Turismo 2012: italiani sentono la crisi

I dati diffusi in questi giorni confermano un andamento negativo per il settore, per contro si rinnovano le abitudini e le esperienze dei turisti, grazie all’innovazione tecnologica e alla rivoluzione culturale in corso

Si dirà che interi settori d’eccellenza sono stati posti in ginocchio dall’attuale congiuntura economica negativa. Si sosterrà anche che la colpa è certo della crisi, ma che alla base vi è pure l’inadeguatezza politica di un Paese che non ha saputo sfruttare le proprie risorse e rilanciarle in forma nuova e fruttuosa. Ci si consolerà infine notando come alcuni segnali lascino intravedere il tanto atteso spiraglio di innovazione sorto dalle ceneri delle sempre più ridotte disponibilità finanziarie.
Sta per chiudersi la stagione estiva di quello che verrà da molti ricordato come l’annus horribilis del turismo nel Bel Paese ed è giunto il momento di fare i primi bilanci. Gli italiani, dopo aver frugato per bene nelle proprie tasche, hanno deciso di rinnovare il proprio approccio alle vacanze e, complice un’alfabetizzazione informatica di base abbastanza diffusa, hanno adottato nuovi modi e nuove prassi per godere della propria pausa estiva.
Rivela un sondaggio condotto da Assoviaggi-Confesercenti (l’associazione di categoria che riunisce le agenzie di viaggio, attraverso le quali passa il 25-30% del turismo outgoing italiano) come la crisi abbia influenzato pesantemente il quadro di riferimento: nell’estate 2012 – spiega Amalio Guerra, presidente di Assoviaggi – “le agenzie di viaggio hanno registrato una diminuzione del 30%. È il terzo anno consecutivo: dalla stagione estiva 2010 a quella di quest’anno si è perduto il 50% del giro d’affari”.
Le minori disponibilità economiche hanno spinto quest’anno gli italiani a modificare le proprie tempistiche di prenotazione, attendendo fino all’ultimo minuto, con la conseguenza che il periodo di maggiore attività per le agenzie di viaggio è stata la seconda metà di luglio, anziché giugno, come da tendenza ormai consolidata. La scelta della meta è stata allora compiuta soprattutto in base alla disponibilità di posti e al costo. Gli italiani hanno riscoperto il piacere delle vacanze in Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, con Campania, Puglia e Calabria in testa, attratti dalle promozioni, dalla convenienza e dalla sicurezza offerte dalle tre regioni. Sulla Sicilia ha invece pesato la cancellazione dei voli della compagnia Wind Jet. Ambite sono state le grandi città europee (Spagna, Baleari e Canarie), mentre sono calate le prenotazioni rivolte alla Grecia (qui resistono solo le isole) e ancor di più quelle rivolte a Tunisia, Marocco, Turchia ed Egitto (il Mar Rosso era in precedenza una delle mete più gettonate), per i timori legati all’instabilità politica e sociale. Cresce invece l’Oriente, soprattutto l’Indonesia, le cui isole attraggono per la convenienza dei prezzi offerti. Poco movimento, infine, verso gli Stati Uniti o il Sud America.
Con riferimento alla tipologia di viaggio, le agenzie rilevano una sostanziale tenuta delle crociere, in particolare di quelle dirette verso lidi mediterranei, questo a causa di un sostanziale taglio dei prezzi, con conseguente calo di fatturati e margini per il settore. Cresce poi il turismo “fai da te”, nella scelta autonoma della combinazione “volo + hotel”: le mete preferite sono state, in questo caso, le grandi città europee raggiunte da voli low-cost, tra le quali spiccano Parigi, Londra e Valencia; tiene bene anche il turismo autogestito diretto alla Croazia e alle mete di montagna (comunque in calo rispetto alle altre destinazioni).
