Birra Tempesta: qualità, carattere e passione in una bottiglia

In questa brillante intervista, Pierluigi Ceola e Claudio Pigozzo ci raccontano la loro sfida imprenditoriale, frutto di dedizione e voglia di mettersi in gioco. Un progetto che affonda le proprie radici nella storica città di Noale, in provincia di Venezia, e che ha portato loro ad essere produttori d’eccellenza

“Perché la birra ci piace”. Una spiegazione semplice, quasi banale, verrebbe da dire.
Circondati, come siamo, da innumerevoli stimoli e momentanee tendenze, finiamo spesso per sottovalutare la forza propositiva e la valenza concreta del piacere.  Eppure è proprio partendo da questa “banale” dimensione del piacere che sembrano nascere le idee più innovative e che si sviluppano delle professionalità eccellenti. Ed è qui che si colloca anche la sfida imprenditoriale di Pierluigi Ceola e Claudio Pigozzo. Età, caratteri, abitudini e percorsi di vita diversi per questi due maestri del palato, destinati ad incontrarsi in quel terreno fertile che è la passione. Passione per la birra, innanzitutto. Non quella mainstream, solitamente accompagnata da payoff frizzanti e dall’aggettivo “dissetante”. Una produzione limitata e pregiata, che nasce dalla nicchia tipicamente riservata alla qualità, ma che aspira a farsi sapore comune, nel segno della convivialità e dell’educazione al gusto.
Quella che cercheremo di conoscere è, allora, la storia di due uomini che, ad un certo punto, hanno scelto di fare una scommessa, investendovi tempo, risparmi, aspettative, sorrisi e nodi alla gola, motivati appunto da quel fatale “ci piace”. Una storia fatta di luoghi, materie prime raffinate e insolite, pigli creativi e voti all’eccellenza. La storia di un successo imprenditoriale tutt’altro che scontato, costretto continuamente a fare i conti con le ridotte dimensioni, gli alti rischi e le resistenze di pubblico, dunque con le molte difficoltà imposte dalle premesse stesse su cui tale successo si fonda.
C’era una volta la Birra tempesta, così comincia questa storia, che cercheremo di raccontarvi attraverso le parole stesse di chi ha impiegato tutte le proprie forze nello scrivere un simile incipit e che, come nella migliore tradizione, ci auguriamo terminerà con un “per sempre felici e contenti”.
Un progetto estremamente settorializzato, che consiste nell’ideazione, produzione artigianale e vendita di birre esclusivamente ad alta fermentazione, in stile inglese (ale). Un disegno che affonda le proprie radici nel territorio e lo fa a partire dal nome, scelto in onore della famiglia Tempesta; la stessa che, a partire dal XII secolo, fece di Noale il centro di una signoria rurale, scegliendo come sede del proprio potere la Rocca, simbolo passato e attuale della città veneziana dalla quale provengono Pierluigi e Claudio.
Prima di leggere il testo dell’intervista che i due produttori d’eccellenza ci hanno concesso, vi consigliamo di seguire questo link ad un articolo di approfondimento sullo stato dell’arte del settore birra in Italia.
Inoltre potrete vedere la video intervista direttamente a questo link.
Partiamo con una domanda semplice: spiegaci cos’è Birra Tempesta e com’è nato il progetto.
Pierluigi: Birra Tempesta è nata il 2 novembre del 2010. All’inizio era una sfida, un gioco, una voglia di provare qualcosa di nuovo, una passione che voleva realizzarsi. In realtà siamo degli alcolisti anonimi, bere costava troppo e abbiamo cominciato a produrre la nostra birra. Scherzi a parte, il tutto è nato proprio come un gioco, volevamo realizzare una birra che rispecchiasse i nostri gusti: siamo appassionati di birre inglesi, uno stile di birra che si beve per far festa, in grandi quantità (mai senza esagerare ovviamente, questo per par condicio bisogna dirlo) e con piacere. Così abbiamo scelto di fare una prova; avevamo un amico che produceva birra già autonomamente, gli abbiamo chiesto se potevamo produrre anche noi la nostra e ci ha dato il via libera. È partita così la prima cotta, ovviamente in modo molto artigianale, partendo dalla ricetta (all’inizio non sapevamo niente su come si produceva) fino alle etichette, fatte al computer (siamo andati a stamparle in un centro grafico alle tre del mattino per poterle avere il giorno dopo alle sette). Perciò tutto molto rustico, alla mano, on the road, come piace a noi. La prova è venuta bene o, meglio, ci hanno detto essere venuta bene. Noi ci abbiamo creduto e abbiamo fatto un’altra cotta. I litri all’inizio erano 250 – che è veramente pochissimo rispetto a quello che facciamo adesso – però li abbiamo bruciati in un mese, complice un po’ il periodo di festa (la prima birra che abbiamo fatto era la Tempesta di Natale). Il gioco ha, quindi, preso piede per bene e abbiamo scelto di continuare: da una sola birra prodotta nei primi tre mesi di attività, siamo passati a 5 birre nel 2012.
Entriamo un po’ più nel vivo del progetto imprenditoriale che sta dietro “Birra Tempesta”: quante persone in tutto vi lavorano e quali sono i suoi caratteri distintivi (Sistema produttivo e distributivo)?
Pierluigi: Siamo partiti – ripeto – con 250 litri, mentre adesso, che siamo entrati a pieno regime, sono 1300 litri a cotta, mediamente una volta al mese (può capitare anche di più). Le persone che ci lavorano sono due, io e il mio socio. Credo che, con i tempi che corrono, l’idea di azienda perfetta sia questa: sii imprenditore, ma di te stesso; quindi rimboccarsi le maniche e fare quando c’è bisogno di fare. Lo spirito per costruire qualcosa di proprio dev’essere proprio questo, fare in prima persona, con le proprie mani. Io lavoro nella ristorazione da tanto tempo, in sala, nasco come sommelier però la mia passione è la birra. Il mio socio è un cuoco, anche lui è nella ristorazione, forse lui più di me aveva questa idea di creare e io l’ho abbracciata appieno, insomma era quello che volevo fare anch’io. Noi ci arrangiamo praticamente in tutto, partendo dalle ricette delle birre, che cerco sempre di seguire io in prima persona, dalla fase di progettazione, fino poi alla fase di produzione vera e propria. Seguo anche tutto ciò che ci sta dietro: imbottigliare la birra, tapparla, etichettarla, metterla nei cartoni, portarla a casa e venderla. Questa è un po’ l’idea di azienda di Birra Tempesta. Home made – diciamo – craft project. Per la vendita, abbiamo uno sbocco fantastico che è quello del Cortivo [il frequentatissimo locale di Noale in cui lavorano i due birrai, ndr], però abbiamo distribuito qualcosina anche in giro. Pochi amici perché crediamo che questo tipo di birra, essendo comunque una produzione limitata, debba essere valorizzata per quello che è, cioè un prodotto di qualità che ha un costo, purtroppo, non irrisorio e perciò ha bisogno di essere venduto con uno spirito diverso da quello tipicamente usato per le birre di un qualsiasi altro birrificio industriale. Questo è un po’ il nostro credo. Una distribuzione limitata ai pochi in cui noi crediamo… anzi loro credono in noi, forse questa è la cosa più giusta da dire. Le grafiche le realizzo io, anche se le pensiamo sempre assieme io e il mio socio. Sempre fifty-fifty, sia nel bene che male.
Prova a fare una rassegna veloce delle birre che producete, aggiungendo un commento strettamente personale su quale sia la tua preferita.
Pierluigi: Come dicevo prima produciamo birre in stile inglese, ad alta fermentazione (“ale”, per chi parla un po’ il “birrese”). Cerchiamo di rispettare sempre i canoni delle birre inglesi, che sono a basso grado alcolico (la birra che, tra le nostre, ha più gradi arriva a 7, a parte quelle speciali che non rientrano nella linea base). Le nostre birre sono cinque, partendo dalla “bambina”, dalla pale ale che rappresenta, secondo noi, un po’ la base che può piacere a tutti: è la Ultra, una birra da 4,5 gradi, amabile, non troppo amara, beverina, poco gas, con profumi floreali e un gusto erbaceo bello spiccato. Una birra che si può bere tranquillamente in qualsiasi momento e può berla chiunque senza spaventarsi. Passiamo a quella un po’ più “grande”, che, pur avendo meno gradi alcolici, è più caratteriale dell’altra: è la Secca, una birra da 3,8 gradi, con un corpo molto secco, un gusto amaro spiccatissimo e profumi, anche qui, molto importanti. Si tratta però di profumi molto diversi, che tendono ai frutti tropicali, all’ananas, alla papaya, con addirittura qualche sfumatura di cocco. È una birra molto particolare. Di nuovo, poco gas perché lo stile lo richiede. Noi solitamente cerchiamo di servire sempre tutte le nostre birre in pompa inglese, secondo tradizione, senza utilizzo di gas; le facciamo ovviamente tutte anche in bottiglia perché il mercato richiede, però lo stile perfetto per le nostre birre, l’esecuzione perfetta, si ha con la pompa inglese. “Sorella maggiore” della Secca è la Nemesi, una IPA (India Pale Ale) da 5,5 gradi, ambrata, anche questa molto profumata, per una luppolatura spiccata come la precedente. Cambiano nuovamente i profumi, qui tendiamo un po’ di più all’agrumato, alla buccia d’arancia, con delle bellissime sfumature di resina che la rendono molto particolare. In bocca c’è una parte più morbida, più caramellata, in realtà è molto più amara dell’altra, ma l’amaro è meno percettibile perché è equilibrato dal dolce. Passiamo alla Nera, che è una Oatmeal Stout, entrando nel particolare una stout con una piccola percentuale di avena che produce una birra un po’ più rotonda. Anche questa è una birra molto leggera, di 4,5 gradi. I profumi qui non sono dati dal luppolo ma dal malto tostato. Si sentono profumi di liquirizia, caffè (più di tutti) e cioccolato. Questa è forse una birra un po’ più difficile, per chi è un profano dello stile inglese, non è una birra semplicissima, non è da tutti. Passiamo all’ultima birra, che è la Rocca. Si tratta di una birra speciale che è l’evoluzione della prima da cui siamo partiti, la Tempesta di Natale. La classifichiamo come “specialità”, in realtà lo stile è strong ale. Abbiamo aggiunto delle spezie, la buccia d’arancia amara e il coriandolo. È rifermentata con del miele di tiglio, un miele biologico non pastorizzato, non trattato, perciò, un prodotto che vuole essere un po’ di nicchia e avere un occhio particolare alla salute. Sette gradi per questa birra: a richiedere una gradazione più elevata è il corpo stesso della birra. Si tratta, infatti, di un prodotto po’ più complesso e strutturato (ci sono malti caramellati, c’è una parte di malto tostato, si crea un equilibrio vario e importante) che perciò ha bisogno di una struttura anche in bocca. Una birra del genere, senza un po’ di corpo, cadrebbe subito in bocca, perciò perderebbe la sua importanza totale. Facciamo anche qualcosa di più particolare, come la Suicide Zar, una imperial russian stout (è una nera molto particolare che storicamente veniva esportata in Russia), attuale fiore all’occhiello, secondo me, della nostra produzione. Nove gradi, profumi di caffè, cioccolata e liquirizia, è una birra che merita. Tra quelle che produco la mia birra preferita rimane e rimarrà sempre la Secca, servita in pompa: amara, beverina, profumata, 3,8 gradi, è acqua praticamente, però non lo è nel carattere.
Come si giunge alla combinazione finale di una birra? Quando capite che è quella giusta?
Pierluigi: Ne beviamo tanta e ci aspettiamo un resoconto dalla gente che la beve: noi facciamo le birre seguendo il nostro gusto, ma un’azienda deve anche vendere, quindi uniamo un po’ il lato dilettevole a quello che dev’essere poi l’utile. Il prodotto deve piacere a te che lo fai, ma anche agli altri, altrimenti lo fai a casa o te lo bevi. Ribadisco il concetto: qui [al Cortivo, ndr] abbiamo un bacino di utenza molto ampio, quindi ci confrontiamo con parecchi gusti, parecchi pareri e con livelli molto diversi di conoscenza della birra. Abbiamo perciò la possibilità di avere un feedback quasi a 360 gradi che ci permette di capire cosa cambiare e cosa mantenere. Solitamente per affinare una birra ci vogliono dalle 2 alle 3 cotte, a volte anche 4, per quelle un po’ più particolari. Si parte con un’idea, si assaggia. C’è una piccola parentesi da aprire: essendo artigianali, non pastorizzate e non filtrate, le nostre birre sono in evoluzione costante, da quando vengono imbottigliate a quando vengono bevute. Questo comporta un cambiamento della birra nel tempo, a volte un miglioramento, a volte una degradazione, per quanto minima. Dobbiamo anche valutare questo: la birra è buona quando offre subito delle buone sensazioni e le mantiene anche nel tempo. Questa è un po’ la cosa più difficile perché, ovviamente, non è facile prevedere come evolverà una birra.
Fare birra è o non è un lavoro per tutti? Quali particolari attitudini sono necessarie per intraprendere un simile percorso? 
Pierluigi: Penso che fare birra, prima di essere un lavoro, debba essere una passione. Nasce come passione e come gioco, diventa un lavoro, però ci devi sempre mettere amore. Io credo che debba essere per tutti, perché, essendo un prodotto molto personale, è importante quello che può fare ogni persona, ovviamente con un minimo di consapevolezza su cosa si sta facendo, dove si vuole andare e cosa si vuole fare. Io adoro assaggiare sempre birre nuove. Ho tanti amici che incoraggio a mettersi in gioco, perché a me piace il confronto, soprattutto con chi ne sa, è sempre qualcosa di costruttivo e credo che, se vuoi andare avanti, devi avere anche un minimo di confronto critico – basta sia ovviamente costruttivo – con altri produttori. Spero, allora, che fare birra sia per tanti, ma che poi siano i pochi che riescono a trovare una vera ragione d’essere a sopravvivere. Incoraggio a provare, anche per capire cosa c’è dietro al mio lavoro.
“Birra Tempesta” è una birra che, nel concept, è radicata nel territorio. Parliamo però di materie prime e proviamo ad unirvi un concetto molto caro agli esperti di marketing, la sostenibilità. Voi dove recuperate le materie prime? È possibile e auspicabile una birra “a km zero”? E quanta percentuale di queste materie prime viene “sprecata” nel corso del processo produttivo? Fare birra artigianale può essere, in definitiva, considerata un’operazione “ecologica” o l’imperativo assoluto è il gusto, la qualità organolettica? 
