commercio elettronico. L’americana Amazon risulta la piattaforma leader nelle vendite online, con un giro d’affari pari a 60 miliardi di dollari, seguita dalla cinese Alibaba (40 miliardi di dollari di fatturato). Non a caso la Cina rappresenta uno dei mercati più dinamici in ambito digitale, con 550 milioni di utenti collegati (40% della popolazione) e 220 milioni di acquirenti online.
Il report Eurispes non dimentica, a questo punto, di sottolineare, accanto ai successi, anche il ritardo tricolore nello sviluppo del settore e-commerce: nel 2011 solo il 38,5% degli utenti italiani aveva effettuato acquisti online, contro l’82,5% del Regno Unito e il 74,6% della Germania (anche se la spesa media italiana è più elevata, giungendo a quota 1.380 dollari); soltanto il 29% delle aziende ha dichiarato poi di possedere e utilizzare un canale elettronico (il 58% sfrutta il Web, il 13% un channel shop, il 12% i social network e il 9% il mobile).
Stime in negativo confermate di recente anche da GlobalWebIndex con l’edizione 2013 – la prima – del suo “State of global e-commerce”, che ha inteso esplorare quale sia l’impatto della Rete sullo scenario dei consumi online e offline. I promotori del report collocano l’Italia all’ultimo posto in Europa e tra gli ultimi al mondo, per quanto riguarda l’e-commerce, puntando il dito contro la scarsa maturità del nostro mercato online, dovuta alla bassa qualità delle connessioni, a una tendenziale mancanza di fiducia nelle transazioni online e ad un inadeguato sistema di spedizioni.
Poco più del 50% degli utenti Internet – sottolinea GlobalWebIndex – dichiara di aver acquistato qualcosa online (contro il 66% rilevato a livello mondiale) e, nonostante il 40% di essi acceda regolarmente alla Rete tramite  smartphone, solo 1 su 10 utilizza simili dispositivi per portare a termine degli acquisti (contro una media mondiale di 1 su 4). Siamo, inoltre, uno dei paesi che meno discute delle proprie esperienze di acquisto online, in particolare sui social network, dove l’influenza delle conversazioni attorno ai brand è piuttosto scarsa.
Il Web risulta comunque fondamentale per il processo decisionale degli utenti italiani, dato che – ci dice, infine, GlobalWebIndex – oltre l’85% di essi utilizza il mezzo come fonte di informazione, per poi procedere all’acquisto nel punto vendita fisico.
Tale pratica viene definita info-commerce ed è stata oggetto, pochi mesi fa, di uno studio approfondito firmato ContactLab, sulla base dei risultati emersi dal suo “E-Commerce Consumer Behaviour Report 2012”. Le cifre diffuse in quell’occasione delineano un fenomeno dai contorni ancor più ampi, facendo salire al 94% il numero di utenti Internet italiani che si informano online prima di un acquisto, anche se offline (più della metà, il 52%, sono uomini). A ciò si aggiunga che ben tre utenti su dieci (28%), tra coloro che hanno già comprato online, si informano da mobile, percentuale che sale al 38% se si considera la fascia dei 15-24enni.
Per informarsi gli acquirenti online utilizzano – riporta ancora ContactLab – il sito ufficiale (69%), le recensioni su altri portali o i siti web (59%), i forum e i blog (34%) e in parte anche i social network (12%, che sale al 34% per la fascia dei 15-24%).
Molto sfruttati, ai fini dell’esperienza d’acquisto, anche i metacomparatori, motori di ricerca che comparano i prezzi dei retailer online, per trovare l’offerta migliore. Il 66% dei compratori online ha fatto ricorso a questi strumenti, anche se solo la metà ha poi deciso di portare a termine l’acquisto tramite questo canale. L’immagine che ne esce è, allora, quella di un consumatore sempre più consapevole e attento, che non acquista a caso o sulla base di una spinta esclusivamente emotiva, ma in modo estremamente ragionato, servendosi della rete anche ai fini dell’esperienza offline.
Sembra cadere, sulla scia di simili considerazioni, il noto luogo comune in base a quale l’ampia diffusione della Rete porterebbe alla morte dei negozi e delle attività tradizionali. Su questo stesso punto insiste anche il rapporto Eurispes, rifacendosi ai dati Portaltech Reply (riferiti però al contesto britannico) e sottolineando come – in una prospettiva futura – potrebbero aumentare le visite nei punti fisici tradizionali, proprio attraverso l’utilizzo dei cataloghi online e degli smartphone. Se catene internazionali come Virgin Megastore, Tower Records, Blockbuster, Target e Bestbuy sono state costrette a ridimensionare notevolmente la propria difusione sul territorio, lo sfruttamento di innovative soluzioni digitali potrebbe permettere di risollevare le sorti della vendita al dettaglio, creando nuovi modelli di business e paradigmi di distribuzione. Gli sforzi dei retailer dovrebbero, allora, essere concentrati sullo sviluppo di strategie multicanali dinamiche, capaci di coinvolgere tutti i canali potenzialmente interessati nel processo di acquisto. Integrando soluzioni multipiattaforma, il commercio elettronico non si riduce a mero sostituto del commercio tradizionale, ma diventa complementare e benefico per lo sviluppo di questo.
