Uno studio promosso da Symbola e Unioncamere fa emergere l’importanza strategica dell’industria culturale nel contesto nazionale
Un cambiamento di paradigma nello sviluppo imprenditoriale italiano, capace di puntare strategicamente sul legame identitario col territorio e di rafforzare la riconoscibilità dell’offerta di beni e servizi, quale fattore competitivo su scala globale. È questa la tendenza intravista dalla
Fondazione Symbola e da
Unioncamere, promotori – grazie anche al sostegno dell’assessorato alla Cultura della regione Marche – del
Rapporto 2012 “L’Italia che verrà: Industria culturale, made in Italy e territori”.
Si tratta di una trasformazione certo graduale, ma sempre più evidente, al cui centro sembra esservi un modello aziendale fondato sulla qualità, sulla creatività, sul giusto connubio tra innovazione e valorizzazione dei fattori e dei saperi locali, sulla salvaguardia delle risorse ambientali.
La cultura – si legge nella premessa al report – rappresenta non solo il passato, “ma soprattutto presente, progresso e sostenibilità”, essa è “l’origine e, allo stesso tempo, la frontiera della competitività del nostro made in Italy”. Un rapporto intrinseco, quello tra economica e cultura, che ha da sempre caratterizzato il successo internazionale delle nostre produzioni d’eccellenza e che impone, oggi più che mai, di rafforzarsi e rinnovarsi.
L’indagine ha inteso, allora, evidenziare il ruolo, all’interno del contesto italiano, di una cultura vista come infrastruttura immateriale capace di generare molta più ricchezza di quanto si sia solitamente inclini a pensare. Si è cercato, in altri termini, di quantificare il peso specifico della cultura nell’economia nazionale e il quadro che ne è uscito sembra essere, in fondo, piuttosto incoraggiante, in termini di capacità di creare valore aggiunto, occupazione e proiezione sui mercati internazionali, con ampi margini di sviluppo nel prossimo futuro.
Eppure, nel confronto con gli altri Paesi europei, l’Italia si è spesso dimostrata inadeguata nell’offrire giusta considerazione e collocazione alla cultura, nell’ambito delle proprie scelte di politica economica: a seguito della profonda crisi che ha coinvolto il nostro territorio, la cultura ha subito pesanti tagli dal punto di vista del finanziamento pubblico, non si è cercato di far leva sulla sua intensa forza anti-congiunturale, potenzialmente in grado di ridare un impulso significativo alla produttività e alla competitività. Nella volontà costante di sanare il debito pubblico, si è spesso scelto di sacrificare la cultura, escludendola dalla definizione di nuovi modelli di sviluppo, totalmente orientati in direzione dell’innovazione scientifica e tecnologica più canonica e dei grandi temi dell’energia, della logistica, dell’ICT.
Tale limite deriva fondamentalmente dall’incapacità di comprendere le interdipendenze strutturali tra i vari ambiti della creatività, che imporrebbero di sostenere proprio quei settori che, pur non profittevoli di per sé, costituiscono un decisivo laboratorio di sperimentazione e innovazione, dall’impatto molto forte su altri settori considerati tipicamente strategici (come accade, ad esempio, con riferimento a molte attività nel campo delle arti visive, funzionali al manifatturiero del design e della moda).
Non poche sono le evidenze che, a livello europeo, dimostrano la forza trainante dei settori culturali e creativi per la crescita: esiste, ad esempio, una netta relazione tra livello di concentrazione delle industrie creative (in termini di occupazione settoriale) e prosperità in termini di PIL pro capite. D’altra parte, le specificità italiane nel sistema di interdipendenze produttive, se comprese e opportunamente valorizzate, potrebbero – sostengono i fautori del rapporto – costituire la base di un approccio nuovo, autoctono e fruttuoso all’evoluzione strategica della nostra economia.
Andiamo però con ordine. Nel rapporto si precisa, innanzitutto, cosa si intenda per sistema produttivo culturale (o più semplicemente industrie culturali): “quel complesso di attività economiche d’impresa che – partendo dalle basi di un capitale culturale riguardante non solo il patrimonio storico, artistico e architettonico, ma anche l’insieme di valori e significati che caratterizzano il nostro sistema socio-economico – arrivano a generare valore economico ed occupazionale, concorrendo al processo di creazione e valorizzazione culturale”.
