Blogger made in Italy: quando un’opinione diventa una risorsa aziendale

Imageware indaga la blogosfera tricolore e delinea i contorni di un mondo eterogeno, fatto di personalità e professionalità sempre più influenti, capaci di indirizzare il gusto dei consumatori. Nel rapportarsi ad esse le imprese devono imparare a comprenderne le specificità, costruendo comunicazioni mirate

Degli interlocutori sempre più influenti, votati all’indipendenza d’opinione e interessati a stringere relazioni solide, floride e personalizzate con le aziende. È questa la fotografia essenziale scattata dall’Osservatorio Imageware sui blog italiani, attraverso un questionario online di 15 domande, somministrato ai principali blog italiani (individuati in base al numero di utenti unici o alla qualità dei contenuti) nei primi mesi del 2013. A rispondere sono stati in 125 su 325 invitati.
I promotori dell’indagine si sono innanzitutto prodigati nel mappare la blogosfera tricolore: i temi maggiormente trattati sono la moda (in 63 tra i rispondenti, pari al 50,4%) e il lifestyle (29, pari al 23,2%), seguiti da tecnologia (23, cioè 18,4%), food & wine (16, 12,8%), bellezza & salute (15, 12%), interior design (12, 9,6%), ambiente (8, 6,4%), automobilismo (5, 4%) ed energia (2, 1,6%). In molti, tuttavia, ritengono che la propria attività non possa ricondursi a nessuna di queste categorie, perché il proprio blog tratta argomenti assai diversi tra loro oppure perché l’argomento trattato è alquanto particolare.
Si è poi cercato di comprendere il modo in cui gli intervistati considerano il proprio ruolo, la percezione che essi hanno della propria attività virtuale. La maggior parte (ben 94 appartenenti al campione, pari al 75,2%) si definisce un “blogger”, in 14 “giornalisti” (su 27 giornalisti che complessivamente compongono il campione), pari all’11,2% (appartenenti per la maggior parte alla categoria del food & wine), in 3 (2,4%) “opinionisti”. Quest’ultima definizione, seppur adottata da un numero limitato di rispondenti, evidenzia un aspetto molto importante dell’attività di chi gestisce una vetrina virtuale, l’offrire, cioè, opinioni su particolari argomenti. Altro fulcro di tale attività è la condivisione delle conoscenze, alla base di alcune definizione libere offerte dai rispondenti (“Sono una persona che lavora e condivide le conoscenze del suo lavoro con altri”). A completare la rosa delle diverse anime che dimorano nei blog italiani, vi sono quanti si vedono come semplici “appassionati”, “pseudo blogger”, “amanti”, “specialisti” e “mediattivisti”. Non un approccio unico, non un ruolo definito e inquadrabile, dunque, ma una pluralità di espressioni che impongono di essere approfondite singolarmente.
Con riferimento alle fonti d’informazione utilizzate, emerge come la maggioranza dei rispondenti trovi spunto, per i propri post, dall’esperienza e dai pensieri personali (84%), palesando una certa vocazione all’indipendenza. Alcuni, in particolare, raccolgono idee nel corso della propria attività lavorativa, grazie all’interazione con i protagonisti del settore che occupano. Anche la ricerca su Internet sembra avere un ruolo di primo piano (62,4%), soprattutto per chi si occupa di tecnologia, così come i comunicati stampa e i prodotti inviati dalle aziende o dalle agenzie (53,6%, percentuale che quasi si annulla se si considerano i soli rispondenti che si occupano di food & wine); nel 40,8% dei casi, invece, l’ispirazione per la trattazione proviene da comunicati stampa e prodotti ricercati personalmente . Altre fonti sono poi i libri o gli articoli (42,4%), gli eventi organizzati specificamente per i blogger (33,6%), i post e le conversazioni intercorse con i propri lettori (20,8%). Meno rilevante il contributo di televisione e radio (11%).
A spingere verso la creazione di un blog vi sono innanzitutto una forte passione e la volontà di esprimersi liberamente, per stimolare un confronto interattivo, una discussione o per condividere le proprie esperienze e i propri pareri, fornendo magari informazioni approfondite, difficilmente recuperabili in altro modo in rete. C’è anche chi considera il blog semplicemente un hobby, avendo iniziato il progetto quasi per gioco. Per contro alcuni vedono in simili attività l’opportunità di una crescita professionale.
Interrogati in merito al proprio ruolo, gli intervistati confermano l’importanza primaria attribuita al blog come mezzo per esprimersi (52%), per condividere esperienze e sentimenti personali (38,4%), per trattare le informazioni in maniera aperta e onesta (37,6%) e, in parte, provocare dibattiti (2,4%). Ben 27 sono giornalisti che utilizzano i nuovi media a integrazione della loro professione (21,6%) e non pochi sono gli imprenditori che sfruttano le piattaforme per fare business (17,6%) o marketing (16%).
La comunità dei blogger sembra essere piuttosto unita: l’88% degli intervistati segue altri blog, il 60,8% vi interviene con commenti, il 41,6% inserisce link di altri blog nel proprio (pratica in uso soprattutto tra gli esperti di food & wine). I blogger mantengono i contatti tra loro attraverso la rete (68,8%) e spesso anche personalmente (57,6%).
Quali sono, a questo punto, gli obiettivi di chi gestisce un blog? Sulla scia di quanto detto finora, il 73,6% del campione dichiara di avere come scopo la condivisione di informazioni, conoscenze e pensieri. Emerge, allo stesso tempo, una forte spinta professionale, soprattutto per chi scrive di bellezza e salute (e, in seconda battuta, per chi si occupa di tecnologia e lifestyle): il 60% cerca uno sviluppo professionale, il 36% vorrebbe diventare blogger a tempo pieno, il 30,4% guadagnare denaro. Sono i successi stessi della propria vetrina che spingono verso simili ambizioni, laddove un progetto nato spesso solo come hobby finisce per trasformarsi in una professione vera e propria.
