Tra crisi e innovazione, ecco il volto del Natale 2012

In vista delle prossime festività, scatta l’allarme di alcune associazioni sull’inevitabile calo dei consumi e crescono le preoccupazioni degli italiani. Mutano, allo stesso tempo, le prassi d’acquisto dei regali, grazie al Web e al mobile, e dei prodotti per le tavole da imbandire, scelti tra quelli locali

A un mese dalle festività natalizie, si scatenano i sondaggi e le stime per rilevare le tendenze d’acquisto e gli umori degli italiani.
Pare che quello dell’anno in corso sarà un Natale dal volto decisamente rinnovato. E non solo in senso metaforico: tra novembre e dicembre cresceranno del 20% le richieste di trattamenti estetici (botulino, filler riempitivi e peeling) del viso a scopo ringiovanente, secondo quanto rilevato, pochi giorni fa, da Daniela Marciani, docente al master di Dermatologia estetica all’Università Tor Vergata di Roma, nel corso dell’87esimo congresso nazionale della Società italiana di dermatologia Sidemast a Roma. “La maggior parte delle richieste parte dalle donne, ma aumentano gli uomini che ora sono il 30% dei pazienti”, ha aggiunto. Quasi gli italiani volessero rincorrere una maschera che, nascondendo i segni del tempo e della temutissima crisi, sembra poter concedere un’illusione di stabilità e rilanciare l’immortale sensibilità estetica del Belpaese.
Eppure gli effetti della contemporaneità (congiuntura economica e innovazione tecnologica in primis) si fanno sentire e gravano sulle spalle dei cittadini (talvolta – è bene sottolinearlo – le alleggeriscono), spingendo loro a modificare le proprie prassi festive e a rivedere, in parte, le proprie tradizioni, coprendo spesso il tutto con una valenza più morale che pratica. Quasi a dire che a Natale non ogni scusa vale. Sembrano moltiplicarsi, allora, coloro che cercano di compensare il minore investimento economico natalizio con un maggiore investimento emotivo e di autogratificazione: stando ai dati diffusi da Confcommercio, in collaborazione con Format Ricerche, aumenta la percentuale di italiani che considerano i regali di Natale una spesa piacevole da affrontare (49%, contro il 45,8% nel 2011) e parallelamente diminuisce la percentuale di coloro che vedono questo tipo di acquisti come una spesa necessaria di cui farebbe volentieri a meno (dal 42,5% del 2011 all’attuale 31,2%). Solo per il 19,8% i regali rappresentano una spesa del tutto inutile, ma che comunque deve essere affrontata.
Ciò non toglie che sia la preoccupazione lo stato d’animo prevalente tra le famiglie in vista delle spese da affrontare per le festività. Quasi sette italiani su dieci (il 66,4%, contro il 53,5% registrato lo scorso anno) sono, infatti, sicuri che esse risentiranno fortemente della grave crisi economica in atto e saranno per questo vissute in maniera “molto” dimessa (la convinzione prevale soprattutto presso le donne, coloro che hanno un’età compresa tra i 35 ed i 54 anni, le famiglie e i residenti nelle regioni del Centro, del Mezzogiorno e delle grandi aree metropolitane, mentre è meno radicata presso le persone più anziane) e quasi tre italiani su dieci (29%) pensano che tale pessimistica prospettiva sia almeno possibile (contro il 27,4% del 2011). Allo stesso modo diminuisce la percentuale di quanti ritengono che il prossimo Natale non sarà diverso da quello degli altri anni (4,6% contro il 19,1% registrato lo scorso anno).
Al clima di sconforto, si associa anche l’aumento della percentuale di italiani che non faranno i regali di Natale (dall’11,8% del 2011 al 13,7% del 2012), soprattutto tra i residenti nelle regioni del Nord-Est e nelle regioni del Mezzogiorno. Rimane comunque non marginale la quota di italiani che continuerà a farli (86,3%), probabilmente considerando la spesa come inevitabile.
I principali destinatari dei regali sono sempre – ci dicono ancora Confcommercio e Format Ricerche – i familiari più stetti (coniuge, figli, genitori e fratelli, che conquistano il 50,2%) e i parenti in generale (41,3%). I regali saranno poi rivolti a persone con le quali in genere si intrattengono rapporti, anche se non di lavoro (36,3%), agli amici (35,0%) e a persone con le quali si hanno rapporti di lavoro (34,3%). A confermare la ricerca di una sorta di autogratificazione, il 41,4% ha infine dichiarato che farà dei regali a se stesso.
Poco meno di un terzo (28,9%) di coloro che effettueranno i regali di Natale, hanno fatto o faranno i propri acquisti nel mese di novembre (in aumento rispetto al 19,8% registrato lo scorso anno), contro il 71,1% che si muoverà solo a dicembre. Si acquisterà soprattutto presso i punti vendita della grande distribuzione organizzata (68,9%, canale che si innalza di 7,1 punti percentuali sul 2011). Diminuisce la propensione all’acquisto presso i punti vendita della distribuzione tradizionale (51,2%, pari a -8,0% sul 2011) e presso gli outlet (10,1%, pari a -13,9%), mentre aumenta notevolmente l’utilizzo di Internet (28,3%, pari a un incremento di 15 punti percentuali sullo scorso anno).
A confermare l’importanza del web in tal senso è pure una ricerca TNS, commissionata da eBay, che calca ulteriormente la mano e si spinge ad indagare sull’impatto del mobile nelle prassi d’acquisto: pare che quest’ultimo sarà utilizzato da ben il 43% degli italiani in misura maggiore o uguale rispetto allo scorso Natale. Più in particolare il 15% del campione dichiara che utilizzerà il cellulare e il 13% l’iPad. Il 68% di chi intende fare shopping natalizio via mobile, lo farà dal divano, il 24% dal proprio letto, il 14% mentre è in vacanza e l’11% sui mezzi pubblici. Il mobile sembra avere un’importanza strategica non solo per comprare i regali, ma anche per mettere online le proprie inserzioni nei mesi precedenti il Natale e finanziare così le uscite previste.
La spesa media per i regali – rilevano ancora TNS e eBay – sarà quest’anno di circa 200 euro a persona, pari a 38 euro in meno rispetto allo scorso anno, e il numero di regali che ciascun italiano prevede di fare sarà compreso tra 6 e 10. Se a quei 200 euro si aggiungono i 120 euro circa previsti per le decorazioni e il cibo (-27 euro rispetto al 2011), si arriva ad una spesa complessiva per le festività natalizie pari a circa 320 euro a testa. Ovviamente la spesa media per ciascun regalo si differenzia in relazione al destinatario dello stesso: 117 euro per i figli, 99 euro per i partner, 65 euro per i genitori, 58 euro per i fratelli, 50 euro per gli amici, 30 euro per i nonni e 26 euro per i colleghi.
Il peso della crisi torna a farsi sentire anche sulle risposte raccolte da eBay, con 1 italiano su 3 che dichiara di trovare il Natale mediamente o decisamente stressante, con un 31% che cercherà di ridurre al minimo tutte le altre spese per poter sovvenzionare il Natale e un previdente 20% che ha risparmiato durante tutto l’anno per avere maggiore disponibilità a Natale. Il 13% del campione pensa, invece, di usare la tredicesima, nonostante il previsto calo della stessa nel monte gratifiche 2012, come risulta dal 21^ rapporto Adusbef, secondo il quale l’ammontare complessivo delle tredicesime sarà di 34,5 miliardi di euro (0,5 miliardi di euro in meno, pari a -1,4% sul 2011), di cui 9,9 miliardi ai pensionati (-2,9%), 9,20 miliardi ai lavoratori pubblici (come nel 2011), 15,4 mld (-1,9%) ai dipendenti privati (agricoltura, industria e terziario); ben il 90,7% della tredicesima (31,3 mld) sarà – avverte ancora l’Adusbef – destinato alle molte scadenze fiscali di fine anno (4,5 miliardi alla seconda rata dell’IMU, 10,3 miliardi a bollette, ratei e prestiti, 5,3 miliardi a RC Auto, 4,6 miliardi ai mutui, 3,7 miliardi alle tasse di auto e moto, infine 1,9 miliardi al canone Rai), con il risultato che meno di un decimo (il 9,3%, ossia 3,2 miliardi di euro) resterà realmente nelle tasche di lavoratori e pensionati e potrà essere usato per risparmi, regali e viaggi.
