In questa brillante intervista, Pierluigi Ceola e Claudio Pigozzo ci raccontano la loro sfida imprenditoriale, frutto di dedizione e voglia di mettersi in gioco. Un progetto che affonda le proprie radici nella storica città di Noale, in provincia di Venezia, e che ha portato loro ad essere produttori d’eccellenza
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Birra Tempesta: qualità, carattere e passione in una bottiglia
Pubblicato da robertabarbiero in 11 marzo 2013
https://robertabarbiero.wordpress.com/2013/03/11/birra-tempesta-qualita-carattere-e-passione-in-una-bottiglia/
Uno sguardo al mercato della birra in Italia
In occasione della “Settimana della Birra Artigianale”, ecco un’approfondita riflessione sullo stato dell’arte del settore. Secondo l’ultimo Annual Report AssoBirra, la produzione e il consumo di birra tengono, nonostante la crisi, trainati dall’export. Unionbirrai ha indagato il comparto artigianale, attivo soprattutto al nord, in costante evoluzione e con ampi margini di crescita. Brewpub sembrano rendere più dei microbirrifici
In questo articolo cercheremo di fornire un quadro di riferimento sullo stato dell’arte del settore birra in Italia, al fine di consentire una lettura consapevole delle risposte fornite da Pierluigi Ceola e Claudio Pigozzo – due produttori di birra d’eccellenza – nell’intervista che ci hanno concesso.
L’argomento appare di estrema attualità, visto che a Rimini si è da poco conclusa Selezione Birra. Si tratta della più importante manifestazione dedicata agli operatori del settore birrario, ospitata all’interno di Rhex, Rimini Horeca Expo, il salone internazionale dedicato alla ristorazione e all’ospitalità (dal 23 al 26 febbraio). Tra gli espositori, molti i produttori artigianali italiani – oltre ovviamente ai distributori, agli importatori, alle associazioni e alle aziende correlate – che hanno saputo proporre una vasta gamma di birre speciali e prodotti di nicchia, introvabili altrove. Tra gli eventi collaterali, anche Birra dell’Anno, l’atteso concorso nazionale, promosso dall’associazione Unionbirrai, che ha premiato le migliori birre per ogni tipologia individuata.




Pubblicato da robertabarbiero in 11 marzo 2013
https://robertabarbiero.wordpress.com/2013/03/11/uno-sguardo-al-mercato-della-birra-in-italia/
Beverage nel Belpaese: per la crescita, puntare sulla salute
Il piacere della tavola si sposa sempre più con l’attenzione degli italiani al proprio benessere fisico e alla sostenibilità delle proprie scelte di consumo, delineando nuove direttive per l’innovazione nel mercato delle bevande


Pubblicato da robertabarbiero in 16 gennaio 2013
https://robertabarbiero.wordpress.com/2013/01/16/beverage-nel-belpaese-per-la-crescita-puntare-sulla-salute/
Agroalimentare made in Italy: contrastando il falso, esportazioni triplicate
Record di esportazioni per il 2011, ma anche la persistenza di prassi illecite, colpevoli di bloccare la libera iniziativa economica
Pizza, mafia e mandolino. Ci siamo quasi: stereotipi che si confermano, primati che ci incoraggiano, stime che un po’ sorprendono e spiragli di ripresa. In questo sembra riassumersi l’attuale contesto dell’agroalimentare italiano.
Cominciamo con un dato positivo: stando ad un’analisi diffusa da Coldiretti e basata sugli andamenti registrati nel commercio estero agroalimentare dall’Istat, il valore delle esportazioni nel settore avrebbe raggiunto nei primi nove mesi del 2011 il suo massimo storico, arrivando a circa 30 miliardi, con una crescita di 9 punti percentuali. Destinatari di tali esportazioni sono stati principalmente i Paesi dell’Unione Europea, dove si sono concentrati i 2/3 del fatturato estero complessivo (con un rialzo dell’8%), gli Stati Uniti, dove l’esportazione del Made in Italy nelle tavole ha incrementato il proprio valore di dieci punti percentuali, e i mercati emergenti come quelli asiatici, dove l’aumento è stato addirittura del 18%, arrivando quasi a toccare la quota statunitense.
A rafforzare il proprio trend di crescita sono stati soprattutto i comparti più tradizionali dell’agroalimentare Made in Italy: il vino, ad esempio, ha aumentato il proprio valore d’esportazione di 25 punti percentuali; il formaggio – soprattutto grana e parmigiano reggiano, i più apprezzati – di ben 26 punti; l’olio di oliva ha registrato un +9%, la pasta un +7%, stabile, invece, l’ortofrutta.
Colpiscono, tuttavia, alcuni risultati, come quelli riferiti all’export della birra italiana in Gran Bretagna (grande produttrice della bevanda), in crescita record del 18%, o all’export dello spumante in Russia – con un +40% che rende quest’ultima al quarto posto tra i Paesi esteri di destinazione – o, ancora, quelli relativi all’esportazione di formaggi italiani in Francia (+22%), tradizionalmente molto nazionalista in questo ambito.