Pierluigi: Credo che fare birra possa essere sostenibile a livello ecologico. Purtroppo, per quello che è il mercato della produzione di birra in Italia adesso, siamo ancora nel momento dell’esplosione, della crescita. Stanno nascendo un sacco di piccole aziende che producono malti e luppoli. Per quanto riguarda i lieviti, il discorso è un po’ più difficile e delicato, ci vuole una cultura un po’ più solida per produrre qualcosa di valido commercialmente. Per adesso purtroppo – o per fortuna, questo lo diremo più avanti – prendiamo tutta la materia prima dall’Inghilterra. Tutti i malti li prendiamo dall’Inghilterra, i luppoli in realtà da tutto il mondo, perché c’è una grandissima produzione. L’estero è molto più avanti di noi su questo, l’America ormai da 15-20 anni produce luppoli importanti, esportati ovunque, il Giappone è un’altra realtà forte, da pochi anni ha iniziato a produrre anche la Nuova Zelanda. C’è una crescita mondiale della cultura della birra. L’idea di una birra a km zero ci è sempre piaciuta e ci auguriamo che sia realizzabile nel più breve tempo possibile. C’è un’azienda qui vicino, a Scorzè, che prima produceva frutta e verdura, poi si è messa a produrre luppoli e da quest’anno produrrà anche malti. Volendo, nella produzione della birra non si butta via niente: la trebbia dell’orzo esausto usato per fare la birra può essere usata in mille modi, noi ad esempio la riutilizziamo per fare i biscotti al malto di birra, ma può essere anche data da mangiare agli animali. Il problema dello spreco è nell’acqua: purtroppo per fare 100 litri di birra ce ne vogliono quasi 200 di acqua. Ci sono molte aziende che, però, si stanno ingegnando per ridurre al minimo questo sprechi e si spera che, anche nelle piccole realtà, possano essere applicati questi nuovi metodi. Porto un esempio (che da una parte è valido e dall’altra un po’ meno): la Heineken utilizza l’acqua dell’evaporazione per i vari cicli del raffreddamento o del mantenimento dell’acqua calda, cercando di mirare al massimo risparmio. Il costo vivo della produzione della birra non è in realtà tanto la materia prima quanto poi la tassazione da parte dello Stato, che non aiuta per niente. Idealmente questo è il costo più pesante, la materia prima incide ma in misura mai superiore al 60% della spesa totale.
La stagionalità come influenza – se influenza – la vostra produzione?
Pierluigi: La stagionalità influenza la produzione ma in maniera non eccessiva. Le birre più alcoliche e più forti tendono ad essere consumate di più d’inverno, le birre più leggere e beverine hanno, invece, più motivo d’esistere in estate. Essendo, però, la nostra una produzione comunque abbastanza piccola, tendiamo ad avere un riciclo molto veloce, riusciamo a far susseguire una cotta al mese da 1300 litri e in tre quattro mesi riusciamo a finirla.
Come comunicate il vostro prodotto? Su quali valori e su quali mezzi puntate maggiormente? Quanto conta il marketing nel decretare il successo di una birra?
Pierluigi: Il marketing ha sempre un certo riscontro, forse, però, più a livello nazionale per le grandi industrie e per grandi aziende. Noi ci crediamo, più che per vendere di più, per divertirci di più. Comunichiamo a costo zero, utilizzando Internet, Youtube, Facebook… Idealmente sono i mezzi su cui dovrebbero puntare tutte le aziende, vista la crisi, vista la mancanza di fondi per la comunicazione del proprio prodotto. Abbiamo sviluppato una campagna di video che produciamo mensilmente, creando un’immagine divertente attorno alla birra, che rispecchi il valore della birra stessa: bere la nostra birra significa sì bere bene e di qualità, ma anche bere per divertirsi e comunicare uno stato d’animo particolare, legato alla birra e soprattutto alla gente che fa la birra. Io prendo sempre il Cortivo come punto di riferimento perché è casa mia: qui creiamo serate in cui, partendo da qualche birra, si arriva a concerti con batterie e bassi improvvisati, fino all’alba. La nostra birra è un collante per quello che è il divertimento e la condivisione sociale. Facebook e Youtube io credo siano il futuro, per quanto riguarda la comunicazione a costo zero. Internet in generale dovrebbe essere lo strumento del futuro. Noi ci crediamo e ci affidiamo all’esempio di un’azienda scozzese [Brewdog, ndr] che allo stesso modo ci ha creduto, comunicando un prodotto di qualità in maniera a volte anche esagerata, ottenendo grande presa in Internet e tra i giovani, che rappresentano poi il nostro principale target di riferimento.
Brand naming: come avviene il processo di scelta dei nomi (sia dell’intero progetto “Tempesta” sia delle varie birre prodotte)?
Pierluigi: Birra Tempesta… siamo a Noale e, per chi non lo sapesse, chi ha fondato nel medioevo l’odierna Noale è proprio la famiglia Tempesta, perciò abbiamo voluto offrire questa dimensione un po’ casalinga alla birra. Per quanto riguarda i nomi delle birre, la scelta è abbastanza casuale o meglio – a parte “la Rocca” che è sempre legata territorio di Noale – si tratta di omaggi fatti alle nostre passioni (a volte una caratteristica della birra, a volte il nome di una canzone che ci piace…); non abbiamo un’idea fissa di come dare il nome alla birra: la facciamo, la assaggiamo e creiamo un nome assieme, non abbiamo regole, non ci piacciono gli schemi e cerchiamo di fare birre buone che piacciano a noi e che rispecchino anche noi nel carattere.
Parlaci dell’approccio verso il packaging. Quale formato prediligete? Credete nella forza comunicativa del contenitore e nella sua capacità di influenzare la propensione all’acquisto da parte del pubblico?
Pierluigi: Una piccola parentesi prima di rispondere: siamo in Italia e l’Italia è il paese del vino. Per antonomasia la bottiglia del vino è da 75 cl. Vedo molte aziende italiane usare questo formato, ma la birra non è vino, per come la vedo io. Il formato da 33 cl lo usiamo poco, però crediamo sia valido per determinate birre, per birre importanti come la nostra da 9 gradi, ad esempio, per le quali avrebbe poco senso usare il formato da 50 cl. Quello da 33 cl è un formato più coccolo, dà un po’ l’idea della chicca e quindi lo usiamo in questi particolari eventi. Per quanto riguarda la distribuzioni all’esterno del nostro locale, il formato da mezzo litro rappresenta lo standard minimo (se bevi una birra piccola sei una persona immorale, altamente immorale). Ripeto, proviamo sempre a proporre l’utilizzo della pompa inglese, il metodo di spillatura per eccellenza delle birre ad alta fermentazione in stile inglese: non si usa anidride carbonica e ne esce una birra che, il più delle volte, non è piatta ma quasi, ha pochissimo gas, una birra leggera, che può essere bevuta senza particolari effetti collaterali. Se possiamo, siamo in giro con le pompe, è un sistema un po’ più macchinoso per servire la birra, però ci crediamo fermamente. Abbiamo regalato una pompa a uno dei locali che serve più spesso la nostra birra, proprio perché vogliamo che il prodotto sia buono, come piace a noi. Questo è, secondo noi, il format che per le nostre birre è vincente.
Bel ragazzo, giovane, uno stile particolare… Forse non c’è miglior veicolo, per comunicare il prodotto, di chi il prodotto lo realizza! Quanto conta nella vendita delle vostre birre il rapporto diretto che riuscite ad instaurare con la clientela?
Pierluigi: Conta al 100%. Chi sei e cosa fai è importantissimo, lo trasmetti anche solo dalla luce che hai negli occhi. Quello che faccio e vendo io in prima persona ha un sapore tutto diverso, perché io ci credo. Un po’ di esperienza nel vendere ce l’ho, ma non vendo solo birra vendo anche poesia, anche un po’ di passione. A parte il “bel ragazzo”, che è discutibile, lo stile può servire, ma credo che se tu metti la tua passione dentro la bottiglia, oltre alla birra buona, e poi la proponi tu in prima persona, difficilmente non piacerà. Credo sia essenziale, se credi in quello che fai e vuoi trasmettere qualcosa, essere sempre in prima linea. Questo locale, che è il cuore, il fulcro di birra Tempesta, lavora molto e bene, qui c’è un giro di gente molto vario e ampio e tutta la settimana ho la possibilità di spiegare alla gente cosa faccio e cosa vendo. In tutti i target ho un riscontro sempre molto positivo. Ognuno ha le sue preferenze, ma nessuno ha mai denigrato la mia birra o quello che faccio. Perciò sì, è importante l’immagine di chi fa, ma più importante ancora è l’anima che si mette dentro la bottiglia. Anche perché il mio socio è bruttissimo, posso dirlo perché non c’è!
Dall’ideazione alla comunicazione, avete un pubblico ideale al quale vi rivolgete? Aspirate ad essere conosciuti dalla massa, dunque a diffondere la qualità, o pensate sia più proficuo continuare a guardare alla nicchia e dunque ad un pubblico ristretto e “che ne sa”? 
Pierluigi: Siamo partiti volendo rivolgerci un po’ a tutti e vogliamo ancora rivolgerci un po’ a tutti, con la cultura generale di quello che è birra e di quello che secondo noi è la birra buona. Tendiamo, però, essendo limitati i volumi di produzione, a rivolgerci soprattutto a chi ci crede, quindi a un pubblico un po’ più piccolo di quello relativo al mercato globale e anche italiano degli altri microbirrifici (1300 litri di birra al mese per un microbirrificio non sono niente). Stiamo puntando, soprattutto in questo ultimo periodo, sulla qualità. Realizzeremo una serata tra un po’ – in giugno, se non sbaglio – in un ristorante stellato, perciò in una realtà di ristorazione importante (che tradizionalmente non è tanto legata alla birra quanto piuttosto al vino): abbiamo conosciuto un ragazzo giovane al quale è piaciuta la nostra birra e col quale ci siamo trovati d’accordo su una serie di discorsi, lui ci ha detto di questa manifestazione che organizza ogni anno e che punta sui giovani e ci ha proposto di partecipare. Noi siamo giovani, con un prodotto di qualità e ben venga se 200 milioni di persone domani bussano alla porta e mi chiedono la birra; ma non ce l’avrò per tutti e preferisco darla a chi la capisce. Non è la voglia di arricchirsi a spingerci in questa impresa, è la voglia di trasmettere un messaggio attraverso il nostro prodotto.
Quanto costa fare la birra? Quale voce pesa di più? “Sfidare” il mercato e specializzarsi serve in tempi di crisi? Il vostro può essere classificato come successo o è un’impresa “in negativo”, dal punto di vista strettamente economico?
Pierluigi: Fare birra costa. Nel nostro caso il costo è ancora più elevato, perché affittiamo un impianto, non ne siamo i possessori. Rende, questo sì, altrimenti ci saremmo fermati da tempo. Non sono però – ripeto – le rendite che servono per arricchirsi, sono le rendite da affiancare a quelle di una realtà già esistente. La produzione sta diventando una realtà a sé, ma siamo partiti da qui [dal Cortivo, ndr] e grazie al locale abbiamo potuto cominciare a produrre in maniera importante. Lo ripeto, la materia prima, anche se di prima qualità, non va ad incidere troppo sul prezzo, la manodopera è gratis, perché è nostra, non ci paghiamo quanto dovremmo. La tassazione non aiuta, credo sia una coscienza comune dell’Italia che lo Stato non aiuta, soprattutto le piccole imprese. Speriamo ci sia qualche cambiamento positivo su questo fronte. Al di là della mera materia prima, ci sono altre spese di gestione impianto, consumi, però sempre fino ad un certo punto.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontrate nella vostra attività? Ci sono alcuni aspetti della filiera che va dall’ideazione alla vendita che rendono particolarmente ardua la vostra impresa?
Claudio [che nel frattempo ci ha raggiunto]: Nella produzione della birra artigianale, oggi abbiamo anche delle difficoltà nella reperibilità della materia prima. Quest’anno non a caso abbiamo fatto degli acquisti mirati, per avere una continuità sui luppoli e su certi tipi di malto utilizzati. La birra artigianale viene spesso ritenuta incapace di mantenere uno stesso standard e questo è dovuto alla difficoltà che si ha nel reperire certi luppoli, capaci di dare quella sfumatura particolare che differenzia la produzione di ogni birrificio da quella degli altri. L’anno scorso siamo stati un po’ altalenanti, ora per avere una certa continuità si tende a fare degli acquisti mirati che hanno un panorama annuale e non più mensile o semestrale.
Una domanda orientata al futuro: avete intenzione di cavalcare qualche particolare tendenza del settore o avete in mente dei cambiamenti da apportare al vostro sistema produttivo e distributivo (collaborazioni, nuovi stili di birra, contaminazioni…)? Vedremo un canale e-commerce?
Pierluigi: Il futuro è qualcosa di oscuro e ignoto. Ovviamente ci piacerebbe fare mille cose, provare birre nuove, stringere collaborazioni con qualche birrificio importante, anche internazionale. Chi vivrà vedrà, dicono. Intanto concentriamoci sul continuare a produrre la nostra birra di qualità. Vogliamo espandere quello che è il circolo della vendita, puntando su coloro che credono nel prodotto. E-commerce: per ora non vendiamo in Internet, c’è una piccola presentazione delle bottiglie nel sito, però credo sia una cosa per noi abbastanza irrilevante. Per ora non abbiamo avuto riscontri, abbiamo provato (non era proprio un e-commerce), ma il tentativo non ha mai sortito un grande effetto sul pubblico.
Claudio: cerchiamo di interpretare sempre, nelle birre, un gusto di tendenza, di seguire quello che la gente vuole, in questo momento, bere; fermo restando che il nostro stile resta il nostro stile, quindi non produciamo e non produrremo mai fuori dal nostro stile, ma interpretiamo la contemporaneità dei gusti. A noi piace questo determinato comparto del panorama birrario, cerchiamo di interpretarlo al meglio, un po’ in chiave moderna, però senza allontanarci troppo dallo stile classico che hanno le birre inglesi e dalle loro caratteristiche, che sono per noi la religione.
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Uno sguardo al mercato della birra in Italia