Nel 2011 il valore aggiunto prodotto dalle industrie culturali italiane ammonta a quasi 76 miliardi di euro, pari al 5,4% della ricchezza totale dell’economia (percentuale in leggera crescita se confrontata con il 5,3% relativo al 2007, anno appena precedente alla crisi). Le risorse umane impegnate nelle imprese culturali sono pari a circa 1 milione e 390 mila persone, corrispondenti al 5,6% del totale degli occupati del Paese (in incremento di tre decimi di punto sul 5,3% stimato con riferimento al 2007).
Nel quadriennio 2007-2011 la crescita nominale del valore aggiunto delle imprese operanti nel settore della cultura è stata dello 0,9% annuo, più del doppio rispetto all’economia italiana nel suo complesso (+0,4% annuo). Parallelamente si registra una particolare tenuta occupazionale dell’industria culturale, nonostante la crisi: nel medesimo periodo, il numero di occupati è cresciuto a un ritmo medio annuo dello 0,8%, a fronte di una flessione dello 0,4% riscontrata per l’intera economia nazionale.
Nel 2011 in Italia il saldo della bilancia commerciale del sistema produttivo culturale ha registrato un attivo per 20,3 miliardi di euro (contro i -24,6 miliardi registrati a livello di economia complessiva), contribuendo alla ripresa, seppur contenuta, del PIL tra il 2010 e la prima parte del 2011. L’export di cultura vale oltre 38 miliardi di euro e costituisce il 10% dell’export complessivo nazionale. L’import è pari a 17,8 miliardi di euro e rappresenta il 4,4% del totale.
La ricerca non limita il proprio campo d’osservazione ai settori tradizionali della cultura e dei beni storico-artistici, al contrario considera l’importanza di cultura e creatività nel complesso delle attività economiche italiane, nei centri di ricerca delle grandi industrie, nelle botteghe artigiane, negli studi professionali. Quattro sono i macro settori che si è scelto di analizzare: industrie culturali (film, video, videogiochi e software, musica, stampa), industrie creative (architettura, comunicazione e branding, artigianato, design), patrimonio storico-artistico architettonico e, infine, performing art e arti visive.
A vantare le maggiori percentuali di crescita media annua, nel periodo 2007-2011, sono le performing arts e le arti visive (+1,3% in termini di persone occupate e +3,6% per quanto riguarda il valore aggiunto), buona anche la dinamica registrata dalle industrie creative, con riferimento al valore aggiunto (+1,7%). Subisce, invece, un forte declino il patrimonio storico-artistico, diminuendo di 9,4 punti percentuali il proprio peso in termini di valore aggiunto e di 1,1 punti con riferimento al numero di occupati.
In termini assoluti sono le industrie creative e quelle culturali a contribuire maggiormente – secondo gli ultimi dati disponibili, quelli riferiti al 2011 – allo sviluppo economico e occupazionale: le prime producono valore aggiunto per quasi 35 miliardi e 716 milioni di euro, pari al 47,1% dell’intero comparto cultura, e danno occupazione a più di 743 mila persone, pari al 53,5%; le seconde incidono per il 46,5% sul valore aggiunto creato (pari a 35 miliardi e 273 milioni di euro) e per il 39,1% sull’occupazione (543 mila impiegati). Quota molto più contenuta, invece, per le performing arts e arti visive (5% del valore aggiunto, pari a 3 miliardi e 755 milioni di euro, e 5,9% dell’occupazione, pari a 82 mila unità) e, soprattutto, per le attività private collegate al patrimonio storico-artistico (1,4% del valore aggiunto, cioè 1 miliardo e 61 milioni di euro, e 1,5% dell’occupazione, cioè 21 mila persone).
Da un punto di vista geografico, nel Nord-Ovest si concentra la quota più consistente di prodotto e di occupazione nel Paese, pari a più di un terzo (rispettivamente 35%, pari a 26 miliardi e 543 milioni di euro, e 31,5%, pari a 438 mila occupati) del totale, soprattutto grazie al ruolo esercitato dalla regione Lombardia. Guardando, tuttavia, alla capacità del sistema culturale di incidere sull’economia del territorio, è il Centro la ripartizione che manifesta la percentuale più elevata (6,1% in termini di valore aggiunto, pari a poco più di 19 miliardi e 29 milioni di euro, e 6,3% per gli occupati, pari a 337 mila unità). Seguono il Nord-Ovest, appunto, che dal settore crea il 5,9% della propria ricchezza, il Nord-Est, che da esso vede arrivare il 5,5% del valore aggiunto, e il Mezzogiorno con appena il 3,8%.