Ma cosa spinge gli utenti italiani ad acquistare online? Eurispes, riportando i dati ContacLab (presi dal sopracitato “E-Commerce Consumer Behaviour Report 2012”), mette al primo posto la prospettiva di un vantaggio economico (89%); seguono la facilità di reperimento dei beni (84%), l’ampia scelta disponibile (80%), la possibilità di fare comparazioni tra prezzi e prodotti (77%), l’opportunità di raccogliere informazioni prima dell’acquisto (76%), il fatto di poter acquistare in ogni momento (75%), con conseguente risparmio di tempo (65%).
Quali sono le tipologie di piattaforme utilizzate dagli italiani per lo shopping online? Il 58% del campione ContactLab ha acquistato almeno una volta da una biglietteria online, il 52% da siti dedicati a vendite private, il 40% da siti per la vendita tra privati (annunci e aste) e il 30% da siti di gruppi d’acquisto (attraverso coupon). I biglietti rappresentano il bene maggiormente acquistato online (37% relativo a trasporti e 19% a eventi), seguiti da libri, cd, quotidiani e riviste (44%), abbigliamento (33%), prodotti tecnologici ed elettrodomestici (24%), viaggi e vacanze (23%).
Il 57% dei navigatori abituali – riporta ancora Eurispes – è iscritto ad almeno un gruppo d’acquisto, il 43% a nessuno. Il 29,6% ha fatto anche concretamente acquisti attraverso uno di questi gruppi, il 27,4% si è invece solo iscritto. Il 31,7%, pur non essendo iscritto, sa di cosa si tratta, mentre l’11,3% non sa nemmeno cosa siano. L’iscrizione non corrisponde, quindi, all’effettiva partecipazione ai gruppi di acquisto online, dato che solo poco più della metà degli iscritti ha acquistato realmente qualcosa. Attraverso i gruppi online si comprano soprattutto pranzi, cene e aperitivi (il 50% di coloro che hanno fatti acquisti), apparecchiature tecnologiche (41,2%), trattamenti estetici e pacchetti benessere (40,3%), viaggi (39,2%); seguono biglietti per spettacoli e mostre (26%), visite mediche (20,3%), corsi (17,5%) e prodotti alimentari (17,1%).
Il giro d’affari del couponing dovrebbe raggiungere, nel 2016, i 46 miliardi di dollari.
La comodità di una fruizione “anytime, anywhere” ha consentito poi l’ampio sviluppo del cosiddetto m-commerce, mobile commerce: si prevede che, a livello mondiale, le transazioni su terminali mobili – utilizzando tecnologie di prossimità (Nfc, Near field communication) o applicazioni specifiche per smartphone – raggiungeranno i 700 miliardi nel 2015, con circa 3 miliardi di euro riferiti al mercato italiano (Agcom, Relazione annuale, 2012).
Il grado di conoscenza della tecnologia Nfc su telefonini e tablet è stato recentemente indagato, nell’ambito di una ricerca realizzata da Human Highway e Netcomm sui comportamenti degli acquirenti online, presentata nel corso dell’evento Netcomm e-Payment 2013, tenutosi a Milano lo scorso 27 marzo. Il 50,4% degli intervistati sostiene di non possedere o non pensa di possedere un cellulare abilitato della comunicazione via Nfc; il 12,8% non è sicuro ma crede di avere un telefono con comunicazione NFC e solo il 9,5% ha un cellulare abilitato a questo tipo di tecnologia. Il restante 27,3% non capisce la domanda, dunque probabilmente non conosce il sistema NFC.
Lo studio Human Highway- Netcomm lascia poi intravedere, per il 2013, ampi margini di crescita per l’intero settore e-commerce: tra dicembre 2012 e febbraio 2013 – rileva – sono 13,8 milioni gli italiani che hanno fatto acquisti online, ovvero il 47,7% dell’utenza Internet (era il 35,8% a febbraio 2012). Tra questi, il 24% dichiara di aver comprato più di 5 volte nel trimestre e complessivamente sono stati registrati 47,6 milioni di atti d’acquisto sulla rete.
Per quanto riguarda i sistemi di pagamento utilizzati in occasione dell’ultimo acquisto fatto in rete, al primo posto troviamo PayPal (36,6%), seguito dalla carta prepagata (24,4%), quindi dalla carta di credito (19,2%) e dal bonifico (3,7%). La maggioranza (poco meno del 90%) delle transazioni online è realizzata attraverso un PC tradizionale. Sorprende, tuttavia, l’aumento a tripla cifra (stimato in 165 punti percentuali) nel numero di acquisti da smartphone e tablet, che rappresentano oltre il 10% del totale transazioni online (contro il 4% di un anno fa).
La soddisfazione in merito all’esperienza di acquisto online, in una scala da 1 (pessima) a 10 (ottima), si attesta ad una valutazione media di 8,34. Positive anche le prospettive per i prossimi mesi, con una quota pari al 9% di cosiddetti “hot prospects”, persone cioè che non hanno mai usato l’online per fare shopping, ma che si dichiarano propensi cambiare idea nei prossimi tre mesi. Essi rappresentano circa il 3% dell’intera utenza Internet italiana, pari a 950 mila individui.