“Le performance positive registrate sui mercati internazionali dal settore più rappresentativo dell’economia reale dimostra” – sottolinea Sergio Marini, Presidente di Coldiretti – “che il Paese può tornare a crescere solo se investe nelle proprie risorse che sono i territori, l’identità, la cultura e il cibo”. Recuperare, dunque, le proprie radici per ridare slancio e vitalità all’economia italiana, puntando sull’esternalizzazione, sulla diffusione all’esterno di modelli produttivi e di consumo: questa, in estrema sintesi, l’interpretazione offerta ai dati riportati. L’agroalimentare – conclude Marini – “è una leva competitiva formidabile per trainare il Made in Italy nel mondo”.
Il prodotto più importante dell’export agroalimentare nazionale si rivela essere il vino, con oltre la metà del fatturato realizzato dalle aziende italiane all’estero nei primi 9 mesi del 2011, stimato in quasi 4 miliardi di euro, con un aumento del 13,6% rispetto all’anno precedente. Cresce parallelamente il numero di ettolitri esportati, arrivando a quota 17 milioni e registrando, di conseguenza, un +13%.
Ad apprezzare il nostro vino sono, come già accennato, principalmente i Paesi dell’Unione europea, con aumenti in valore pari al 13% e con in testa la Germania. Gli Stati Uniti sono, invece, destinatari di poco meno di un quarto del fatturato estero, registrando nel 2011 un aumento record in valore pari al 17%. Sorprendenti gli incrementi registrati nei Paesi asiatici, in particolare in Cina, dove il valore delle esportazioni sembra essere praticamente raddoppiato (+87%).
Tale primato nelle esportazioni sembra stridere, in realtà, con i dati diffusi dall’Istat, ed elaborati da Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo-Alimentare) e Uiv (Unione Italiana Vini), relativamente alla produzione di vino in Italia, stabilizzatasi nel 2011 su livelli ai minimi storici; a fronte di una produzione stimata, a metà dicembre 2011, attorno ai 40 milioni di ettolitri (contro i 42 milioni indicati a settembre), è stata, infatti, registrata una caduta record del 14,2% sul 2010 (quando si erano contati 46,7 milioni di ettolitri).
Dal punto di vista qualitativo, oltre il 60% della produzione è stato destinato a uno dei 517 vini Docg, Doc e Igt riconosciuti in Italia. Questa tendenza negativa ha imposto una revisione della classifica mondiale dei Paesi produttori di vino, con la conseguente perdita, da parte dell’Italia, della propria supremazia produttiva, a favore della Francia, che, con i suoi 50,2 milioni di ettolitri (in aumento di 11 punti percentuali rispetto al 2010), raggiunge il primo posto. I 39,9 milioni di ettolitri prodotti in Spagna (con un leggero calo del 2%) rende anche questo Paese un potenziale pericolo per l’Italia, essendo lo scarto tra Roma e Madrid pari ad appena 218 mila ettolitri.
Al quarto posto della classifica mondiale dei produttori di vino, si attestano gli Stati Uniti, con 18,7 milioni di ettolitri, in calo di 6 punti percentuali sul 2010 (ha pesato, in particolare, il -10% registrato in California, primo polo produttivo della zona). In calo anche la vendemmia in Argentina, al quinto posto, con un -10% e 14,6 milioni di ettolitri prodotti. L’Australia, in sesta posizione, ha totalizzato all’incirca gli stessi quantitativi del 2010, mantenendosi sui 10 milioni e mezzo di ettolitri. Cresce, invece, a due cifre la produzione nel Cile – con un + 15,5% e oltre 10 milioni e mezzo di ettolitri realizzati – che arriva, così, a raggiungere la settima posizione. Superano i 10 milioni prodotti anche la Cina (in ottava posizione, con 10,4 milioni di ettolitri, in calo di 4 punti percentuali sul 2010) e il Sudafrica (con un +2% sul 2010).
Riprende, dopo un 2010 in forte decrescita – la produzione in Nord Europa e nei Peco (Paesi dell’Europa Centrale e Orientale), tanto da rendere probabile – conclude l’analisi Ismea-Uiv – il fatto che “il 2012 vedrà smorzarsi le forti richieste di vino sfuso effettuate da questi Paesi sia in Italia che in Spagna”: crescono Germania (+28%) e Austria (+45%), ma anche Romania (+31%), Bulgaria (+55%), Ungheria (+27%), Repubblica Ceca e Slovacchia.
Tornando al contesto italiano, si rileva, poi, dal punto di vista dei prezzi di scambio, un aumento – nei primi cinque mesi della campagna di commercializzazione, da agosto a dicembre 2011 – dei valori medi dei vini comuni di oltre 28 punti percentuali, rispetto allo stesso periodo del 2010: per il comparto dei rossi è stato registrato un +28,8% (il prezzo di scambio è stato in media 3,65 euro per ettolitro/grado, franco cantina), mentre per quello dei bianchi un +27,6% (3,81 euro per ettolitro/grado).