Come guadagnano i blogger italiani? Al di là delle soddisfazioni personali e dei riscontri positivi di pubblico, quali vantaggi materiali si possono ottenere dall’offrire agli altri le proprie conoscenze e il proprio punto di vista? Poco più della metà del campione (51,2%) dichiara di guadagnare attraverso la propria attività di blogger, contro il restante 48,8% che non percepisce alcun privilegio economico. Non stupisce poi il fatto che la pubblicità rappresenti la fonte principale di guadagno (65,1%); molto importanti sono però anche i prodotti ricevuti in regalo (42,9%, destinati principalmente a chi tratta moda, lifestyle, bellezza e tecnologia) e i link inseriti nel proprio sito (31,7% dei blogger viene pagato per questi, soprattutto tra chi si occupa di moda e lifestyle). L’11,1% guadagna attraverso Google marketing e solo il 9,5% riceve un compenso. Il 27% è invitato a eventi e presentazioni (da tale pratica sembrano essere esclusi quanti si occupano di interior design, ambiente ed energia) e al 14% vengono rimborsate le spese di viaggio.
C’è infine chi guadagna indirettamente, grazie alle consulenze offerte alle aziende o ai privati.
Oltre il 91% dei blogger dichiara di essere in contatto con aziende o agenzie che informano o inviano loro prodotti utili alla stesura dei propri post. Tali contatti sembrano essere piuttosto costanti, soprattutto per chi si occupa di moda e tecnologia: la maggioranza del campione (41,9%) riceve quotidianamente email, telefonate o visite da rappresentanti di queste aziende o agenzie e il 28,6% più volte in una settimana. Solo il 19% intrattiene invece contatti saltuari (una volta o meno al mese).
Come avviene il contatto tra blogger e aziende? La maggior parte di queste ultime invia inviti per eventi (78,1%, a cui si aggiunge un 57,1% di aziende che inviano inviti ad eventi dedicati specificatamente ai blogger), informazioni o materiali di marketing (76,2%), prodotti da testare, verificare, assaggiare o commentare (70,5%, soprattutto indirizzati a chi si occupa di vino, tecnologia, bellezza e salute). Il 68,6% dei blogger riceve in anticipo notizie su prodotti in arrivo sul mercato ed è di conseguenza chiamato a dare il proprio parere su di essi, in vista del lancio ufficiale.
Quale legame si crea tra penne del web e aziende? Anche in questo caso a prevalere è un certo spirito di indipendenza, dato che l’81,9% del campione dichiara di mantenere una grande libertà di scelta e di opinione sui contenuti trattati e nessuno afferma di sentirsi obbligato a scrivere una volta invitato a un evento o ricevuta un’informazione. L’attitudine dei blogger verso le aziende è comunque positiva, se si considera che ben il 48,3% di essi ritiene sia un bene mantenere rapporti con queste realtà e il 39,7% desidera ricevere maggiori contatti e informazioni. Solo il 6,9% afferma di avere molti dubbi riguardo alle informazioni che riceve dalle aziende e solo 2 blogger preferiscono non essere contattati. Emergono tuttavia anche alcune criticità nel rapporto con le aziende, che riguardano primariamente la ricerca di pubblicità a costo zero o l’inutilità di alcune informazioni fornite da queste; a ciò si aggiunge un 13,8% del campione che sostiene di ricevere troppo materiale, auspicando una maggiore selezione alla base degli invii. Sono, in particolare, i blogger del food & wine i meno propensi ai contatti con le aziende.
Malgrado il 78,5% del campione creda che i blog abbiano una credibilità maggiore o uguale ai media tradizionali, l’11,3% afferma che oggi è ancora la stampa tradizionale il mezzo più credibile. Interrogati sul futuro della blogosfera, la maggior parte dei partecipanti al sondaggio (68,1%) sostiene che molto dipenderà dalla serietà e professionalità di chi gestisce questi spazi digitali. Per il 55,2% i blog manterranno un ruolo diverso e alternativo ai media tradizionali e per il 33,6% essi aumenteranno la loro popolarità e credibilità (contro un misero 2,6% che ritiene che tale credibilità, al contrario, diminuirà).
Per le aziende riuscire ad avere visibilità nei blog sembra essere oggi sempre più importante. Si tratta di una sfida piuttosto complessa, che impone di dare priorità alle relazioni su ogni altra cosa. Per ottenere una menzione, una recensione e la sperata attenzione è necessario riuscire a mantenere nel tempo buoni rapporti e comprendere la logica del blog cui ci si rivolge, attraverso messaggi mirati. Abbandonare l’abitudine alla standardizzazione e abbracciare la logica della condivisione: questo dovrebbe essere l’imperativo per quanti si prodigano a trovare uno spazio per la propria azienda nella blogosfera. Il feedback che deriva da questi spazi virtuali è da molti ritenuto più potente e duraturo rispetto a quello della mera pubblicità, ciò in primis per la credibilità e il seguito che il blogger notoriamente detiene tra i suoi lettori. Chi nelle imprese si occupa delle relazioni con i media deve prestare particolare attenzione ad ogni singola piattaforma cui si indirizza, selezionare solo quelle che sembrano poter trarre beneficio dalla comunicazione che si intende inviare, in modo da non incorrere nel pericolo di venire considerati banale rumore di fondo, fastidioso, inutile e per questo scartato. Allo stesso tempo non ci si deve dimenticare nemmeno dei blogger meno popolari, soprattutto perché la rete della blogosfera appare piuttosto fitta, fatta spesso di menzioni e link tra una vetrina e l’altra. Conoscere, quindi, in modo approfondito l’universo cui si intende rivolgere la propria comunicazione aziendale è una premessa assolutamente imprescindibile. A differenza di altri professionisti mediatici, i blogger trattano solitamente solo argomenti che riguardano loro da vicino e per i quali hanno un forte interesse: le risposte fornite a Imageware rendono chiaro quanto la loro attività non possa essere orientata e piegata a logiche prettamente commerciali e quanto dietro ogni penna virtuale vi sia una forte personalità o professionalità, che è stata capace di guadagnarsi il rispetto del pubblico.
I blogger hanno contribuito a cambiare radicalmente le pratiche di ricerca delle informazioni degli utenti, rivelando l’importanza crescente attribuita da questi ultimi all’opinione degli altri utenti piuttosto che alla carta patinata della pubblicità. I blog sono in grado di orientare il gusto e dunque la propensione all’acquisto dei propri lettori, grazie all’arma della condivisione e del commento libero da condizionamenti. La raccomandazione di un blogger può essere considerata alla stregua di quella di un amico, dato che egli è in grado di raccogliere attorno a sé una folta schiera di fedelissimi, che lo seguono costantemente. Solo aggrappandosi a simili consapevolezze le aziende potranno costruire solide e floride relazioni con il mondo dei blog e, di conseguenza, con gli internauti-consumatori ad esso legati.