In conclusione possiamo sottolineare come la tendenza del prossimo decennio sarà, secondo gli osservatori internazionali, l’integrazione di Internet delle cose, in una realtà aumentata che consentirà di moltiplicare le funzionalità dei singoli oggetti e di rinnovare le possibilità d’acquisto dell’utente. In un simile scenario, non sono poche le sfide in capo agli operatori del retail, che dovranno essere in grado di formulare e proporre ai propri clienti esperienze percettive sempre più personalizzate e multicanali.

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Agroalimentare made in Italy: contrastando il falso, esportazioni triplicate

Record di esportazioni per il 2011, ma anche la persistenza di prassi illecite, colpevoli di bloccare la libera iniziativa economica

Pizza, mafia e mandolino. Ci siamo quasi: stereotipi che si confermano, primati che ci incoraggiano, stime che un po’ sorprendono e spiragli di ripresa. In questo sembra riassumersi l’attuale contesto dell’agroalimentare italiano.

Cominciamo con un dato positivo: stando ad un’analisi diffusa da Coldiretti e basata sugli andamenti registrati nel commercio estero agroalimentare dall’Istat, il valore delle esportazioni nel settore avrebbe raggiunto nei primi nove mesi del 2011 il suo massimo storico, arrivando a circa 30 miliardi, con una crescita di 9 punti percentuali. Destinatari di tali esportazioni sono stati principalmente i Paesi dell’Unione Europea, dove si sono concentrati i 2/3 del fatturato estero complessivo (con un rialzo dell’8%), gli Stati Uniti, dove l’esportazione del Made in Italy nelle tavole ha incrementato il proprio valore di dieci punti percentuali, e i mercati emergenti come quelli asiatici, dove l’aumento è stato addirittura del 18%, arrivando quasi a toccare la quota statunitense.