La crisi ha aggravato le difficoltà tipiche del settore del turismo intermediato, con fatturati trascinati verso il basso dalla paura del crollo dell’euro, dall’aumento del costo della benzina e dalle sempre più ridotte disponibilità economica: “La situazione del settore è aggravata dai rapporti con Tour Operator e vettori” – sottolinea Guerra – “con una giungla di tariffe che rende ancora più complesso interagire tra clienti che cercano di spendere meno e fornitori che invece sperano di fare profitto. Per questo molte agenzie di viaggio si vendono costrette a ridurre i costi: qualcuna ha cominciato a non confermare il personale con contratti a termine, e da settembre si penserà anche a misure più drastiche”.
A conferma l’andamento negativo del turismo in questa ultima stagione estiva sono stati nei giorni scorsi anche i dati diffusi dalle associazione a tutela dei consumatori italiani: Adusbef e Federconsumatori hanno rilevato come solo il 34% degli italiani sia partito per una vacanza di almeno una settimana e come il 36% abbia invece optato per soluzioni mordi e fuggi, cercando spesso ospitalità presso amici e parenti. Sembra aumentare il fenomeno del pendolarismo verso le mete balneari, soprattutto nei fine settimana, con conseguente crescita dei disagi e delle segnalazioni relative ai disservizi nei treni (carrozze vecchie, assenza di aria condizionata, carenza di igiene).
La causa viene identificata nella caduta del potere d’acquisto delle famiglie, la soluzione viene auspicata nella previsione di un piano di rilancio complessivo del settore turistico, nella riduzione della tassazione, nell’investimento in sviluppo e crescita, indispensabili – sostengono Rosario Trefiletti (Federconsumatori) e Elio Lannutti (Adusbef) – ai fini di un rilancio generale dell’economia.
Non lasciano spiragli di fiducia, infine, nemmeno le stime degli albergatori. Cescat (Centro studi casa ambiente e territorio di Assoedilizia) e Aiaga (Associazione italiana amici grandi alberghi) rilevano, nel periodo luglio-settembre 2012, un giro d’affari del turismo di 30 miliardi di euro, pari ad una riduzione media del 2% con tendenza al 3% (quinto anno di recessione per il settore in Italia). Il dito è puntato in questo caso su “una inadeguata politica di promozione e di sostegno e della crisi economica che colpisce il turismo domestico rappresentante ben il 60% del totale”, come evidenzia il presidente Achille Colombo Clerici. Poco più del 40% degli italiani si reca in vacanza, a fronte del 48% del 2008, segnando così un ritorno al livello della metà degli anni Novanta; la media di permanenza in vacanza è di 12 giorni, mentre è incrementata la spesa media, passando dai circa 820 euro del 2011 agli oltre 900 euro, complice l’aumento dei costi di ristoranti, carburanti e autostrade. I lavoratori autonomi e il loro indotto hanno concentrato in agosto le proprie ferie, mentre la vacanza scaglionata nel corso di tutto il periodo estivo risulta appannaggio prevalente dei lavoratori dipendenti. Le vacanze in agosto sono aumentate dal 52 al 55%, tuttavia negli ultimi 5 anni si è parallelamente assistito ad un incremento del 50% tra coloro che rimangono in città a ferragosto (che rappresentano il 15 % della intera popolazione delle città). La meta principale (64%) per queste vacanze estive è stato il mare (prevalentemente in Emilia Romagna, Toscana, Puglia, Calabria). Calo del 12% nelle presenze in albergo, concentrate negli esercizi di medio-alto livello; incrementi, per contro, registrati presso gli hotel a 2 stelle (dal 6% del 2011 all’attuale 16%). Unico dato positivo è quello occupazionale, con decine di migliaia le persone, soprattutto giovani, che hanno trovato lavoro stagionale (da 2 a 6 mesi) con compensi da 500 a 2.000 euro al mese.