Tra le regioni, in testa alla classifica per incidenza del valore aggiunto della cultura sul totale dell’economia vi è il Lazio (6,8%) seguito a stretto giro da Marche, Veneto e Lombardia (tutte e tre attestate a quota 6,3%), quindi dal Piemonte (5,8%).
Considerando, invece, l’incidenza dell’occupazione delle industrie culturali sul totale dell’economia, risulta in testa il Veneto (7%), seguito dalle Marche (6,9%), dal Friuli Venezia Giulia (6,4%), dal Lazio e dalla Toscana (entrambe al 6,3%).
Sia con riferimento al valore aggiunto sia per quanto riguarda gli occupati, le ultime tre posizioni, per contributo del sistema produttivo culturale all’economia del territorio, sono occupate dalla Calabria (3,5% valore aggiunto, 4,1% occupazione), dalla Sicilia (3,2% valore aggiunto, 4% occupazione) e dalla Liguria (3,3% valore aggiunto, 4,1% occupazione).?
Per quanto riguarda i dati provinciali, la graduatoria nazionale pone Arezzo al primo posto, sia con riferimento al valore aggiunto sia per quanto concerne gli occupati del settore cultura (rispettivamente 8,4% e 9,8% del totale dell’economia aretina). Con riferimento al primo parametro, seconde classificate, a pari merito, sono le province di Pordenone e Milano (entrambe all’8%), seguite da un altro ex equo, Pesaro e Urbino e Vicenza (7,9%). Forte l’incidenza del valore aggiunto della cultura anche a Roma (7,6%), Treviso (7,5%), Macerata e Pisa (entrambe al 6,9%) e Verona (6,8%). Nelle ultime posizioni, oltre a province del Sud quali Sassari, Caltanissetta e Taranto, si collocano anche le province toscane di Massa-Carrara e Livorno e la provincia ligure di La Spezia. ?Per quanto concerne, invece, il peso a livello occupazionale del comparto cultura sul totale dell’economia, subito dopo Arezzo troviamo Pesaro e Urbino (9,5%), Vicenza (9,1%), Pordenone (8,6%) e Treviso (8,5%), Pisa (7,9%), Milano (7,8%), Macerata (7,7%), Firenze (7,6%), Monza e Brianza (7,4%).
I dati finora riportati si riferiscono alle attività più prettamente imprenditoriali collegabili alla cultura. Tuttavia il sistema produttivo culturale implica anche una componente di origine pubblica, legata soprattutto alla gestione e alla tutela del patrimonio, nonché un’anima non profit. Aggiungendo il contributo di queste due ulteriori “anime”, il sistema produttivo culturale nel suo complesso arriva a oltre 80 miliardi di valore aggiunto e più di 1,48 milioni di occupati. Aumenta di conseguenza anche l’incidenza del settore culturale sul totale dell’economia: dal 5,4% al 5,7% per quanto riguarda il valore aggiunto, e dal 5,6% a 6% con riferimento all’occupazione.
Al di là della componente pubblica e di quella nonprofit, l’industria culturale italiana si inserisce in una filiera ben più ampia riguardante settori che non svolgono attività culturale, ma che sono attivati proprio dalla cultura. Una filiera articolata e diversificata, della quale fanno parte: attività formative, produzioni agricole tipiche, attività del commercio al dettaglio collegate alle produzioni dell’industria culturale, turismo, trasporti, attività edilizie, attività quali la ricerca e lo sviluppo sperimentale nel campo delle scienze sociali e umanistiche.
Se si considera, allora, l’incidenza dell’intera filiera delle industrie culturali, il valore aggiunto prodotto cresce dal 5,7% (riguardante il nucleo delle attività pubbliche, private e nonprofit) al 15% del totale dell’economia nazionale, passando da 80,8 a 211,5 miliardi di euro. Aumenta parallelamente di tre volte il peso della cultura sull’occupazione, passando dal 6% al 18,1%, con un numero di occupati che da 1,48 milioni (sempre considerando imprese, istituzioni pubbliche e nonprofit) arriva a 4,48 milioni di unità.
La forte intersettorialità dell’industria culturale esige, dunque, di adottare una logica di networking capace di affrontare le nuove sfide poste da un contesto sempre più globale. I dati esposti smentiscono – rilevano infine i promotori – chi descrive la cultura “come un settore non strategico e rivolto al passato”, imponendo di considerare piuttosto questo settore come “una delle leve per ridare ossigeno ad un Paese messo a dura prova dalla perdurante crisi”.
Pubblicato su: PMI-dome