Settore orafo in Italia: tra criticità e slanci

Non poche le difficoltà per il comparto dei preziosi nel Belpaese, come l’eccessiva frammentazione imprenditoriale, il crollo dei consumi interni e i dazi doganali troppo alti. Ampi spazi di crescita nelle esportazioni, necessità di fare rete e competere attraverso la differenziazione

Alcuni dei loro rappresentanti più noti sono stati sapientemente definiti “i migliori amici delle donne”. L’intera categoria può dirsi amica del sistema economico italiano, pur subendone in parte, negli ultimi anni, gli effetti negativi. Stiamo parlando del settore orafo. Un settore che incontra non poche criticità nel Belpaese: eccessiva frammentazione della dimensione imprenditoriale, difficoltà nella gestione del passaggio generazionale e del know-how corrispondente, crollo dei consumi interni, negativa congiuntura economica internazionale, dazi doganali troppo alti. Ciononostante gli spazi per la crescita ci sono, soprattutto con riferimento al reparto esportazioni.
Uno studio realizzato dall’Istituto Tagliacarne su iniziativa di Unionfiliere, l’associazione delle camere di commercio per la valorizzazione delle filiere del Made in Italy, ha inteso nei giorni scorsi delineare i contorni economici delle tre filiere che più fortemente identificano l’Italian Style: la moda, la nautica e l’oreficeria. Nel loro complesso, questi tre settori coinvolgono ben 341 mila imprese (il 5,4% del totale nazionale), l’8,2% degli addetti che operano al di fuori dell’agricoltura (per un totale di 1.421.644 persone) e fanno registrare un fatturato che sfiora i 200 miliardi di euro. Fondamentale, all’interno di tali filiere, anche l’apporto di tutte quelle imprese che forniscono beni e servizi intermedi alle attività principali di produzione, trasformazione e commercializzazione delle materie prime: esse incidono per l’11,6% sull’occupazione complessiva del sistema e hanno mostrano una tenuta occupazionale più stabile in questi ultimi anni di crisi economica.
Si evidenzia, allora, l’apertura di alcuni distretti a nuove logiche di filiera, la cui articolazione va ormai ben oltre la realizzazione del singolo prodotto, arrivando a coinvolgere diverse attività collegate. È con questa consapevolezza che lo scorso giovedì 20 settembre è stato siglato un protocollo d’intesa tra il Presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, e il Presidente della Federazione dei Distretti, Valter Taranzano, il quale ha stabilito l’impegno del sistema camerale e di quello dei distretti a sperimentare forme di collaborazione sempre più incisive e ad avanzare iniziative condivise capaci di favorire la competitività delle filiere e dei distretti.
Vediamo allora i risultati dello studio Unionfiliere con riferimento al settore orafo. L’intera filiera vanta un fatturato superiore ai 15 miliardi di euro a fine 2010, per un totale di 87.360 addetti (80.545 impiegati nelle attività principali e 6.815 nelle imprese che forniscono beni e servizi intermedi), pari ad una riduzione di 14,6 punti percentuali rispetto al 2007. Negli ultimi 18 mesi le unità locali sono diminuite, raggiungendo il numero di 28.559. Il peso della filiera orafa, in termini di incidenza dei suoi addetti sul totale, è pari, a livello nazionale, allo 0,5%; in alcune province tale incidenza è, tuttavia, notevolmente maggiore, come ad Arezzo (peso dello 8,1% sul totale provinciale degli addetti), Alessandria (4,9%), Vicenza (2%), Caserta (0,8%), Firenze (0,8%) e Macerata (0,8%). In valore assoluto, le province in cui opera il maggior numero di addetti sono Arezzo (incidenza dell’11,1% sul totale nazionale degli occupati nella filiera), Alessandria (8,1%), Vicenza (8%), Milano (7,7%) e Roma (5,7%), nelle quali lavora il 40,7% degli addetti della filiera.
Con riferimento al commercio con l’estero, le serie storiche evidenziano una costante crescita negli anni novanta, con una punta nel 2000, e una sensibile riduzione nel nuovo secolo, con un picco negativo nel 2009. L’esportazione di prodotti orafi sembra comunque riprendere una dinamica in positivo negli ultimi anni, anche se permane l’incertezza per l’anno in corso. I valori dei prodotti orafi esportati hanno subito, in particolare, una significativa contrazione nel 2008 e nel 2009, mentre si è registrata una ripresa nel 2010 e nel 2011. Tra il 2007 e il 2011 le quantità, espresse in kg, sono peraltro sempre diminuite, con un conseguente aumento, nell’ultimo biennio, dei costi unitari.
Con riferimento ai distretti orafi, nel 2010 vi risultano attivi 59.976 addetti manifatturieri (50.074 nelle piccole e medie imprese e 9.904 in imprese con più di 250 dipendenti) in 7.549 unità locali (7.481 sono piccole e medie imprese e 68 sono imprese con più di 250 dipendenti). La crisi finanziaria ed economica ha comportato la perdita di 8.693 addetti rispetto 2007, pari a -12,7% e di 934 unità locali, pari a -9,3%.