Amari erano stati a inizio mese anche i pronostici di Federalberghi, spingendo il presidente Bernabò Bocca a lanciare il suo allarme per il calo “generalizzato e devastante”, che “a memoria storica non si era mai visto”, per “uno dei settori che potrebbe, se opportunamente supportato, rappresentare il primo volano per la ripresa economica del Paese”, e a richiedere “a Governo e Parlamento lo stato di crisi del settore, unico strumento tecnico-giuridico per mettere in moto, auspichiamo, quella scossa indispensabile per definire mezzi e misure dei quali il turismo non può più fare a meno”.
Il turismo tuttavia, non sembra subire i soli effetti negativi della difficile congiuntura economica, ma, più di altri comparti, gode anche di quelli positivi dettati dall’evoluzione nelle dinamiche fruitive ed economiche generata dalla rete. Il viaggio viene sempre più percepito dagli utenti come un’esperienza condivisa, che si estende prima e dopo il viaggio in sé e arriva ad abbracciare blog, recensioni online, social network e applicazioni mobile. Le nuove piattaforme digitali mettono a disposizione delle risorse conoscitive pressoché illimitate e a disposizione di chiunque gratuitamente. Tali risorse sono implementate dal basso e, proprio per questo, amplificano l’importanza e l’eco dell’antico “passaparola” e richiedono, per contro, un’accurata operazione di ricerca e selezione da parte dell’utente. Molte sono state nelle ultime settimane le dita di albergatori e ristoratori puntate contro siti come TripAdvisor, colpevoli di ospitare commenti anonimi, dunque potenzialmente pericolosi, e di aver generato presunte operazioni di ricatto, scambio e crowdturfing, capaci di condizionare gusti e scelte degli utenti in modo utilitaristico, allo scopo di soddisfare gli interessi particolari di alcuni operatori. Affianco a strategie di marketing lodevoli che cercano nella validazione sociale dal basso lo sviluppo positivo della propria online reputation, se ne sono sviluppate altre malevole che si fondano sulla compravendita opportunistica di commenti e recensioni positive e negative da distribuire a seconda della convenienza, pur in assenza di riscontri concreti con la realtà delle cose.
Al di là delle comprensibili motivazioni degli operatori indispettiti da una cattiva recensione considerata ingiusta, al di là delle dichiarazioni di totale impegno nel combattere le “frodi” nelle valutazioni degli utenti, da parte del team dirigenziale di TripAdvisor, ciò che albergatori, ristoratori e tutti gli addetti del settore turismo non possono fare, se vogliono dimostrarsi realmente competitivi, è continuare a considerare la rete come un semplice canale aggiuntivo attraverso il quale veicolare la propria offerta, da affiancare a volantini, annunci e cartellonistica. Internet ha infatti cambiato radicalmente le regole del viaggiare, rappresenta lo strumento principale per chiunque decida di muoversi, condiziona l’intero processo fruitivo, dalla scelta della meta, alla raccolta di notizie utili, fino alla divulgazione delle proprie esperienze: si riduce la distinzione tra chi produce e chi consuma contenuti informativi e si accorciano le distanze tra reale e virtuale, Il nostro viaggio nasce nell’online, attraverso informazioni e consigli ricercati su travel blog e site reviews quali TripAdvisor, HolidayCheck e Zoover, visualizziamo in anteprima gli scenari dei quali saremo poi protagonisti attraverso siti di photo sharing (come Flickr, Pinterest e Followgram) o di video sharing (YouTube e Vimeo giusto per citare i più famosi), rileviamo su Google Maps le distanze utili alla pianificazione, ricerchiamo sui molti Skyscanner, eDreams, Expedia e lastiminute.com le migliori combinazioni di volo e pernottamento. Giunti a destinazione, ci lasciamo guidare da smartphone e tablet nella visita, dispositivi capaci di farci percepire una realtà cosiddetta “aumentata”, grazie alle numerosissime mobile applications o sfruttando i Qr code. Grazie a Facebook, Twitter, Instagram, Foodspotting, Foursquare condividiamo in tempo reale, con i nostri amici virtuali, stati