In occasione della “Settimana della Birra Artigianale”, ecco un’approfondita riflessione sullo stato dell’arte del settore. Secondo l’ultimo Annual Report AssoBirra, la produzione e il consumo di birra tengono, nonostante la crisi, trainati dall’export. Unionbirrai ha indagato il comparto artigianale, attivo soprattutto al nord, in costante evoluzione e con ampi margini di crescita. Brewpub sembrano rendere più dei microbirrifici

In questo articolo cercheremo di fornire un quadro di riferimento sullo stato dell’arte del settore birra in Italia, al fine di consentire una lettura consapevole delle risposte fornite da Pierluigi Ceola e Claudio Pigozzo – due produttori di birra d’eccellenza – nell’intervista che ci hanno concesso.

L’argomento appare di estrema attualità, visto che a Rimini si è da poco conclusa Selezione Birra. Si tratta della più importante manifestazione dedicata agli operatori del settore birrario, ospitata all’interno di Rhex, Rimini Horeca Expo, il salone internazionale dedicato alla ristorazione e all’ospitalità (dal 23 al 26 febbraio). Tra gli espositori, molti i produttori artigianali italiani – oltre ovviamente ai distributori, agli importatori, alle associazioni e alle aziende correlate – che hanno saputo proporre una vasta gamma di birre speciali e prodotti di nicchia, introvabili altrove. Tra gli eventi collaterali, anche Birra dell’Anno, l’atteso concorso nazionale, promosso dall’associazione Unionbirrai, che ha premiato le migliori birre per ogni tipologia individuata.

È appena trascorsa anche la Settimana della Birra Artigianale (da lunedì 4 a domenica 10 marzo), “una grande festa ideata per celebrare la birra di qualità, nazionale o straniera che sia”, proponendo diversi eventi e promozioni nei locali italiani devoti alla birra artigianale.
I DATI DI ASSOBIRRA
Ogni anno AssoBirra, “l’associazione degli Industriali della Birra e del Malto” pubblica una ricerca quali-quantitativa sulla situazione del mercato della birra in Italia e sulle abitudini di consumo degli italiani. Data la natura dell’associazione, il documento indaga principalmente il segmento industriale, tralasciando uno specifico focus sulle produzioni artigianali. Alcuni trend rilevati sono comunque utili a comprendere lo stato di salute generale del settore e, parallelamente, i mutamenti di gusto in corso.
L’ultimo Annual Report AssoBirra, diffuso nel 2012, si riferisce, in particolare, al 2011 e rileva una sostanziale tenuta della produzione e del consumo, nonostante la crisi: dopo un biennio particolarmente difficile, si consolida il movimento di ripresa avviato nel 2010. Stabilimenti industriali e microbirrifici collocati nel territorio nazionale hanno, infatti, aumentato del 4,7% la quantità prodotta, facendo registrare volumi – 13.410.000 ettolitri – vicini a quelli del 2007 (il miglior anno di sempre, con 13.461.000 hl di birra prodotti).
A trainare la crescita è stato soprattutto l’export: il 16,3% del totale prodotto nel 2011 (pari a 2.086.000 hl) è stato esportato, con un incremento di 11,6 punti percentuali sul 2010 (pari a 200.000 hl in più). Basti pensare che nel 2006 il volume di esportazioni rappresentava appena un terzo dell’attuale (781.000 ettolitri). Il mercato di destinazione primaria della birra made in Italy è la Gran Bretagna, che assorbe il 60% del totale esportato (1.250.000 hl).
Con 6.391.000 hl di birra importati nel 2011, cresce anche il volume di import, seppur in maniera meno marcata (+1,4% sul 2010 e +11% sul 2006). La birra più richiesta in Italia è quella proveniente dalla Germania (53% del totale importato, pari a 3.400.000 hl).
Si attenua, di conseguenza, il tradizionale saldo commerciale negativo tra export e import, sceso dai -4.435.000 hl del 2010 ai -4.305.000 hl del 2011 (-2,9%).
Il mercato principale di riferimento è quello europeo (assorbe il 74% dell’export e il 97% dell’import birrario italiano). In tale contesto, l’andamento della produzione appare meno dinamico di quello specificatamente italiano (+1,1% sul 2010), facendo collocare il nostro Paese al decimo posto, con il 3,4% della produzione totale, dietro Germania (25%), Regno Unito, Polonia, Spagna, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Belgio, Romania e Francia, ma davanti a Paesi di consolidata tradizione birraria come Austria, Danimarca e Irlanda.
Il settore birrario conferma la propria rilevanza economica e sociale: esso vale oltre 2 miliardi e mezzo di euro, produce e distribuisce circa 2.000 marchi di birra, solleva investimenti in territorio nazionale pari a 1 miliardo di euro (per l’approvvigionamento di beni e servizi) e, con circa 400 unità produttive (di cui 14 stabilimenti industriali di birra, 2 di malto e circa 400 tra micro birrifici e brew-pub), offre occupazione a oltre 4.500 persone (cifra che sale a oltre 144mila, se si considera anche l’indotto allargato). Il settore contribuisce anche in modo significativo alle entrate dello Stato: tra Iva, accise, tasse e contributi, allo Stato arrivano circa 4 miliardi di euro annui dalla produzione e commercializzazione di birra (464 milioni solo dalle accise, pari al +4,5% sul 2010).
Crescono, allora, nel 2011 anche i consumi in Italia (+1,4% sul 2010), stabilizzandosi sui 17.715.000 hl di birra complessivi, pari a 29 litri pro capite: il 63,9% è stato sostenuto dalla produzione nazionale (contro il 63,5% del 2010), mentre il restante 36,1% (pari a 6.391.000 ettolitri) è stato importato.
Siamo lontani dal picco storico di consumi registrato nel 2007 (31,7 litri pro capite) e ancor di più dalla media europea (72,4 litri pro capite, con un gap che è salito dai 41,3 litri del 2010 ai 43,4 litri del 2011, confermando il nostro Paese all’ultimo posto nella classifica dei consumi di birra, che vede, invece, in testa Repubblica Ceca, Belgio, Austria e Germania).
Tuttavia sembra migliorare la cultura birraria tra gli italiani. La domanda interna è orientata, infatti, sempre più sulla qualità: aumentano dell’1,2% i consumi dei due segmenti top della birra (Specialità e Premium), che raggiungono nel 2011 il 44% del totale, mentre diminuiscono i consumi di tutti gli altri segmenti (Main Stream si attesta a quota 48,7%, Economy al 2,2%, Private Label al 4,4% e Analcolica allo 0,7%). Allo stesso tempo si ha a che fare con una domanda più distribuita nel corso dell’anno, scende cioè il tradizionale tasso di concentrazione dei consumi nel quadrimestre maggio-agosto (dal 47,6% del 2009, al 47% del 2010, fino al 45,9% del 2011). Il consumo assume poi una dimensione sempre più domestica: crescono i consumi in casa (Off Trade) dal 57,3% del 2010 al 58,2% del 2011, a discapito di quelli fuori casa (On Trade), che scendono dal 42,7% al 41,8%.
Tale dimensione è del resto confermata anche dall’ultima edizione 2012 dell’annuale ricerca Gli italiani e la birra, commissionata a ISPO da AssoBirra, che ha sottolineato come d’estate, in frigorifero, la birra sia, dopo l’acqua, la bevanda più presente (37,6%), precedendo gli analcolici e le altre bevande alcoliche. L’indagine ha rilevato un generale aumento nel gradimento della birra nel Belpaese, non limitato comunque alla sola bella stagione: sarebbero oltre 36 milioni (di cui 16 milioni donne) gli italiani che si dichiarano consumatori di birra, nonostante la crisi e il calo generalizzato dei consumi alimentari. Si tratta del 71% degli italiani maggiorenni. Non solo: la birra risulta la bevanda alcolica preferita per il 28,8% del campione (+30% rispetto al 2011) e in assoluto quella più apprezzata dagli under 54. Della bevanda piacciono soprattutto il gusto gradevole (69,2%) e la leggerezza (12,8%). Si incrinano parallelamente due storici pregiudizi che fungono da barriere al consumo: la credenza, cioè, che la birra “gonfi” e che sia “molto alcolica”. Gli italiani comprano la birra soprattutto al supermercato (66,2%), la scelta di quale birra avviene in meno di un minuto (59,5%) e in modo fedele a marca e formato (47,6%).
IL SETTORE ARTIGIANALE: I DATI ALTIS – UNIONBIRRAI
Accanto ai grandi produttori, si è sempre più affermata, negli ultimi anni, la realtà delle birrerie artigianali, realtà spesso considerata come antitesi alle produzioni industriali. Fornire una definizione di birra artigianale risulta necessario proprio al fine di distinguerla dalle birre delle multinazionali note al grande pubblico, tuttavia una simile operazione sembra essere piuttosto difficile, data l’eterogeneità del fenomeno. Delle risposte in tal senso provengono da Unionbirrai, che, dopo diversi tentativi d’inquadramento, arriva oggi a considerare la birra artigianale come “una birra non pastorizzata, integra e senza aggiunta di conservanti con un alto contenuto di entusiasmo e creatività”, “prodotta da artigiani in quantità sempre molto limitate”. Prevalgono, in una simile definizione, gli aspetti di tipo “emotivo”, rispetto a quelli relativi alla tecnica di produzione, questo per evitare un’eccessiva rigidità nei criteri di inclusione e dar conto, quindi, della reale situazione italiana: se in origine, ad esempio, si tendeva a considerare artigianali solo le birre non filtrate, si è oggi consapevoli di come la filtrazione, se eseguita in modo non eccessivamente invasivo, non comprometta l’integrità del prodotto. La genialità e l’inventiva sottese alle combinazioni create dai vari birrai impongono, dunque, una certa elasticità nella definizione.
La birra artigianale fa solitamente (ma non necessariamente) riferimento a piccole e medie unità produttive che tendono a operare in un ambito locale. Essa può essere realizzata in ambito domestico (“home brewing”) o, a livello imprenditoriale, attraverso due differenti modelli operativi: i “microbirrifici” sono delle vere e proprie aziende birrarie che producono quantità discrete di birre artigianali che poi vendono a terzi (locali birrari, grossisti-distributori di bevande, ecc.); essi possono disporre anche di un locale di mescita e somministrazione al pubblico, ma il grosso delle vendite si realizza su unità esterne. I “brewpub” sono, invece, dei locali birrari che hanno predisposto, al loro interno, delle piccole unità di produzione e somministrano e vendono i propri prodotti esclusivamente all’interno del proprio locale (o per asporto); alla produzione della birra si affianca spesso, in questo secondo caso, l’attività di ristorazione. Gli alti costi degli impianti hanno, inoltre, imposto la nascita di due nuovi soggetti produttivi: la “beer firm“, un’azienda che, priva di impianti di produzione, si appoggia a quelli di altre aziende per realizzare birra con un proprio marchio e una propria ricetta, e il “contoterzista”, un birraio che dispone di un birrificio di proprietà e lo utilizza per creare, oltre alle proprie, anche le birre di altri, su loro indicazione o affittando direttamente loro l’impianto.
Negli ultimi anni si è assistito al moltiplicarsi di queste micro-unità produttive e delle etichette da esse distribuite sul mercato. Di pari passo è cresciuto l’interesse di consumatori e media, decretando una vera e propria espansione del settore. A indagarne per primo lo stato dell’arte è stata l’associazione Unionbirrai, grazie alla collaborazione con ALTIS (Alta Scuola Impresa e Società) dell’Università Cattolica di Milano, attraverso un questionario somministrato a tutti i microbirrifici e brewpub attivi in Italia nell’aprile 2011 (ci si è concentrati, dunque, solo sulla parte strettamente “imprenditoriale” del fenomeno), con un limite di produzione annuale fissato in 10.000 ettolitri. Delle 335 aziende contattate, hanno risposto in 94, cioè il 28% del totale. Il campione così ottenuto è risultato composto per circa il 75% da birrifici e per il 25% da brewpub (lo scarto rispetto all’intera popolazione di riferimento è intorno al 10%, con percentuali rispettivamente del 65% e 35%).
Il report, diffuso lo scorso anno, stima in 411 ettolitri la produzione media di birra artigianale per ciascuna unità, pari a 137.680 ettolitri complessivi. Rapportato ai 12.810.000 ettolitri individuati da Assobirra con riferimento all’intero settore birrario, il dato rivela, per il 2011, una produzione artigianale pari all’1% di quella complessiva.
Le regioni con il maggior numero di microbirrifici e brewpub sono la Lombardia e il Piemonte (rispettivamente con 53 e 46 unità), che assieme costituiscono il 29,55% dell’intera popolazione di riferimento, facendo del nord la sede principale del fenomeno.
Per quanto riguarda l’assetto proprietario, si nota un maggior frazionamento delle quote azionarie per i brewpub rispetto ai microbirrifici: il 64,29% di questi ultimi ha una configurazione che non supera i 2 soci (contro il 45,83% dei brewpub) e solo il 32,85% possiede fino a 5 soci (contro il 45,83%). Questo perché il modello del brewpub richiede investimenti economici più copiosi e delle competenze tecniche più ampie (produzione, commerciale e servizio ristorazione) che impongono il coinvolgimento di un maggior numero di soci.
Il campione si colloca per il 93% nella categoria delle microimprese (secondo la definizione della Commissione europea), dato che solo il 7% dello stesso supera i 9 dipendenti e il fatturato non raggiunge il milione di euro. Entrando nel dettaglio, più della metà (54,29%) dei microbirrifici non possiede alcun dipendente e il 41,43% ne possiede un numero non superiore a tre. Questo perché si tratta di un’attività primariamente produttiva, artigianale e con volumi limitati realizzati. Più ampio il bacino di risorse umane impiegate nei brewpub che, unendo alla produzione anche la mescita e la ristorazione, possiedono per la maggior parte (58,33%, contro il 4,29% dei microbirrifici) più di quattro dipendenti.
Più del 50% del campione complessivo dichiara un fatturato inferiore a 100.000 euro e il 24,14% ne dichiara uno inferiore ai 20.000 euro. Il 9,52% dei brewpub si attesta su un fatturato superiore a 800.000 euro, contro il 3,03% dei microbirrifici, segno che i primi costituiscono, superata una certa soglia dimensionale, un’attività maggiormente remunerativa, grazie anche all’annesso servizio di ristorazione.
Si passa poi ad analizzare la ripartizione del fatturato in relazione ai canali distributivi. Il microbirrificio si affida prevalentemente al canale di distribuzione diretto (65,49%) e, in misura simile tra loro, al servizio di mescita in loco (14,51%) e distribuzione indiretta (18,69%); del tutto marginale, invece, il ruolo della grande distribuzione (1,32%), poiché questa richiede dei volumi di produzione e una standardizzazione nella qualità difficilmente raggiungibili dalla maggior parte delle attività. Il brewpub sfrutta, invece, primariamente il servizio di mescita diretta, che garantisce l’84,04% del fatturato; seguono la distribuzione diretta, che contribuisce al fatturato aziendale con una quota del 10,46%, e, con percentuali non molto rilevanti, la distribuzione indiretta (3,42%) e la GDO (2,08%).
La predilezione per i canali di distribuzione e mescita diretta può dipendere da vari fattori. Innanzitutto – molto banalmente – il canale indiretto implica margini di profitto inferiori, pur permettendo di raggiungere mercati altrimenti difficili da conquistare. In secondo luogo la birra artigianale rappresenta un prodotto particolarmente adatto ad un approccio esperienziale e per diffonderne la cultura sottesa (dunque per ampliarne il mercato) sembra essere fondamentale ridurre la distanza tra produttore e consumatore finale. Infine microbirrifici e brewpub rappresentano realtà imprenditoriali concepite dalla clientela come fortemente connesse al territorio, per questo la domanda appare più ampia nelle aree geografiche prossime alla sede produttiva.
Con riferimento al numero di birre presenti in listino, si nota come i microbirrifici offrano una scelta più ampia rispetto ai brewpub (il 54,29% dei primi possiede almeno sei diverse tipologie di birra, mentre il 58,33% dei brewpub si limita a una gamma compresa tra una e cinque). Questi ultimi, infatti, possono contare su un numero maggiore di fattori (legati alla ristorazione e all’intrattenimento) per attrarre il consumatore finale, non solo su un’offerta variegata.
I brewpub sembrano, tuttavia, proporre birre più complesse: il 33,33% del campione riferito a questo tipo di impresa presenta a listino un numero di birre cosiddette “da meditazione” superiore a quello delle birre leggere, contro il 17,14% dei microbirrifici. Tale scarto viene in parte mitigato – ma persiste in ogni caso – se si considerano gli ettolitri effettivamente prodotti e non il numero di birre (rispettivamente 25% contro 12,86%). La spiegazione del fenomeno sta – ancora una volta – nell’interazione diretta con il cliente consentita dalla formula brewpub, che permette una maggiore diffusione della cultura birraria e mette a disposizione del produttore i feedback immediati della clientela, suggerendo nuove formulazioni e miglioramenti del prodotto.
Il criterio della stagionalità sembra rispondere a una scelta strategica di posizionamento ben definita. I listini sono per la maggior parte caratterizzati da birre disponibili tutto l’anno, tuttavia chi si orienta in prevalenza su prodotti stagionali (disponibili, dunque, solo in alcuni periodi dell’anno) lo fa in modo “estremista”, rendendo la produzione stagionale superiore al 75% dell’intera produzione. Tale estremismo è vero tanto per microbirrifici quanto per brewpub, se si considerano i volumi effettivi di produzione, mentre coinvolge esclusivamente i brewpub se si considera il numero di birre a listino.
I best performers, i produttori che hanno cioè ottenuto fatturati più elevati, sembrano essere quelli che hanno proposto un’offerta composta tra il 60% e il 90% da birre non stagionali e tra il 30% e il 70% da birre leggere.
Considerando il numero di birre presenti a listino, emerge la tendenza dei microbirrifici a proporre la versione in bottiglia per la totalità dei prodotti (71,43% del campione, contro il 33,33% dei brewpub): non disponendo di un servizio di mescita diretta e rivolgendosi ad un mercato geograficamente più ampio, i microbirrifici sono costretti a puntare sulla forza comunicativa della bottiglia per far conoscere al pubblico in maniera efficace l’intera gamma prodotta.
Considerando, invece, gli ettolitri complessivamente prodotti, non sembra esistere, per i microbirrifici, una configurazione tipica nelle scelte di packaging; il 21,43% di essi propone comunque solo il formato in bottiglia, evitando di infustare, il che significa che più di 1 su 5 birrifici italiani non compare tra le spine dei pub. Al contrario si nota, per i brewpub, una significativa tendenza a evitare il formato in bottiglia (la metà non imbottiglia la propria birra) in favore del formato in fusto. Questo dipende principalmente dagli elevati costi (anche in termini di manodopera) connessi al processo d’imbottigliamento per delle realtà imprenditoriali di così piccole dimensioni, mentre il servizio di mescita diretta legato al processo d’infustamento garantisce ai brewpub delle marginalità superiori.
Veniamo ai dati sulla produzione. Più della metà del campione (61,70%) dichiara volumi annui inferiori a 250 ettolitri e poco più del 15% (15,71% per i microbirrifici e 16,67% per i brewpub) produce volumi superiori a 700 ettolitri annui. Vi è poi una correlazione positiva tra gli anni di attività e gli ettolitri prodotti. Importanti sono i margini di crescita con riferimento alla capacita produttiva: il 55,71% dei birrifici e il 45,83% e dei brewpub presentano un grado di saturazione della capacità produttiva inferiore al 50%, mentre il 28,57% dei birrifici e il 20,84% dei brewpub dimostra di sfruttare la propria capacità produttiva in misura superiore al 75%.
Un forte sbilanciamento verso il formato in bottiglia sembra, inoltre, ridurre le possibilità di sfruttare a pieno la capacità produttiva dell’azienda (i best performers, per grado di saturazione della capacità produttiva e per fatturato ottenuto, si collocano su una produzione che tra il 25% e il 50% sfrutta il formato in bottiglia).
Per l’approvvigionamento delle materie prime, si tende a privilegiare l’acquisto di prodotti esteri mediante importatori italiani: l’85,71% dei microbirrifici sfrutta questa modalità per ottenere il malto, l’84,29% per il luppolo e l’82,86% per il lievito. Percentuali leggermente inferiori per i brewpub, che acquistano da importatori italiani nel 70,83% dei casi il malto, nel 58,33% il luppolo e nel 62,50% il lievito.
Nel caso del luppolo vi è comunque una maggiore predisposizione all’acquisto direttamente da produttori esteri (50% dei brewpub, contro il 24,29% dei birrifici), vista la forte varietà del prodotto, che rende importante una valutazione diretta da parte del birraio. L’assenza poi, in Italia, di fornitori specializzati nella coltivazione del luppolo spiega la bassa percentuale di birrifici e brewpub (rispettivamente il 1,43% e 4,17%) che si rivolgono a produzioni italiane.
Ultimo capitolo dedicato agli investimenti. La maggior parte di questi, quasi la metà (43,06% per microbirrifici e 48,78% per brewpub), sono dedicati all’acquisto e al settaggio della sala cottura. Seguono gli investimenti per l’allestimento della cantina destinata alla fermentazione e maturazione della birra (23,31 % per microbirrifici e 25% per brewpub). La predilezione per il formato bottiglia da parte dei birrifici fa sì che questi dedichino maggiori risorse (13,91 %) al confezionamento, rispetto ai brewpub (6,92%). I brewpub investono invece più dei birrifici in comunicazione e marketing (11,57% contro 7,69%), nonostante l’interesse teoricamente minore nell’ambito, visto che il loro mercato principale è rappresentato dai locali di mescita.
Nelle previsioni future, si riducono sensibilmente gli investimenti nella sala cottura (14,57% per i birrifici e 10,90% per i brewpub), a favore soprattutto di cantina (rispettivamente 29,21% e 30%) e confezionamento (26,72% e 28,63%). Crescono – in prospettiva – anche le risorse destinate a comunicazione e marketing (15,48% per i birrifici e 12,81% per i brewpub) e a logistica e distribuzione (11,9% e 9,9%). Quella successiva dovrebbe, insomma, essere una fase di crescita nei volumi produttivi e di apertura ai mercati.
Brewpub investono, infine, maggiormente, rispetto ai birrifici, nella formazione tecnica (75% contro 60%) e in quella manageriale (37,50% contro 25,71%): il dato riflette il percorso tipicamente svolto dai birrifici nel segno dell’ autoapprendimento, con il passaggio dall’hobby al progetto d’impresa. La crescita del settore e la competizione imporranno tuttavia competenze sempre più raffinate, per questo la metà del campione prevede futuri investimenti in formazione tecnica e circa il 30% ne prevede in formazione manageriale.
Per approfondire l’argomento con gli esperti del settore potrete leggere come hanno risposto alle nostre domande Pierluigi Ceola e Claudio Pigozzo – due produttori di birra d’eccellenza in questa intervista.
Pubblicato su: PMI-dome