Pubblicato su: PMI-dome
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Tra crisi e nuove opportunità digitali, muta il volto del libro in Italia

Il Salone di Torino ha fornito la sede ideale per approfondire le più recenti tendenze del mercato editoriale tricolore: il segmento bambini e ragazzi salva le vendite, crescono il ruolo dell’online e la presenza nei social, seppur in modo non costante

Grande successo di pubblico per il 26° Salone Internazionale del Libro di Torino, chiusosi lo scorso lunedì 20 maggio 2013 con un +4% di ingressi rispetto al 2012. Stima che si pone in controtendenza rispetto alla dinamica del consumo di libri in Italia e alla congiuntura negativa che sembra non voler abbandonare il settore editoriale.
L’appuntamento si è posto, allora, come sede privilegiata per un’approfondita riflessione circa le più recenti tendenze di questo mercato. I dati diffusi per l’occasione dall’Associazione Italiana Editori sulla base delle stime realizzate da Nielsen, mostrano la centralità del segmento bambini e ragazzi per la sopravvivenza del libro in Italia, in un periodo storico segnato da non poche avversità, in primis dal netto calo dei lettori.
Il 2012 chiude con un -7,8% sulle vendite a valore (pari ad un fatturato di 1.320.538.000 euro, contro 1.432.506.000 euro nel 2011) e un -7% sulle vendite a copie (corrispondente a 101.536.000 copie libri vendute, contro le 109.121.000 del 2011) nei canali trade (dunque sulle librerie di catena, su quelle indipendenti, sugli store online, sulla Gdo, esclusi tutti i vari canali alternativi, come cartolerie, uffici postali, negozi specializzati in articoli per bambini, collezionabili per bambini venduti in edicola…).
A risentire meno della crisi nel 2012 è stato il settore della fiction (-3,6% a valore e -2% a volume), seguito appunto dall’editoria per ragazzi (-6,2% a valore e -5% a volume), mentre ha continuato a soffrire la non fiction.
Calando il focus sui primi quattro mesi del 2013, si evidenzia come, nel canale trade, siano state vendute 27.816.000 copie libri, poco meno rispetto alle 28.015.000 copie dello stesso periodo 2012 (-0,7%). Ben più significativo il calo registrato nelle vendite a valore (-4,4%), che passano dai 361.955.000 euro del 2012 ai 346.024.000 euro in questo primo quadrimestre 2013. Sembra diminuire, dunque, il giro d’affari, mentre resta sostanzialmente stabile il numero di copie vendute. Ciò è dovuto all’aumento del peso dei paperback (costituiscono il 17% del totale, contro il 7% dello scorso anno) e alla diminuzione dei prezzi dei libri, in risposta ad un cliente che si orienta sempre più nella fascia più bassa di prezzo al momento dell’acquisto di nuovi titoli. Cala, in altri termini, il potere di spesa del lettore italiano.
Svanisce, allora, del tutto l’illusione di un mercato immune alla difficile situazione economica generale: se all’inizio della crisi esso sembrava resistere malgrado tutto, con tassi di crescita attorno all’1-2 punti percentuali, a partire dal 2011 si è assistito ad un’inversione di tendenza, con un’intera filiera – dalla stampa alla distribuzione alle librerie – che ha cominciato ad accusare i colpi del cambiamento. Sono mutate le percezioni del pricing, del valore dei marchi e della funzione stessa dell’editoria. Si è sviluppato il self-printing, sono cresciuti il commercio on-line e il mercato degli ebook (oggi, in poco più di due anni, il 46% delle novità del mese sono in digitale), si è potenziato il ruolo dei blog letterari e dei canali social nella comunicazione editoriale. Le difficoltà economiche hanno imposto un’intensa accelerazione delle trasformazioni in atto nel complesso dell’ecosistema editoriale, fatto da poco più di 25-26 milioni di clienti potenziali, di cui 22-23 milioni acquirenti.
Per quanto riguarda i canali di vendita, sembra crescere, nel primo quadrimestre 2013, il ruolo dell’online, che arriva ad occupare il 6,3% del fatturato (contro il 5,5% del 2012) e il 4,6% delle vendite a volume (contro il 4,3% dell’anno scorso). Dalle rilevazioni è rimasto, tuttavia, escluso un colosso come Amazon (che non fornisce i propri dati) e ciò lascia ipotizzare che la percentuale di fatturato complessivamente realizzata dal digitale possa essere, in realtà, molto più vicina al 10% del totale. Il primo posto in cui si comprano i libri sono comunque le librerie di catena, che passano da una quota di mercato del 41,5% nel 2012 a una del 42,2% nel 2013 (mentre resta stabile, flettendosi leggermente, la percentuale di vendita a volume, dal 41% al 40,8%). La grande distribuzione organizzata cresce in termini di copie acquistate (dal 22,2% al 24%) e resta sostanzialmente stabile a valore (dal 16% al 15,8%). Soffrono, invece, notevolmente le librerie indipendenti, che riducono ulteriormente la propria quota di mercato a valore (dal 37,1% del 2012 al 35,6% di quest’anno) e a volume (dal 32,5% al 30,5%).
Con riferimento ai settori, in questo primo scorcio del 2013, l’unico positivo sembra essere quello dei bambini e ragazzi (+4% a valore nei canali trade, +6% a volume). Le giovani famiglie sembrano investire sul futuro dei propri figli, spendendo sempre più per i libri a loro destinati, ed è in particolare la fascia dei più piccoli, quella da zero a cinque anni, a trainare la crescita del segmento. Perde invece il 10,7% a valore e l’11,1% a volume la non fiction pratica (guide cucina, viaggi, lifestyle…). Cala dell’ 8,7% a valore e dell’8,4% a volume anche la non fiction specialistica (testi di management, computer, professionale…). Più contenuta, invece, la riduzione delle vendite per la fiction (-3,7% a valore e -3,2% a volume) e per la non fiction generale (la saggistica, che registra un  -1,9% di fatturato e un -1,2% di copie vendute).
All’interno di un quadro certamente negativo” – ha commentato il Presidente di AIE Marco Polillo, nell’ambito del convegno torinese “Scene di paesaggio all’uscita dal tunnel. Editori e canali di vendita con lo sguardo puntato al di là della crisi” – “aggrappiamoci al dato in controtendenza che ci arriva dal settore dei libri per ragazzi”. “Ci auguriamo che questi nuovi ‘lettori’, che si avvicinano al libro fin dalla tenera età, riescano a mantenere quel rapporto anche per gli anni a venire, invertendo quell’avvilente dato che contraddistingue il nostro Paese, che vede ancora più della metà della popolazione totalmente estranea al libro”.