d’animo, foto di panorami mozzafiato o di piatti golosi e la nostra stessa posizione. Inseriamo a nostra volta recensioni e commenti positivi o negativi sulle strutture che ci ospitano, infine, al rientro, ci aspetta l’immancabile album “Vacanze estate 2012” da pubblicare sulle piattaforme di social networking cui siamo iscritti, con decine di foto che ci auguriamo possano stupire i nostri contatti. Le funzionalità del web 2.0 incrementano, dunque, in definitiva, l’esperienza del viaggio, imponendo – per gli amanti delle definizioni – lo sviluppo del concetto di social travelling, alla cui base vi è una logica relazionale. Lab42 e MDG Advertising hanno di recente sviluppato due infografiche che, pur non riferite al contesto italiano, tentano di spiegare il fenomeno, svelandone, dati alla mano, la portata. Sempre nuove sono le formule ideate per gli utenti in rete e cresce in queste ore l’attesa per il possibile esito dell’annunciato acquisto, da parte di Google, di Frommer’s, il brand della casa editrice John Wiley & Sons che raccoglie oltre 300 pubblicazioni cartacee di guide turistiche e un sito web visitatissimo nel quale sono presenti non solo le guide ma pure migliaia di recensioni, e suggerimenti; tale acquisto, unito a quello di Zagat (portale dedicato alla ristorazione), avvenuto lo scorso anno, lascia supporre la volontà di Mountain View di creare qualcosa di  realmente innovativo per il settore turismo.
Riuscire a far fronte ad un simile contesto di reciproca contaminazione tra realtà concreta e digitale non sembra essere cosa semplice e non si può certo dire che tutti gli addetti del settore si siano dimostrati pronti: il cambiamento, prima ancora che tecnologico, è culturale. Costruire relazioni e incrementare la fiducia nella propria azione imprenditoriale dovrebbe essere lo scopo di ogni attività promozionale posta in essere dagli operatori del turismo e a poco servono le indignazioni urlate, le accuse o le missioni punitive rivolte a piattaforme comunque potenzialmente utili al proprio business.
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Quanto pesa la cultura nell’economia italiana?

Uno studio promosso da Symbola e Unioncamere fa emergere l’importanza strategica dell’industria culturale nel contesto nazionale

Un cambiamento di paradigma nello sviluppo imprenditoriale italiano, capace di puntare strategicamente sul legame identitario col territorio e di rafforzare la riconoscibilità dell’offerta di beni e servizi, quale fattore competitivo su scala globale. È questa la tendenza intravista dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere, promotori – grazie anche al sostegno dell’assessorato alla Cultura della regione Marche – del Rapporto 2012 “L’Italia che verrà: Industria culturale, made in Italy e territori”.
Si tratta di una trasformazione certo graduale, ma sempre più evidente, al cui centro sembra esservi un modello aziendale fondato sulla qualità, sulla creatività, sul giusto connubio tra innovazione e valorizzazione dei fattori e dei saperi locali, sulla salvaguardia delle risorse ambientali.
La cultura – si legge nella premessa al report – rappresenta non solo il passato, “ma soprattutto presente, progresso e sostenibilità”, essa è “l’origine e, allo stesso tempo, la frontiera della competitività del nostro made in Italy”. Un rapporto intrinseco, quello tra economica e cultura, che ha da sempre caratterizzato il successo internazionale delle nostre produzioni d’eccellenza e che impone, oggi più che mai, di rafforzarsi e rinnovarsi.
L’indagine ha inteso, allora, evidenziare il ruolo, all’interno del contesto italiano, di una cultura vista come infrastruttura immateriale capace di generare molta più ricchezza di quanto si sia solitamente inclini a pensare. Si è cercato, in altri termini, di quantificare il peso specifico della cultura nell’economia nazionale e il quadro che ne è uscito sembra essere, in fondo, piuttosto incoraggiante, in termini di capacità di creare valore aggiunto, occupazione e proiezione sui mercati internazionali, con ampi margini di sviluppo nel prossimo futuro.