A rafforzare il proprio trend di crescita sono stati soprattutto i comparti più tradizionali dell’agroalimentare Made in Italy: il vino, ad esempio, ha aumentato il proprio valore d’esportazione di 25 punti percentuali; il formaggio – soprattutto grana e parmigiano reggiano, i più apprezzati – di ben 26 punti; l’olio di oliva ha registrato un +9%, la pasta un +7%, stabile, invece, l’ortofrutta.

Colpiscono, tuttavia, alcuni risultati, come quelli riferiti all’export della birra italiana in Gran Bretagna (grande produttrice della bevanda), in crescita record del 18%, o all’export dello spumante in Russia – con un +40% che rende quest’ultima al quarto posto tra i Paesi esteri di destinazione – o, ancora, quelli relativi all’esportazione di formaggi italiani in Francia (+22%), tradizionalmente molto nazionalista in questo ambito.

Le performance positive registrate sui mercati internazionali dal settore più rappresentativo dell’economia reale dimostra” – sottolinea Sergio Marini, Presidente di Coldiretti – “che il Paese può tornare a crescere solo se investe nelle proprie risorse che sono i territori, l’identità, la cultura e il cibo”. Recuperare, dunque, le proprie radici per ridare slancio e vitalità all’economia italiana, puntando sull’esternalizzazione, sulla diffusione all’esterno di modelli produttivi e di consumo: questa, in estrema sintesi, l’interpretazione offerta ai dati riportati. L’agroalimentare – conclude Marini – “è una leva competitiva formidabile per trainare il Made in Italy nel mondo”.

Il prodotto più importante dell’export agroalimentare nazionale si rivela essere il vino, con oltre la metà del fatturato realizzato dalle aziende italiane all’estero nei primi 9 mesi del 2011, stimato in quasi 4 miliardi di euro, con un aumento del 13,6% rispetto all’anno precedente. Cresce parallelamente il numero di ettolitri esportati, arrivando a quota 17 milioni e registrando, di conseguenza, un +13%.

Ad apprezzare il nostro vino sono, come già accennato, principalmente i Paesi dell’Unione europea, con aumenti in valore pari al 13% e con in testa la Germania. Gli Stati Uniti sono, invece, destinatari di poco meno di un quarto del fatturato estero, registrando nel 2011 un aumento record in valore pari al 17%. Sorprendenti gli incrementi registrati nei Paesi asiatici, in particolare in Cina, dove il valore delle esportazioni sembra essere praticamente raddoppiato (+87%).
Tale primato nelle esportazioni sembra stridere, in realtà, con i dati diffusi dall’Istat, ed elaborati da Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo-Alimentare) e Uiv (Unione Italiana Vini), relativamente alla produzione di vino in Italia, stabilizzatasi nel 2011 su livelli ai minimi storici; a fronte di una produzione stimata, a metà dicembre 2011, attorno ai 40 milioni di ettolitri (contro i 42 milioni indicati a settembre), è stata, infatti, registrata una caduta record del 14,2% sul 2010 (quando si erano contati 46,7 milioni di ettolitri).

Dal punto di vista qualitativo, oltre il 60% della produzione è stato destinato a uno dei 517 vini Docg, Doc e Igt riconosciuti in Italia. Questa tendenza negativa ha imposto una revisione della classifica mondiale dei Paesi produttori di vino, con la conseguente perdita, da parte dell’Italia, della propria supremazia produttiva, a favore della Francia, che, con i suoi 50,2 milioni di ettolitri (in aumento di 11 punti percentuali rispetto al 2010), raggiunge il primo posto. I 39,9 milioni di ettolitri prodotti in Spagna (con un leggero calo del 2%) rende anche questo Paese un potenziale pericolo per l’Italia, essendo lo scarto tra Roma e Madrid pari ad appena 218 mila ettolitri.