Beverage nel Belpaese: per la crescita, puntare sulla salute

Il piacere della tavola si sposa sempre più con l’attenzione degli italiani al proprio benessere fisico e alla sostenibilità delle proprie scelte di consumo, delineando nuove direttive per l’innovazione nel mercato delle bevande

Attenzione alla salute: sembra essere questo l’imperativo per quanti operano nel settore del Beverage destinato al largo consumo. Le stime più recenti confermano, infatti, l’attenzione posta sui benefici della tavola da un consumatore sempre più consapevole, nonostante le tasche meno gonfie di un tempo.
Da qui l’invito lanciato da SymphonyIRI Group (che si occupa di fornire soluzioni innovative e servizi a supporto della crescita e del profitto delle aziende del largo consumo) e rivolto alle imprese operanti nel settore, affinché si orientino verso la realizzazione e distribuzione di prodotti ancor più funzionali e salutistici. A conclusione di un’analisi relativa al mercato delle bevande a base di frutta, il gruppo ha sottolineato come vi sia un’attenzione particolare da parte degli utenti al proprio benessere psicofisico e alla sostenibilità delle proprie scelte fruitive, in un ideale di salute pubblica che sembra fortificare – almeno nelle intenzioni – la ricerca di un’elevata qualità di vita.
Questo si traduce anche nelle possibili soluzioni di packaging, con un successo di pubblico sempre maggiore per quegli imballaggi capaci di ridurre gli sprechi e, una volta esaurita la loro sostanza, di facilitare il loro recupero e smaltimento. Lo stile di vita sempre più frenetico impone lo sviluppo di unità di vendita sempre più piccole (confezioni monodose e monoporzione per evitare che si creino avanzi), capaci di privilegiare funzionalità, praticità, facilità di apertura-chiusura, di trasporto e di conservazione. Il consumatore appare sempre più attratto dalle versioni meno caloriche, tuttavia non dimentica di considerare il giusto rapporto qualità-prezzo. Per raggiungere questo nuovo consumatore, soddisfare le sue reali esigenze – e sostenere, dunque, le vendite – le parole chiave per gli operatori dovranno essere “innovazione” e “differenziazione”, il che significa segmentare il mercato e offrire prodotti nuovi, specificatamente pensati per ciascun segmento.
Le abitudini alimentari degli italiani sembrano essere mutate negli ultimi anni: intervistata di recente in merito, la quasi totalità (90%) della community di trnd Italia (società di marketing partecipativo, specializzata nelle strategie di passaparola), composta da oltre 78.000 persone, ha dichiarato di essere attenta a un’alimentazione sana e corretta. Nel carrello della spesa si trovano sempre più frutta, verdura e cibi biologici. Aumentano le conoscenze in ambito nutrizionale: l’85% degli intervistati ha dichiarato di essere ferrato nella materia e quasi l’80% di tenere alla linea e di essere molto interessato al tema “diete”. Il 45% del campione sembra consumare alimenti con poche calorie o comunque a basso contenuto di colesterolo, il 24% mangia esclusivamente cibi senza additivi e il 10% preferisce il cibo biologico. La metà degli italiani (48%) mangia frutta tutti i giorni e il 41% la consuma comunque spesso. Per il 40% la verdura compare quotidianamente nel proprio piatto. Per contro la metà del campione è solita mangiare al fast-food e usufruire di un servizio take-away almeno una volta al mese. Il caffè – bene o male che faccia, su questo gli esperti sembrano ancora divisi – rimane un piacere irrinunciabile. Il 76% degli italiani beve, inoltre, succhi di frutta per assumere più vitamine.
Vediamo ora nel dettaglio le stime sul mercato delle bevande analcoliche GDO, emerse dalla recente indagine di SymphonyIRI Group. Nell’anno terminante a novembre 2012, il trend appare abbastanza positivo a livello di vendite, sia a valore (+0,4%) sia a volume (+0,6%). Si tratta di un settore fortemente stagionale e dipendente dalle condizioni climatiche (l’estate incentiva la voglia di bevande dissetanti): i risultati complessivamente positivi sono frutto anche del caldo anomalo registrato nei mesi di giugno, luglio e agosto 2012, quando gli andamenti crescenti sono arrivati a toccare picchi del +7%, +8%, colmando le contrazioni degli altri mesi.
A crescere a livello di volume è soprattutto la vendita di acqua minerale (+1,9%), ma tengono anche gli energy drinks (+0,7%). Stabile anche il giro d’affari per le categorie che hanno aumentato maggiormente i prezzi (Isotoniche, Tea e Gassate). Per contro risultano negativi gli andamenti per le bevande a base di frutta, sulle quali SymphonyIRI Group concentra in particolare la propria lente d’analisi.
Nel 2012 sono stati venduti oltre 516 milioni di litri di bevande a base di frutta, con una flessione del -4,3% rispetto al 2011; il giro d’affari complessivo è stato di 688 milioni di euro, pari ad una riduzione del -2,6% sull’anno precedente. Oltre a riflettere gli effetti della lamentata crisi economica, la stagnazione in valore sembra essere il risultato di un’attività promozionale davvero intensa: quasi il 45% delle vendite in volume di succhi di frutta negli ipermercati e supermercati viene fatta in promozione.
Le quote maggiori di mercato sono ottenute, più in dettaglio, dai succhi di frutta tradizionali (UHT, ad alta conservazione), che valgono circa 456 milioni di litri (-3,5% rispetto al 2011), per un fatturato che si aggira intorno ai 606 milioni di euro (-1,3%). Peggiori le performance relative alle bibite alla frutta – che nel 2012 hanno venduto 49 milioni di litri (-9,3%) per un giro d’affari di 46 milioni di euro (-7%) – e soprattutto ai succhi di frutta freschi, che subiscono una flessione del -14,4% nei volumi venduti (pari a 11 milioni di litri) e del -16,4% nel giro d’affari (pari a circa 3 milioni di euro).
A trascinare la contrazione è il segmento degli smoothies freschi (si tratta di frullati molto cremosi), che aveva conosciuto un momento di grande successo nei primi due anni dal suo lancio in Italia nel 2008 e che ora quasi dimezza il proprio giro d’affari (-48,3%) e il proprio volume di vendita (-48%), portandosi rispettivamente a poco più di 8 milioni di euro e a poco più di 1 milione di litri venduti: la perdita di appeal presso il consumatore può essere dovuta al prezzo medio solitamente elevato. Resistono di più gli smoothies UHT, probabilmente grazie alla loro funzionalità (non hanno bisogno di essere refrigerati): rappresentano l’unico segmento delle bevande a base di frutta con un andamento moderatamente positivo a volume (+1,2%), nonostante il calo nel giro d’affari (-6,6%).
Con riferimento ai canali di distribuzione del solo comparto succhi di frutta UHT, scopriamo che ben il 65% delle vendite in volume si concentra nei supermercati (-2,4% sul 2011), il 18% negli ipermercati (-4,4%) e il restante 17% nelle piccole superfici a libero servizio (-7%).
Per quanto riguarda il packaging usato per i succhi di frutta, emerge come sia il brik 200 ml il formato più venduto: esso raccoglie un terzo (il 33,2%) del giro d’affari del segmento e il 28,7% del volume di vendite. Si rafforzano il brik da 1 litro (+2,6% nelle vendite in valore) e il brik da 1,5 litri (+8,7% nelle vendite in valore e +3,4% nelle vendite in volume). Leggera sofferenza per il confezionamento in plastica, sia da 1 litro (-3,3% a valore e -4,3% a volume), che da 750 ml (-2,7% a valore e -4,1% a volume). Pur continuando a rappresentare il 9,7% del volume di vendita del segmento, il brik da 2 litri prosegue la propria parabola discendente (-7,5% a valore e -10,9% a volume). Il favore di pubblico, in questo mercato, per il brik cartonato (che può essere recuperato e riciclato), risponde probabilmente proprio a quel desiderio di sostenibilità cui si faceva in precedenza riferimento.
Sempre riguardo al solo segmento dei succhi di frutta, ci si accorge di come siano i gusti polposi e tradizionali (pera, pesca, albicocca, mela) ad occupare la quota maggiore di mercato – sia in termini di volume (41,9%) sia in termini di valore venduto (43,3%) – non di molto superiore comunque alla quota occupata dai gusti non polposi (41,6% a volume e 39% a valore); questi ultimi registrano inoltre performance leggermente migliori rispetto ai gusti polposi (-3,1% a volume, contro un -3,8% per i gusti polposi, e +0,3% a valore, contro -2,%). Il restante 17,7% del mercato a valore dei succhi di frutta e il 16,5% del mercato a volume è rappresentato dai succhi 100% UHT. Tra i gusti polposi, particolarmente buona la performance della mela (+4% a volume). Stabile l’ACE (13% del mercato a volume) e in crescita (seppur ancora di nicchia) il mirtillo, i frutti rossi, i frutti blu, i frutti di bosco e la carota:
Nel 2012 sembrano mutare – ci dice infine SymphonyIRI – la conformazione e il posizionamento degli attori coinvolti nella vendita delle bevande a base di frutta: si accentua la sostituibilità tra le marche e diventa sempre più difficile per il consumatore individuare dei veri e propri premium price, dei marchi capaci, cioè, di imporre un prezzo particolarmente elevato ottenendo comunque un vantaggio competitivo sugli altri, potendo ad esempio contare su una qualità superiore (presunta o reale che sia) o su un universo valoriale particolarmente caro al consumatore.
Questo a causa – l’abbiamo detto – di una spinta promozionale che sale al 44,3% delle vendite, guadagnando 2,5 punti percentuali sul 2011. L’aumento coinvolge soprattutto il canale supermercati (+3 punti percentuali, pari al 45% delle vendite) e fa sì che ben il 54% delle vendite negli ipermercati avvenga in via promozionale (+1,5 punti sul 2011).
Cresce più della media la pressione promozionale per le private label (ovvero il marchio del distributore, che contraddistingue quei prodotti venduti sotto il marchio di un dettagliante o distributore solitamente organizzato in catene di supermercati, ipermercati o gruppi di acquisto, come alternativa ai prodotti a marchio privato), mantenendosi tuttavia a livelli più bassi (37,6%) rispetto all’industria di marca.
Le marche private continuano nel 2012 ad avere un ruolo rilevante nei succhi UHT: esse rappresentando quasi il 34% del volume di vendita del mercato (-1,7% sul 2011) e il 30% del suo giro d’affari (+1,6%). Il potere delle marche rimane comunque piuttosto forte e nel complesso il settore presenta un forte tasso di concentrazione, con i primi tre produttori (Conserve Italia, Parmalat e Zuegg) che rappresentano ben il 53% del mercato in termini di valore. Le marche sembrano, inoltre, portare innovazione e mostrare una certa vitalità, lanciando nuove tendenze, come prodotti dietetici e biologici.
Pubblicato su: PMI-dome