I buoni risultati rilevati sul settore esportazioni non sembrano attualmente aver portato adeguati benefici alle imprese agricole, confermando – conclude Coldiretti – le “pesanti distorsioni che permangono nel passaggio degli alimenti lungo la filiera dal campo alla tavola”.
L’andamento positivo delle esportazioni potrebbe, inoltre, essere ulteriormente ottimizzato se si riuscisse a combattere efficacemente la cosiddetta “agropirateria” internazionale e, ancor più, “l’Italian sounding”, la tendenza, cioè, a sfruttare economicamente parole, immagini, denominazioni e ricette che evocano il contesto italiano, pur essendo legate a prodotti alimentari che nulla hanno a che vedere con le produzioni nostrane; a differenza dell’agropirateria, la contraffazione vera e propria perseguibile penalmente, l’Italian sounding si muove in una zona grigia che può essere eliminata solo attraverso regole e accordi internazionali che impongano l’assoluta trasparenza sulla qualità delle materie prime e sui processi produttivi utilizzati dagli operatori dell’intera filiera.
Se sul piano nazionale sono stati recentemente scoperti la falsa mozzarella di bufala dop, vino ed olio etichettati come doc e dop senza documenti di tracciabilità, a livello internazionale le più copiate al mondo – prosegue Coldiretti – sono le denominazioni Parmigiano Reggiano e Grana Padano (con “il Parmesan diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone”, o il “Parmesao in Brasile, il Regianito in Argentina, Reggiano e Parmesao in tutto il Sud America, ma anche Pamesello in Belgio o Parmezan in Romania”), ma anche il Romano, l’Asiago e il Gorgonzola, prodotti negli Stati Uniti; anche alcuni marchi storici trovano una loro imitazione estera, come la mortadella San Daniele e il prosciutto San Daniele prodotti in Canada; e ancora: vino “tarocco”, come il barbera bianco romeno o il Chianti californiano, l’olio Romulo venduto in Spagna con tanto di lupa capitolina, imitazioni di soppressata calabrese e pomodori San Marzano negli States, il provolone del Wisconsin, il pesto tailandese “Spicy thai” e una strana “mortadela” siciliana prodotta in Brasile. Gli esempi sono molti e capaci di strappare facilmente un sorriso, ma si tratta pur sempre di un riso piuttosto amaro: stando, infatti, alle stime riportate da Coldiretti (sulla base della prima relazione sulla contraffazione nel settore alimentare, elaborata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale e presentata nel corso di un incontro presso la sede romana di Coldiretti, lo scorso giovedì 19 gennaio 2012, al quale hanno partecipato, tra gli altri, il Ministro per le Politiche Agricole Mario Catania, il Procuratore Antimafia Pietro Grasso e il Presidente della Coldiretti Sergio Marini), il falso alimentare Made in Italy fatturerebbe ben 60 miliardi di euro, con tre prodotti alimentari italiani falsi su quattro. A spingere verso una simile prassi ingannevole è la volontà dei produttori esteri di assicurarsi un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, potendo contare sulla risonanza positiva che certi nomi detengono, sul sistema di valori riconosciuti e apprezzati a livello internazionale che essi veicolano. Si tratta di un vero e proprio danno – non solo economico, ma anche di immagine – inflitto alla nostra industria agroalimentare, banalizzata nella sua autentica tradizione ed eccellente qualità.
Con una radicale azione di contrasto al falso Made in Italy, che porti ad un recupero delle quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari delll’“Italian sounding”, le esportazioni agroalimentari potrebbero addirittura triplicare, pareggiando la bilancia commerciale del settore. Si stima, inoltre, che dalla lotta alla contraffazione potrebbero derivare fino a trecentomila nuovi posti di lavoro.
Secondo i dati Coldiretti/Eurispes contenuti nella relazione sulla contraffazione, il volume d’affari delle agromafie ammonterebbe oggi a ben 12,5 miliardi di euro, pari al 5,6% dell’intero business criminale.
“Le imprese agricole e i consumatori – precisa la Coldiretti – subiscono l’impatto devastante delle strozzature di filiera su cui si insinua un sistema di distribuzione e trasporto gonfiato e alterato troppo spesso da insopportabili fenomeni di criminalità che danneggiano tutti gli operatori. L’effetto è un crollo dei prezzi pagati agli imprenditori agricoli, che in molti casi non arrivano a coprire i costi di produzione, e un ricarico anomalo dei prezzi al consumo che raggiungono livelli tali da determinare un contenimento degli acquisti”.
Dal campo alla tavola, il prezzo dei prodotti viene triplicato, anche a causa dell’illecito intervento della malavita organizzata: le agromafie reinvestono i loro proventi soprattutto in attività agricole, “nel settore della trasformazione alimentare, commerciale e nella grande distribuzione”, condizionando la libera iniziativa economica e incrementando la concorrenza sleale. Oltre ad un aumento dei prezzi, le conseguenze negative per i consumatori riguardano anche la qualità dei beni acquistati, spesso spacciati come Made in Italy, ma ottenuti in realtà con materie prime importate e di bassa qualità.