Tra i quattro distretti manifatturieri specializzati nelle attività orafe, il maggiore, in termini di addetti alla manifattura, è, nel 2010, quello di Arezzo, seguito da quello di Vicenza e da quello di Bassano del Grappa (che può vantare anche altre specializzazioni, come quella nel settore del mobilio), mentre il distretto di Valenza Po è l’ultimo.
Accanto a quella di Unionfiliere, non poche sono le iniziative promosse per la comprensione e lo sviluppo del settore. Si è da poco conclusa Vicenzaoro Fall, l’edizione autunnale del salone internazionale dell’oreficeria e della gioielleria (dall’8 al 12 settembre 2012 presso la Fiera di Vicenza), con 20.000 visitatori provenienti da 111 paesi e con quasi 1.400 espositori provenienti dai principali distretti orafi italiani e da 32 paesi esteri. L’evento, dedicato agli operatori del settore e punto di incontro tra produttori e buyer internazionali, ha inteso in particolare concentrare la propria attenzione sulla sperimentazione, sull’apertura internazionale e sui cambiamenti che la realtà orafa sta vivendo.
Occhio puntato all’esterno e al futuro, dunque, per un settore che non meno di altri ha dovuto sopportare negli ultimi anni le amare conseguenze della difficile congiuntura economica. Confermano, infatti, le stime in negativo di Unionfiliere anche i risultati del report “Il settore orafo italiano: tra crisi dei consumi e opportunità internazionali”, di recente pubblicato dal Centro Studi Industry & Banking di Intesa Sanpaolo e riferiti al 2011. Stando a tale report, il settore orafo italiano avrebbe registrato lo scorso anno una crescita del fatturato pari al 3,2%. Il dato, in apparenza positivo, evidenzia in realtà una battuta d’arresto negli ultimi mesi rispetto al periodo gennaio-giugno 2011 quando il fatturato del comparto cresceva del 7,4%.
A incidere sull’andamento positivo è stato sicuramente l’aumento dei prezzi dei prodotti, dovuto all’incremento dei costi dei metalli preziosi. Il fatturato del 2011 a prezzi costanti ha segnato, infatti, un -4,6%, mentre i prezzi alla produzione sono cresciuti dell’8,2%.
Il mercato interno dei preziosi sembra, al momento, essere piuttosto fermo, alla luce anche delle prime stime, non ancora ufficializzate, relative all’anno in corso. Da un punto di vista mondiale, l’Italia si posiziona oggi al terzo posto nella classifica dei principali attori del settore gioielli in metalli preziosi (passando dal 14% del 2006 al 9,7% del 2010, ultimi dati disponibili), superata dagli Stati Uniti (oltre il 12% del market share nel 2010) e dall’India, che, con una quota di mercato del 14,4%, si è assicurata il primo posto (mentre nel 2006 si collocava alle spalle del Belpaese, con una quota del 12,2%). In salita le performance della Cina, che da un market share del 5,6% nel 2006 è passata all’8,8% nel 2010, e di altri paesi del Sud Est Asiatico, come Singapore, Thailandia e Malesia.
A indebolire il mercato italiano, nel confronto con i competitors stranieri, vi è innanzitutto il fatto che esso è caratterizzato da aziende mediamente di piccole dimensioni e con elevata specializzazione produttiva, da basse economie di scala, da strategie commerciali di tipo tradizionale e da una scarsa attività di comunicazione e promozione. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, occorre sottolineare come possa risultare estremamente complessa la scelta di alcuni operatori di aprire il proprio brand alle molteplici possibilità offerte dalla rete. Se essa può, infatti, dimostrarsi una fonte fruttuosa di diffusione per il proprio universo valoriale, richiede, allo stesso tempo, una particolare dedizione e attenzione, commisurata alla dimensione qualitativa che il proprio marchio racchiude. La natura elitaria del messaggio veicolato dagli operatori del settore può apparire in contrasto con la tendenza all’apertura e alla virilità, tipica del web 2.0. Un’attenta strategia e del tempo costantemente dedicato possono, ad ogni modo, decretare il successo di un marchio anche nelle piattaforme virtuali, facendo affidamento sul fascino che lusso e preziosità esercitano sugli utenti.
I Paesi con i quali l’Italia compete possono, inoltre, beneficiare di un costo della manodopera più basso e di tariffe doganali inferiori: “stimiamo” – ha affermato Ivana Ciabatti, Presidente Orafi Argentieri Confindustria Arezzo, nel corso di un summit di Confindustria sulle strategie da improntare per il settore orafo – “che i dazi doganali a cui sono sottoposti i nostri prodotti limitino la loro vendita in importanti mercati esteri di circa il 60%”.