I dati eBay confermano poi la tendenza a pensare solo a dicembre agli acquisti, tuttavia diminuisce il numero di persone che intendono muoversi nell’ultima settimana (dal 18% del 2011 all’attuale 11%).
Cosa vorrebbero ricevere gli italiani a Natale? Secondo TNS – eBay al primo posto vi sarebbe un viaggio (24%), seguito da oggetti tecnologici, come navigatori, lettori mp3 o smartphone (12%), da articoli del settore fashion come vestiti, scarpe e accessori (11%, con una peso maggiore delle donne sugli uomini: 14% contro 9%); e cosa preferirebbero invece non ricevere? A pari merito, oggetti per la casa, cosmetici, calze e intimo. La ricerca indaga anche su chi viene considerato il migliore nel fare i regali di Natale: per quasi la metà (48% e soprattutto per gli uomini) sembra essere il partner, per il 16% i genitori, infine per un misero 7% i figli e i fratelli.
Dall’indagine emerge anche una sostanziale differenza di genere nella gestione delle festività: l’80% delle intervistate dichiara, infatti, di occuparsi dei preparativi, parallelamente il 28% degli uomini dichiara che a occuparsene è la compagna. Le donne sembrano, inoltre, essere più previdenti nell’organizzazione (il 25% pensa già a novembre agli acquisti, percentuale che scende al 18% per gli uomini), meno stressate dall’arrivo delle festività (39% contro il 28% per gli uomini) e più “coinvolte” emotivamente, dato che il 72% dichiara di cedere allo shopping personale durante la scelta dei regali da fare (contro il 62% degli uomini).
Lo spirito natalizio sembra incrinarsi (in favore – per vederla in termini positivi – di un ideale di riciclo e riuso) quando si scopre che ben 2 milioni di italiani rivendono i regali indesiderati ricevuti: il 34% degli italiani sembra  ricevere mediamente 1-2 regali non graditi ogni anno (soprattutto da suoceri e parenti acquisti), per un valore medio di circa 54 euro.
Preoccupazione in vista del prossimo Natale vengono poi espresse da molte associazioni italiane. Federconsumatori, riprendendo i dati sul commercio da poco diffusi dall’Istat, sottolinea che “i consumi sono ormai completamente fermi”, a causa soprattutto della “drastica riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, diminuito del -13,2% dal 2008 ad oggi”. Essa avverte, allora, che a risentire della situazione saranno anche le festività natalizie, con una riduzione della spesa totale delle famiglie per i consumi di Natale, prevista nell’ordine dell’11-12% rispetto al 2011. “È giunto il momento – propone infine Federconsumatori – di cambiare rotta, avviando misure di rilancio del potere di acquisto” delle famiglie, “attraverso una detassazione delle tredicesime ed un’immediata anticipazione dei saldi a prima di Natale”.
Secondo Pietro Giordano, segretario generale Adiconsum il persistere del calo delle vendite è dovuto non solo alla recessione con perdita di posti di lavoro e ricorsi a cassa integrazione e mobilità, ma anche a provvedimenti del Governo, il cui risultato è stato caricato pesantemente sulle famiglie aumentando oltre il sopportabile il carico fiscale”. “La necessaria cura di cavallo non può uccidere il cavallo”, conclude, con una metafora ad effetto.
Più ottimista, invece, la Confederazione italiana agricoltori che vede le prossime vacanze natalizie come l’ultima speranza per “ridare un po’ di fiato ai consumi di cibo e bevande”: non ci saranno, secondo la Confederazione, “crolli a tavola, anzi. Ben nove italiani su dieci non taglieranno il budget alimentare per il cenone della Vigilia e per il pranzo del 25 dicembre, preferendo risparmiare su regali e viaggi piuttosto che rinunciare alle tradizioni enogastronomiche”.
Ottimismo in parte confermato da Coldiretti, che, sulla base dell’indagine “Xmas Survey 2012” di Deloitte, stima in 197 euro la spesa media per famiglia per imbandire le tavole delle feste di fine anno 2012 (pari al 36% della spesa complessiva) “con gli alimentari e le bevande che sono l’unica voce di spesa che sostanzialmente tiene (+2,1%) nel tempo della crisi”. Non si rinuncia, insomma, a pranzi e cenoni, tuttavia è cambiato, secondo Coldiretti, il modo di comprare, dato che la preferenza cade ora sui prodotti del territorio e sul Made in Italy, con la precisa volontà di creare ricchezza locale: “Crollano le mode esterofile del passato pagate a caro prezzo come champagne, caviale, ostriche, salmone o ciliegie e pesche fuori stagione a favore dell’aumento dei prodotti Made in Italy magari a chilometri zero”.
La tendenza sembra essere confermata dall’interesse crescente a Natale verso il turismo enogastronomico (ne sono coinvolti, secondo un’indagine Coldiretti/Censis, oltre il 24% degli italiani, che significa oltre 12,2 milioni, di cui oltre 2,3 milioni in modo regolare)
Coldiretti lancia, tuttavia, allo stesso tempo, un allarme contraffazione con riferimento ai regali di Natale: i budget ad essi destinati cadranno del 9% e l’esigenza di risparmiare potrebbe aumentare il rischio in tal senso. Stando ad un sondaggio realizzato online dall’associazione, il 52% degli italiani si dice disponibili ad acquistare prodotti contraffatti, con una netta preferenza per i capi di abbigliamento e gli accessori taroccati delle grandi firme della moda (29%), seguiti dagli oggetti tecnologici (14%) e dai ricambi meccanici (6%), mentre c’è una grande diffidenza nei confronti di medicinali e cosmetici, giocattoli e alimentari (tutte all’1%)”.
Al di là delle buone previsioni per quello enogastronomico, pare che anche il turismo dovrà soffrire gli effetti della congiuntura economica negativa: solo un italiano su cinque (il 22%) partirà tra Natale e Capodanno, mentre otto italiani su dieci (79%) resteranno a casa, secondo quanto emerge da un sondaggio su “Viaggi Natale 2012 e prospettive 2013” condotto da Swg per conto di Confesercenti e Assoturismo. Il 9% partirà per Capodanno, il 5% per Natale e l’8% per un periodo compreso tra il 22 dicembre e il 6 gennaio 2013.
Tra chi deciderà di partire, il 39% alloggerà in albergo o pensione (contro il 36% dello scorso anno), il 35% a casa di parenti o amici (in netto aumento sia sul 2011 che sul 2010), il 22% in bed and breakfast o in una casa in affitto, il 15% in una seconda casa di proprietà, solo il 4% in strutture open air, con un fortissimo calo rispetto al 2010 (16%) e 2011 (18%).
Pubblicato su: PMI-dome
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Agroalimentare made in Italy: contrastando il falso, esportazioni triplicate

Record di esportazioni per il 2011, ma anche la persistenza di prassi illecite, colpevoli di bloccare la libera iniziativa economica

Pizza, mafia e mandolino. Ci siamo quasi: stereotipi che si confermano, primati che ci incoraggiano, stime che un po’ sorprendono e spiragli di ripresa. In questo sembra riassumersi l’attuale contesto dell’agroalimentare italiano.