Eppure, nel confronto con gli altri Paesi europei, l’Italia si è spesso dimostrata inadeguata nell’offrire giusta considerazione e collocazione alla cultura, nell’ambito delle proprie scelte di politica economica: a seguito della profonda crisi che ha coinvolto il nostro territorio, la cultura ha subito pesanti tagli dal punto di vista del finanziamento pubblico, non si è cercato di far leva sulla sua intensa forza anti-congiunturale, potenzialmente in grado di ridare un impulso significativo alla produttività e alla competitività. Nella volontà costante di sanare il debito pubblico, si è spesso scelto di sacrificare la cultura, escludendola dalla definizione di nuovi modelli di sviluppo, totalmente orientati in direzione dell’innovazione scientifica e tecnologica più canonica e dei grandi temi dell’energia, della logistica, dell’ICT.
Tale limite deriva fondamentalmente dall’incapacità di comprendere le interdipendenze strutturali tra i vari ambiti della creatività, che imporrebbero di sostenere proprio quei settori che, pur non profittevoli di per sé, costituiscono un decisivo laboratorio di sperimentazione e innovazione, dall’impatto molto forte su altri settori considerati tipicamente strategici (come accade, ad esempio, con riferimento a molte attività nel campo delle arti visive, funzionali al manifatturiero del design e della moda).
Non poche sono le evidenze che, a livello europeo, dimostrano la forza trainante dei settori culturali e creativi per la crescita: esiste, ad esempio, una netta relazione tra livello di concentrazione delle industrie creative (in termini di occupazione settoriale) e prosperità in termini di PIL pro capite. D’altra parte, le specificità italiane nel sistema di interdipendenze produttive, se comprese e opportunamente valorizzate, potrebbero – sostengono i fautori del rapporto – costituire la base di un approccio nuovo, autoctono e fruttuoso all’evoluzione strategica della nostra economia.
Andiamo però con ordine. Nel rapporto si precisa, innanzitutto, cosa si intenda per sistema produttivo culturale (o più semplicemente industrie culturali): “quel complesso di attività economiche d’impresa che – partendo dalle basi di un capitale culturale riguardante non solo il patrimonio storico, artistico e architettonico, ma anche l’insieme di valori e significati che caratterizzano il nostro sistema socio-economico – arrivano a generare valore economico ed occupazionale, concorrendo al processo di creazione e valorizzazione culturale”.
Nel 2011 il valore aggiunto prodotto dalle industrie culturali italiane ammonta a quasi 76 miliardi di euro, pari al 5,4% della ricchezza totale dell’economia (percentuale in leggera crescita se confrontata con il 5,3% relativo al 2007, anno appena precedente alla crisi). Le risorse umane impegnate nelle imprese culturali sono pari a circa 1 milione e 390 mila persone, corrispondenti al 5,6% del totale degli occupati del Paese (in incremento di tre decimi di punto sul 5,3% stimato con riferimento al 2007).
Nel quadriennio 2007-2011 la crescita nominale del valore aggiunto delle imprese operanti nel settore della cultura è stata dello 0,9% annuo, più del doppio rispetto all’economia italiana nel suo complesso (+0,4% annuo). Parallelamente si registra una particolare tenuta occupazionale dell’industria culturale, nonostante la crisi: nel medesimo periodo, il numero di occupati è cresciuto a un ritmo medio annuo dello 0,8%, a fronte di una flessione dello 0,4% riscontrata per l’intera economia nazionale.