A incidere poi sulle performance negative nella vendita dei preziosi sono state anche le manovre correttive che i governi europei, e quello italiano in particolare, hanno approvato nella seconda metà dello scorso anno, le quali hanno inevitabilmente influito sulle abitudini d’acquisto dei cittadini: i prezzi del comparto sono cresciuti dell’8,9% (dati Prometeia) rispetto al 2010 (per comprendere la portata dell’aumento, si pensi che i prezzi dei capi di abbigliamento hanno registrato un +1,1%), con la conseguente tendenza dei consumatori italiani a realizzare acquisti sempre più ragionati, prediligendo prodotti con un ottimo rapporto qualità prezzo.
Le esportazioni di gioielli e bigiotteria – ci dicono ancora i dati Intesa Sanpaolo – mostrano invece un profilo più vivace rispetto alle vendite interne, avendo conosciuto nel 2011 una crescita di 10,5 punti percentuali (8,4% per i soli gioielli in metalli preziosi), grazie soprattutto agli ottimi risultati di alcune province italiane, tra cui Alessandria, dove si trova il distretto di Valenza, Torino e Varese, e a quei paesi che continuano a ritenere il made in Italy e l’alta qualità delle lavorazioni e del design italiano un punto di riferimento; tra i principali interlocutori dell’Italia, vi sono, in particolare, Svizzera, Cina, Germania e Turchia. Vicenza registra una buona crescita dell’export (+7,6%) che tuttavia risulta insufficiente a recuperare i livelli del 2007, soprattutto se si tiene conto del boom dei prezzi dei metalli preziosi.
L’impostazione scelta nel corso dell’ultima edizione del Vicenzaoro, di guardare cioè al di fuori dei nostri confini nazionali e di puntare sull’innovazione, sembra allora la sola percorribile: “La soluzione è cercare di andare sempre più all’estero, spazi ce ne sono, non siamo alla vigilia di una recessione globale come quella del 2009”, ha sottolineato Stefania Trenti, responsabile dell’ufficio Industry & Banking di Intesa Sanpaolo. Opportunità di sviluppo vengono dall’Asia e dai mercati del Mediterraneo – sottolinea in conclusione il report Intesa Sanpaolo – sui quali, tuttavia, grava il peso dei concorrenti locali, difficili da affrontare per le piccole e medie imprese italiane del settore orafo.
A confermare l’ampio bacino di possibilità, al di là dei confini nazionali, per l’industria e per gli artigiani italiani del gioiello, intervengono anche i dati diffusi da Prometeia: con una quota di esportazioni che pesa per il 75% sul fatturato del 2011 (ultimi dati disponibili), il settore risulta certamente tra i più “export-oriented” all’interno del comparto moda. Il valore delle esportazioni è stato pari, lo scorso anno, a poco più di 4,7 miliardi di euro (su un fatturato di 6,3 miliardi), ricollocandosi sostanzialmente sui livelli pre-crisi (2007), seppur in progressivo ridimensionamento negli ultimi dieci anni. Con una quota del 3% sul commercio mondiale l’Italia figura al nono posto nella classifica dei principali esportatori di oreficeria. Rispetto al settore moda, le aree di sbocco delle esportazioni del settore orafo – ci dice ancora Prometeia – sembrano essere molto più diversificate, con una maggior presenza nei mercati più lontani (da un punto di vista sia geografico sia culturale) e in quelli emergenti: nel Nord Africa e in Medio Oriente, ad esempio, si concentra il 20,7% dell’export orafo italiano (rispetto al 4,6% del sistema moda), nei Paesi Nafta il 12,2% (contro il 6,9%) e in Asia addirittura il 13,8% (mentre il sistema moda si ferma al 12,9%). Il peso dei paesi BRIC sull’export italiano del settore orafo è passato dal 2,9% del 2000 al 4,3% del 2005, fino ad arrivare al 7,2% del 2011. In media, inoltre, la distanza coperta dall’export italiano è di 4 mila chilometri, rispetto ai 3 mila del sistema moda.
È una fotografia, dunque, intensamente chiaroscurale, quella scattata per osservare il settore dei preziosi. Accanto a inevitabili difficoltà, si incontrano ampi spazi di movimento per il successo di una tra le principali eccellenze del made in Italy nel mondo. Per battere la concorrenza internazionale, fondamentale sarà potenziare gli strumenti di differenziazioni, con delle politiche mirate che puntino all’innovazione, alla comunicazione efficace e alla riaffermazione del marchio. Allo stesso tempo è necessario che le molte piccole realtà imprenditoriali italiane si dimostrino capaci di fare sistema, di improntare strategie creative di “aggressione” verso i mercati esteri, dimostrandosi in questo modo realmente competitive.
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Agroalimentare made in Italy: contrastando il falso, esportazioni triplicate