Cominciamo con un dato positivo: stando ad un’analisi diffusa da Coldiretti e basata sugli andamenti registrati nel commercio estero agroalimentare dall’Istat, il valore delle esportazioni nel settore avrebbe raggiunto nei primi nove mesi del 2011 il suo massimo storico, arrivando a circa 30 miliardi, con una crescita di 9 punti percentuali. Destinatari di tali esportazioni sono stati principalmente i Paesi dell’Unione Europea, dove si sono concentrati i 2/3 del fatturato estero complessivo (con un rialzo dell’8%), gli Stati Uniti, dove l’esportazione del Made in Italy nelle tavole ha incrementato il proprio valore di dieci punti percentuali, e i mercati emergenti come quelli asiatici, dove l’aumento è stato addirittura del 18%, arrivando quasi a toccare la quota statunitense.

A rafforzare il proprio trend di crescita sono stati soprattutto i comparti più tradizionali dell’agroalimentare Made in Italy: il vino, ad esempio, ha aumentato il proprio valore d’esportazione di 25 punti percentuali; il formaggio – soprattutto grana e parmigiano reggiano, i più apprezzati – di ben 26 punti; l’olio di oliva ha registrato un +9%, la pasta un +7%, stabile, invece, l’ortofrutta.

Colpiscono, tuttavia, alcuni risultati, come quelli riferiti all’export della birra italiana in Gran Bretagna (grande produttrice della bevanda), in crescita record del 18%, o all’export dello spumante in Russia – con un +40% che rende quest’ultima al quarto posto tra i Paesi esteri di destinazione – o, ancora, quelli relativi all’esportazione di formaggi italiani in Francia (+22%), tradizionalmente molto nazionalista in questo ambito.

Le performance positive registrate sui mercati internazionali dal settore più rappresentativo dell’economia reale dimostra” – sottolinea Sergio Marini, Presidente di Coldiretti – “che il Paese può tornare a crescere solo se investe nelle proprie risorse che sono i territori, l’identità, la cultura e il cibo”. Recuperare, dunque, le proprie radici per ridare slancio e vitalità all’economia italiana, puntando sull’esternalizzazione, sulla diffusione all’esterno di modelli produttivi e di consumo: questa, in estrema sintesi, l’interpretazione offerta ai dati riportati. L’agroalimentare – conclude Marini – “è una leva competitiva formidabile per trainare il Made in Italy nel mondo”.

Il prodotto più importante dell’export agroalimentare nazionale si rivela essere il vino, con oltre la metà del fatturato realizzato dalle aziende italiane all’estero nei primi 9 mesi del 2011, stimato in quasi 4 miliardi di euro, con un aumento del 13,6% rispetto all’anno precedente. Cresce parallelamente il numero di ettolitri esportati, arrivando a quota 17 milioni e registrando, di conseguenza, un +13%.

Ad apprezzare il nostro vino sono, come già accennato, principalmente i Paesi dell’Unione europea, con aumenti in valore pari al 13% e con in testa la Germania. Gli Stati Uniti sono, invece, destinatari di poco meno di un quarto del fatturato estero, registrando nel 2011 un aumento record in valore pari al 17%. Sorprendenti gli incrementi registrati nei Paesi asiatici, in particolare in Cina, dove il valore delle esportazioni sembra essere praticamente raddoppiato (+87%).
Tale primato nelle esportazioni sembra stridere, in realtà, con i dati diffusi dall’Istat, ed elaborati da Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo-Alimentare) e Uiv (Unione Italiana Vini), relativamente alla produzione di vino in Italia, stabilizzatasi nel 2011 su livelli ai minimi storici; a fronte di una produzione stimata, a metà dicembre 2011, attorno ai 40 milioni di ettolitri (contro i 42 milioni indicati a settembre), è stata, infatti, registrata una caduta record del 14,2% sul 2010 (quando si erano contati 46,7 milioni di ettolitri).

Dal punto di vista qualitativo, oltre il 60% della produzione è stato destinato a uno dei 517 vini Docg, Doc e Igt riconosciuti in Italia. Questa tendenza negativa ha imposto una revisione della classifica mondiale dei Paesi produttori di vino, con la conseguente perdita, da parte dell’Italia, della propria supremazia produttiva, a favore della Francia, che, con i suoi 50,2 milioni di ettolitri (in aumento di 11 punti percentuali rispetto al 2010), raggiunge il primo posto. I 39,9 milioni di ettolitri prodotti in Spagna (con un leggero calo del 2%) rende anche questo Paese un potenziale pericolo per l’Italia, essendo lo scarto tra Roma e Madrid pari ad appena 218 mila ettolitri.

Al quarto posto della classifica mondiale dei produttori di vino, si attestano gli Stati Uniti, con 18,7 milioni di ettolitri, in calo di 6 punti percentuali sul 2010 (ha pesato, in particolare, il -10% registrato in California, primo polo produttivo della zona). In calo anche la vendemmia in Argentina, al quinto posto, con un -10% e 14,6 milioni di ettolitri prodotti. L’Australia, in sesta posizione, ha totalizzato all’incirca gli stessi quantitativi del 2010, mantenendosi sui 10 milioni e mezzo di ettolitri. Cresce, invece, a due cifre la produzione nel Cile – con un + 15,5% e oltre 10 milioni e mezzo di ettolitri realizzati – che arriva, così, a raggiungere la settima posizione. Superano i 10 milioni prodotti anche la Cina (in ottava posizione, con 10,4 milioni di ettolitri, in calo di 4 punti percentuali sul 2010) e il Sudafrica (con un +2% sul 2010).
Riprende, dopo un 2010 in forte decrescita – la produzione in Nord Europa e nei Peco (Paesi dell’Europa Centrale e Orientale), tanto da rendere probabile – conclude l’analisi Ismea-Uiv – il fatto che “il 2012 vedrà smorzarsi le forti richieste di vino sfuso effettuate da questi Paesi sia in Italia che in Spagna”: crescono Germania (+28%) e Austria (+45%), ma anche Romania (+31%), Bulgaria (+55%), Ungheria (+27%), Repubblica Ceca e Slovacchia.