Al Salone del Libro si è cercato anche di comprendere come sia cambiata la comunicazione per le case editrici librarie, presentando i risultati di un’indagine condotta dall’Ufficio studi dell’AIE, in collaborazione con IE-Informazioni Editoriali, nel periodo che va da settembre 2012 a marzo 2013, sui 13 più noti blog letterari in Italia, selezionati in base a criteri di rappresentatività e notorietà. Ciò che è emerso è, in particolare, l’importanza crescente dei blog virtuali nel garantire una sorta di coda lunga in termini di visibilità, apprezzamento e vendite. I blog rappresentano una nuova piazza per gli editori: quasi il 3% dei titoli pubblicati in Italia è presente sui post analizzati (sono stati considerati solo i post in cui si parla in maniera estensiva di un singolo libro, escludendo quelli in cui i titoli vengono solo brevemente citati), il 39,1% dei quali rappresentano opere dei piccoli editori. In base all’analisi di alcuni casi specifici, il report mostra come il parlare di un libro in una simile vetrina digitale sposti al rialzo le vendite reali, soprattutto quando il titolo di cui si parla rientra nei gusti del pubblico cui fa riferimento la vetrina. Si tratta di cifre molto lievi, nell’ordine delle decine o centinaia di copie, ma che permettono comunque di delineare una tendenza percorribile nei prossimi anni.
Se il Web rappresenta una sede privilegiata per la comunicazione di un titolo nel suo intero ciclo di vita, la televisione sembra essere la sede ideale per garantire un più intenso “effetto lancio”. Programmi come “Che tempo che fa” risultano molto utili nell’ottimizzare la fase di lancio di un libro, anche se il loro forte effetto sulle vendite si indebolisce in circa una settimana. Questa politica comunicativa coinvolge solo lo 0,1% dei libri, per l’88% di grandi editori.
L’indagine mostra – come ha sottolineato Giovanni Peresson, Responsabile Ufficio studi AIE – “la consapevolezza diffusa da parte delle case editrici del ruolo che iniziano ad avere forme di comunicazione legate al web e quindi la creazione di competenze necessarie a gestire questo processo dal punto di vista dei linguaggi, dei tempi, della community”. “L’uso di una trasmissione di successo come ‘Che tempo che fa’ in fase di lancio, con risultati importanti, e dei blog come modo per gestire le altre parti del ciclo di vita del titolo con effetti minori ma di tutto interesse” rappresentano “altri tasti di un pianoforte comunicativo a disposizione dell’editore che li può suonare a seconda dei titoli o generi, o in relazione alla vita del libro”.
Ultimo spiraglio torinese aperto sul futuro dell’editoria italiano ha riguardato il mondo dei social network. L’Ufficio studi AIE ha mostrato anche come l’uso di simili piattaforme sia sempre più ampio, fornendo una sede di grande visibilità per i libri.
Cresce la percentuale di quanti scelgono un determinato titolo da acquistare attraverso il Web: era l’11% nel 2007, il 15% nel 2009 e arriva al 19% nel 2012 (contro il 68% di chi lo sceglie in base all’interesse per l’argomento, il 36% che si affida ai consigli degli amici, il 15% che punta a sconti o campagne promozionali, il 12% che fa riferimento a recensioni trovate sulla carta stampata, il 5% che si lascia guidare dall’esposizione nel punto vendita, un ulteriore 5% che va a vedere le classifiche di vendita, infine un 3% che è spinto dalla semplice pubblicità).
Il 58,9% delle case editrici che pubblicano più di 16 titoli l’anno usa i social, pari a 506 su 8440 editori. In primis utilizzano Facebook (circa la metà di tutti gli editori italiani, ma ben l’84,2% di chi è attivo in rete con un proprio canale), seguito da Twitter (il 39,3% degli editori, ma ben il 66,8% di quelli attivi in rete), YouTube (18,8% e 31,9%), Pinterest (12,6% e 21,1%), aNobii (7,7% e 13,1%), LinkedIn (7,3% e 12,4%), Google+ (4,5% e 7,7%), Flickr (1,6% e 2,7%) e Instagram (0,6% e 1%). Il 41,8% delle case editrici attive in rete usa più di tre strumenti simultanemente.
L’attenzione crescente verso questi mezzi multimediali evidenzia un mutamento nelle politiche comunicative degli editori, laddove alle copertine dei libri da sfogliare si va sostituendo un mix di video, booktrailer e immagini per catturare l’attenzione. Questo risulta vero tanto per le case editrici grandi, mainstream, quanto per le più piccole, specializzate su nicchie di domanda di lettura.
A fronte di un’ampia diffusione delle nuove tecnologie, non corrisponde tuttavia una costanza e intensità nell’utilizzo, se si considera che il 90% degli editori che usano Twitter non crea più di 5 tweet al giorno. Solo il 2,5% crea 10 o più tweet giornalieri, solo il 2,5% totalizza più di 90mila followers e solo il 3,5% più di 1.000 following. È dal 2007 che le case editrici italiane si sono avventurate su Twitter. La prima a farlo è stata la Elliot, seguita, l’anno successivo, da Apogeo, Edizioni Piemme, Minimum fax, Edizioni Coocole&Caccole. Nel 2012 se ne sono aggiunte ben 53, segnando un +11,3% sul 2011. Complessivamente sono 199 le aziende editoriali che cinguettano.
I tre mesi che precedono il Natale sembrano essere i preferiti dagli editori per attivare un profilo Twitter, dato che uno su tre (il 33,8%) sceglie proprio questo periodo, forse sulla scia di precisi piani commerciali, in vista di uno dei momenti più caldi a livello di vendite.
Si intravede, sottolineano in conclusione i promotori, la necessità di compiere investimenti in nuove competenze, linguaggi e paradigmi, capaci di cogliere l’essenza delle nuove forme comunicative che si stanno diffondendo accanto a quelle tradizionali. Allo stesso tempo il ritardo degli editori italiani, lamentato dai più con riferimento alla sfida digitale e social, viene giustificato con l’esigenza di seguire le tendenze del pubblico di riferimento: “Credo che” – ha sottolineato Peresson – “come qualunque impresa, gli editori non possono non aver tenuto conto di due elementi: i bassi indici di lettura nella popolazione, e il fatto che i ‘forti lettori’, quelli più motivati ad accedere a nuove fonti informative su cosa leggere, sono comunque il 12-13% dei lettori di libri. Dall’altro, il fatto, che abbiamo ancora scarsi (o occasionali) utilizzi ‘evoluti’ del web da parte della popolazione, al di fuori di community o di appassionati molto riconoscibili attorno ad alcuni generi”.