Record di esportazioni per il 2011, ma anche la persistenza di prassi illecite, colpevoli di bloccare la libera iniziativa economica

Pizza, mafia e mandolino. Ci siamo quasi: stereotipi che si confermano, primati che ci incoraggiano, stime che un po’ sorprendono e spiragli di ripresa. In questo sembra riassumersi l’attuale contesto dell’agroalimentare italiano.

Cominciamo con un dato positivo: stando ad un’analisi diffusa da Coldiretti e basata sugli andamenti registrati nel commercio estero agroalimentare dall’Istat, il valore delle esportazioni nel settore avrebbe raggiunto nei primi nove mesi del 2011 il suo massimo storico, arrivando a circa 30 miliardi, con una crescita di 9 punti percentuali. Destinatari di tali esportazioni sono stati principalmente i Paesi dell’Unione Europea, dove si sono concentrati i 2/3 del fatturato estero complessivo (con un rialzo dell’8%), gli Stati Uniti, dove l’esportazione del Made in Italy nelle tavole ha incrementato il proprio valore di dieci punti percentuali, e i mercati emergenti come quelli asiatici, dove l’aumento è stato addirittura del 18%, arrivando quasi a toccare la quota statunitense.

A rafforzare il proprio trend di crescita sono stati soprattutto i comparti più tradizionali dell’agroalimentare Made in Italy: il vino, ad esempio, ha aumentato il proprio valore d’esportazione di 25 punti percentuali; il formaggio – soprattutto grana e parmigiano reggiano, i più apprezzati – di ben 26 punti; l’olio di oliva ha registrato un +9%, la pasta un +7%, stabile, invece, l’ortofrutta.

Colpiscono, tuttavia, alcuni risultati, come quelli riferiti all’export della birra italiana in Gran Bretagna (grande produttrice della bevanda), in crescita record del 18%, o all’export dello spumante in Russia – con un +40% che rende quest’ultima al quarto posto tra i Paesi esteri di destinazione – o, ancora, quelli relativi all’esportazione di formaggi italiani in Francia (+22%), tradizionalmente molto nazionalista in questo ambito.

Le performance positive registrate sui mercati internazionali dal settore più rappresentativo dell’economia reale dimostra” – sottolinea Sergio Marini, Presidente di Coldiretti – “che il Paese può tornare a crescere solo se investe nelle proprie risorse che sono i territori, l’identità, la cultura e il cibo”. Recuperare, dunque, le proprie radici per ridare slancio e vitalità all’economia italiana, puntando sull’esternalizzazione, sulla diffusione all’esterno di modelli produttivi e di consumo: questa, in estrema sintesi, l’interpretazione offerta ai dati riportati. L’agroalimentare – conclude Marini – “è una leva competitiva formidabile per trainare il Made in Italy nel mondo”.

Il prodotto più importante dell’export agroalimentare nazionale si rivela essere il vino, con oltre la metà del fatturato realizzato dalle aziende italiane all’estero nei primi 9 mesi del 2011, stimato in quasi 4 miliardi di euro, con un aumento del 13,6% rispetto all’anno precedente. Cresce parallelamente il numero di ettolitri esportati, arrivando a quota 17 milioni e registrando, di conseguenza, un +13%.

Ad apprezzare il nostro vino sono, come già accennato, principalmente i Paesi dell’Unione europea, con aumenti in valore pari al 13% e con in testa la Germania. Gli Stati Uniti sono, invece, destinatari di poco meno di un quarto del fatturato estero, registrando nel 2011 un aumento record in valore pari al 17%. Sorprendenti gli incrementi registrati nei Paesi asiatici, in particolare in Cina, dove il valore delle esportazioni sembra essere praticamente raddoppiato (+87%).
Tale primato nelle esportazioni sembra stridere, in realtà, con i dati diffusi dall’Istat, ed elaborati da Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo-Alimentare) e Uiv (Unione Italiana Vini), relativamente alla produzione di vino in Italia, stabilizzatasi nel 2011 su livelli ai minimi storici; a fronte di una produzione stimata, a metà dicembre 2011, attorno ai 40 milioni di ettolitri (contro i 42 milioni indicati a settembre), è stata, infatti, registrata una caduta record del 14,2% sul 2010 (quando si erano contati 46,7 milioni di ettolitri).

Dal punto di vista qualitativo, oltre il 60% della produzione è stato destinato a uno dei 517 vini Docg, Doc e Igt riconosciuti in Italia. Questa tendenza negativa ha imposto una revisione della classifica mondiale dei Paesi produttori di vino, con la conseguente perdita, da parte dell’Italia, della propria supremazia produttiva, a favore della Francia, che, con i suoi 50,2 milioni di ettolitri (in aumento di 11 punti percentuali rispetto al 2010), raggiunge il primo posto. I 39,9 milioni di ettolitri prodotti in Spagna (con un leggero calo del 2%) rende anche questo Paese un potenziale pericolo per l’Italia, essendo lo scarto tra Roma e Madrid pari ad appena 218 mila ettolitri.

Al quarto posto della classifica mondiale dei produttori di vino, si attestano gli Stati Uniti, con 18,7 milioni di ettolitri, in calo di 6 punti percentuali sul 2010 (ha pesato, in particolare, il -10% registrato in California, primo polo produttivo della zona). In calo anche la vendemmia in Argentina, al quinto posto, con un -10% e 14,6 milioni di ettolitri prodotti. L’Australia, in sesta posizione, ha totalizzato all’incirca gli stessi quantitativi del 2010, mantenendosi sui 10 milioni e mezzo di ettolitri. Cresce, invece, a due cifre la produzione nel Cile – con un + 15,5% e oltre 10 milioni e mezzo di ettolitri realizzati – che arriva, così, a raggiungere la settima posizione. Superano i 10 milioni prodotti anche la Cina (in ottava posizione, con 10,4 milioni di ettolitri, in calo di 4 punti percentuali sul 2010) e il Sudafrica (con un +2% sul 2010).
Riprende, dopo un 2010 in forte decrescita – la produzione in Nord Europa e nei Peco (Paesi dell’Europa Centrale e Orientale), tanto da rendere probabile – conclude l’analisi Ismea-Uiv – il fatto che “il 2012 vedrà smorzarsi le forti richieste di vino sfuso effettuate da questi Paesi sia in Italia che in Spagna”: crescono Germania (+28%) e Austria (+45%), ma anche Romania (+31%), Bulgaria (+55%), Ungheria (+27%), Repubblica Ceca e Slovacchia.