La Commissione parlamentare d’inchiesta ha verificato, in particolare, come le nostre tasse finanzino addirittura la realizzazione di prodotti italiani solo nel nome, attraverso la “Società italiana per le imprese all’Estero Simest s.p.a.”, controllata dal ministero dello Sviluppo economico, senza alcun beneficio per il nostro Paese, ma incrementando, anzi, i comportamenti di concorrenza sleale prima descritti. Tali attività di delocalizzazione sottraggono opportunità di lavoro e occupazione al sistema Italia: è il caso dell’azienda casearia Lactitalia (partecipata da Simest al 29,5%), che produce in Romania formaggi con nomi italiani Caciotta e Pecorino, e della vendita all’estero del salame calabrese prodotto negli Stati Uniti e venduto a New York dalla salumeria Rosi del Gruppo Parmacotto.
“Non è politicamente, economicamente e moralmente accettabile” – conclude il Presidente Sergio Marini – “che lo Stato, che rappresenta tutti i cittadini italiani, finanzi direttamente o indirettamente la produzione o la distribuzione di prodotti alimentari che contaminano il valore del territori facendo concorrenza sleale a tutte le produzioni tipiche vere espressioni di quei territori”; è per questo motivo che “la lotta alla contraffazione e alla pirateria” devono rappresentare per le istituzioni “un’area di intervento prioritaria per recuperare risorse economiche utili al Paese” e a “generare occupazione”.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 5 marzo 2012
https://robertabarbiero.wordpress.com/2012/03/05/agroalimentare-made-in-italy-contrastando-il-falso-esportazioni-triplicate/
Packaging: nuovi scenari e strategie aziendali
Dalla funzione di semplice contenitore per la protezione e conservazione dei prodotti, il packaging si è evoluto diventando espressione dell’identità aziendale.
Il tonno non è un pesce. È una scatoletta. Leggendo questo slogan, un po’ di tempo fa, mi misi a ridere: divertente. Ad idearlo era stato un mio amico, Nicola Zuliani, un webmaster con il vizio della creatività, capace di sintetizzare, in poche semplici parole, un concetto alla base del processo ideativo, produttivo e divulgativo di molti brand. Mi riferisco al packaging, ovviamente – la confezione, l’imballaggio – la cui funzione primaria dovrebbe essere quella di contenere e proteggere un prodotto. Pensando al tonno è automatico il collegamento alla scatoletta, così come pensando di bere una Coca Cola ci immaginiamo di stringere tra le mani una lattina o, ancor meglio, una bottiglietta di vetro; è facile rendersi conto di come si tenda ormai ad identificare prodotti ed esperienze d’utilizzo con l’involucro che fisicamente avvolge loro, in una singolare associazione di idee che pare spingere la metafora al di fuori della dimensione intellettiva per renderla realtà concreta.
Parlare di packaging nell’era del Web 2.0 – in un periodo storico, cioè, caratterizzato dall’immaterialità, da un contenuto svincolato dal limite fisico del contenitore, dalla miniaturizzazione che impone all’utente l’elaborazione di una personale formula fruitiva – può sembrare quasi un anacronismo; in realtà ciò su cui vorrei concentrare la mia riflessione è il modo in cui l’universo semantico veicolato dalla parola “packaging” ha mutato nel tempo la propria forma e dimensione, il modo in cui esso si è evoluto per riuscire a sostenere le strategie aziendali. Del resto, sottolinea Marco Sachet (direttore dell’Istituto Italiano Imballaggio), “l’imballaggio esiste e continuerà ad esistere perché il consumatore desidera un prodotto perfetto, subito disponibile, e sotto casa”.
In origine l’imballaggio veniva valutato principalmente per il suo essere funzionale, doveva rispettare determinati canoni fisici ed estetici, idonei a proteggere e conservare il prodotto. L’evoluzione del mercato e il mutare della domanda hanno fatto in modo che la valenza di tale funzionalità originariamente ricercata si estendesse anche agli aspetti comunicativi e relazionali del prodotto: il packaging serve oggi a presentare questo stesso prodotto e, di conseguenza, a esibire il marchio e il suo universo valoriale; serve ad offrire un’identità, serve a convincere l’utente a diventare consumatore, non tanto creando in lui un desiderio fittizio, quanto piuttosto cercando di soddisfare i suoi bisogni, plasmandosi su essi. È un utente, infatti, sempre più esigente quello con cui gli operatori del largo consumo devono confrontarsi, un utente che privilegia caratteristiche quali l’efficienza nelle dimensioni, la sostenibilità, la riciclabilità, la flessibilità, l’innovazione, la facilità d’utilizzo e trasporto, la riconoscibilità.
La nuova sfida per le imprese italiane fornitrici di packaging è, allora, in primis quella di riuscire a sviluppare dei progetti realmente efficaci per il proprio mercato di riferimento, tenendo ben presenti le particolarità del consumatore moderno e le dinamiche che lo spingono all’acquisto.
In risposta a questa difficile sfida, gli operatori italiani sembrano essersi concentrati, in particolare, secondo Sachet, su quattro fondamentali trend: unità di vendita più piccole, nuovi settori che danno vita a nuovi contenitori, nuovi servizi per il consumatore e attenzione primaria alla sostenibilità ambientale. Cerchiamo di indagare più nel dettaglio tali tendenze.