Tornando al contesto italiano, si rileva, poi, dal punto di vista dei prezzi di scambio, un aumento – nei primi cinque mesi della campagna di commercializzazione, da agosto a dicembre 2011 – dei valori medi dei vini comuni di oltre 28 punti percentuali, rispetto allo stesso periodo del 2010: per il comparto dei rossi è stato registrato un +28,8% (il prezzo di scambio è stato in media 3,65 euro per ettolitro/grado, franco cantina), mentre per quello dei bianchi un +27,6% (3,81 euro per ettolitro/grado).

I buoni risultati rilevati sul settore esportazioni non sembrano attualmente aver portato adeguati benefici alle imprese agricole, confermando – conclude Coldiretti – le “pesanti distorsioni che permangono nel passaggio degli alimenti lungo la filiera dal campo alla tavola”.

L’andamento positivo delle esportazioni potrebbe, inoltre, essere ulteriormente ottimizzato se si riuscisse a combattere efficacemente la cosiddetta “agropirateria” internazionale e, ancor più, “l’Italian sounding”, la tendenza, cioè, a sfruttare economicamente parole, immagini, denominazioni e ricette che evocano il contesto italiano, pur essendo legate a prodotti alimentari che nulla hanno a che vedere con le produzioni nostrane; a differenza dell’agropirateria, la contraffazione vera e propria perseguibile penalmente, l’Italian sounding si muove in una zona grigia che può essere eliminata solo attraverso regole e accordi internazionali che impongano l’assoluta trasparenza sulla qualità delle materie prime e sui processi produttivi utilizzati dagli operatori dell’intera filiera.

Se sul piano nazionale sono stati recentemente scoperti la falsa mozzarella di bufala dop, vino ed olio etichettati come doc e dop senza documenti di tracciabilità, a livello internazionale le più copiate al mondo – prosegue Coldiretti – sono le denominazioni Parmigiano Reggiano e Grana Padano (con “il Parmesan diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone”, o il “Parmesao in Brasile, il Regianito in Argentina, Reggiano e Parmesao in tutto il Sud America, ma anche Pamesello in Belgio o Parmezan in Romania”), ma anche il Romano, l’Asiago e il Gorgonzola, prodotti negli Stati Uniti; anche alcuni marchi storici trovano una loro imitazione estera, come la mortadella San Daniele e il prosciutto San Daniele prodotti in Canada; e ancora: vino “tarocco”, come il barbera bianco romeno o il Chianti californiano, l’olio Romulo venduto in Spagna con tanto di lupa capitolina, imitazioni di soppressata calabrese e pomodori San Marzano negli States, il provolone del Wisconsin, il pesto tailandese “Spicy thai” e una strana “mortadela” siciliana prodotta in Brasile. Gli esempi sono molti e capaci di strappare facilmente un sorriso, ma si tratta pur sempre di un riso piuttosto amaro: stando, infatti, alle stime riportate da Coldiretti (sulla base della prima relazione sulla contraffazione nel settore alimentare, elaborata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale e presentata nel corso di un incontro presso la sede romana di Coldiretti, lo scorso giovedì 19 gennaio 2012, al quale hanno partecipato, tra gli altri, il Ministro per le Politiche Agricole Mario Catania, il Procuratore Antimafia Pietro Grasso e il Presidente della Coldiretti Sergio Marini), il falso alimentare Made in Italy fatturerebbe ben 60 miliardi di euro, con tre prodotti alimentari italiani falsi su quattro. A spingere verso una simile prassi ingannevole è la volontà dei produttori esteri di assicurarsi un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, potendo contare sulla risonanza positiva che certi nomi detengono, sul sistema di valori riconosciuti e apprezzati a livello internazionale che essi veicolano. Si tratta di un vero e proprio danno – non solo economico, ma anche di immagine – inflitto alla nostra industria agroalimentare, banalizzata nella sua autentica tradizione ed eccellente qualità.

Con una radicale azione di contrasto al falso Made in Italy, che porti ad un recupero delle quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari delll’“Italian sounding”, le esportazioni agroalimentari potrebbero addirittura triplicare, pareggiando la bilancia commerciale del settore. Si stima, inoltre, che dalla lotta alla contraffazione potrebbero derivare fino a trecentomila nuovi posti di lavoro.

Secondo i dati Coldiretti/Eurispes contenuti nella relazione sulla contraffazione, il volume d’affari delle agromafie ammonterebbe oggi a ben 12,5 miliardi di euro, pari al 5,6% dell’intero business criminale.

Le imprese agricole e i consumatori – precisa la Coldiretti – subiscono l’impatto devastante delle strozzature di filiera su cui si insinua un sistema di distribuzione e trasporto gonfiato e alterato troppo spesso da insopportabili fenomeni di criminalità che danneggiano tutti gli operatori. L’effetto è un crollo dei prezzi pagati agli imprenditori agricoli, che in molti casi non arrivano a coprire i costi di produzione, e un ricarico anomalo dei prezzi al consumo che raggiungono livelli tali da determinare un contenimento degli acquisti”.

Dal campo alla tavola, il prezzo dei prodotti viene triplicato, anche a causa dell’illecito intervento della malavita organizzata: le agromafie reinvestono i loro proventi soprattutto in attività agricole, “nel settore della trasformazione alimentare, commerciale e nella grande distribuzione”, condizionando la libera iniziativa economica e incrementando la concorrenza sleale. Oltre ad un aumento dei prezzi, le conseguenze negative per i consumatori riguardano anche la qualità dei beni acquistati, spesso spacciati come Made in Italy, ma ottenuti in realtà con materie prime importate e di bassa qualità.

La Commissione parlamentare d’inchiesta ha verificato, in particolare, come le nostre tasse finanzino addirittura la realizzazione di prodotti italiani solo nel nome, attraverso la “Società italiana per le imprese all’Estero Simest s.p.a.”, controllata dal ministero dello Sviluppo economico, senza alcun beneficio per il nostro Paese, ma incrementando, anzi, i comportamenti di concorrenza sleale prima descritti. Tali attività di delocalizzazione sottraggono opportunità di lavoro e occupazione al sistema Italia: è il caso dell’azienda casearia Lactitalia (partecipata da Simest al 29,5%), che produce in Romania formaggi con nomi italiani Caciotta e Pecorino, e della vendita all’estero del salame calabrese prodotto negli Stati Uniti e venduto a New York dalla salumeria Rosi del Gruppo Parmacotto.

Non è politicamente, economicamente e moralmente accettabile” – conclude il Presidente Sergio Marini – “che lo Stato, che rappresenta tutti i cittadini italiani, finanzi direttamente o indirettamente la produzione o la distribuzione di prodotti alimentari che contaminano il valore del territori facendo concorrenza sleale a tutte le produzioni tipiche vere espressioni di quei territori”; è per questo motivo che “la lotta alla contraffazione e alla pirateria” devono rappresentare per le istituzioni “un’area di intervento prioritaria per recuperare risorse economiche utili al Paese” e a “generare occupazione”.

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Lavoro: undicimila impieghi per me posson bastare!