Tornando al contesto italiano, si rileva, poi, dal punto di vista dei prezzi di scambio, un aumento – nei primi cinque mesi della campagna di commercializzazione, da agosto a dicembre 2011 – dei valori medi dei vini comuni di oltre 28 punti percentuali, rispetto allo stesso periodo del 2010: per il comparto dei rossi è stato registrato un +28,8% (il prezzo di scambio è stato in media 3,65 euro per ettolitro/grado, franco cantina), mentre per quello dei bianchi un +27,6% (3,81 euro per ettolitro/grado).

I buoni risultati rilevati sul settore esportazioni non sembrano attualmente aver portato adeguati benefici alle imprese agricole, confermando – conclude Coldiretti – le “pesanti distorsioni che permangono nel passaggio degli alimenti lungo la filiera dal campo alla tavola”.

L’andamento positivo delle esportazioni potrebbe, inoltre, essere ulteriormente ottimizzato se si riuscisse a combattere efficacemente la cosiddetta “agropirateria” internazionale e, ancor più, “l’Italian sounding”, la tendenza, cioè, a sfruttare economicamente parole, immagini, denominazioni e ricette che evocano il contesto italiano, pur essendo legate a prodotti alimentari che nulla hanno a che vedere con le produzioni nostrane; a differenza dell’agropirateria, la contraffazione vera e propria perseguibile penalmente, l’Italian sounding si muove in una zona grigia che può essere eliminata solo attraverso regole e accordi internazionali che impongano l’assoluta trasparenza sulla qualità delle materie prime e sui processi produttivi utilizzati dagli operatori dell’intera filiera.

Se sul piano nazionale sono stati recentemente scoperti la falsa mozzarella di bufala dop, vino ed olio etichettati come doc e dop senza documenti di tracciabilità, a livello internazionale le più copiate al mondo – prosegue Coldiretti – sono le denominazioni Parmigiano Reggiano e Grana Padano (con “il Parmesan diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone”, o il “Parmesao in Brasile, il Regianito in Argentina, Reggiano e Parmesao in tutto il Sud America, ma anche Pamesello in Belgio o Parmezan in Romania”), ma anche il Romano, l’Asiago e il Gorgonzola, prodotti negli Stati Uniti; anche alcuni marchi storici trovano una loro imitazione estera, come la mortadella San Daniele e il prosciutto San Daniele prodotti in Canada; e ancora: vino “tarocco”, come il barbera bianco romeno o il Chianti californiano, l’olio Romulo venduto in Spagna con tanto di lupa capitolina, imitazioni di soppressata calabrese e pomodori San Marzano negli States, il provolone del Wisconsin, il pesto tailandese “Spicy thai” e una strana “mortadela” siciliana prodotta in Brasile. Gli esempi sono molti e capaci di strappare facilmente un sorriso, ma si tratta pur sempre di un riso piuttosto amaro: stando, infatti, alle stime riportate da Coldiretti (sulla base della prima relazione sulla contraffazione nel settore alimentare, elaborata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale e presentata nel corso di un incontro presso la sede romana di Coldiretti, lo scorso giovedì 19 gennaio 2012, al quale hanno partecipato, tra gli altri, il Ministro per le Politiche Agricole Mario Catania, il Procuratore Antimafia Pietro Grasso e il Presidente della Coldiretti Sergio Marini), il falso alimentare Made in Italy fatturerebbe ben 60 miliardi di euro, con tre prodotti alimentari italiani falsi su quattro. A spingere verso una simile prassi ingannevole è la volontà dei produttori esteri di assicurarsi un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, potendo contare sulla risonanza positiva che certi nomi detengono, sul sistema di valori riconosciuti e apprezzati a livello internazionale che essi veicolano. Si tratta di un vero e proprio danno – non solo economico, ma anche di immagine – inflitto alla nostra industria agroalimentare, banalizzata nella sua autentica tradizione ed eccellente qualità.

Con una radicale azione di contrasto al falso Made in Italy, che porti ad un recupero delle quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari delll’“Italian sounding”, le esportazioni agroalimentari potrebbero addirittura triplicare, pareggiando la bilancia commerciale del settore. Si stima, inoltre, che dalla lotta alla contraffazione potrebbero derivare fino a trecentomila nuovi posti di lavoro.

Secondo i dati Coldiretti/Eurispes contenuti nella relazione sulla contraffazione, il volume d’affari delle agromafie ammonterebbe oggi a ben 12,5 miliardi di euro, pari al 5,6% dell’intero business criminale.

Le imprese agricole e i consumatori – precisa la Coldiretti – subiscono l’impatto devastante delle strozzature di filiera su cui si insinua un sistema di distribuzione e trasporto gonfiato e alterato troppo spesso da insopportabili fenomeni di criminalità che danneggiano tutti gli operatori. L’effetto è un crollo dei prezzi pagati agli imprenditori agricoli, che in molti casi non arrivano a coprire i costi di produzione, e un ricarico anomalo dei prezzi al consumo che raggiungono livelli tali da determinare un contenimento degli acquisti”.