Pubblicato su: PMI-dome

Testate tricolori e social media: ancora poca interazione

Ben 11,5 milioni di interazioni su Facebook e Twitter indagate da Blogmeter allo scopo di comprendere il modo in cui i principali quotidiani italiani gestiscono i social media. Poco sfruttate le foto e gli altri mezzi ad alta capacità virale

Quello del giornalismo in tempo di Web 2.0 è un tema destinato a suscitare un dibattito piuttosto acceso, sul quale, alle opinioni discordanti, si aggiunge la difficoltà nel comprendere una situazione in continuo divenire. Si moltiplicano le competenze richieste alle nuove leve, si diversificano i mezzi, si perdono, allo stesso tempo, alcune originali convenzioni, la passione si trasforma, a volte, in copiaincolla e sfruttamento, i ritmi si plasmano su una notizia dalla vita sempre più breve. Le informazioni si preparano a viaggiare lungo canali molto distanti tra loro, la cui integrazione, seppur auspicabile, non sembra essere così semplice. Qual è, allora, la risposta delle principali testate all’avvento delle nuove dinamiche sociali della rete? Come si relazionano i quotidiani italiani alla massa di potenziali lettori che ha ormai da tempo invaso i diversi social media? A simili interrogativi ha provato a offrire una risposta BlogMeter, attraverso un’indagine presentata lo scorso 25 aprile, nel corso del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia (dal 24 al 28 aprile 2013), da Vincenzo Cosenza, social media strategist di BlogMeter. A commentare i risultati della ricerca, sono intervenuti anche Peter Gomez (ilfattoquotidiano.it), Raffaela Menichini (repubblica.it), Marta Serafini (corriere.it) e Daniele Bellasio (social media editor de ilsole24ore.com).
Sfruttando lo strumento di analisi Social Analytics, sono state messe a fuoco 11,5 milioni di interazioni nei primi tre mesi del 2013, sviluppate da 56 pagine Facebook e 38 account Twitter delle maggiori testate giornalistiche italiane, allo scopo di rilevare le performance sul lato social dell’intero settore e di individuare le principali pratiche di gestione.
Si è partiti dall’analisi della piattaforma leader, Facebook: il numero di fan rappresenta solo il punto di partenza per una strategia di presenza efficace, tuttavia esso ci offre un’importante stima circa l’ampiezza della community di riferimento. In base a questa tradizionale metrica, le pagine analizzate possono essere raggruppate in tre gruppi: vi sono cinque pagine che superano i 700 mila fan, tra le quali in cima troviamo la testata all digital Fanpage.it, con oltre 1,4 milioni di fan, pari a oltre 300 mila fan in più rispetto alla seconda classificata, La Repubblica (1.140.234 fan); al terzo posto Il Fatto Quotidiano (897.236), seguito da La Gazzetta dello Sport (857.484) e dal Corriere della Sera (778.034). Al secondo gruppo appartengono le nove pagine che arrivano alla soglia dei 300 mila fan, il terzo raggruppa tutte le altre pagine che si posizionano al di sotto dei 100 mila fan.
Si è passati poi ad indagare il livello di engagement sviluppato da ciascuna pagina, che rappresenta in sostanza la sfida maggiore per ciascun operatore presente nel network. Il total engagement è dato dalla somma dei like, dei commenti, delle condivisioni e dei post spontanei pubblicati dai fan in bacheca. Posizione leader da questo punto di vista spetta a La Repubblica, con quasi 5 milioni di interazioni (4.902.110), seguita da Il Fatto Quotidiano (2.002.230) e da Fanpage.it (1.827.173). Quest’ultima sale al secondo posto se si considera la sola capacità di stimolare le condivisioni, mentre Libero eccelle nel rapporto tra engagement e fan (il cosiddetto Page engagement), riuscendo a sviluppare 186 interazioni per ogni 1000 fan. A sorpresa il quarto posto della classifica del total engagement è occupato dalla free press, con ben 1.523.645 interazioni di Leggo, testata che raggiunge la medaglia di bronzo se si considerano i soli like o i soli commenti.
Altro dato interessante è il livello di engagement per post, cioè la capacità dei contenuti di essere apprezzati e di generare interazioni, viralità. La media del settore si aggira intorno alle 78 interazioni per post, tuttavia La Repubblica distanzia di molto gli altri, ricevendo in media 1.124 interazioni per ogni post; seguono Il Fatto Quotidiano (574 interazioni per post), Il Giornale (316,4), Leggo (244,6) e La Gazzetta dello Sport (190).
Considerando qualitativamente i contenuti, ci si accorge di come le testate tendano a postare principalmente link per rilanciare le notizie e portare dunque traffico al proprio sito web. Meno utilizzate invece le foto e nessuno sembra utilizzare le funzionalità multimediali aggiuntive offerte da Facebook (come album, video o sondaggi). Il paradosso è che sono proprio le foto – com’è facilmente intuibile – il contenuto in grado di essere maggiormente virale; non a caso sono accompagnati da immagine i due post che hanno suscitato, nei tre mesi di indagine, il numero più elevato di interazioni: la prima, dalle file del Corriere della Sera, raffigura la salita al soglio pontificio di Bergoglio (23.392 like, 14.712 condivisioni e 1.215 commenti, per un totale di 39.319 interazioni), la seconda è la raffigurazione un po’ simbolica, apparsa sulla bacheca de La Repubblica, di un fulmine sulla cupola di S. Pietro nel giorno delle dimissioni di Papa Benedetto XVI (11.595 like, 19.743 condivisioni e 1.168 commenti, per un totale di 32.506 interazioni).