Turismo, grande distribuzione, industria, food&beverage, agricoltura, banche: tra vecchi e nuovi settori, le principali agenzie del lavoro italiane svelano i profili richiesti nell’offerta stagionale

Cercasi “portiere notturno per stagione estiva. Richiesta pregressa esperienza in analoga mansione e buona conoscenza della lingua inglese”;

“per farmacia sita nel litorale cagliaritano ricerchiamo per il periodo estivo (maggio – settembre) 2 farmacisti con esperienza pluriennale nel ruolo. Possibilità di alloggio Il candidato ideale è una persona flessibile e motivata […]”;

“per struttura turistica […] ricerchiamo operatori per lavoro di vendita/animazione. Selezioniamo persone dinamiche, spigliate, intraprendenti, predisposte al contatto con il pubblico, automunite. Sono richieste buone doti comunicative e relazionali. […] Inserimento con contratto di somministrazione a termine a partire da giugno prorogabile fino a settembre”;

cerchiamo per importante società operante nel settore della ristorazione 40 giovani da inserire come operatori pluriservizio e spaltisti durante i concerti della stagione estiva […]”;

“per azienda cliente settore Fashion, ricerchiamo un’addetta/o vendite che abbia maturato esperienza nel lusso e sia disponibile a lavorare durante la stagione estiva 2011 […]”;

“per la stagione estiva, cerchiamo studenti disponibili ad un lavoro tecnico in fabbrica”; si necessita di “un cuoco con esperienza disponibile per la stagione estiva da giugno a settembre […]”;

“per rinomato ristorante […], ricerchiamo cameriere con esperienza. Disponibilità a lavorare per tutto il periodo estivo, con buone possibilità di inserimento definitivo c/o organico azienda […]”.

Questa rapida carrellata di annunci, attualmente disponibili sulle bacheche di alcune tra le principali agenzie del lavoro italiane, aiuta a comprendere la reale dimensione dell’offerta lavorativa di tipo “stagionale”: ben undicimila sembrano essere le proposte totali per l’estate 2011, in prevalenza a tempo determinato, individuate da nove tra le principali agenzie nazionali, espressione dei due terzi del mercato (pur considerando che qualche offerta potrebbe presentarsi duplicata negli archivi di più agenzie).

Le figure professionali richieste sono sempre più varie e non si limitano a coinvolgere il mondo del turismo, tipicamente legate al periodo estivo, ma impongono competenze, esperienze e condizioni dal raggio ben più ampio. Grande distribuzione, industria, food&beverage, agricoltura, banche: studenti e giovani possono approfittare di una vastissima risorsa per muovere i primi passi nel mondo del lavoro, impegnandosi in un’attività retributiva che, pur nei limiti della temporaneità, permetta loro di interfacciarsi concretamente con circostanze, contingenze e problematiche proprie di un qualsiasi apparato organizzativo professionale. Non sono, tuttavia, solo i “lavoretti” a riempire le vetrine dell’offerta lavorativa più afosa dell’anno, ma, al contrario, i profili e i requisiti richiesti implicano spesso delle capacità, delle idoneità e delle padronanze che non possono certo essere il semplice frutto di una originale attitudine o predilezione al lavoro. Ecco, allora, che stagionalità diventa sinonimo di arricchimento per curriculum già gonfi o, meglio ancora, di reimpiego per chi il proprio lavoro di una vita l’ha perso in seguito alla recente – e forse attuale, ma chi lo sa? – crisi. Alla scelta di rinunciare alle vacanze estive si sostituisce, allora, la necessità per molti di farlo, nella speranza non solo di poter mettere qualcosa in tasca, ma anche, e forse soprattutto, nella volontà di ritrovare una prospettiva: quasi sempre ci si imbatte in incarichi a termine, lo abbiamo detto, ma, stando a quanto rivelano i selezionatori, la possibilità di guadagnare un posto fisso esiste. Ottimismo, dunque, per un trend che si registra ormai da qualche mese, seppur salutato da dei toni piuttosto tiepidi.

«Un dato interessante – segnala Domenico di Gravina, direttore generale di Articolo1, dalle file de “Il Sole 24 ore” del 4/05/2011 e con riferimento al contesto laziale – di quest’anno è l’aumento di richieste nel settore moda e lusso in cui si ricercano figure di alto profilo con conoscenza di almeno due o tre lingue (inglese, cinese, giapponese e russo) e un’ottima presenza».

Un dato, questo, confermato del resto anche da Umana, che sembra stia reclutando manager e addetti vendita per grandi marchi internazionali da impiegare nelle boutique del centro storico di Roma.

1.350, in particolare, le occasioni estive offerte, da nord a sud, dall’agenzia Articolo1: tra i profili più richiesti non solo venditori di lusso, possibilmente dal cinese fluente, ma anche tutti quelli riferiti ai settori dell’intrattenimento, della ristorazione e della grande distribuzione organizzata. Con riguardo a quest’ultima, 900 sono le opportunità a livello nazionale (stando ad un articolo del 25 aprile 2011 firmato da Ilaria Alfani su “Lavorare”), 300 delle quali si concentrano nel solo Lazio, e coinvolgono, più nel dettaglio, sei diverse figure professionali: hostess di cassa, scaffalasti, addetti al banco ortofrutta, addetti al banco pescheria, addetti al banco gastronomia, addetti al banco macelleria. Tra Lazio, Lombardia, Campania e Sicilia si concentrerebbero poi circa 250 richieste di impiego nel settore della ristorazione e del turismo (addetti mensa, cuochi, aiuto cuochi, capi animatori, animatori, bagnini, istruttori di nuoto, maitre di albergo, portieri di notte, facchini, camerieri di sala, camerieri ai piani, eddetti al breakfast e barman); infine il settore dell’intrattenimento e della rete, dunque responsabili sale giochi, hostess e receptionist, addetti di sala, commerciali, croupier, sistemisti IT, di rete e Sql Server, programmatori .net e Java, help desk.

Ad uno sguardo d’insieme, le occupazioni tradizionalmente ed inevitabilmente legate alla bella stagione rimangono, ovviamente, quelle più gettonate; basti pensare alle molte figure legate al turismo, come gli animatori di villaggi e parchi divertimento (il cui stipendio mensile è pari o superiore ad 800 Euro), agli inventaristi disposti a lavori serali, ai camerieri, agli chef, ai portieri notturni, ai facchini, ai pizzaioli e alle numerose possibilità offerte dalle campagne (un vendemmiatore guadagna in media 50 Euro al giorno).

Con riferimento a quest’ultimo settore, e in controtendenza rispetto all’andamento generale, il 2010 ha conosciuto un forte incremento nell’occupazione, soprattutto in quella giovanile, dato che, afferma Coldiretti,è giovane addirittura un lavoratore dipendente su quattro”. Questo dato si ripercuote anche nella generale offerta di impieghi stagionali: è stato, infatti, stimato che saranno almeno duecentomila i giovani impegnati durante l’estate nella raccolta di frutta, verdura e nella vendemmia. “Le opportunità di lavoro – continua la Coldiretti – si registrano per figure professionali tradizionali che vanno dal trattorista al taglialegna fino al potatore, ma anche per quelle innovative all’interno dell’impresa agricola come l’addetto alla vendita diretta di prodotti tipici, alla macellazione, alla vinificazione o alla produzione di yogurt e formaggi”. Il termine della scuola coincide con il periodo di maggior impiego di lavoro nelle campagne, poiché iniziano le attività di raccolta di “verdura e frutta come ciliegie, albicocche o pesche”, fino alla vendemmia “che si concentra nel mese di settembre”. Lavorare sui campi significa per i giovani “oltre che prendere contatto con il mondo del  lavoro”, anche avere la possibilità di vivere un’esperienza nuova, a diretto contatto con la natura, con i suoi prodotti e con “una cultura che ha fatto dell’Italia un Paese da primato a livello internazionale nell’offerta di alimenti e vini di qualità”. Un’occasione, quindi “per conoscere la genuinità e le caratteristiche dei veri prodotti del Made in Italy per imparare a distinguerli da quelli importatati spacciati come nazionali anche sugli scaffali dei mercati al momento di fare la spesa”.