Dal campo alla tavola, il prezzo dei prodotti viene triplicato, anche a causa dell’illecito intervento della malavita organizzata: le agromafie reinvestono i loro proventi soprattutto in attività agricole, “nel settore della trasformazione alimentare, commerciale e nella grande distribuzione”, condizionando la libera iniziativa economica e incrementando la concorrenza sleale. Oltre ad un aumento dei prezzi, le conseguenze negative per i consumatori riguardano anche la qualità dei beni acquistati, spesso spacciati come Made in Italy, ma ottenuti in realtà con materie prime importate e di bassa qualità.

La Commissione parlamentare d’inchiesta ha verificato, in particolare, come le nostre tasse finanzino addirittura la realizzazione di prodotti italiani solo nel nome, attraverso la “Società italiana per le imprese all’Estero Simest s.p.a.”, controllata dal ministero dello Sviluppo economico, senza alcun beneficio per il nostro Paese, ma incrementando, anzi, i comportamenti di concorrenza sleale prima descritti. Tali attività di delocalizzazione sottraggono opportunità di lavoro e occupazione al sistema Italia: è il caso dell’azienda casearia Lactitalia (partecipata da Simest al 29,5%), che produce in Romania formaggi con nomi italiani Caciotta e Pecorino, e della vendita all’estero del salame calabrese prodotto negli Stati Uniti e venduto a New York dalla salumeria Rosi del Gruppo Parmacotto.

Non è politicamente, economicamente e moralmente accettabile” – conclude il Presidente Sergio Marini – “che lo Stato, che rappresenta tutti i cittadini italiani, finanzi direttamente o indirettamente la produzione o la distribuzione di prodotti alimentari che contaminano il valore del territori facendo concorrenza sleale a tutte le produzioni tipiche vere espressioni di quei territori”; è per questo motivo che “la lotta alla contraffazione e alla pirateria” devono rappresentare per le istituzioni “un’area di intervento prioritaria per recuperare risorse economiche utili al Paese” e a “generare occupazione”.

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Internazionalizzazione: la nuova strada verso la ripresa

Il settimo Rapporto UniCredit Piccole Imprese evidenzia come l’espansione verso i mercati esteri rappresenti la principale leva delle PMI italiane per il superamento della crisi

 

Presentata la settima edizione del Rapporto UniCredit Piccole Imprese dedicato questa volta alla “sfida dell’internazionalizzazione quale strategia di rilancio per il Paese in generale e per il sistema delle piccole imprese in particolare”.

Ciò che ne emerge è come sia cambiato, in seguito alla crisi, il modo in cui si considerano le esportazioni, prima semplice “componente dinamica della domanda aggregata italiana”, ora principale mezzo per giungere a quell’accelerazione della crescita indispensabile per la nostra economia, soprattutto se rivolte ai mercati più dinamici dei Paesi emergenti. Nella situazione attuale, in cui “la produzione viene organizzata dalle medie imprese multinazionali su scala geografica più ampia lungo le fasi di filiere produttive globali”, la relazione tra dinamiche globali e dimensione locale è diventata, per le piccole imprese, “più rilevante e allo stesso tempo più fluida”.

L’analisi – frutto di oltre 6.000 interviste rivolte a piccoli imprenditori italiani e clienti UniCredit e di un questionario pensato per oltre 200 Associazioni di categoria e Confidi – si articola attorno a tre filoni che, in maniera interconnessa, approfondiscono quelle che sono le leve a disposizione delle piccole e medie imprese per affrontare l’importante sfida posta dai mercati esteri: la valorizzazione del territorio, l’innovazione e la rete tra imprese.

Viene innanzitutto delineato il contesto congiunturale in cui operano le piccole imprese: tra aprile e maggio 2009 sembrano essere emersi, seppur in misura meno vivace rispetto ad altri Paesi, i primi segnali di ripresa per l’Italia, mentre si osserva un rallentamento di tali segnali nel secondo semestre 2010.

Dal confronto tendenziale del PIL e delle sue componenti si evidenziano, dopo due anni di contrazione, dei ritmi contenuti di recupero per gli investimenti e per i consumi privati, frenati principalmente dalla debolezza del mercato del lavoro e da una disoccupazione che ha conosciuto nel secondo trimestre 2010 un aumento dal 6% all’8,5%. Si conferma invece il contributo positivo delle esportazioni nette, con un aumento delle vendite all’estero del 9,2%, rispetto al secondo trimestre 2009. Si denota sostanzialmente una generale situazione di incertezza, caratterizzata da un unico elemento positivo: “le imprese esportatrici mostrano maggiore solidità, segno che l’esposizione ai mercati internazionali ha probabilmente comportato cambiamenti rilevanti vantaggiosi”.