Le performance dei quotidiani su Facebook sono state poi riassunte in una “Engagement Map”, che mostra sull’asse delle ascisse il numero di fan, nell’asse delle ordinate il total engagement (like, commenti, share e post spontanei) e nell’ampiezza della bolla il numero di post scritti. Tale schema permette di individuare quattro quadranti: il primo in alto a destra è costituito dai “leaders”, cioè da coloro che hanno saputo raccogliere un gran numero di fan e un buon livello di engagement (La Repubblica, Il Fatto Quotidiano, Fanpage.it, seguiti da Corriere della Sera, La Gazzetta dello Sport e Leggo). Il secondo in basso a destra è rappresentato dai “fan collectors”, cioè dai giornali che sono riusciti a raccogliere un buon numero di fan, ma senza sfruttare la viralità del mezzo (L’Unità, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Tuttosport ). In alto a sinistra troviamo gli “engagers”, coloro che hanno ancora pochi fan, ma sono capaci di sviluppare un livello di engagement superiore alla media (Il Messaggero, Il Giornale, Libero, The Huffington Post), dunque con buone potenzialità di sviluppo nel prossimo futuro. La maggior parte delle testate si colloca nel quadrante in basso a sinistra, formato dai ritardatari in termini di fan e di coinvolgimento, i cosiddetti “laggards”.
La disanima si sposta poi su Twitter. Anche qui si parte con la classifica per numero di followers, sempre nella consapevolezza che questa metrica tradizionale, pur non essendo la più rilevante, permette di rilevare il bacino potenziale dell’audience. Al primo posto troviamo La Repubblica, con 787.126 follower, seguita da La Gazzatta dello Sport (728.587), Il Fatto Quotidiano (539.091), Corriere dello Sport (306.712) e Corriere della Sera (275.644).
A conoscere il tasso di crescita maggiore nel periodo analizzato sono La Repubblica, il Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport, con un range che va dai 900 ai 1200 followers nuovi al giorno, grazie agli investimenti pubblicitari e al fatto che gli account di tali testate rientrano tra quelli consigliati da Twitter agli utenti.
Il grado di affezione e awareness (in sostanza l’engagement) su Twitter può essere indagato attraverso il numero di mentions (retweet, reply e citazioni spontanee ricevute). Se La Repubblica e Il Fatto Quotidiano mantengono le posizioni viste nella classifica per followers, il Corriere della Sera guadagna la seconda posizione, La Stampa sale alla quarta e spuntano le testate online (Linkiesta, Il Post e Fanpage.it). Se si considerassero, tra le menzioni, solo i retweet comparirebbe, nella classifica dei top ten, anche Libero, a scapito de Il Giornale.
Per comprendere l’ampiezza effettiva dell’audience, sono stati stimati anche gli autori unici delle menzioni. Al primo posto per singoli utenti che hanno menzionato almeno una volta la testata si trova, anche in questo caso, La Repubblica (72.062 utenti), seguita da Corriere della Sera (49.438) e Il Fatto Quotidiano (39.119). Il confronto tra mention e unique authors permette di capire se si ha di fronte un pubblico ristretto che twitta molto o il contrario: La Stampa, ad esempio, che si collocava all’ottava posizione per followers, sale qui alla quarta posizione, ad indicare degli utenti molto attivi.
L’analisi passa poi a occuparsi dell’engagement sviluppato da ciascun tweet, dato dal rapporto tra menzioni dell’account e tweet prodotti dallo stesso, al fine di apprendere la capacità di ciascun tweet di stimolare retweet e reply, dunque di generare delle interazioni. La media del settore è di sole 3,5 reazioni per cinguettio e la testata che più delle altre riesce a sfruttare la viralità del mezzo è Il Fatto Quotidiano, con 18 reazioni per tweet, seguito da La Repubblica (15), Il Sole 24 Ore (11,2) e Corriere della Sera (8,6).
Un aspetto interessante da valutare su Twitter è l’utilizzo degli hashtag: La Gazzetta dello Sport è il quotidiano che più utilizza questo meccanismo (ricorre soprattutto a #calcio #news e #gds). Il Corriere del Mezzogiono usa spesso #Campania e #Puglia per etichettare le notizie a livello territoriale, Il Fatto Quotidiano #fattotv. Per contro gli utenti preferiscono, nelle interazioni con le testate, ricorrere ad hashtag che fanno riferimento ad eventi raccontati; ciò significa che se le testate riescono a seguire il flusso dell’interazione, possono incrementarne la portata inserendovisi con hashtag pensati proprio in relazione ad eventi particolari.
Ad aver suscitato il numero maggiore di menzioni sono un tweet de La Repubblica in cui vengono riportate le parole di De Gregorio che ammette di aver preso soldi da Berlusconi per fare cadere Prodi (584 retweet e 79 reply per un totale di 663 interazioni) e un tweet de Il Fatto Quotidiano sulla morte di Jannacci (516 retweet e 73 reply, per un totale di 589).
I risultati sono stati anche in questo caso raccolti in una “Engagement Map”, che allo stesso modo evidenzia nell’asse delle ascisse il numero di followers, in quello delle ordinate il numero di mentions e nell’ampiezza della sfera il numero di tweet pubblicati dalle testate. Il quadrante dei “leader” è popolato da La Repubblica, Corriere della Sera (che su Facebook era meno presente), Il Fatto Quotidiano, La Gazzetta dello Sport, La Stampa, Il Sole 24 Ore (ben più forte su Twitter) e Il Post; tra gli “engagers”, troviamo Linkiesta e Fanpage.it, mentre tra i “follower collectors” Il Giornale, Dagospia, Tuttosport e Corriere dello Sport.
Rispetto allo scorso anno si nota una maggiore attenzione delle testate tradizionali ai social media”, commenta Vincenzo Cosenza, “soprattutto a Facebook, che lo scorso anno risultava un po’ snobbato”. La strategia più evidente è quella di mero presidio dei social media: non si punta al coinvolgimento di fans e followers ma si cerca piuttosto di catturarli per indirizzarli al proprio sito web principale. Si tratta certo di un atteggiamento “figlio delle metriche di valutazione vigenti nel settore”, ma che non consente la fidelizzazione del cliente. Le tecniche tipiche delle piattaforme, le sue potenzialità sono, allora, scarsamente sfruttate (poco usare le foto, l’immagine di copertina viene cambiata solo raramente, non si interagisce nei commenti, non si lanciano materiali esclusivi). Su Twitter buona parte del coinvolgimento “viene demandato alla volontaria capacità dei giornalisti di interagire e portare acqua al molino della testata”. Non poca sembra, in conclusione, la strada che il settore informazione deve ancora percorrere per raggiungere un livello elevato di coinvolgimento e stimolo per il lettore attraverso le piattaforme social, ma non pochi sono i segnali che fanno presagire un possibile imminente sviluppo in tal senso.