Lo shopping nell’era della mobile mania e del web 2.0

Una recente indagine condotta da Nielsen spinge a riflettere sulla portata del fenomeno e-commerce, sulle sue più attuali tendenze e sulle radicali modificazioni introdotte nelle abitudini d’acquisto dei consumatori

Avranno probabilmente l’amaro in bocca i molti bambini abituati all’amata gita settimanale a bordo del carrello della spesa, in compagnia di mamma e papà. Pare, infatti, che, tra qualche tempo, supermercati e ipermercati potrebbero veder notevolmente ridotto il numero di frequentatori, venendo sostituiti dai comodi e convenienti negozi on-line.
Si tratta, ovviamente, di una prospettiva ancora lontana, eppure alcuni segnali lasciano intuire come molti operatori del largo consumo stiano iniziando a comprendere la portata potenzialmente rivoluzionaria della rete, nelle proprie scelte di distribuzione.
Alla luce delle complesse dinamiche economiche dell’ultimo periodo, gli utenti stanno modificando le proprie abitudini di spesa, ricorrendo a Internet per rafforzare il proprio potere informativo e la propria inclinazione al risparmio. In un simile contesto, “essercirappresenta per le aziende una via di sperimentazione sempre più obbligatoria e non soltanto alternativa, offrendo il Web le maggiori potenzialità in termini di crescita.
Le difficoltà non sono poche, le imprese hanno l’esigenza di monetizzare gli investimenti in marketing e molti sono i fattori tecnologici e logistici implicati, ma, prima ancora di tutto questo, gli ostacoli da superare sono di ordine culturale.
Nielsen – azienda leader nelle misurazioni e analisi relative ad acquisti e consumi, a utilizzo e modalità di esposizione ai media – ha da poco pubblicato i risultati relativi ad uno studio su “Come la connettività influenza lo shopping globale”, utili a comprendere la portata delle trasformazioni in corso sulle prassi d’acquisto dei consumatori, in seguito alla capillare diffusione della rete.
Alla base dell’indagine vi sono le interviste rivolte a oltre 28.000 utenti Internet in 56 Paesi e dalle elaborazioni emerge che sono i software per computer e giochi la categoria che nel 2012 ha conosciuto la percentuale di crescita maggiore (18 punti percentuali rispetto al 2010) nella propensione all’acquisto online da parte degli utenti: il 29% degli intervistati prevede, infatti, di acquistare prodotti simili, entro i prossimi sei mesi, tramite un qualsiasi dispositivo connesso alla rete, contro l’11% rilevato nel 2010.
L’intenzione di comprare online biglietti per eventi di intrattenimento è aumentata poi di 10 punti, passando dal 20% al 30%, mentre l’hardware per computer e giochi ha visto un incremento di 6 punti, arrivando al 25%, le pubblicazioni video e musicali (CD, VCD, DVD) di 5 punti (dal 18% al 23%), gli accessori per auto e moto di 4 punti, raggiungendo l’11%, i prodotti per l’igiene personale e i cosmetici di 3 punti (dal 22% al 25%), il settore abbigliamento/accessori/scarpe/gioielli di 1 solo punto, passando dal 36% al 37%, imponendosi comunque, in termini assoluti, al primo posto per propensione degli utenti all’acquisto tramite web. Al secondo posto di tale classifica spunta poi il comparto libri/riviste/giornali in formato cartaceo, che tuttavia perde 11 punti sul 2010 (dal 44% al 33%), causa – come vedremo – il parallelo aumento di propensione all’acquisto per le versioni digitali. Al terzo posto (a pari merito con l’acquisto di biglietti per eventi d’intrattenimento) le prenotazioni di viaggio (treno, aereo, auto, nave), anch’esse in calo, seppur decisamente lieve, sul 2010, passando dal 32% al 30%.
Il 26% dei consumatori prevede di acquistare cellulari (inclusi relativi accessori) e il 20% e-books e abbonamenti a quotidiani e riviste online (complice la diffusione sempre più ampia dei vari devices mobile, come smartphone e tablet), entrambe categorie di nuova introduzione nella ricerca 2012.
Tuttavia la vera novità emersa dall’indagine riguarda la spesa quotidiana nel settore del Food & Beverage: sottolineano i promotori dell’indagine come la propensione ad acquistare online prodotti di questo tipo sia cresciuta del 44% in due anni, con oltre un quarto del campione (26%) che prevede di comprare alimenti e bevande, entro i prossimi sei mesi, collegandosi a Internet tramite computer, smartphone o tablet.
Mentre i beni durevoli come l’abbigliamento, i libri e l’elettronica mostrano il livello più alto di propensione all’acquisto online”, ha evidenziato John Burbank, President Strategic Initiatives di Nielsen, “l’influenza di Internet per l’acquisto di beni di largo consumo è chiaramente in crescita”. Chi si occupa di marketing, ha proseguito, “dovrà necessariamente individuare chi si sta convertendo al digitale per la spesa quotidiana in modo tale da focalizzarsi sulla corretta tipologia di consumatore, utilizzando strategie digitali adeguate per migliorarne l’esperienza di acquisto online”.
Molte sono, inoltre, le attività collegate alla spesa quotidiana che gli utenti compiono in rete: il 61% degli intervistati ha dichiarato di fare ricerche legate alla spesa, per controllare prezzi o leggere recensioni dei consumatori, il 45% per avere informazioni su prodotti di genere alimentare, il 43% ha cercato offerte, il 33% ha letto le informazioni relative alle promozioni dei negozi, il 33% ha cercato buoni spesa, il 26% ha cercato il sito internet dei produttori, il 18% ha commentato prodotti attraverso i social media e l’11% ha usato una lista della spesa digitale.
Si nota, in particolare, come gli utenti dell’area Asia-Pacifico ricorrano a Internet principalmente per effettuare ricerche (70%), confrontare prezzi (48%) e commentare attraverso i social media (26%); quelli dell’America Latina per cercare offerte (64%) e informazioni sui siti dei produttori (41%), mentre quelli dell’America del Nord trovare dei coupon (43%).
Gli acquisti online soddisfano esigenze considerate fondamentali come la convenienza, la qualità e la varietà dell’offerta”, ha proseguito Burbank. “Tuttavia il successo di Internet, e più specificamente dell’e-commerce per l’acquisto di beni di largo consumo, sarà diverso per le diverse categorie di prodotto. Chi acquista online beni di largo consumo, infatti, tenderà ad avere un approccio multicanale e ad effettuare acquisti continuando ad usare anche il punto vendita tradizionale”.
Con riferimento, infine, alle stime temporali, dal report emerge come quasi la metà degli intervistati (47%) dedichi almeno il 25% del tempo relativo alla propria attività di ricerca online ad argomenti legati alla spesa e il 23% ve ne dedica almeno la metà.
La maggior parte di coloro che hanno affermato di utilizzare Internet per attività legate alla spesa (63%-91% secondo il tipo di attività) sostiene di farlo settimanalmente o mensilmente. Un terzo degli intervistati ha dichiarato, infine, di usare quotidianamente Internet per fare ricerche (37%), per dare il proprio feedback attraverso i social media (33%), per cercare offerte (31%) e per cercare informazioni relative ai prodotti (31%).
Il 46% degli intervistati ha usato i social network per informarsi e orientarsi negli acquisti online ed è aumentato il numero di coloro che affermano di acquistare frequentemente sugli e-store (il 37% degli intervistati).
In un mondo in cui i consumatori hanno un ruolo sempre maggiore nell’influenzare la percezione del brand attraverso i social media, le recensioni e i punteggi, fornire risposte autentiche e ottenere il supporto dei consumatori è fondamentale. Chi si occupa di marketing deve necessariamente incoraggiare tali risposte e fornire esperienze coinvolgenti al fine di aumentare la fedeltà alla marca e creare una relazione continuativa e bilaterale tra la marca e il consumatore” ha concluso Burbank.
Le ultime stime relative alle dimensioni del mercato e-commerce che arrivano da oltreoceano sembrano confermare il trend di crescita: comScore – leader mondiale nella misurazione del mondo digitale – ha pubblicato ad agosto i dati relativi al secondo trimestre 2012, i quali individuano un aumento del fenomeno pari al 15% rispetto allo scorso anno, con una spesa in acquisti online pari a circa 43,2 miliardi di dollari negli Stati Uniti e segnando il settimo trimestre consecutivo di crescita a due cifre. Si noti in particolare come, stando a tale indagine, un forte incentivo agli acquisti online è rappresentato dal servizio di spedizione gratuita (il 42% degli acquisti effettuati include questa opzione). Le prospettive delineate appaiono dunque piuttosto incoraggianti, malgrado alcuni segnali di rinnovata incertezza economica (la percezione dei consumatori sulle condizioni dell’economia sembra essere – ha sottolineato il presidente di comScore Gian Fulgoni – attualmente peggiorata) e un tasso di disoccupazione ancora alto.
Calando la visuale sul mercato italiano, lo scenario individuato dalle più recenti ricerche istituzionali concede ampio spazio all’ottimismo, pur mantenendo stabile un certo ritardo nella diffusione del fenomeno e-commerce.
L’Osservatorio eCommerce B2c Netcomm-School of Management del Politecnico di Milano è costantemente impegnato a stimare il volume dell’e-commerce nel contesto nazionale, il quale avrebbe nel 2011 registrato un +19%, con vendite che superano gli 8 miliardi di euro. La previsione per il 2012 è poi di una crescita pari al 18%, giungendo ai 9,5 miliardi di euro.
A giugno sarebbero inoltre saliti a 11,3 milioni gli utenti che hanno fatto acquisti online almeno una volta nei tre mesi precedenti, ovvero il 42,5% dell’intera utenza Internet in Italia, in crescita del 22% rispetto a un anno fa; tra essi sarebbero 7,06 milioni gli acquirenti abituali (26,5% dell’intero universo internet italiano). A dirlo è stata l’ultima ricerca realizzata da Netcomm (il consorzio del commercio elettronico italiano) in collaborazione con Human Highway (l’istituto di ricerca italiano specializzato nell’analisi dei servizi, della comunicazione e del marketing online) e, tra i prodotti acquistati, spiccano al primo posto i biglietti di viaggio per aerei, treni o navi (16,8% del campione), a conferma del peso che il settore turismo possiede sul totale dell’e-commerce nel Belpaese (peso stimato in 55 punti percentuali, che lo rendono il settore principale del commercio elettronico italiano) e della parallela importanza che il web sta avendo per tale settore. Seguono libri, computer e periferiche per Pc, capi di abbigliamento, ricariche telefoniche e soggiorni (hotel, villaggi, pacchetti vacanze).
Ulteriori indagini hanno, nelle scorse settimane, cercato, in varia forma, di individuare il fenomeno e-commerce nel nostro contesto nazionale: eMarketer ha sottolineato come il trend positivo coinvolga tutta l’Europa, con il Regno Unito in testa per volume di vendite e utenti coinvolti e con un’Italia che, nonostante il lento inizio, sembra stia, negli ultimi anni, recuperando parzialmente il proprio ritardo, facendo sì che questa forma di commercio rappresenti ora una voce importante del proprio bilancio. eMarketer prevede in particolare un aumento dell’e-commerce del 25,5% per il 2012 (pari a 16,16 miliardi di dollari) e un fatturato complessivo di 31,25 miliardi di dollari per il 2016. Una crescita sostanziale ma probabilmente non sufficiente a colmare il divario con le realtà più sviluppate, poiché il tasso di incremento del fatturato generato dall’e-commerce sembra essere in costante rallentamento (linea rossa del grafico).
Alcuni dati sembrano ricondurre, almeno in parte, il ritardo italiano alla scarsa capacità delle piccole e medie imprese di innovarsi e proporre soluzioni di commercio elettronico, dunque, in sostanza, alla carente inclinazione all’innovazione: secondo la società di consulenza aziendale Between , solo il 5% delle aziende italiane utilizza una qualche forma di vendita online, contro una media europea del 15% (in Norvegia la percentuale raggiunge il 36%), ponendo in tal senso il nostro Paese al penultimo posto in Europa, seguito soltanto dalla Romania. La situazione peggiora ulteriormente se ci si focalizza sulle aziende di minori dimensioni: utilizza l’e-commerce solo l’11% delle medie imprese italiane (contro il 30% delle medie aziende tedesche) e il 5% di quelle piccole (contro il 19% di quelle tedesche).
Eppure quella portata dall’e-commerce può essere considerata una trasformazione vera e propria nel panorama economico, trasformazione che ogni anno si arricchisce, grazie all’innovazione tecnologica e al parallelo sviluppo di nuove tendenze di consumo e nuovi comportamenti d’acquisto da parte degli utenti. Cambiano innanzitutto le logiche distributive: le aziende di produzione possono, grazie alla rete, raggiungere direttamente il consumatore finale, eliminando la tradizionale intermediazione del distributore sul territorio. I veri concorrenti diventano, allora, i grandi distributori online internazionali, capaci di competere sul prezzo dei prodotti e dei servizi accessori (come le spese di spedizione).
Uno degli esiti più attuali del fenomeno e-commerce riguarda poi la sua commistione con strumenti e piattaforme sempre nuove, in un sistema che sempre più si fa multicanale e coinvolgente per l’utente: social media e applicazioni rappresentano ormai una componente essenziale delle strategie di marketing e comunicazione aziendale e iniziano, per questo, a essere sfruttati anche come vere e proprie piattaforme di vendita. I social network sono comunque utilizzati principalmente come mezzo per creare valore attorno al brand e ai prodotti/servizi offerti. Il passaparola generato dalla condivisione di contenuti e una efficace integrazione con il sito aziendale di e-commerce possono decretare in poco tempo un sostanziale incremento delle vendite.
Stando a quanto riportato nel report “E-commerce in Italia 2012, andamenti, trend di sviluppo e strategie di un mercato in crescita”, presentato ad aprile 2012 dalla Casaleggio Associati, in partnership con Adobe Systems, i social ritenuti più efficaci dalle aziende italiane, per la promozione del proprio brand o per sostenere le vendite, sono Facebook, YouTube, Twitter e Google+, con una netta preferenza per il primo, ritenuto “molto efficace” dal 23% delle aziende, e “abbastanza efficace” dal 42%. Youtube è considerato utile complessivamente dal 31% delle aziende, molte delle quali possiedono, infatti, un proprio canale per la pubblicazione di spot pubblicitari o video che supportano operazioni promozionali. Twitter e Google+ sono apprezzati dal 26% delle aziende, mentre importanza inferiore viene attribuita a LinkedIn (10%), Flickr e Foursquare (entrambe efficaci per il solo 4%).
Interessi crescenti, seppur ancora in termini di sperimentazione, stanno coinvolgendo una piattaforma social relativamente recente come Pinterest (divenuta in poco tempo la terza più promossa nelle e-mail dei retailer a livello mondiale), sfruttata per la presentazione di immagini e fotografie commentate dei prodotti offerti. Moltissime sono le potenzialità offerte da questo strumento, come hanno ben immaginato alcuni grandi nomi del turismo (Visit Trentino), dell’abbigliamento (Sisley, Tezenis), dei serivizi (Poste italiane) e pure del settore Food & Beverage (Barilla e Caffè Carbonelli): l’impatto evocativo delle immagini suscita certamente uno slancio intenso ad abbracciare l’universo di valori veicolato dal brand e il grande successo che la piattaforma sta avendo permette il moltiplicarsi continuo di tale slancio, offrendo una reale garanzia di viralità al messaggio aziendale. Si può decidere, ad esempio, di inserire immagini di alta qualità e creatività relative ai prodotti venduti oppure immagini capaci di evocare filosofia e mission aziendale, dando il via ad una sorta di comunicazione visiva con i propri clienti effettivi e potenziali.
Un altro processo di cui le aziende devono tener conto è la capillare diffusione dei dispositivi mobile (in Italia vi sono più di 20 milioni di smartphone e oltre 1 milione di tablet), sempre più utilizzati dagli utenti per soddisfare le proprie esigenze informative in fatto di spesa quotidiana. Mobile-commerce e servizi di geolocalizzazione sono, dunque, due tendenze che devono essere necessariamente prese in considerazione: un recente studio commissionato da Deloitte, su un campione di 1.557 consumatori americani, dimostra come i dispositivi mobile condizionino attualmente il 5,1% delle vendite annuali al dettaglio, l’equivalente di 159 miliardi di dollari solo nel 2012, con la previsione di giungere ai 689 miliardi entro il 2016. L’influenza che i cellulari esercitano nel consumatore si esercita, più che nella vendita diretta, nell’avvio del processo di guida verso i punti di vendita, dove l’azione di ricerca delle informazioni viene convertita in acquisto.
Affianco al concetto di e-commerce si sviluppa allora quello di info-commerce: tutti i siti che le persone visitano per avere notizie circa prodotti e servizi, per confrontare i prezzi, per leggere o lasciare commenti e recensioni consentono un aumento indiretto degli acquisti off-line e aiutano a incrementare la familiarità e la fiducia con il mezzo informatico, con effetti presumibilmente positivi sulle vendite future. Le aziende del retail, nella loro presenza online, devono puntare sulla creazione di un rapporto con i clienti basato sul coinvolgimento e sulla fedeltà. L’indagine Global Trust in Advertising di Nielsen rivela come ben il 92% dei consumatori di tutto il mondo manifesti la propria fiducia nel cosiddetto “earned advertising” fondato sul passaparola e sulle raccomandazioni di altri utenti, considerando questa la forma più affidabile di promozione.
La diffusione dei tablet potrebbe condurre anche all’incremento di un altro fenomeno, definitivo “couch-commerce”: si tratta della tendenza a fare shopping on line, stando – come lo stesso nome suggerisce – comodamente sdraiati sul divano. Questo è tanto più vero se si considera che i tablet sembrano essere utilizzati principalmente nel tempo libero, da ricondurre alla fascia oraria di prime-time (tra le 19:00 e le 22:00).
Dinamicità e flessibilità sono, in conclusione, i requisiti resi obbligatori per le aziende, in seguito alla diffusione dell’e-commerce. I nuovi servizi offerti ai clienti implicano necessariamente un adattamento dell’attività, dal punto di vista logistico e di gestione del magazzino, con una conseguente integrazione multi-canale. Comprendere pienamente il target di riferimento e creare delle offerte personalizzate, capaci di sfruttare i molti meccanismi resi possibili dalla rete (vendite istantanee, aste online, microflash sales…) rappresenta, infine, la più attuale sfida per le aziende che vogliano intraprendere con successo la strada dell’e-commerce.
Pubblicato su: PMI-dome