Da una parte la crescente presenza di non coniugati e i ritmi di vita frenetici, sempre in movimento, hanno portato, soprattutto in ambito alimentare, alla realizzazione di confezioni monodose e monoporzione che permettano di non sprecare il contenuto e che si prestino ad essere acquistate, ad esempio, presso distributori automatici (con effetti, dunque, anche nel mondo retail, non solo in quello della produzione). Si tende, dunque, in alcuni casi, a privilegiare funzionalità e praticità, facilità di apertura-chiusura, di trasporto e di conservazione
Dall’altra parte la crisi economica degli ultimi anni ha indotto gli utenti a prestare particolare attenzione al rapporto qualità/prezzo, nell’improntare le proprie strategie d’acquisto: ciò ha portato i produttori a diminuire dimensione e peso dei rivestimenti e ad offrire formati famiglia o confezioni idonee alla ricarica; allo stesso modo, il perseguimento di uno stile di vita più casalingo ha portato alla creazione di contenitori pensati per l’intrattenimento domestico, dunque rispondenti anche a criteri estetici. Il fatto, poi, che le persone abbiano sempre meno tempo da passare sui fornelli incrementa il consumo e l’importanza dei prodotti cosiddetti “della quarta gamma” (cioè pronti per il consumo).
Il nuovo cliente – che in precedenza abbiamo definito “esigente” – desidera sempre di più, sottolinea Sachet, “informarsi su quanto acquista: verrà soddisfatto in questa sua necessità da informazioni che potrà fruire sia sulla confezione sia, successivamente, grazie ai codici bidimensionali o ad altri ritrovati della tecnologia via web. Lo sviluppo di questa tendenza sarà colto non solo dai produttori, ma anche dai retailer, e aumenterà il numero dei servizi collaterali: diminuzione delle code o acquisto veloce, per esempio”.
Un consumatore più esigente è anche un consumatore più attento: attento all’ambiente, alla salute e alla sicurezza. Questa constatazione si traduce nella previsione di soluzioni d’imballaggio capaci di ridurre gli sprechi e, una volta esaurita la loro sostanza, di facilitare il loro recupero o, se questo non fosse possibile, il loro smaltimento attraverso la separazione dei materiali (di conseguenza aumenta la tendenza a fornire indicazioni sulla confezione circa la destinazione dei diversi materiali che la compongono alla raccolta differenziata). “Da qui a cinque anni – spiega Luciano Piergiovanni, professore ordinario di Scienze e Tecnologie Alimentari dell’Università degli Studi di Milano e presidente del Gsica, Gruppo Scientifico Italiano di Confezionamento Alimentare – le aziende smetteranno con gli atteggiamenti fittizi, il cosiddetto green washing, per dimostrare una vera attenzione nei confronti di un problema non più rinviabile”. L’attenzione, poi, a salute e sicurezza porta, nuovamente, ad una riduzione delle porzioni e all’utilizzo di materiali tecnologicamente avanzati, in grado di eludere qualsiasi rischio (ad esempio quello di tagliarsi).
Infine l’innovazione e la differenziazione sono altri principi ai quali si affidano i fornitori, attraverso packaging artistici o materiali particolari che spingano l’utente a conservare gli stessi anche quando non vi sia più il contenuto originale.
A tal proposito, i dati forniti dalla Packaging Innovation Survey – realizzata da Accenture, in collaborazione con l’Università di Roma Tor Vergata e l’Istituto Italiano Imballaggi e basata su circa 100 fornitori italiani di packaging – hanno evidenziato come, per ben il 72% dei fornitori, essere innovativi sia un fattore critico di successo e come l’88% abbia inserito nella propria attività la funzione R&d, funzione sulla quale si intende investire maggiormente nei prossimi anni. Sempre allo scopo di perfezionare grafica e design dei prodotti, circa il 12% degli intervistati ha affermato di aver posto in essere partnership con istituti esterni.
Lo studio appena citato mette, tuttavia, in evidenza anche un elemento di criticità del settore, la mancanza, cioè, di collaborazione tra fornitori e aziende, la cui causa viene rintracciata, innanzitutto, nella molteplicità delle funzioni aziendali con cui i fornitori si trovano obbligati a rapportarsi: solo il 9% ha dichiarato, infatti, di avere un unico interlocutore al lato cliente, con conseguenti rallentamenti e necessarie riformulazioni che rischiano di vanificare il processo di innovazione. Altro aspetto della difficoltà di collaborazione è individuato nell’eccessiva attenzione posta nei costi delle operazioni: per il 49% degli intervistati la negoziazione del prezzo rappresenta il primo tema di discussione con i clienti, mentre solo nel 23% dei casi la discussione verte sull’innovazione. I meccanismi di trasferimento dell’innovazione dal fornitore all’azienda non sembrano essere, infine, particolarmente efficaci, poiché solo il 51%dei fornitori intervistati ha dichiarato di utilizzare un business case quando fa la sua proposta al cliente, nonostante il 75% ne riconosca l’importanza fondamentale per ottenere la fornitura.