Al quarto posto della classifica mondiale dei produttori di vino, si attestano gli Stati Uniti, con 18,7 milioni di ettolitri, in calo di 6 punti percentuali sul 2010 (ha pesato, in particolare, il -10% registrato in California, primo polo produttivo della zona). In calo anche la vendemmia in Argentina, al quinto posto, con un -10% e 14,6 milioni di ettolitri prodotti. L’Australia, in sesta posizione, ha totalizzato all’incirca gli stessi quantitativi del 2010, mantenendosi sui 10 milioni e mezzo di ettolitri. Cresce, invece, a due cifre la produzione nel Cile – con un + 15,5% e oltre 10 milioni e mezzo di ettolitri realizzati – che arriva, così, a raggiungere la settima posizione. Superano i 10 milioni prodotti anche la Cina (in ottava posizione, con 10,4 milioni di ettolitri, in calo di 4 punti percentuali sul 2010) e il Sudafrica (con un +2% sul 2010).
Riprende, dopo un 2010 in forte decrescita – la produzione in Nord Europa e nei Peco (Paesi dell’Europa Centrale e Orientale), tanto da rendere probabile – conclude l’analisi Ismea-Uiv – il fatto che “il 2012 vedrà smorzarsi le forti richieste di vino sfuso effettuate da questi Paesi sia in Italia che in Spagna”: crescono Germania (+28%) e Austria (+45%), ma anche Romania (+31%), Bulgaria (+55%), Ungheria (+27%), Repubblica Ceca e Slovacchia.

Tornando al contesto italiano, si rileva, poi, dal punto di vista dei prezzi di scambio, un aumento – nei primi cinque mesi della campagna di commercializzazione, da agosto a dicembre 2011 – dei valori medi dei vini comuni di oltre 28 punti percentuali, rispetto allo stesso periodo del 2010: per il comparto dei rossi è stato registrato un +28,8% (il prezzo di scambio è stato in media 3,65 euro per ettolitro/grado, franco cantina), mentre per quello dei bianchi un +27,6% (3,81 euro per ettolitro/grado).

I buoni risultati rilevati sul settore esportazioni non sembrano attualmente aver portato adeguati benefici alle imprese agricole, confermando – conclude Coldiretti – le “pesanti distorsioni che permangono nel passaggio degli alimenti lungo la filiera dal campo alla tavola”.

L’andamento positivo delle esportazioni potrebbe, inoltre, essere ulteriormente ottimizzato se si riuscisse a combattere efficacemente la cosiddetta “agropirateria” internazionale e, ancor più, “l’Italian sounding”, la tendenza, cioè, a sfruttare economicamente parole, immagini, denominazioni e ricette che evocano il contesto italiano, pur essendo legate a prodotti alimentari che nulla hanno a che vedere con le produzioni nostrane; a differenza dell’agropirateria, la contraffazione vera e propria perseguibile penalmente, l’Italian sounding si muove in una zona grigia che può essere eliminata solo attraverso regole e accordi internazionali che impongano l’assoluta trasparenza sulla qualità delle materie prime e sui processi produttivi utilizzati dagli operatori dell’intera filiera.

Se sul piano nazionale sono stati recentemente scoperti la falsa mozzarella di bufala dop, vino ed olio etichettati come doc e dop senza documenti di tracciabilità, a livello internazionale le più copiate al mondo – prosegue Coldiretti – sono le denominazioni Parmigiano Reggiano e Grana Padano (con “il Parmesan diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone”, o il “Parmesao in Brasile, il Regianito in Argentina, Reggiano e Parmesao in tutto il Sud America, ma anche Pamesello in Belgio o Parmezan in Romania”), ma anche il Romano, l’Asiago e il Gorgonzola, prodotti negli Stati Uniti; anche alcuni marchi storici trovano una loro imitazione estera, come la mortadella San Daniele e il prosciutto San Daniele prodotti in Canada; e ancora: vino “tarocco”, come il barbera bianco romeno o il Chianti californiano, l’olio Romulo venduto in Spagna con tanto di lupa capitolina, imitazioni di soppressata calabrese e pomodori San Marzano negli States, il provolone del Wisconsin, il pesto tailandese “Spicy thai” e una strana “mortadela” siciliana prodotta in Brasile. Gli esempi sono molti e capaci di strappare facilmente un sorriso, ma si tratta pur sempre di un riso piuttosto amaro: stando, infatti, alle stime riportate da Coldiretti (sulla base della prima relazione sulla contraffazione nel settore alimentare, elaborata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale e presentata nel corso di un incontro presso la sede romana di Coldiretti, lo scorso giovedì 19 gennaio 2012, al quale hanno partecipato, tra gli altri, il Ministro per le Politiche Agricole Mario Catania, il Procuratore Antimafia Pietro Grasso e il Presidente della Coldiretti Sergio Marini), il falso alimentare Made in Italy fatturerebbe ben 60 miliardi di euro, con tre prodotti alimentari italiani falsi su quattro. A spingere verso una simile prassi ingannevole è la volontà dei produttori esteri di assicurarsi un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, potendo contare sulla risonanza positiva che certi nomi detengono, sul sistema di valori riconosciuti e apprezzati a livello internazionale che essi veicolano. Si tratta di un vero e proprio danno – non solo economico, ma anche di immagine – inflitto alla nostra industria agroalimentare, banalizzata nella sua autentica tradizione ed eccellente qualità.