Agroalimentare made in Italy: contrastando il falso, esportazioni triplicate

Record di esportazioni per il 2011, ma anche la persistenza di prassi illecite, colpevoli di bloccare la libera iniziativa economica

Pizza, mafia e mandolino. Ci siamo quasi: stereotipi che si confermano, primati che ci incoraggiano, stime che un po’ sorprendono e spiragli di ripresa. In questo sembra riassumersi l’attuale contesto dell’agroalimentare italiano.

Cominciamo con un dato positivo: stando ad un’analisi diffusa da Coldiretti e basata sugli andamenti registrati nel commercio estero agroalimentare dall’Istat, il valore delle esportazioni nel settore avrebbe raggiunto nei primi nove mesi del 2011 il suo massimo storico, arrivando a circa 30 miliardi, con una crescita di 9 punti percentuali. Destinatari di tali esportazioni sono stati principalmente i Paesi dell’Unione Europea, dove si sono concentrati i 2/3 del fatturato estero complessivo (con un rialzo dell’8%), gli Stati Uniti, dove l’esportazione del Made in Italy nelle tavole ha incrementato il proprio valore di dieci punti percentuali, e i mercati emergenti come quelli asiatici, dove l’aumento è stato addirittura del 18%, arrivando quasi a toccare la quota statunitense.

A rafforzare il proprio trend di crescita sono stati soprattutto i comparti più tradizionali dell’agroalimentare Made in Italy: il vino, ad esempio, ha aumentato il proprio valore d’esportazione di 25 punti percentuali; il formaggio – soprattutto grana e parmigiano reggiano, i più apprezzati – di ben 26 punti; l’olio di oliva ha registrato un +9%, la pasta un +7%, stabile, invece, l’ortofrutta.

Colpiscono, tuttavia, alcuni risultati, come quelli riferiti all’export della birra italiana in Gran Bretagna (grande produttrice della bevanda), in crescita record del 18%, o all’export dello spumante in Russia – con un +40% che rende quest’ultima al quarto posto tra i Paesi esteri di destinazione – o, ancora, quelli relativi all’esportazione di formaggi italiani in Francia (+22%), tradizionalmente molto nazionalista in questo ambito.

Le performance positive registrate sui mercati internazionali dal settore più rappresentativo dell’economia reale dimostra” – sottolinea Sergio Marini, Presidente di Coldiretti – “che il Paese può tornare a crescere solo se investe nelle proprie risorse che sono i territori, l’identità, la cultura e il cibo”. Recuperare, dunque, le proprie radici per ridare slancio e vitalità all’economia italiana, puntando sull’esternalizzazione, sulla diffusione all’esterno di modelli produttivi e di consumo: questa, in estrema sintesi, l’interpretazione offerta ai dati riportati. L’agroalimentare – conclude Marini – “è una leva competitiva formidabile per trainare il Made in Italy nel mondo”.

Il prodotto più importante dell’export agroalimentare nazionale si rivela essere il vino, con oltre la metà del fatturato realizzato dalle aziende italiane all’estero nei primi 9 mesi del 2011, stimato in quasi 4 miliardi di euro, con un aumento del 13,6% rispetto all’anno precedente. Cresce parallelamente il numero di ettolitri esportati, arrivando a quota 17 milioni e registrando, di conseguenza, un +13%.

Ad apprezzare il nostro vino sono, come già accennato, principalmente i Paesi dell’Unione europea, con aumenti in valore pari al 13% e con in testa la Germania. Gli Stati Uniti sono, invece, destinatari di poco meno di un quarto del fatturato estero, registrando nel 2011 un aumento record in valore pari al 17%. Sorprendenti gli incrementi registrati nei Paesi asiatici, in particolare in Cina, dove il valore delle esportazioni sembra essere praticamente raddoppiato (+87%).
Tale primato nelle esportazioni sembra stridere, in realtà, con i dati diffusi dall’Istat, ed elaborati da Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo-Alimentare) e Uiv (Unione Italiana Vini), relativamente alla produzione di vino in Italia, stabilizzatasi nel 2011 su livelli ai minimi storici; a fronte di una produzione stimata, a metà dicembre 2011, attorno ai 40 milioni di ettolitri (contro i 42 milioni indicati a settembre), è stata, infatti, registrata una caduta record del 14,2% sul 2010 (quando si erano contati 46,7 milioni di ettolitri).

Dal punto di vista qualitativo, oltre il 60% della produzione è stato destinato a uno dei 517 vini Docg, Doc e Igt riconosciuti in Italia. Questa tendenza negativa ha imposto una revisione della classifica mondiale dei Paesi produttori di vino, con la conseguente perdita, da parte dell’Italia, della propria supremazia produttiva, a favore della Francia, che, con i suoi 50,2 milioni di ettolitri (in aumento di 11 punti percentuali rispetto al 2010), raggiunge il primo posto. I 39,9 milioni di ettolitri prodotti in Spagna (con un leggero calo del 2%) rende anche questo Paese un potenziale pericolo per l’Italia, essendo lo scarto tra Roma e Madrid pari ad appena 218 mila ettolitri.

Al quarto posto della classifica mondiale dei produttori di vino, si attestano gli Stati Uniti, con 18,7 milioni di ettolitri, in calo di 6 punti percentuali sul 2010 (ha pesato, in particolare, il -10% registrato in California, primo polo produttivo della zona). In calo anche la vendemmia in Argentina, al quinto posto, con un -10% e 14,6 milioni di ettolitri prodotti. L’Australia, in sesta posizione, ha totalizzato all’incirca gli stessi quantitativi del 2010, mantenendosi sui 10 milioni e mezzo di ettolitri. Cresce, invece, a due cifre la produzione nel Cile – con un + 15,5% e oltre 10 milioni e mezzo di ettolitri realizzati – che arriva, così, a raggiungere la settima posizione. Superano i 10 milioni prodotti anche la Cina (in ottava posizione, con 10,4 milioni di ettolitri, in calo di 4 punti percentuali sul 2010) e il Sudafrica (con un +2% sul 2010).
Riprende, dopo un 2010 in forte decrescita – la produzione in Nord Europa e nei Peco (Paesi dell’Europa Centrale e Orientale), tanto da rendere probabile – conclude l’analisi Ismea-Uiv – il fatto che “il 2012 vedrà smorzarsi le forti richieste di vino sfuso effettuate da questi Paesi sia in Italia che in Spagna”: crescono Germania (+28%) e Austria (+45%), ma anche Romania (+31%), Bulgaria (+55%), Ungheria (+27%), Repubblica Ceca e Slovacchia.

Tornando al contesto italiano, si rileva, poi, dal punto di vista dei prezzi di scambio, un aumento – nei primi cinque mesi della campagna di commercializzazione, da agosto a dicembre 2011 – dei valori medi dei vini comuni di oltre 28 punti percentuali, rispetto allo stesso periodo del 2010: per il comparto dei rossi è stato registrato un +28,8% (il prezzo di scambio è stato in media 3,65 euro per ettolitro/grado, franco cantina), mentre per quello dei bianchi un +27,6% (3,81 euro per ettolitro/grado).