Vanno, quindi, ridotte le inefficienze e attivati meccanismi di fruttuosa collaborazione, attraverso un monitoraggio continuo del mercato, capace di rilevare la portata delle innovazioni evidenziate finora (innovazioni che, tutto sommato, sarebbero, secondo Luciano Piergiovanni, piuttosto delle “tendenze che proseguono da anni”), attraverso una cultura aziendale che favorisca il confronto e attraverso un’azione trasversale e congiunta, capace, da un lato, di coinvolgere parimenti fornitori e clienti e, dall’altro lato, di unire le diverse funzioni aziendali (marketing, ricerca e sviluppo, qualità e produzione, acquisto).
Di questi scenari si occuperà Ipack – Ima 2012 (dal 28 febbraio al 3 marzo 2012), “uno dei più importanti appuntamenti internazionali nel settore delle tecnologie di packaging, processing e logistica interna: una grande fiera di sistema che presenta soluzioni tecnologiche per il settore alimentare e non alimentare a utenti provenienti da tutto il mondo”. I dati finora raccolti dall’Osservatorio di Ipack-Ima (diretto da Giampaolo Vitali, segretario del Gruppo Economisti d’Impresa, docente ricercatore del CNR), relativi al primo semestre 2011, parlano di una ripresa congiunturale del settore che, dopo essersi avviata nel 2010, prosegue nell’anno in corso.
L’industria manufatturiera che sarà protagonista dell’evento fieristico vanta nel 2010 un fatturato totale di Euro 37.567 milioni, di cui 25.807 riferiti al settore imballaggi e 11.760 ai settori dei beni strumentali. Stiamo parlando di una filiera che offre occupazione a 143.410 addetti ed esporta quasi il 29% della propria produzione (percentuale che sale addirittura all’88% per le macchine per il packaging).
Nel primo semestre 2011 è aumentato, allora, il fatturato totale per il 40% delle imprese prese a campione dall’Osservatorio e sono aumentate le esportazioni per il 29% di esse, mentre il 60% ha dichiarato una sostanziale stabilità e l’88% una costanza occupazionale. Le previsioni per il secondo semestre parlano, poi, allo stesso modo, di un quasi 40% di imprese che si aspettano una crescita di fatturato e di un 60% che si aspetta una certa stabilità; il 26% prevede un aumento dell’export, il 64% una costanza nello stesso e l’83% una situazione occupazionale immutata.
Malgrado il generale clima positivo che avvolge l’intero mercato di riferimento, si evidenzia una leggera differenza tra i due macrosettori principali: le imprese dei materiali e imballaggi hanno conosciuto una crescita di fatturato pari al 46%, superiore al 36% rilevato per le imprese dei macchinari; per contro crescono maggiormente le esportazioni per queste ultime (34%) rispetto alle prime (21%).
Scenari decisamente ottimistici, dunque, quelli delineati, che devono essere accompagnati da un’azione corale di ascolto e comprensione delle tendenze nella domanda e di promozione dell’innovazione, attraverso logiche che siano realmente collaborative.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 3 febbraio 2012
https://robertabarbiero.wordpress.com/2012/02/03/packaging-nuovi-scenari-e-strategie-aziendali/
I buoni pasto per garantire il welfare aziendale
La promozione del benessere dei propri dipendenti passa anche attraverso il mercato dei buoni pasto, con notevoli vantaggi in capo alle stesse aziende
C’è una risorsa alla quale, pare, nessuna attività imprenditoriale possa rinunciare. Si tratta di una risorsa che, se ben sfruttata, può fare la differenza tra un’operazione di successo e una mediocre. È una risorsa ben difficile da gestire, spesso sottovalutata, a volte troppo favorita. È la risorsa umana.
Promuovere il benessere e la gratificazione di tale risorsa umana può sembrare, ad uno sguardo superficiale, un semplice dettaglio, una banale sfumatura legata all’inclinazione personale del titolare aziendale. Così non è. Se posti nelle condizioni a loro ottimali, se motivati dall’idea di ottenere una soddisfazione personale, se visti – ancora – come reali alleati e non come spesa inevitabile, ecco che i dipendenti aziendali possono trasformarsi in un’arma vincente da lanciare ai propri competitors. Non a caso si è scelto di chiamarli “dipendenti”, poiché l’efficacia o meno di una simile arma dipende in primis dalla capacità del “capo” di saperne cogliere le inclinazioni e di motivarne le azioni e dalla sua abilità a non farsi offuscare dal proprio ego, a riconoscere i propri limiti e a delegare ai propri collaboratori responsabilità e – soprattutto – fiducia e rispetto. Non si tratta certo di un compito facile, ma, come insegna la saggia cultura popolare, chi vuole la bici deve imparare a pedalare.