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Resistere alla crisi e puntare sull’innovazione: l’editoria punta sui più piccoli

Leggono più della media italiana, soprattutto in età prescolare. Sono maggiormente alfabetizzati al mezzo digitale rispetto ai genitori, che invece continuano a preferire il libro di carta, per paura di perderne la magia, e lamentano la carenza di titoli in italiano tra gli e-book

L’ampia diffusione della Rete e dei diversi devices mobili ha imposto un processo di rinnovamento che ha coinvolto interi settori. Questa non è certo una novità. Il processo di digitalizzazione che ha riguardato, in particolare, l’editoria è stato oggetto di un vivace dibattito culturale che ancora oggi non può dirsi concluso e che ha schierato, da un lato, gli intramontabili avversari dell’e-book, convinti che nulla potrà mai scalfire il fascino sensibile della carta, e, dall’altro lato, i sostenitori dell’innovazione ad ogni costo, che fin da subito hanno profetizzato la fine di un’era, quella del libro tradizionale. Le stime più recenti vedono – almeno con riferimento al contesto italiano – un mercato degli e-book ancora piuttosto embrionale, ma con tassi di crescita costanti e margini di sviluppo sempre più elevati, per quanto riguarda il numero di titoli e di lettori e il volume di vendite e fatturato.
Siamo ancora ben lontani dal poter delineare con certezza il destino riservato alla miriade di storie e trattazioni racchiuse in versi, capoversi e capitoli. I due mezzi – cartaceo e digitale – non dovrebbero essere concepiti come opposti, ma piuttosto come manifestazioni alternative di una stessa florida (almeno teoricamente) cultura collettiva. Scrivere la parola carta sulla tomba dell’apprendimento e dell’intrattenimento sembra essere più un esercizio di provocazione che non una reale consapevolezza. Allo stesso modo fingere di non vedere le numerose funzionalità rese disponibili dalla virtualità e dall’innovazione significa non avere la benché minima coscienza dello stato attuale dei fatti.
Quando si tratta di discutere pro e contro dei due veicoli, non vi è comunque alcun dubbio circa la necessità di attuare una diversificazione per generi. Scritture tecniche, scientifiche e giuridiche si prestano forse maggiormente ad una consultazione digitale, permettendo di effettuare ricerche maggiormente mirate, di seguire link ad approfondimenti e chiarimenti, di costruire segnalibri, librerie personalizzate, preferiti e appunti. Non molti, per contro, sembrano ancora pronti ad abbandonare il piacere di sfogliare delle pagine stampate, mentre sono immersi in avventure mozzafiato o in racconti dal finale strappalacrime.
Particolarmente interessante è, a questo proposito, concentrare l’attenzione su un genere che – tra i più vitali – delinea, negli ultimi mesi, delle tendenze particolarmente degne di nota. Ci si riferisce al segmento bambini e ragazzi, il quale, rispetto agli altri, mostra segni di sofferenza decisamente meno marcati, resistendo ad una crisi che ha imposto forti contrazioni del settore nel suo complesso. Stando ai dati Nielsen realizzati per l’Associazione Italiana Editori (AIE), il 2012 è il primo anno in cui anche tale segmento (che rappresenta il 14,1% del mercato) registra un rallentamento (-6,2% sul 2011), seppur decisamente inferiore rispetto alla media del mercato trade del libro (-8% circa). “La crisi non risparmia nessuno, ma per il mercato ragazzi è prevedibile un più rapido attraversamento del tunnel”, ha commentato Antonio Monaco, responsabile del gruppo editori per ragazzi dell’AIE.
Il settore dei più piccoli è stimato allora, a fine 2012, in circa 155,5 milioni di euro a prezzo di copertina. Queste rilevazioni Nielsen si concentrano sul mercato trade, dunque sulle librerie di catena, su quelle indipendenti e sugli store online, mentre restano esclusi la grande distribuzione organizzata e tutti i vari canali alternativi (cartolerie, uffici postali, negozi specializzati in articoli per bambini, collezionabili per bambini venduti in edicola…). Aggiungendo anche l’apporto della GdO, il valore realizzato dal comparto si aggirerebbe attorno ai 200 milioni di euro (-6,8% sul 2011).
Secondo stime AIE su dati IE – Informazioni editoriali, nel 2012 in Italia sono stati pubblicati 5.164 titoli di libri per bambini e ragazzi (per oltre 33 milioni di copie stampate), pari al 7,8% dell’intera produzione editoriale delle case editrici italiane. Il segmento 0-13 anni si conferma al terzo posto tra i generi più venduti nelle librerie fisiche (dati forniti dal servizio Arianna+ di IE), preceduto dalla narrativa e dalle biografie (al primo posto) e dalle scienze sociali e umane (al secondo) e con un peso (10,8%) in linea con il 2011 (quando rappresentava il 10,7%). Osservando poi l’andamento mese per mese, emerge come i picchi nelle vendite di libri per ragazzi siano nel periodo natalizio e all’inizio delle vacanze estive (quando queste arrivano a superare le vendite del settore adulti), a sottolineare l’importanza che la lettura detiene sia come regalo sia come sostituto temporaneo delle lezioni, infine come mezzo di intrattenimento per bambini e ragazzi.
A registrare i volumi più elevati di vendite nel 2012, sono, più in dettaglio, i libri della fascia 3-4 anni (27,8%), probabilmente grazie al forte successo editoriale dei libri di Silvia D’Achille su Peppa Pig. Al secondo posto per vendite troviamo le pubblicazioni pensate per la fascia 7-8 anni (21,9%), con la forza dei long-seller Geronimo Stilton e Harry Potter, e al terzo la fascia 5-6 anni (18,51%). Salendo oltre gli 8 anni, i pesi percentuali diminuiscono drasticamente: 13,47% per i 9-10, fino ad arrivare a un 9,58% per gli 11-13 anni.
La spesa media annua per bambino (0-14 anni, solo canali trade) è stata, nel 2012, pari a 18,7 euro, un valore bassissimo e che quasi triplica (48,5 euro) se la spesa viene calcolata per bambino lettore (6-14, solo canali trade).
Stando agli ultimi dati stimati da Liber, nel 2011 gli editori italiani attivi nel settore ragazzi risultano essere 184 (erano 198 nel 2010), le novità pubblicate sono 2.267 (-4,6%) e i Paesi da cui si sono acquisiti i diritti per i titoli pubblicati sono stati (guardando solo alle novità) soprattutto il Regno Unito, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, Paesi Bassi e Spagna.