Dalla consueta indagine UniCredit per la determinazione dell’indice di fiducia delle piccole imprese (quelle con meno di 50 addetti), emerge poi un grado di fiducia maggiore per gli imprenditori che svolgono attività all’estero, con un indice pari a 94, superiore di tre punti rispetto all’indice sintetico 2010 e di ben sei punti rispetto all’indice espresso dalle aziende non internazionalizzate; una correlazione, a tal proposito, si legge anche tra fiducia e intensità dell’internazionalizzazione: l’indice degli imprenditori intervistati cresce notevolmente al crescere della quota di fatturato realizzata nei mercati esteri. In termini generali l’indice di fiducia sintetico scende di due punti rispetto allo scorso anno, passando da 93 a 91, probabilmente a causa,  rivela il Rapporto, del “protrarsi delle difficili condizioni che da più di un anno caratterizzano il contesto dell’economia globale, e che hanno colpito in maniera diffusa tutti i settori dell’imprenditoria”.

Nonostante le dimensioni contenute delle loro strutture organizzative ed operative, emerge come una parte delle PMI indagate abbia saputo presentarsi all’estero facendo leva sul know how specialistico accumulato nel tempo, su una “filosofia di processo improntata alla qualità e all’utilizzo delle reti d’impresa”: non si esportano solo beni e servizi, ma anche veri e propri modelli di business e, per questa via, si rafforza la valorizzazione del patrimonio territoriale e il successo del made in Italy nel mondo (sul quale, si sottolinea, è necessario puntare, creando dei prodotti quasi “su misura” per i clienti esteri).

Dall’analisi si evidenzia poi quanto sia centrale il ruolo della domanda estera, sia rispetto alla domanda del settore privato (che – si ricorda – “probabilmente rimarrà debole a causa della scarsa crescita demografica e dei problemi connessi, anche in termini di redistribuzione del reddito”), sia rispetto alla componente pubblica, “vincolata da necessità di risanamento del debito”. La crescita dell’Italia pare quindi essere vincolata alla capacità delle aziende di esportare e conquistare crescenti quote di mercato, soprattutto nei Paesi emergenti, dotati di più elevati tassi di crescita. Il confronto a livello internazionale rivela come l’Italia sia ben posizionata dal punto di vista dello scambio di beni e servizi, ma rimanga carente sul lato degli investimenti diretti, a causa della struttura produttiva italiana in cui prevale la piccola dimensione.

Altri due aspetti si rilevano dal punto di vista dei processi di internazionalizzazione: “la relazione biunivoca tra innovazione e commercio estero, e la forte connessione esistente tra miglioramento della produttività e rapido diffondersi delle filiere globali”.
Due risultano, allora, nel futuro, le principali sfide per le PMI: il miglioramento del rapporto qualità/prezzo, puntando sulla qualità del prodotto italiano, e la conquista della nuova classe di consumatori benestanti nei Paesi emergenti, grazie alle produzioni di beni di consumo di fascia medio-alta. Per arrivare a questo, occorre una rinnovata attenzione alle strategie di marketing e comunicazione, che consenta di segmentare il mercato di riferimento ed individuare i target più idonei.
Le PMI, ci dice ancora il Rapporto, sembrano aver reagito alla crisi seguendo due principali strategie: un cosiddetto “upgrading qualitativo”, già avviato con la crisi e proseguito con maggior controllo dei costi, e un “upgrading strategico”, ovvero maggiore “sofisticazione del business e un approccio più elaborato ai mercati secondo strategie di marketing-mix”. Ogni singola impresa punta ad ottenere un vantaggio competitivo legandosi al territorio, inteso come patrimonio conoscitivo, produttivo (soprattutto nel settore della manifattura di qualità) e naturale (soprattutto per quanto riguarda il settore agro-alimentare e quello del turismo).

L’indagine conferma poi come i vincoli di natura dimensionale comportino alcune criticità: la “polarizzazione su un numero limitato di mercati di sbocco”e “l’individuazione di controparti commerciali”. Quest’ultima è spesso frutto di iniziative autonome (passaparola tra imprese, ricerca diretta su internet, la partecipazione a fiere di settore…), non del ricorso a soggetti esterni, forse a causa dell’innata tendenza a “fare da sé; importante, allora, è stato e sarà il contributo dell’attività informativa e di consulenza svolta da soggetti specializzati, banche in primis, per accompagnare le imprese nei loro primi passi verso i mercati esteri.

In un Paese in cui l’incontro con gli investitori istituzionali è ancora difficile e a fronte del profondo mutamento nello scenario globale, appare sempre più fondamentale la concertazione tra attori del territorio. Andrebbero incentivati i meccanismi di imitazione tra imprese di diverse dimensioni in modo che “le più grandi siano spinte a valorizzare al meglio le competenze distintive delle più piccole, e le più piccole riescano a sfruttare maggiormente i propri vantaggi competitivi”. Importante è, inoltre, la creazione di reti di imprese, necessaria “a far massa critica e consolidare il posizionamento competitivo sui mercati internazionali”: attualmente esse non appaiono particolarmente sviluppate, prevalendo, da un lato, dei rapporti a carattere locale e perdendosi, dall’altro, i legami storici.