Nel 2011 in Italia il saldo della bilancia commerciale del sistema produttivo culturale ha registrato un attivo per 20,3 miliardi di euro (contro i -24,6 miliardi registrati a livello di economia complessiva), contribuendo alla ripresa, seppur contenuta, del PIL tra il 2010 e la prima parte del 2011. L’export di cultura vale oltre 38 miliardi di euro e costituisce il 10% dell’export complessivo nazionale. L’import è pari a 17,8 miliardi di euro e rappresenta il 4,4% del totale.
La ricerca non limita il proprio campo d’osservazione ai settori tradizionali della cultura e dei beni storico-artistici, al contrario considera l’importanza di cultura e creatività nel complesso delle attività economiche italiane, nei centri di ricerca delle grandi industrie, nelle botteghe artigiane, negli studi professionali. Quattro sono i macro settori che si è scelto di analizzare: industrie culturali (film, video, videogiochi e software, musica, stampa), industrie creative (architettura, comunicazione e branding, artigianato, design), patrimonio storico-artistico architettonico e, infine, performing art e arti visive.
A vantare le maggiori percentuali di crescita media annua, nel periodo 2007-2011, sono le performing arts e le arti visive (+1,3% in termini di persone occupate e +3,6% per quanto riguarda il valore aggiunto), buona anche la dinamica registrata dalle industrie creative, con riferimento al valore aggiunto (+1,7%). Subisce, invece, un forte declino il patrimonio storico-artistico, diminuendo di 9,4 punti percentuali il proprio peso in termini di valore aggiunto e di 1,1 punti con riferimento al numero di occupati.
In termini assoluti sono le industrie creative e quelle culturali a contribuire maggiormente – secondo gli ultimi dati disponibili, quelli riferiti al 2011 – allo sviluppo economico e occupazionale: le prime producono valore aggiunto per quasi 35 miliardi e 716 milioni di euro, pari al 47,1% dell’intero comparto cultura, e danno occupazione a più di 743 mila persone, pari al 53,5%; le seconde incidono per il 46,5% sul valore aggiunto creato (pari a 35 miliardi e 273 milioni di euro) e per il 39,1% sull’occupazione (543 mila impiegati). Quota molto più contenuta, invece, per le performing arts e arti visive (5% del valore aggiunto, pari a 3 miliardi e 755 milioni di euro, e 5,9% dell’occupazione, pari a 82 mila unità) e, soprattutto, per le attività private collegate al patrimonio storico-artistico (1,4% del valore aggiunto, cioè 1 miliardo e 61 milioni di euro, e 1,5% dell’occupazione, cioè 21 mila persone).
Da un punto di vista geografico, nel Nord-Ovest si concentra la quota più consistente di prodotto e di occupazione nel Paese, pari a più di un terzo (rispettivamente 35%, pari a 26 miliardi e 543 milioni di euro, e 31,5%, pari a 438 mila occupati) del totale, soprattutto grazie al ruolo esercitato dalla regione Lombardia. Guardando, tuttavia, alla capacità del sistema culturale di incidere sull’economia del territorio, è il Centro la ripartizione che manifesta la percentuale più elevata (6,1% in termini di valore aggiunto, pari a poco più di 19 miliardi e 29 milioni di euro, e 6,3% per gli occupati, pari a 337 mila unità). Seguono il Nord-Ovest, appunto, che dal settore crea il 5,9% della propria ricchezza, il Nord-Est, che da esso vede arrivare il 5,5% del valore aggiunto, e il Mezzogiorno con appena il 3,8%.
Tra le regioni, in testa alla classifica per incidenza del valore aggiunto della cultura sul totale dell’economia vi è il Lazio (6,8%) seguito a stretto giro da Marche, Veneto e Lombardia (tutte e tre attestate a quota 6,3%), quindi dal Piemonte (5,8%).
Considerando, invece, l’incidenza dell’occupazione delle industrie culturali sul totale dell’economia, risulta in testa il Veneto (7%), seguito dalle Marche (6,9%), dal Friuli Venezia Giulia (6,4%), dal Lazio e dalla Toscana (entrambe al 6,3%).