I buoni risultati rilevati sul settore esportazioni non sembrano attualmente aver portato adeguati benefici alle imprese agricole, confermando – conclude Coldiretti – le “pesanti distorsioni che permangono nel passaggio degli alimenti lungo la filiera dal campo alla tavola”.

L’andamento positivo delle esportazioni potrebbe, inoltre, essere ulteriormente ottimizzato se si riuscisse a combattere efficacemente la cosiddetta “agropirateria” internazionale e, ancor più, “l’Italian sounding”, la tendenza, cioè, a sfruttare economicamente parole, immagini, denominazioni e ricette che evocano il contesto italiano, pur essendo legate a prodotti alimentari che nulla hanno a che vedere con le produzioni nostrane; a differenza dell’agropirateria, la contraffazione vera e propria perseguibile penalmente, l’Italian sounding si muove in una zona grigia che può essere eliminata solo attraverso regole e accordi internazionali che impongano l’assoluta trasparenza sulla qualità delle materie prime e sui processi produttivi utilizzati dagli operatori dell’intera filiera.

Se sul piano nazionale sono stati recentemente scoperti la falsa mozzarella di bufala dop, vino ed olio etichettati come doc e dop senza documenti di tracciabilità, a livello internazionale le più copiate al mondo – prosegue Coldiretti – sono le denominazioni Parmigiano Reggiano e Grana Padano (con “il Parmesan diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone”, o il “Parmesao in Brasile, il Regianito in Argentina, Reggiano e Parmesao in tutto il Sud America, ma anche Pamesello in Belgio o Parmezan in Romania”), ma anche il Romano, l’Asiago e il Gorgonzola, prodotti negli Stati Uniti; anche alcuni marchi storici trovano una loro imitazione estera, come la mortadella San Daniele e il prosciutto San Daniele prodotti in Canada; e ancora: vino “tarocco”, come il barbera bianco romeno o il Chianti californiano, l’olio Romulo venduto in Spagna con tanto di lupa capitolina, imitazioni di soppressata calabrese e pomodori San Marzano negli States, il provolone del Wisconsin, il pesto tailandese “Spicy thai” e una strana “mortadela” siciliana prodotta in Brasile. Gli esempi sono molti e capaci di strappare facilmente un sorriso, ma si tratta pur sempre di un riso piuttosto amaro: stando, infatti, alle stime riportate da Coldiretti (sulla base della prima relazione sulla contraffazione nel settore alimentare, elaborata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale e presentata nel corso di un incontro presso la sede romana di Coldiretti, lo scorso giovedì 19 gennaio 2012, al quale hanno partecipato, tra gli altri, il Ministro per le Politiche Agricole Mario Catania, il Procuratore Antimafia Pietro Grasso e il Presidente della Coldiretti Sergio Marini), il falso alimentare Made in Italy fatturerebbe ben 60 miliardi di euro, con tre prodotti alimentari italiani falsi su quattro. A spingere verso una simile prassi ingannevole è la volontà dei produttori esteri di assicurarsi un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, potendo contare sulla risonanza positiva che certi nomi detengono, sul sistema di valori riconosciuti e apprezzati a livello internazionale che essi veicolano. Si tratta di un vero e proprio danno – non solo economico, ma anche di immagine – inflitto alla nostra industria agroalimentare, banalizzata nella sua autentica tradizione ed eccellente qualità.

Con una radicale azione di contrasto al falso Made in Italy, che porti ad un recupero delle quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari delll’“Italian sounding”, le esportazioni agroalimentari potrebbero addirittura triplicare, pareggiando la bilancia commerciale del settore. Si stima, inoltre, che dalla lotta alla contraffazione potrebbero derivare fino a trecentomila nuovi posti di lavoro.

Secondo i dati Coldiretti/Eurispes contenuti nella relazione sulla contraffazione, il volume d’affari delle agromafie ammonterebbe oggi a ben 12,5 miliardi di euro, pari al 5,6% dell’intero business criminale.

Le imprese agricole e i consumatori – precisa la Coldiretti – subiscono l’impatto devastante delle strozzature di filiera su cui si insinua un sistema di distribuzione e trasporto gonfiato e alterato troppo spesso da insopportabili fenomeni di criminalità che danneggiano tutti gli operatori. L’effetto è un crollo dei prezzi pagati agli imprenditori agricoli, che in molti casi non arrivano a coprire i costi di produzione, e un ricarico anomalo dei prezzi al consumo che raggiungono livelli tali da determinare un contenimento degli acquisti”.

Dal campo alla tavola, il prezzo dei prodotti viene triplicato, anche a causa dell’illecito intervento della malavita organizzata: le agromafie reinvestono i loro proventi soprattutto in attività agricole, “nel settore della trasformazione alimentare, commerciale e nella grande distribuzione”, condizionando la libera iniziativa economica e incrementando la concorrenza sleale. Oltre ad un aumento dei prezzi, le conseguenze negative per i consumatori riguardano anche la qualità dei beni acquistati, spesso spacciati come Made in Italy, ma ottenuti in realtà con materie prime importate e di bassa qualità.

La Commissione parlamentare d’inchiesta ha verificato, in particolare, come le nostre tasse finanzino addirittura la realizzazione di prodotti italiani solo nel nome, attraverso la “Società italiana per le imprese all’Estero Simest s.p.a.”, controllata dal ministero dello Sviluppo economico, senza alcun beneficio per il nostro Paese, ma incrementando, anzi, i comportamenti di concorrenza sleale prima descritti. Tali attività di delocalizzazione sottraggono opportunità di lavoro e occupazione al sistema Italia: è il caso dell’azienda casearia Lactitalia (partecipata da Simest al 29,5%), che produce in Romania formaggi con nomi italiani Caciotta e Pecorino, e della vendita all’estero del salame calabrese prodotto negli Stati Uniti e venduto a New York dalla salumeria Rosi del Gruppo Parmacotto.

Non è politicamente, economicamente e moralmente accettabile” – conclude il Presidente Sergio Marini – “che lo Stato, che rappresenta tutti i cittadini italiani, finanzi direttamente o indirettamente la produzione o la distribuzione di prodotti alimentari che contaminano il valore del territori facendo concorrenza sleale a tutte le produzioni tipiche vere espressioni di quei territori”; è per questo motivo che “la lotta alla contraffazione e alla pirateria” devono rappresentare per le istituzioni “un’area di intervento prioritaria per recuperare risorse economiche utili al Paese” e a “generare occupazione”.

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Packaging: nuovi scenari e strategie aziendali

Dalla funzione di semplice contenitore per la protezione e conservazione dei prodotti, il packaging si è evoluto diventando espressione dell’identità aziendale.

Il tonno non è un pesce. È una scatoletta. Leggendo questo slogan, un po’ di tempo fa, mi misi a ridere: divertente. Ad idearlo era stato un mio amico, Nicola Zuliani, un webmaster con il vizio della creatività, capace di sintetizzare, in poche semplici parole, un concetto alla base del processo ideativo, produttivo e divulgativo di molti brand. Mi riferisco al packaging, ovviamente – la confezione, l’imballaggio – la cui funzione primaria dovrebbe essere quella di contenere e proteggere un prodotto. Pensando al tonno è automatico il collegamento alla scatoletta, così come pensando di bere una Coca Cola ci immaginiamo di stringere tra le mani una lattina o, ancor meglio, una bottiglietta di vetro; è facile rendersi conto di come si tenda ormai ad identificare prodotti ed esperienze d’utilizzo con l’involucro che fisicamente avvolge loro, in una singolare associazione di idee che pare spingere la metafora al di fuori della dimensione intellettiva per renderla realtà concreta.

Parlare di packaging nell’era del Web 2.0 – in un periodo storico, cioè, caratterizzato dall’immaterialità, da un contenuto svincolato dal limite fisico del contenitore, dalla miniaturizzazione che impone all’utente l’elaborazione di una personale formula fruitiva – può sembrare quasi un anacronismo; in realtà ciò su cui vorrei concentrare la mia riflessione è il modo in cui l’universo semantico veicolato dalla parola “packaging” ha mutato nel tempo la propria forma e dimensione, il modo in cui esso si è evoluto per riuscire a sostenere le strategie aziendali. Del resto, sottolinea Marco Sachet (direttore dell’Istituto Italiano Imballaggio), “l’imballaggio esiste e continuerà ad esistere perché il consumatore desidera un prodotto perfetto, subito disponibile, e sotto casa”.

In origine l’imballaggio veniva valutato principalmente per il suo essere funzionale, doveva rispettare determinati canoni fisici ed estetici, idonei a proteggere e conservare il prodotto. L’evoluzione del mercato e il mutare della domanda hanno fatto in modo che la valenza di tale funzionalità originariamente ricercata si estendesse anche agli aspetti comunicativi e relazionali del prodotto: il packaging serve oggi a presentare questo stesso prodotto e, di conseguenza, a esibire il marchio e il suo universo valoriale; serve ad offrire un’identità, serve a convincere l’utente a diventare consumatore, non tanto creando in lui un desiderio fittizio, quanto piuttosto cercando di soddisfare i suoi bisogni, plasmandosi su essi. È un utente, infatti, sempre più esigente quello con cui gli operatori del largo consumo devono confrontarsi, un utente che privilegia caratteristiche quali l’efficienza nelle dimensioni, la sostenibilità, la riciclabilità, la flessibilità, l’innovazione, la facilità d’utilizzo e trasporto, la riconoscibilità.

La nuova sfida per le imprese italiane fornitrici di packaging è, allora, in primis quella di riuscire a sviluppare dei progetti realmente efficaci per il proprio mercato di riferimento, tenendo ben presenti le particolarità del consumatore moderno e le dinamiche che lo spingono all’acquisto.

In risposta a questa difficile sfida, gli operatori italiani sembrano essersi concentrati, in particolare, secondo Sachet, su quattro fondamentali trend: unità di vendita più piccole, nuovi settori che danno vita a nuovi contenitori, nuovi servizi per il consumatore e attenzione primaria alla sostenibilità ambientale. Cerchiamo di indagare più nel dettaglio tali tendenze.
Da una parte la crescente presenza di non coniugati e i ritmi di vita frenetici, sempre in movimento, hanno portato, soprattutto in ambito alimentare, alla realizzazione di confezioni monodose e monoporzione che permettano di non sprecare il contenuto e che si prestino ad essere acquistate, ad esempio, presso distributori automatici (con effetti, dunque, anche nel mondo retail, non solo in quello della produzione). Si tende, dunque, in alcuni casi, a privilegiare funzionalità e praticità, facilità di apertura-chiusura, di trasporto e di conservazione

Dall’altra parte la crisi economica degli ultimi anni ha indotto gli utenti a prestare particolare attenzione al rapporto qualità/prezzo, nell’improntare le proprie strategie d’acquisto: ciò ha portato i produttori a diminuire dimensione e peso dei rivestimenti e ad offrire formati famiglia o confezioni idonee alla ricarica; allo stesso modo, il perseguimento di uno stile di vita più casalingo ha portato alla creazione di contenitori pensati per l’intrattenimento domestico, dunque rispondenti anche a criteri estetici. Il fatto, poi, che le persone abbiano sempre meno tempo da passare sui fornelli incrementa il consumo e l’importanza dei prodotti cosiddetti “della quarta gamma” (cioè pronti per il consumo).
Il nuovo cliente – che in precedenza abbiamo definito “esigente” – desidera sempre di più, sottolinea Sachet, “informarsi su quanto acquista: verrà soddisfatto in questa sua necessità da informazioni che potrà fruire sia sulla confezione sia, successivamente, grazie ai codici bidimensionali o ad altri ritrovati della tecnologia via web. Lo sviluppo di questa tendenza sarà colto non solo dai produttori, ma anche dai retailer, e aumenterà il numero dei servizi collaterali: diminuzione delle code o acquisto veloce, per esempio”.

Un consumatore più esigente è anche un consumatore più attento: attento all’ambiente, alla salute e alla sicurezza. Questa constatazione si traduce nella previsione di soluzioni d’imballaggio capaci di ridurre gli sprechi e, una volta esaurita la loro sostanza, di facilitare il loro recupero o, se questo non fosse possibile, il loro smaltimento attraverso la separazione dei materiali (di conseguenza aumenta la tendenza a fornire indicazioni sulla confezione circa la destinazione dei diversi materiali che la compongono alla raccolta differenziata). “Da qui a cinque anni – spiega Luciano Piergiovanni, professore ordinario di Scienze e Tecnologie Alimentari dell’Università degli Studi di Milano e presidente del Gsica, Gruppo Scientifico Italiano di Confezionamento Alimentare – le aziende smetteranno con gli atteggiamenti fittizi, il cosiddetto green washing, per dimostrare una vera attenzione nei confronti di un problema non più rinviabile”. L’attenzione, poi, a salute e sicurezza porta, nuovamente, ad una riduzione delle porzioni e all’utilizzo di materiali tecnologicamente avanzati, in grado di eludere qualsiasi rischio (ad esempio quello di tagliarsi).

Infine l’innovazione e la differenziazione sono altri principi ai quali si affidano i fornitori, attraverso packaging artistici o materiali particolari che spingano l’utente a conservare gli stessi anche quando non vi sia più il contenuto originale.
A tal proposito, i dati forniti dalla Packaging Innovation Survey – realizzata da Accenture, in collaborazione con l’Università di Roma Tor Vergata e l’Istituto Italiano Imballaggi e basata su circa 100 fornitori italiani di packaging – hanno evidenziato come, per ben il 72% dei fornitori, essere innovativi sia un fattore critico di successo e come l’88% abbia inserito nella propria attività la funzione R&d, funzione sulla quale si intende investire maggiormente nei prossimi anni. Sempre allo scopo di perfezionare grafica e design dei prodotti, circa il 12% degli intervistati ha affermato di aver posto in essere partnership con istituti esterni.

Lo studio appena citato mette, tuttavia, in evidenza anche un elemento di criticità del settore, la mancanza, cioè, di collaborazione tra fornitori e aziende, la cui causa viene rintracciata, innanzitutto, nella molteplicità delle funzioni aziendali con cui i fornitori si trovano obbligati a rapportarsi: solo il 9% ha dichiarato, infatti, di avere un unico interlocutore al lato cliente, con conseguenti rallentamenti e necessarie riformulazioni che rischiano di vanificare il processo di innovazione. Altro aspetto della difficoltà di collaborazione è individuato nell’eccessiva attenzione posta nei costi delle operazioni: per il 49% degli intervistati la negoziazione del prezzo rappresenta il primo tema di discussione con i clienti, mentre solo nel 23% dei casi la discussione verte sull’innovazione. I meccanismi di trasferimento dell’innovazione dal fornitore all’azienda non sembrano essere, infine, particolarmente efficaci, poiché solo il 51%dei fornitori intervistati ha dichiarato di utilizzare un business case quando fa la sua proposta al cliente, nonostante il 75% ne riconosca l’importanza fondamentale per ottenere la fornitura.