Con una radicale azione di contrasto al falso Made in Italy, che porti ad un recupero delle quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari delll’“Italian sounding”, le esportazioni agroalimentari potrebbero addirittura triplicare, pareggiando la bilancia commerciale del settore. Si stima, inoltre, che dalla lotta alla contraffazione potrebbero derivare fino a trecentomila nuovi posti di lavoro.

Secondo i dati Coldiretti/Eurispes contenuti nella relazione sulla contraffazione, il volume d’affari delle agromafie ammonterebbe oggi a ben 12,5 miliardi di euro, pari al 5,6% dell’intero business criminale.

Le imprese agricole e i consumatori – precisa la Coldiretti – subiscono l’impatto devastante delle strozzature di filiera su cui si insinua un sistema di distribuzione e trasporto gonfiato e alterato troppo spesso da insopportabili fenomeni di criminalità che danneggiano tutti gli operatori. L’effetto è un crollo dei prezzi pagati agli imprenditori agricoli, che in molti casi non arrivano a coprire i costi di produzione, e un ricarico anomalo dei prezzi al consumo che raggiungono livelli tali da determinare un contenimento degli acquisti”.

Dal campo alla tavola, il prezzo dei prodotti viene triplicato, anche a causa dell’illecito intervento della malavita organizzata: le agromafie reinvestono i loro proventi soprattutto in attività agricole, “nel settore della trasformazione alimentare, commerciale e nella grande distribuzione”, condizionando la libera iniziativa economica e incrementando la concorrenza sleale. Oltre ad un aumento dei prezzi, le conseguenze negative per i consumatori riguardano anche la qualità dei beni acquistati, spesso spacciati come Made in Italy, ma ottenuti in realtà con materie prime importate e di bassa qualità.

La Commissione parlamentare d’inchiesta ha verificato, in particolare, come le nostre tasse finanzino addirittura la realizzazione di prodotti italiani solo nel nome, attraverso la “Società italiana per le imprese all’Estero Simest s.p.a.”, controllata dal ministero dello Sviluppo economico, senza alcun beneficio per il nostro Paese, ma incrementando, anzi, i comportamenti di concorrenza sleale prima descritti. Tali attività di delocalizzazione sottraggono opportunità di lavoro e occupazione al sistema Italia: è il caso dell’azienda casearia Lactitalia (partecipata da Simest al 29,5%), che produce in Romania formaggi con nomi italiani Caciotta e Pecorino, e della vendita all’estero del salame calabrese prodotto negli Stati Uniti e venduto a New York dalla salumeria Rosi del Gruppo Parmacotto.

Non è politicamente, economicamente e moralmente accettabile” – conclude il Presidente Sergio Marini – “che lo Stato, che rappresenta tutti i cittadini italiani, finanzi direttamente o indirettamente la produzione o la distribuzione di prodotti alimentari che contaminano il valore del territori facendo concorrenza sleale a tutte le produzioni tipiche vere espressioni di quei territori”; è per questo motivo che “la lotta alla contraffazione e alla pirateria” devono rappresentare per le istituzioni “un’area di intervento prioritaria per recuperare risorse economiche utili al Paese” e a “generare occupazione”.

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