Adecco, a tal proposito, segnala che è in corso per loro la selezione dei CV per scegliere gli addetti alla vendemmia e alla raccolta delle mele, nonostante call center, albeghi, villaggi turistici, ristoranti e Gdo rappresentino le destinazioni principali delle 3.300 proposte giunte all’agenzia.

Un’importante novità proprio sulla destinazione settoriali dell’offerta, ci arriva da Obiettivo Lavoro: «quest’anno per la prima volta – osserva Marco Maggi, direttore corporate identity dell’agenziaabbiamo l’industria metalmeccanica al primo posto tra i settori con il maggior numero di posizioni aperte». Tra le 1.068 richieste complessive identificate, il settore metalmeccanico fa la parte del leone (17%), seguito da pulizia, logistica e tessile, commercio, edilizia e alberghi. Tra i profili più richiesti vi sono responsabili di produzione, contabili, tecnici meccanici, elettronici ed elettrotecnici, addetti alle pulizie e alla mnsa, aiuto cuoco . «La nostra economia – aggiunge Maggi – sta recuperando nei fondamentali, anche se i numeri ci dicono che la ripresa è lieve e a macchia di leopardo».

Per l’agenzia Gi Group il maggior numero di annunci di natura stagionale (complessivamente sono 610) riguarda, invece, il settore dei servizi. «Call center e negozi – spiega il responsabile nazionale selezione e organizzazione Barbara Bruno – sono gli ambiti più interessanti, sia per la sostituzione delle ferie dei dipendenti, sia per le campagne estive»; ma anche commiss di sala, addetti per la Gdo, operatori per il settore bancario e assicurativo.

Per Stefano Agarossi, field operation director di Manpower, il settore dei servizi, il banking e l’healthcare «sono vere calamite di opportunità, principalmente per le sostituzioni ferie: dagli operatori di sportello agli addetti al front office bancario, dagli infermieri ai farmacisti». In questo caso sono fondamentali, si capisce bene, una particolare formazione, perizia e specializzazione: «non dimentichiamo – continua Agarossi – che i cosiddetti lavori estivi possono rivelarsi importanti vetrine per futuri inserimenti nelle aziende che hanno già avuto modo di testare il valore del lavoratore e pertanto vanno svolti con impegno e serietà». Tra le figure più richieste nei 1.950 annunci presenti nella bacheca di questa agenzia, troviamo camerieri, cuochi, pizzaioli, facchini, hostess e stewart, educatori di centri estivi ed esperti di strutture termali, per una durata media di impiego pari a due/tre mesi e con il fondamentale requisito dell’esperienza pregressa.

Altro settore in cui vi è notevole richiesta è quello del food&beverage, sia per gli ordini sia per la produzione: «molte imprese alimentari – sottolinea l’Umana – stanno ricercando addetti per l’imbottigliamento di acqua e di bibite, tecnici manutentori e addetti alla vendita». Anche nel manifatturiero si concentrano molte delle 750 proposte giunte dall’agenzia, seppur la maggior parte di esse faccia comunque riferimento al turismo (soprattutto concierge, hostess, addetti alla reception, camerieri, chef e barman).

Pure per Metis (700 proposte totali) il turismo è un settore trainante (in particolare, receptionist, addetti sala e cucina, anche privi di esperienza), ma ad esso si aggiunge quello della grande distribuzione organizzata: «le figure di cassiere e banconisti – riferiscono dall’agenzia – registrano un aumento della richiesta nei mesi che vanno da luglio a settembre, soprattutto in Lombardia, Lazio e Veneto. In questo caso l’esperienza pregressa nel ruolo è molto importante, così come la disponibilità a lavorare nei week end». Con riferimento sempre alla Gdo, si sottolinea, poi, come «le missioni seppur di breve durata si ripetono in maniera costante e continuativa durante l’intero periodo».

La durata media delle proposte, in termini generali, è di tre/quattro settimane, oscillando da un minimo di tre giorni ad un massimo di tre mesi, spesso con possibilità di proroga allo scadere del contratto (nel settore della sanità la durata sembra allungarsi, arrivando fino ai sei mesi).

Flessibilità oraria e disponibilità full-time – sia su turni, sia nei fine settimana e nelle festività – è richiesta a tutti i profili identificati da Openjob (1.000 totali), in prevalenza riferiti al mondo del turismo o destinati alla sostituzione ferie, ma anche operai per i lavori di manutenzione stradale.

Da uno a tre mesi, infine, la durata degli impieghi (500) presentati sulla bacheca di Randstad: le cinque figure più richieste sono perito chimico-elettrico-meccanico, operaio, promoter, operatore di sportello bancario, allievo alla carriera direttiva di reparto/negozio.

Nuovi profili, nuove somministrazioni, nuove realtà si accompagnano alla tradizione stagionale. Nuove opportunità, in definitiva, che solo nei prossimi mesi saremo in grado di identificare come dotate di segno positivo o come semplice illusione.

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La ripresa potrebbe passare per la percezione?

Coldiretti sottolinea come il 71% degli italiani ritenga fondamentale il contributo della piccola e media impresa nel superare la crisi nazionale, con una particolare attenzione data al settore agricolo

Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze”. Qualora il “teorema” enunciato nel 1928 dal sociologo americano William Thomas si rivelasse corretto, potremmo vedere lo scenario economico italiano del più prossimo futuro risollevato e dominato in modo indiscusso dalla piccola e media imprenditoria.

Pare infatti – lo rivela un’indagine condotta da Coldiretti in collaborazione con Swg – che il 71% degli italiani ritenga determinante il contributo dell’imprenditoria locale per la ripresa del Paese, contro un minoritario 45% che, invece, riserva il ruolo di protagonista ai grandi gruppi imprenditoriali.

Entrando un po’ più nel dettaglio, apprendiamo che i centri economici propulsori della spinta al superamento della crisi saranno, nelle percezioni, soprattutto a carattere locale (42%), piuttosto che nazionale (14%), anche se il 21% degli italiani ritiene fondamentali entrambi i livelli e 13%, al contrario, considera irrilevanti tali differenze dimensionali.

A guidare la risalita sarebbero, poi, i settori maggiormente radicati sul territorio, dunque quelli che più difficilmente potrebbero subire un processo di delocalizzazione: in primis il turismo (70%), subito seguito da agricoltura (56%), artigianato (52%), industria (49%), servizi (47%), commercio (46%) e finanza (31%).