Una recente indagine in proposito è stata realizzata da AstraRicerche per conto di Endered: essa si è rivolta ad un campione di lavoratori italiani operanti in aziende, pubbliche e private, con almeno 16 dipendenti e appartenenti a settori economici ampiamente rappresentativi; ciò che si è cercato di indagare è il grado di soddisfazione percepito dai dipendenti all’interno della propria realtà lavorativa. In particolare il 54% degli intervistati era di sesso maschile, il 46% femminile e si è scelto di includere single, coniugati, separati e divorziati, provenienti da classi sociali differenti. I dati emersi rivelano un bisogno di welfare che in azienda non viene sempre soddisfatto: nonostante il 59% degli intervistati abbia spostato la priorità del proprio interesse sulla domanda di servizi piuttosto che sugli aspetti economici del proprio rapporto lavorativo, ben il 48,7% dichiara di non vedere colmate in modo efficace le proprie necessità di benefit, quasi a dire, ritornando al linguaggio della metafora, che non molti titolari hanno saputo pedalare davvero bene.
I servizi per i quali i lavoratori si sono dichiarati maggiormente interessati sono quelli legati alla persona e al suo nucleo familiare (88,5%), la possibilità di ricevere buoni pasto o di mangiare in una mensa aziendale (57%), il beneficio che deriva da degli orari flessibili e, infine, l’alternativa del telelavoro, per riuscire a conciliare gli orari di lavoro e la vita privata (worklife balance).
Subito dopo, le richieste dei dipendenti cadono sui servizi legati alla mobilità (tipo car sharing e car pooling), sull’assistenza medica, sui corsi e le attività culturali, sulla figura del cosiddetto “maggiordomo aziendale” (che dovrebbe svolgere alcune pratiche per conto dei dipendenti9, sull’asilo nido in azienda e sull’assistenza a bambini e anziani.
Tra tutti questi servizi sentiti come necessari, quelli effettivamente più diffusi sono i buoni pasto, le mense aziendali, la polizza sanitaria e l’orario flessibile, mentre tutti gli altri raggiungono delle percentuali pressoché trascurabili. Più di un terzo del campione non beneficia di alcun aiuto e sostegno da parte dell’azienda, in particolare nelle piccole e medie imprese (51%, di cui 39% riferito alle aziende del settore pubblico) e, anche nei casi in cui i servizi vengano offerti, viene spesso lamentata la scarsa qualità degli stessi, notevolmente inferiore alle aspettative.
Eppure i dati dell’indagine rivelano le forti ricadute positive che l’azienda potrebbe avere dal puntare sul welfare, poiché i dipendenti appagati mostrano maggiore motivazione e partecipazione agli obiettivi aziendali: tra essi, il 38% si è dichiarato favorevole all’incremento della produttività e alla riduzione dell’assenteismo, il 33% percepisce un rafforzamento del senso di appartenenza ai valori dell’azienda e il 32% valuta l’implementazione di simili servizi come una forma positiva di valorizzazione del capitale umano, quindi come una misura concreta di attenzione dell’azienda verso i propri dipendenti. Cresce, di conseguenza, anche il prestigio e la credibilità verso l’esterno di un’azienda che punti alla soddisfazione interna, in un regime di completa lealtà morale e sociale.
Uno dei benefici che maggiormente viene auspicato e – l’abbiamo detto – anche erogato ai dipendenti è quello relativo alla possibilità di trascorrere la propria pausa pranzo in un luogo convenzionato con l’azienda, in altre parole la possibilità di godere dei cosiddetti buoni pasto. Cerchiamo, allora, di concentrare ora la nostra attenzione su questo mercato che, pare, sia quello in maggior espansione nel campo della ristorazione.
Alternativo alle mense aziendali, lo strumento dei buoni pasto cominciò ad apparire in territorio italiano nei primi anni Settanta (allargando la prospettiva, ricordiamo che comparì per la prima volta nel 1954, in Inghilterra), seppur inizialmente venisse erogato solo in particolari e ben specifichi casi. Lo sviluppo progressivo del settore ne ha reso il volume d’affari annuo pari a 2,4 miliardi di euro (dati anno 2008) e le motivazioni ad un simile sviluppo risiedono – si legge sul sito di A.N.S.E.B. (Associazione Nazionale delle Società Emettitrici di Buoni Pasto) – nella possibilità per l’azienda di “eliminare i costi derivanti dall’allestimento dei locali da attrezzare per l’erogazione del servizio di mensa” e di ottenere dei “benefici fiscali che garantiscono l’esenzione dall’imposta sul reddito e dagli oneri contributivi fino ad un ammontare giornaliero di 5,29 euro”. Come si legge nel relativo statuto costitutivo, l’A.N.S.E.B è “un’associazione apartitica, non ha fini di lucro”, ma “ha il fine di rappresentare e tutelare in Italia ed all’estero gli interessi morali, professionali ed economici delle Aziende Associate”. Stando alle più recenti statistiche, sarebbero più del 40% i lavoratori che, pranzando fuori casa per motivi di lavoro, usufruiscono dei buoni pasto, pari a circa 2,5 milioni di persone (1,6 milioni nel settore privato e 600 mila in quello pubblico). 80 mila sono le aziende e le pubbliche amministrazioni che usufruiscono del servizio, mentre circa 120 mila sono gli esercizi convenzionati.