Vanno, quindi, ridotte le inefficienze e attivati meccanismi di fruttuosa collaborazione, attraverso un monitoraggio continuo del mercato, capace di rilevare la portata delle innovazioni evidenziate finora (innovazioni che, tutto sommato, sarebbero, secondo Luciano Piergiovanni, piuttosto delle “tendenze che proseguono da anni”), attraverso una cultura aziendale che favorisca il confronto e attraverso un’azione trasversale e congiunta, capace, da un lato, di coinvolgere parimenti fornitori e clienti e, dall’altro lato, di unire le diverse funzioni aziendali (marketing, ricerca e sviluppo, qualità e produzione, acquisto).

Di questi scenari si occuperà Ipack – Ima 2012 (dal 28 febbraio al 3 marzo 2012), “uno dei più importanti appuntamenti internazionali nel settore delle tecnologie di packaging, processing e logistica interna: una grande fiera di sistema che presenta soluzioni tecnologiche per il settore alimentare e non alimentare a utenti provenienti da tutto il mondo”. I dati finora raccolti dall’Osservatorio di Ipack-Ima (diretto da Giampaolo Vitali, segretario del Gruppo Economisti d’Impresa, docente ricercatore del CNR), relativi al primo semestre 2011, parlano di una ripresa congiunturale del settore che, dopo essersi avviata nel 2010, prosegue nell’anno in corso.

L’industria manufatturiera che sarà protagonista dell’evento fieristico vanta nel 2010 un fatturato totale di Euro 37.567 milioni, di cui 25.807 riferiti al settore imballaggi e 11.760 ai settori dei beni strumentali. Stiamo parlando di una filiera che offre occupazione a 143.410 addetti ed esporta quasi il 29% della propria produzione (percentuale che sale addirittura all’88% per le macchine per il packaging).

Nel primo semestre 2011 è aumentato, allora, il fatturato totale per il 40% delle imprese prese a campione dall’Osservatorio e sono aumentate le esportazioni per il 29% di esse, mentre il 60% ha dichiarato una sostanziale stabilità e l’88% una costanza occupazionale. Le previsioni per il secondo semestre parlano, poi, allo stesso modo, di un quasi 40% di imprese che si aspettano una crescita di fatturato e di un 60% che si aspetta una certa stabilità; il 26% prevede un aumento dell’export, il 64% una costanza nello stesso e l’83% una situazione occupazionale immutata.

Malgrado il generale clima positivo che avvolge l’intero mercato di riferimento, si evidenzia una leggera differenza tra i due macrosettori principali: le imprese dei materiali e imballaggi hanno conosciuto una crescita di fatturato pari al 46%, superiore al 36% rilevato per le imprese dei macchinari; per contro crescono maggiormente le esportazioni per queste ultime (34%) rispetto alle prime (21%).

Scenari decisamente ottimistici, dunque, quelli delineati, che devono essere accompagnati da un’azione corale di ascolto e comprensione delle tendenze nella domanda e di promozione dell’innovazione, attraverso logiche che siano realmente collaborative.

Pubblicato su: PMI-dome

I buoni pasto per garantire il welfare aziendale

La promozione del benessere dei propri dipendenti passa anche attraverso il mercato dei buoni pasto, con notevoli vantaggi in capo alle stesse aziende

C’è una risorsa alla quale, pare, nessuna attività imprenditoriale possa rinunciare. Si tratta di una risorsa che, se ben sfruttata, può fare la differenza tra un’operazione di successo e una mediocre. È una risorsa ben difficile da gestire, spesso sottovalutata, a volte troppo favorita. È la risorsa umana.

Promuovere il benessere e la gratificazione di tale risorsa umana può sembrare, ad uno sguardo superficiale, un semplice dettaglio, una banale sfumatura legata all’inclinazione personale del titolare aziendale. Così non è. Se posti nelle condizioni a loro ottimali, se motivati dall’idea di ottenere una soddisfazione personale, se visti – ancora – come reali alleati e non come spesa inevitabile, ecco che i dipendenti aziendali possono trasformarsi in un’arma vincente da lanciare ai propri competitors. Non a caso si è scelto di chiamarli “dipendenti”, poiché l’efficacia o meno di una simile arma dipende in primis dalla capacità del “capo” di saperne cogliere le inclinazioni e di motivarne le azioni e dalla sua abilità a non farsi offuscare dal proprio ego, a riconoscere i propri limiti e a delegare ai propri collaboratori responsabilità e – soprattutto – fiducia e rispetto. Non si tratta certo di un compito facile, ma, come insegna la saggia cultura popolare, chi vuole la bici deve imparare a pedalare.

Una recente indagine in proposito è stata realizzata da AstraRicerche per conto di Endered: essa si è rivolta ad un campione di lavoratori italiani operanti  in aziende, pubbliche e private, con almeno 16 dipendenti e appartenenti a settori economici ampiamente rappresentativi; ciò che si è cercato di indagare è il grado di soddisfazione percepito dai dipendenti  all’interno della propria realtà lavorativa. In particolare il 54% degli intervistati era di sesso maschile, il 46% femminile e si è scelto di includere single, coniugati, separati e divorziati, provenienti da classi sociali differenti. I dati emersi rivelano un bisogno di welfare che in azienda non viene sempre soddisfatto: nonostante il 59% degli intervistati abbia spostato la priorità del proprio interesse sulla domanda di servizi piuttosto che sugli aspetti economici del proprio rapporto lavorativo, ben il 48,7% dichiara di non vedere colmate in modo efficace le proprie necessità di benefit, quasi a dire, ritornando al linguaggio della metafora, che non molti titolari hanno saputo pedalare davvero bene.

I servizi per i quali i lavoratori si sono dichiarati maggiormente  interessati sono quelli legati alla persona e al suo nucleo familiare (88,5%), la possibilità di ricevere buoni pasto o di mangiare in una mensa aziendale (57%), il beneficio che deriva da degli orari flessibili e, infine, l’alternativa del telelavoro, per riuscire a conciliare gli orari di lavoro e la vita privata (worklife balance).

Subito dopo, le richieste dei dipendenti cadono sui servizi legati alla mobilità (tipo car sharing e car pooling), sull’assistenza medica, sui corsi e le attività culturali, sulla figura del cosiddetto “maggiordomo aziendale” (che dovrebbe svolgere alcune pratiche per conto dei dipendenti9, sull’asilo nido in azienda  e sull’assistenza a bambini e anziani.
Tra tutti questi servizi sentiti come necessari, quelli effettivamente più diffusi sono i buoni pasto, le mense aziendali, la polizza sanitaria e l’orario flessibile, mentre tutti gli altri raggiungono delle percentuali pressoché trascurabili. Più di un terzo del campione non beneficia di alcun aiuto e sostegno da parte dell’azienda, in particolare nelle piccole e medie imprese (51%, di cui 39% riferito alle aziende del settore pubblico) e, anche nei casi in cui i servizi vengano offerti, viene spesso lamentata la scarsa qualità degli stessi, notevolmente inferiore alle aspettative.

Eppure i dati dell’indagine rivelano le forti ricadute positive che l’azienda potrebbe avere dal puntare sul welfare, poiché i dipendenti appagati mostrano maggiore motivazione e partecipazione agli obiettivi aziendali: tra essi, il 38% si è dichiarato favorevole all’incremento della produttività e alla riduzione dell’assenteismo, il 33% percepisce un rafforzamento del senso di appartenenza ai valori dell’azienda e il 32% valuta l’implementazione di simili servizi come una forma positiva di valorizzazione del capitale umano, quindi come una misura concreta di attenzione dell’azienda verso i propri dipendenti. Cresce, di conseguenza, anche il prestigio e la credibilità verso l’esterno di un’azienda che punti alla soddisfazione interna, in un regime di completa lealtà morale e sociale.

Uno dei benefici che maggiormente viene auspicato e – l’abbiamo detto – anche erogato ai dipendenti è quello relativo alla possibilità di trascorrere la propria pausa pranzo in un luogo convenzionato con l’azienda, in altre parole la possibilità di godere dei cosiddetti buoni pasto. Cerchiamo, allora, di concentrare ora la nostra attenzione su questo mercato che, pare, sia quello in maggior espansione nel campo della ristorazione.

Alternativo alle mense aziendali, lo strumento dei buoni pasto cominciò ad apparire in territorio italiano nei primi anni Settanta (allargando la prospettiva, ricordiamo che comparì per la prima volta nel 1954, in Inghilterra), seppur inizialmente venisse erogato solo in particolari e ben specifichi casi. Lo sviluppo progressivo del settore ne ha reso il volume d’affari annuo pari a 2,4 miliardi di euro (dati anno 2008) e le motivazioni ad un simile sviluppo risiedono – si legge sul sito di A.N.S.E.B. (Associazione Nazionale delle Società Emettitrici di Buoni Pasto) – nella possibilità per l’azienda di “eliminare i costi derivanti dall’allestimento dei locali da attrezzare per l’erogazione del servizio di mensa” e di ottenere dei “benefici fiscali che garantiscono l’esenzione dall’imposta sul reddito e dagli oneri contributivi fino ad un ammontare giornaliero di 5,29 euro”. Come si legge nel relativo statuto costitutivo, l’A.N.S.E.B è “un’associazione apartitica, non ha fini di lucro”, ma “ha il fine di rappresentare e tutelare in Italia ed all’estero gli interessi morali, professionali ed economici delle Aziende Associate”. Stando alle più recenti statistiche, sarebbero più del 40% i lavoratori che, pranzando fuori casa per motivi di lavoro, usufruiscono dei buoni pasto, pari a circa 2,5 milioni di persone (1,6 milioni nel settore privato e 600 mila in quello pubblico). 80 mila sono le aziende e le pubbliche amministrazioni che usufruiscono del servizio, mentre circa 120 mila sono gli esercizi convenzionati.

La norma di riferimento, tesa a regolamentare in modo organico il settore dei buoni pasto, è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 18 novembre 2005 (e successive modificazioni), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 17 gennaio 2006 e recante disposizioni in materia di “Affidamento e gestione dei servizi sostitutivi di mensa”.

Come funziona il meccanismo?
Gli attori in gioco sono sostanzialmente quattro: le società emettitrici, i datori di lavoro, gli esercizi erogatori dei servizi di ristorazione e i lavoratori. Le società emettitrici promuovono e vendono ai datori di lavoro i buoni pasto, che possono avere formato (cartaceo o digitale) e valore differente, a seconda delle esigenze del cliente; i datori distribuiscono poi i buoni pasto ai propri lavoratori dipendenti e fiscalmente assimilati, i quali, in seguito all’erogazione del servizio di ristorazione presso uno degli esercizi convenzionati (tale erogazione, fino ad un importo complessivo giornaliero di 5,29 euro, non costituisce reddito da lavoro dipendente ed è quindi esclusa da contributi previdenziali e assistenziali), cedono il proprio buono come forma di pagamento (pari al valore facciale del titolo) all’esercizio convenzionato; quest’ultimo dovrà successivamente presentare il buono alla società emettitrice, ricevendone, in cambio, il corrispondente in denaro e la regolare fattura.

Come si presenta il settore che stiamo indagando e qual è il mercato di riferimento?
Secondo particolari statistiche riportate da A.N.S.E.B. su elaborazioni C.S. Fipe, la maggior parte degli italiani lavoratori (13,058 milioni) pranza direttamente a casa, 2,768 milioni pranzano sul posto di lavoro, 2,459 milioni in una mensa, 1,525 in un ristorante o trattoria e 1,172 in un bar.


Sul totale di occupati a tempo pieno, gli italiani che ricevono il buono pasto sono il 16%: in particolare, nel Nord Ovest essi rappresentano il 24,3%, nel Centro il 20,8%, nel Sud e nelle Isole il 9,3% e nel Nord Est il 9%.


La maggior parte dei buoni pasto viene distribuita nel Nord Ovest (45,55% con un volume d’affari del 45,3%), seguito dal Centro (25,65% per un volume d’affari del 26,8%), dal Sud e dalle Isole (16,96% con un volume d’affari del 15,9%) e, infine, dal Nord Est (1,84% e volume d’affari pari al 12,1%).

La maggior parte, l’81%, del valore del mercato dei buoni pasto è riconducibile al settore privato, il 19% al settore pubblico: in particolare, nel Nord Ovest il 93,5% di tale valore fa riferimento al privato, mentre il 6,5% al pubblico; nel Nord Est la segmentazione è 86,9% per il privato e 13,1% per il pubblico; nel Centro 73,3% contro 26,7%; nel Sud e nelle Isole 70,4% contro 29,6%.

Una decina sono le società che si dividono un mercato altamente frazionato, in testa alle quali si colloca Edenred, con una quota pari al 52% e con 1,3 miliardi di euro; subito dopo vengono Qui Ticket con 22% di quota e 560 milioni di euro, Day con 500 milioni (20%), Sodexo con 245 milioni e Pellegrini con 150 milioni. Edenred, Sodexo e Day sono anche inseriti nei principali mercati internazionali.

La presenza di un mercato così competitivo è causa di un’intensa ricerca votata all’innovazione in capo alle aziende che compongono tale mercato. Si veda, ad esempio, Day, prima a lanciarsi nell’e-commerce per la vendita dei propri buoni pasto: essa ha creato “myDay”, piattaforma web per la gestione degli ordini, “Dayshop”, pensato per le aziende per l’acquisto dei buoni pasto in soli quattro click, “Cadhoc”, il buono regalo acquistabile via web e implementato grazie all’alleanza con il gruppo francese Chèque Déjeuner, “DayTronic”, un ticket in formato elettronico, infine una piattaforma per spendere i buoni direttamente online, in previsione per settembre; Day è inoltre presente nei principali circuiti sociali.
Quello dei buoni pasto, in conclusione, non rappresenta l’unico strumento capace di garantire il rispetto del welfare aziendale, ma, certamente, ne costituisce una componente fondamentale, capace di garantire al dipendente il rispetto delle proprie abitudini alimentari, l’esenzione da oneri fiscali e previdenziali e il rispetto completo della pausa pranzo, attraverso l’allontanamento dal luogo di lavoro e dalle problematiche della routine lavorativa. Allo stesso tempo si assicura alle imprese l’ottimizzazione rispetto ai costi di gestione delle mense, la deducibilità ai fini IRES di tali costi sostenuti (in quanto mezzo utile ad ottimizzare la produttività del lavoratore) ed, infine, la maggiore flessibilità nella gestione degli orari di pausa pranzo.

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