Concentrando poi, ovviamente, la propria attenzione sul settore agricolo, Coldiretti sottolinea come esso venga considerato importante soprattutto con riferimento alla produzione di alimenti utili per l’immagine dell’Italia al di fuori dei propri confini territoriali, opzione che ha ottenuto il 45% dei consensi; per il 40% degli italiani la rilevanza del settore deriva, invece, dal suo essere garanzia di sicurezza e qualità, contro un 35% che lo considera necessario alla salvaguardia delle tradizioni locali e un 27% che ne vede le forti possibilità in termini di difesa del territorio e dell’ambiente.

Ecco allora che, per garantire la salubrità e la sicurezza dei prodotti alimentari, forte sembra essere soprattutto, secondo gli italiani, il peso dei produttori agricoli (56%), contro un residuale 11% riferito alle industrie alimentari e contro un 9% attribuito alla grande distribuzione.

L’indagine è stata predisposta in occasione dell’“accordo post-moratoria per il credito alle Piccole e Medie Imprese (PMI)” ed è stata presentata nel corso dell’incontro tra i Presidenti della Coldiretti, convocato dal Presidente Sergio Marini per il 15 e 16 febbraio a Roma, nelle sede di Palazzo Rospigliosi.

Come preannunciato nelle scorse settimane, infatti, l’intesa raggiunta il 16 febbraio a Palazzo Chigi ha allungato di altri sei mesi, fino al 31 luglio 2011, la possibilità – prevista dall’Accordo Comune siglato il 3 agosto 2009, quindi nel pieno della crisi – di accedere alla moratoria di un anno sui debiti maturati. Confermata anche la possibilità, per le imprese che hanno già usufruito della moratoria, di allungare a due anni la durata dei crediti chirografari e a tre anni la durata di quelli ipotecari, purché riferiti ad aziende sane. Le imprese potranno, infine, coprirsi dal possibile rischio tassi: «è molto semplice e il tasso rimane lo stesso se c’è una copertura del fondo di garanzia», ha detto la numero uno degli industriali, Emma Marcegaglia, sottolineando, inoltre, come la mortoria – alla quale «hanno aderito 190mila imprese per un controvalore di 56 miliardi» – abbia «permesso alle aziende con difficoltà finanziarie di andare avanti e di non avere crisi di liquidità» e come il nuovo accordo rappresenti «uno strumento importante che aiuterà le imprese in un momento ancora complicato. Ci aspettiamo un’ulteriore, massiccia adesione a questo strumento».

Anche Giorgio Guerrini, presidente di Rete imprese Italia, ha espresso «soddisfazione per interventi che accompagnano le imprese fuori dalla crisi», mentre Giuseppe Politi, Presidente di CIA (Confederazione Italiana Agricoltori), spiega come «con la nuova moratoria dei debiti si evita il crac per 25mila piccole e medie imprese agricole»: «l’allungamento da due a tre anni dei tempi di ammortamento del debito per le imprese che hanno avuto accesso alla precedente moratoria fornisce ulteriore ossigeno finanziario a chi è ancora in difficoltà. Mentre la proroga di sei mesi per i nuovi finanziamenti è destinato alle Pmi che non hanno richiesto in passato le agevolazioni, [tale allungamento] è un aiuto importante per quelle aziende che hanno superato la fase più acuta della crisi e ora vogliono riprendere il percorso di sviluppo, agganciando la ripresa».

In una nota ufficiale sul sito di Coldiretti si apprende, a tal proposito, che ben il 14% delle 190 mila imprese che hanno ottenuto la moratoria nel periodo compreso tra il 3 agosto 2009 e il 31 dicembre 2010 sono di tipo agricolo. Stando ad un’analisi approfondita della confederazione, sarebbero, dunque, oltre 26 mila le aziende agricole interessate da tale istituto giuridico, riflettendo un buon livello generale di crescita negli investimenti e impieghi bancari in questo settore (aumento di 4,8 punti percentuali nel 2010, contro una contrazione dello 0,8% negli investimenti relativi al settore commercio-servizi e contro una riduzione del 4,9% in quelli riferiti all’industria). Complessivamente considerate, pare che le risorse bancarie a favore delle piccole e medie imprese in Italia siano state, nell’ultimo anno, superiori rispetto agli anni precedenti, con aumento attestato intorno al 4%, di poco inferiore a quello rilevato per Francia (5,4%), ma decisamente al di sopra di quello 0,3% riferito al tasso di riduzione degli investimenti in Germania (malgrado il PIL in forte crescita).

Oltre alle dinamiche, ricorda ancora Coldiretti, “sono mutate le durate delle consistenze, ovvero il trend di crescita dei finanziamenti con durata superiore ai 5 anni”, i quali hanno registrato aumenti attorno ai 4 punti percentuali, “mentre gli affidamenti con durata inferiore ai 5 anni d’ammortamento hanno drasticamente subito una frenata”, con cali del 4.4%.
Coldiretti ha segnalato, inoltre, con toni entusiastici, un’inversione di rotta per il valore aggiunto in agricoltura, il quale torna a salire e chiude il 2010 con segno positivo, dopo il crollo del 3,1 per cento dell’anno precedente. Secondo i dati Istat, infatti, il Pil, espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2000, è aumentato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e dell’1,3% rispetto al quarto trimestre del 2009 e questo aumento congiunturale sarebbe proprio “il risultato di un aumento del valore aggiunto dell’agricoltura e dei servizi e di una diminuzione del valore aggiunto dell’industria”. Per l’agricoltura nel 2010 si è verificato, sottolinea la Coldiretti, “un leggero recupero dei prezzi alla produzione che in media hanno fatto registrare un aumento del 3,7 per cento nel 2010 per effetto soprattutto del recupero negli ultimi mesi dell’anno”. Reazione più cauta, tuttavia, quella di Cia (Confederazione Italiana Agricoltori), che ricorda come “il settore, pur in presenza di una crescita del valore aggiunto”, debba ancora fare i conti “con aziende oberate da onerosi costi produttivi, contributivi e burocratici; da prezzi sui campi non remunerativi e da redditi sempre più falcidiati”. Anche secondo Confagricoltura è presto per parlare di pieno recupero, visto che “l’ultimo trimestre del 2010 ha segnato una variazione positiva dopo due trimestri caratterizzati da variazioni congiunturali negative: -3,1% nel secondo rispetto al primo trimestre del 2010 e -1,2% nel terzo rispetto a quello precedente”.

La Coldiretti – non nuoce ricordarlo – con un milione e mezzo di associati, è “la principale Organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale e a livello europeo”: “una forza sociale che rappresenta le imprese agricole, radicata sul territorio, con 19 Federazioni regionali, 97 Federazioni provinciali e interprovinciali, oltre 724 uffici di zona e 5.668 sezioni periferiche con oltre ventimila dirigenti territoriali. La presenza sul territorio è accompagnata dalla crescente rappresentatività”, poiché “alla Coldiretti fanno capo il 69 per cento delle imprese agricole iscritte alle Camere di Commercio”.

È sua iniziativa particolare la realizzazione di una “Filiera agricola tutta italiana”, capace di valorizzare le identità locali, di dare dignità e titolarità sociale alle imprese agricole, generando, per questa via, un reale sviluppo economico, accompagnato da un miglioramento del benessere generale. L’obiettivo sembra essere quello di eliminare la rete d’intermediazione, per arrivare ad offrire – “attraverso la rete di Consorzi Agrari, cooperative, mercati di Campagna Amica, agriturismi e imprese agricole” – dei prodotti alimentari completamente italiani, “firmati dagli agricoltori al giusto prezzo”, i quali “ci mettono la faccia in modo che il consumatore possa conoscere chi produce ciò che mangia”.