Al mondo delle imprese, duramente colpito dalla crisi finanziaria, l’indagine di UniCredit ha inteso offrire degli elementi di valutazione in merito ai vincoli e alle opportunità proprie di questo momento di transizione. Il Rapporto rappresenta, allora, un “importante momento di riflessione di UniCredit su come gli attori del territorio – in particolare le imprese, le banche e i mediatori sociali, quali Associazioni di categoria e Confidi – possano affrontare e superare in modo cooperativo l’attuale fase, densa di incognite e difficoltà”; esso, inoltre, sembra offrire un fondamentale contributo “all’individuazione delle strategie territoriali volte a promuovere una crescita sostenibile nel lungo periodo per le piccole imprese, che tengano conto dei punti di forza delle economie locali in un’ottica di competizione globale”.

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Aumento delle imprese estere partecipate da quelle italiane

I dati elaborati dal Centro Studi Sintesi mostrano come le realtà aziendali italiane abbiano sfruttato i segnali di ripresa dei mercati internazionali, attraverso acquisizioni all’estero

I dati riportati sono quelli elaborati dal Centro Studi Sintesi, “centro di ricerca che si dedica da anni allo studio dei principali fenomeni di natura sociale ed economica, locali e nazionali”. L’intervallo temporale considerato è quello che va dal 2007 al 2009, quindi un periodo di piena, manifesta e generalizzata crisi economica. Ciò che stupisce è la fiducia dimostrata dalle piccole e medie imprese italiane nei confronti dei mercati esteri e delle possibilità che essi sembrano offrire.

Quasi duemila imprese straniere in più avrebbero aperto la propria realtà all’ingresso d’imprenditori italiani: cifre non eclatanti, ma comunque significative, segnale certo di un’evidente intraprendenza nella cultura aziendale medio-piccola. Stando ai risultati delle elaborazioni, infatti, le imprese estere partecipate da quelle italiane sarebbero diventate più di ventiduemila (22.715), con un incremento, rispetto al 2007 quando erano 20.896, di 8,7 punti percentuali. A trainare tale crescita è stata la Spagna, con aumenti intorno al 19%, seguita dal Sudamerica (+12,7%) e dai Bric (+11,7%), soprattutto India e Cina.

Rovesciando la prospettiva, ci si accorge, poi, che, nello stesso periodo, le imprese italiane a partecipazione estera hanno conosciuto un aumento di circa un centinaio di entità, pari all’1,2%. In questo caso sono i Bric, in particolare Brasile e India, i Paesi che maggiormente hanno contribuito a dettare il segno positivo, nonostante il fatto che l’80% delle 7.608 imprese italiane a partecipazione estera faccia capo a investitori provenienti da UE e Stati Uniti.

Elaborando i dati Reprint-Politecnico di Milano e Ice, il Centro Studi Sintesi ha, inoltre, evidenziato le dinamiche a livello regionale nel grado di internazionalizzazione delle imprese italiane: nel 2009 l’incidenza maggiore di realtà estere partecipate da imprese italiane continua a registrarsi in Lombardia, dove si nota, nell’intervallo 2007-2009, un incremento del 4,1%, tuttavia la regione più vivace pare essere il Lazio, con una curva in salita del 18,5%.

«Rispetto all’universo delle imprese italiane i numeri sono ancora infinitesimali – sottolinea Catia Ventura, direttore del Centro studi Sintesima registrano una modalità organizzativa nuova, che vede protagoniste le medie e le piccole imprese che guardano alle medie. Si fa strada una modalità di fare export con intelligenza, si va all’estero non tanto e non solo per vendere ma soprattutto per presidiare mercati in crescita. È il caso della Cina: laggiù si va a produrre a costi minori ma si può diventare anche fornitori di imprese internazionali presenti in quel paese». Sempre secondo Ventura, si tratterebbe di un’«eccellenza organizzativa ancora circoscritta», nata dall’esigenza delle imprese, colte dalla crisi, di «intraprendere nuovi percorsi, anche se l’Italia è ancora indietro rispetto ad altri paesi». A tal proposito, osservando il tasso di internazionalizzazione nazionale – cioè il numero di imprese estere a partecipazione italiana ogni 100 imprese italiane con fatturato superiore a 2,5 milioni di euro – si è registrato dal 2007 al 2009 un certo decremento, fatta eccezione per il centro Italia, seppur la tendenza sia ora in risalita rispetto al 2008, quando si è toccato il punto più basso degli ultimi cinque anni. «Centro e sud Italia – sottolinea ancora Ventura – partono sì da valori più piccoli, ma la vivacità è evidente. In queste aree, in difficoltà anche dal punto di vista del contesto sociale, non sono mancate le aziende che hanno deciso di allinearsi a territori più votati all’internazionalizzazione, come nord-ovest e nord-est, dove il tasso di imprese estere partecipate da imprese italiane è salito di oltre il 3%». «Al sud – conclude Ventura – vanno destinate risorse e le ultime misure proposte dal governo possono andare in questa direzione. Bisogna utilizzarle per far crescere i veri germogli e non disperderle a pioggia. Al nord, invece, il sostegno più che finanziario deve essere di valore aggiunto: più servizi, più logistica, più infrastrutture immateriali. Perché per queste imprese proiettate verso la globalizzazione vanno garantite le stesse condizioni di partenza delle aziende tedesche».

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