Sia con riferimento al valore aggiunto sia per quanto riguarda gli occupati, le ultime tre posizioni, per contributo del sistema produttivo culturale all’economia del territorio, sono occupate dalla Calabria (3,5% valore aggiunto, 4,1% occupazione), dalla Sicilia (3,2% valore aggiunto, 4% occupazione) e dalla Liguria (3,3% valore aggiunto, 4,1% occupazione).?
Per quanto riguarda i dati provinciali, la graduatoria nazionale pone Arezzo al primo posto, sia con riferimento al valore aggiunto sia per quanto concerne gli occupati del settore cultura (rispettivamente 8,4% e 9,8% del totale dell’economia aretina). Con riferimento al primo parametro, seconde classificate, a pari merito, sono le province di Pordenone e Milano (entrambe all’8%), seguite da un altro ex equo, Pesaro e Urbino e Vicenza (7,9%). Forte l’incidenza del valore aggiunto della cultura anche a Roma (7,6%), Treviso (7,5%), Macerata e Pisa (entrambe al 6,9%) e Verona (6,8%). Nelle ultime posizioni, oltre a province del Sud quali Sassari, Caltanissetta e Taranto, si collocano anche le province toscane di Massa-Carrara e Livorno e la provincia ligure di La Spezia. ?Per quanto concerne, invece, il peso a livello occupazionale del comparto cultura sul totale dell’economia, subito dopo Arezzo troviamo Pesaro e Urbino (9,5%), Vicenza (9,1%), Pordenone (8,6%) e Treviso (8,5%), Pisa (7,9%), Milano (7,8%), Macerata (7,7%), Firenze (7,6%), Monza e Brianza (7,4%).
I dati finora riportati si riferiscono alle attività più prettamente imprenditoriali collegabili alla cultura. Tuttavia il sistema produttivo culturale implica anche una componente di origine pubblica, legata soprattutto alla gestione e alla tutela del patrimonio, nonché un’anima non profit. Aggiungendo il contributo di queste due ulteriori “anime”, il sistema produttivo culturale nel suo complesso arriva a oltre 80 miliardi di valore aggiunto e più di 1,48 milioni di occupati. Aumenta di conseguenza anche l’incidenza del settore culturale sul totale dell’economia: dal 5,4% al 5,7% per quanto riguarda il valore aggiunto, e dal 5,6% a 6% con riferimento all’occupazione.
Al di là della componente pubblica e di quella nonprofit, l’industria culturale italiana si inserisce in una filiera ben più ampia riguardante settori che non svolgono attività culturale, ma che sono attivati proprio dalla cultura. Una filiera articolata e diversificata, della quale fanno parte: attività formative, produzioni agricole tipiche, attività del commercio al dettaglio collegate alle produzioni dell’industria culturale, turismo, trasporti, attività edilizie, attività quali la ricerca e lo sviluppo sperimentale nel campo delle scienze sociali e umanistiche.
Se si considera, allora, l’incidenza dell’intera filiera delle industrie culturali, il valore aggiunto prodotto cresce dal 5,7% (riguardante il nucleo delle attività pubbliche, private e nonprofit) al 15% del totale dell’economia nazionale, passando da 80,8 a 211,5 miliardi di euro. Aumenta parallelamente di tre volte il peso della cultura sull’occupazione, passando dal 6% al 18,1%, con un numero di occupati che da 1,48 milioni (sempre considerando imprese, istituzioni pubbliche e nonprofit) arriva a 4,48 milioni di unità.

La forte intersettorialità dell’industria culturale esige, dunque, di adottare una logica di networking capace di affrontare le nuove sfide poste da un contesto sempre più globale. I dati esposti smentiscono – rilevano infine i promotori – chi descrive la cultura “come un settore non strategico e rivolto al passato”, imponendo di considerare piuttosto questo settore come “una delle leve per ridare ossigeno ad un Paese messo a dura prova dalla perdurante crisi”.

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