«Nel territorio ci sono le leve competitive del Paese», sottolinea il Presidente della Coldiretti Sergio Marini, commentando i risultati dell’indagine riportata, e da più parti ci si è soffermati sull’importanza simbolica, ma non solo, di quando rilevato, possibile preludio di uno sviluppo economico nel settore agricolo particolarmente attento alla qualità, alla salute e alla sostenibilità. «Siamo fieri dei risultati che mostrano come i consumatori comprendano lo sforzo dei produttori per garantire alimenti sicuri, che è la priorità di tutti gli operatori del settore», commenta Luigi Radaelli, Presidente di Agrofarma, l’Associazione di Federchimica che riunisce “le imprese del comparto degli agrofarmaci […], prodotti chimici per la difesa delle colture dai parassiti animali e vegetali”. Egli sottolinea come un uso corretto degli agrofarmaci rappresenti oggi «l’unico modo di raggiungere questo obiettivo, in quanto sono lo strumento per proteggere le colture dalle malattie e dai parassiti che colpiscono i raccolti» e per «garantire la qualità degli alimenti e mantenere una corretta igiene alimentare».

Che si tratti di realtà o di semplice supposizione, la strada verso la ripresa sembra percorrere anche questa direzione, quella della percezione, e noi siamo pronti a scommettere che, da più parti, si stia sperando in una sorta di “profezia che si autoadempie” – per dirla nuovamente in termini sociologici, rubando questa volta la terminologia di Robert Merton – quindi “una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”.

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Accordo CreditAgri Coldiretti e Intesa San Paolo

Il gruppo bancario metterà a disposizione un plafond di 1,5 miliardi di euro per sostenere le imprese agricole associare al sistema

Nato nel dicembre 2006, il Coordinamento Nazionale per il Credito e i Confidi Territoriali del Sistema Coldiretti, in breve CreditAgri Coldiretti è, come leggiamo nel sito di riferimento, “una Associazione che raggruppa i Confidi e le società di mediazione creditizia operanti a livello regionale e interregionale nell’ambito del Sistema Coldiretti”; si tratta di società che, diffuse capillarmente su tutto il territorio nazionale, offrono assistenza e consulenza, in materia di credito e finanza aziendale, a tutte le imprese operanti nel settore agricolo; i Confidi, in particolare, “attraverso il rilascio di garanzie in favore del sistema bancario, sostengono e facilitano l’accesso al credito per le imprese associate”.

È di questi giorni la notizia di un accordo tra CreditAgri Coldiretti, rappresentata dal Presidente Sergio Marini e Intesa San Paolo, personificata da Corrado Passera, consigliere delegato e CEO: il gruppo bancario metterà a disposizione un plafond complessivo di 1,5 miliardi di euro destinato a sostenere le imprese associate al sistema (oltre 1,5 milioni), “garantendo continuità del credito, liquidità per la gestione ordinaria, soluzioni di investimento a favore dello sviluppo produttivo, finanziamenti per la ricapitalizzazione e opzioni di flessibilità per le scadenze dei crediti”.

Un importante passo in avanti – sottolinea Marini – nel «nostro progetto per una Filiera Agricola tutta Italiana», capace di «dare futuro all’agricoltura italiana, valorizzandone le distintività ed il legame con il territorio, con l’offerta di prodotti alimentari al cento per cento italiani firmati dagli agricoltori tramite la più estesa rete commerciale nazionale che coinvolge i mercati di campagna amica, i punti di vendita delle cooperative, i consorzi agrari, agriturismi e aziende agricole, ma coinvolgerà anche la rete della ristorazione a chilometri zero e la distribuzione che intenderà partecipare».

A spingere verso una tale unione di intenti e interventi, ci sarebbe – stando alle parole di Passera – la volontà di «agevolare le imprese sul fronte dei finanziamenti e della patrimonializzazione», per «incoraggiare ciascuna delle nostre imprese a recuperare terreno, a innovare, a internazionalizzarsi». L’intento sarebbe quello di «studiare tutte le soluzioni utili per uscire dalla crisi, rafforzando la competitività di questo settore strategico per la nostra economia e favorendo così il rilancio della crescita economica del nostro Paese».

Entrando un po’ più nel dettaglio, possiamo cogliere, in una nota diffusa da Coldiretti, quattro specifiche aree d’azione previste dall’accordo: la prima riguarda il finanziamento per interventi di sviluppo produttivo, quindi per investimenti a medio-lungo termine utili “per l’acquisto e la realizzazione di macchinari e attrezzature agricole, impianti fotovoltaici, ammodernamenti, manutenzione e ristrutturazione, riordino fondiario”.

In secondo luogo troviamo i finanziamenti, della durata massima di cinque anni (con estensione fino a 10 in presenza di garanzie reali), destinati ad un rafforzamento della struttura patrimoniale delle imprese, entro periodi predefiniti.
Finanziamenti, poi, “di credito agrario (durata massima 18 mesi) e prestiti agrari di gestione che consentono alle imprese agricole di fare fronte alle esigenze di liquidità per anticipo di contributi […], spese di gestione, per servizi, distribuzione e promozione commerciale, ed esigenze creditizie connesse al riequilibrio finanziario”.

Infine l’accordo interviene in merito alla flessibilità dei finanziamenti, stabilendo la possibilità – per le PMI che “presentino una situazione economica, finanziaria, patrimoniale e organizzativa che possa garantire la continuità aziendale” – di richiedere un rinvio fino a 12 mesi nel pagamento delle quote capitale delle rate di mutui o leasing.

Interventi finanziari ben mirati, dunque, e volti ad affiancare le aziende agricole ed agroindustriali “in un percorso di recupero di solidità e liquidità”, capace di dare piena dignità ad un settore, quello dell’agricoltura italiana, che, in quanto a “qualità, tipicità e salubrità” nella produzione, non ha rivali in Europa e nel mondo: “la ricchezza netta prodotta per unità di superficie dall’agricoltura italiana […] è oltre il triplo di quella USA, doppia di quella inglese, e superiore del 70 per cento di quelle di Francia e Spagna”.

Tuttavia, per porre rimedio al ridotto potere contrattuale delle imprese agricole nella filiera agroalimentare, Coldiretti già era intervenuta con un progetto volto a creare una “Filiera agricola tutta italiana”, capace di sostenere il reddito degli agricoltori “eliminando le distorsioni e tagliando le intermediazioni con l’offerta attraverso la rete di consorzi agrari, cooperative, farmers market, agriturismi e imprese agricole di prodotti alimentari al cento per cento italiani firmati dagli agricoltori al giusto prezzo”.

L’intesa stabilita in questi giorni non rappresenta, allora, altro che un ulteriore avanzamento nel processo di valorizzazione di alcune strutture d’eccellenza italiane e c’è da augurarsi che, grazie alla presenza strategica sia delle strutture territoriali di Coldiretti (19 federazioni regionali, 97 federazioni provinciali e interprovinciali, oltre 724 uffici di zona), sia delle 21 banche della Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo (presenti nel Paese con 5.700 filiali), alle lodevoli intenzioni facciano seguito dei risultati concreti.

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