La norma di riferimento, tesa a regolamentare in modo organico il settore dei buoni pasto, è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 18 novembre 2005 (e successive modificazioni), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 17 gennaio 2006 e recante disposizioni in materia di “Affidamento e gestione dei servizi sostitutivi di mensa”.
Come funziona il meccanismo?
Gli attori in gioco sono sostanzialmente quattro: le società emettitrici, i datori di lavoro, gli esercizi erogatori dei servizi di ristorazione e i lavoratori. Le società emettitrici promuovono e vendono ai datori di lavoro i buoni pasto, che possono avere formato (cartaceo o digitale) e valore differente, a seconda delle esigenze del cliente; i datori distribuiscono poi i buoni pasto ai propri lavoratori dipendenti e fiscalmente assimilati, i quali, in seguito all’erogazione del servizio di ristorazione presso uno degli esercizi convenzionati (tale erogazione, fino ad un importo complessivo giornaliero di 5,29 euro, non costituisce reddito da lavoro dipendente ed è quindi esclusa da contributi previdenziali e assistenziali), cedono il proprio buono come forma di pagamento (pari al valore facciale del titolo) all’esercizio convenzionato; quest’ultimo dovrà successivamente presentare il buono alla società emettitrice, ricevendone, in cambio, il corrispondente in denaro e la regolare fattura.
Come si presenta il settore che stiamo indagando e qual è il mercato di riferimento?
Secondo particolari statistiche riportate da A.N.S.E.B. su elaborazioni C.S. Fipe, la maggior parte degli italiani lavoratori (13,058 milioni) pranza direttamente a casa, 2,768 milioni pranzano sul posto di lavoro, 2,459 milioni in una mensa, 1,525 in un ristorante o trattoria e 1,172 in un bar.
Sul totale di occupati a tempo pieno, gli italiani che ricevono il buono pasto sono il 16%: in particolare, nel Nord Ovest essi rappresentano il 24,3%, nel Centro il 20,8%, nel Sud e nelle Isole il 9,3% e nel Nord Est il 9%.
La maggior parte dei buoni pasto viene distribuita nel Nord Ovest (45,55% con un volume d’affari del 45,3%), seguito dal Centro (25,65% per un volume d’affari del 26,8%), dal Sud e dalle Isole (16,96% con un volume d’affari del 15,9%) e, infine, dal Nord Est (1,84% e volume d’affari pari al 12,1%).
La maggior parte, l’81%, del valore del mercato dei buoni pasto è riconducibile al settore privato, il 19% al settore pubblico: in particolare, nel Nord Ovest il 93,5% di tale valore fa riferimento al privato, mentre il 6,5% al pubblico; nel Nord Est la segmentazione è 86,9% per il privato e 13,1% per il pubblico; nel Centro 73,3% contro 26,7%; nel Sud e nelle Isole 70,4% contro 29,6%.
Una decina sono le società che si dividono un mercato altamente frazionato, in testa alle quali si colloca Edenred, con una quota pari al 52% e con 1,3 miliardi di euro; subito dopo vengono Qui Ticket con 22% di quota e 560 milioni di euro, Day con 500 milioni (20%), Sodexo con 245 milioni e Pellegrini con 150 milioni. Edenred, Sodexo e Day sono anche inseriti nei principali mercati internazionali.
La presenza di un mercato così competitivo è causa di un’intensa ricerca votata all’innovazione in capo alle aziende che compongono tale mercato. Si veda, ad esempio, Day, prima a lanciarsi nell’e-commerce per la vendita dei propri buoni pasto: essa ha creato “myDay”, piattaforma web per la gestione degli ordini, “Dayshop”, pensato per le aziende per l’acquisto dei buoni pasto in soli quattro click, “Cadhoc”, il buono regalo acquistabile via web e implementato grazie all’alleanza con il gruppo francese Chèque Déjeuner, “DayTronic”, un ticket in formato elettronico, infine una piattaforma per spendere i buoni direttamente online, in previsione per settembre; Day è inoltre presente nei principali circuiti sociali.
Quello dei buoni pasto, in conclusione, non rappresenta l’unico strumento capace di garantire il rispetto del welfare aziendale, ma, certamente, ne costituisce una componente fondamentale, capace di garantire al dipendente il rispetto delle proprie abitudini alimentari, l’esenzione da oneri fiscali e previdenziali e il rispetto completo della pausa pranzo, attraverso l’allontanamento dal luogo di lavoro e dalle problematiche della routine lavorativa. Allo stesso tempo si assicura alle imprese l’ottimizzazione rispetto ai costi di gestione delle mense, la deducibilità ai fini IRES di tali costi sostenuti (in quanto mezzo utile ad ottimizzare la produttività del lavoratore) ed, infine, la maggiore flessibilità nella gestione degli orari di pausa pranzo.
Pubblicato su: PMI-dome
Pubblicato da robertabarbiero in 12 settembre 2011
https://robertabarbiero.wordpress.com/2011/09/12/i-buoni-pasto-per-garantire-il-welfare-aziendale/