Se il settore non si flette completamente alla crisi, il merito è proprio dei più piccoli, che leggono più della media italiana: stando agli ultimi dati Istat, il 46% degli italiani con più di 6 anni legge almeno un libro in un anno (circa 26,2 milioni di persone), ma le percentuali salgono notevolmente se si considerano le sole fasce più giovani. La lettura coinvolge, infatti, il 54,3% dei bambini tra i 6 e i 10 anni (nel 2002 era il 45,2%), il 60,8% dei ragazzi tra gli 11 e 14 anni (percentuale praticamente identica a dieci anni fa) e il 59,8% dei 15-17enni (contro 53,7% del 2002). Percentuali di penetrazione ancora più elevate per la lettura prescolare: il 63,3% dei bambini di 2-5 anni legge, colora, sfoglia libri o albi illustrati tutti giorni al di fuori dell’orario scolastico. Sembra, dunque, che i bambini diminuiscano la propria attitudine alla lettura con l’inizio delle scuole elementari, a dimostrare come siano probabilmente più i genitori che gli insegnanti i veri promotori dell’importanza di questa esperienza percettiva e formativa.
La nostra forza sta nel fatto che i ragazzi leggono più degli adulti” – ha evidenziato ancora Monaco – “È in questa fase della vita che se si semina, si semina bene per sempre: la vera sfida che ci attende è dunque quella di accrescere ulteriormente lo sviluppo della lettura nei primi anni di vita e poi di saperlo conservare”.
Il motivo del forte attaccamento al libro dei bimbi più piccoli viene intravisto nel cambiamento d’approccio operato dai genitori italiani, i quali, essendo maggiormente scolarizzati, investono più delle generazioni precedenti nel futuro dei propri figli e nella loro formazione. A ciò si aggiungono la maggior diffusione di settori dedicati nelle librerie e le trasformazioni (nei materiali, formati, colori, storie…) che le case editrici hanno apportato ai propri prodotti pensati per la prima infanzia.
L’offerta editoriale rivolta ai più piccoli ha continuato, dunque, a crescere in maniera significativa negli ultimi anni, non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi, e questa crescita ha coinvolto in particolare il comparto digitale. Mentre nel 2011 i titoli e-book in commercio nelle librerie italiane online erano 1.182, nel 2012 si è giunti a quota 2.177 (+84%), sulla scia dell’elevata alfabetizzazione al mezzo da parte dei piccoli lettori digitali. Il 53,1% di coloro che hanno tra i 6 e i 10 anni utilizza, infatti, il pc (il 32,8% con cadenza settimanale) e il 76,3% nella stessa fascia d’età dichiara di accedere a Internet (dati Istat).
L’e-book rappresenta, inoltre, solo una delle molte declinazioni che l’editoria può raggiungere in tempi di multicanalità e villaggio globale. Contenuti multimediali, enhanced books, libri interattivi, applicazioni: forti sono anche in Italia le attenzioni per queste manifestazioni, come ha dimostrato il “Bologna Ragazzi Digital Award 2013”, il premio internazionale – giunto quest’anno alla seconda edizione – promosso da Bologna Fiere in collaborazione con la rivista statunitense Children’s Technology Reviewal, al fine di incoraggiare le produzioni eccellenti ed innovative nell’ambito delle app derivate da libri e indirizzate a bambini e ragazzi dai 2 ai 15 anni di età. Tra oltre un centinaio di candidature, il premio della categoria “fiction” è andato a “Four Little Corners” (Spagna), quello per la categoria “non fiction” a “War Horse” (Gran Bretagna); in mezzo alle 10 finaliste, è finita anche una app italiana, “IdentiKat”.
I vincitori sono stati proclamati durante il “TOC Bologna 2013” (Tools of Change for Publishing), la conferenza internazionale sulle ultime novità dell’editoria digitale, che, con oltre 300 operatori da 40 Paesi di tutto il mondo, si è svolta il 24 marzo scorso, alla vigilia della 50a edizione della Fiera del Libro per Ragazzi (25-28 marzo).
In tale occasione, sono stati diffusi anche alcuni dati che ben si inseriscono nel dibattito sul digitale riferito a questa precisa fetta del mercato editoriale: si tratta dei risultati di un sondaggio online lanciato, nel mese di gennaio, da Filastrocche.it, Happi ideas, Mamamò e Nati per Leggere, in collaborazione con AIB (Associazione Italiana Biblioteche), MLOL (MediaLibraryOnLine) e FattoreMamma. Hanno risposto in 1000 tra genitori (il 78,5% del campione), insegnanti o educatori (9%) e bibliotecari (7%), coinvolti principalmente con bambini dai 3 ai 10 anni. I rispondenti sono soprattutto donne (87,8%), hanno un’età media di 39 anni, un livello d’istruzione piuttosto alto (circa il 68% possiede una laurea o titolo post laurea) e una propensione tecnologica superiore alla media italiana (intuibile anche dalle modalità di raccolta dei dati): utilizza abitualmente il computer oltre l’85% del campione, lo smartphone il 53% e un tablet il 44% (anche se solo il 29,3% degli insegnanti e il 25,9% dei bibliotecari usano un tablet).
È emerso che – nonostante sia aumentata la qualità editoriale dei libri digitali per ragazzi – solo il 30,3% dei genitori italiani utilizza e-book con i propri bambini (nel caso di bibliotecari la percentuale scende al 25,7%), mentre quasi il 70% preferisce leggere loro libri cartacei.
La motivazione principale di chi dichiara di non aver mai usato e-book è la preferenza per i libri cartacei (62,7%); i timori più grandi sono di perdere la “magia del libro” (nel 78% dei casi), l’esperienza cioè sensoriale e tattile, e la possibilità che si disincentivino creatività, concentrazione e autonomia nella lettura. Tra le motivazioni che portano a preferire la carta, si evidenzia anche un buon 13,9% che ancora dichiara di non sapere dell’esistenza di libri digitali per bambini e un 23,7% che dice di non avere i supporti necessari alla lettura (percentuale che arriva al 33,3% tra gli insegnanti e al 44% tra i bibliotecari); da quest’ultimo dato si può rilevare una tendenza ad associare il libro digitale a devices mobili più che al computer.
Sulla scelta di fare uso di libri digitali per bambini, incide, infatti, soprattutto il possesso di un tablet, tanto che esso rappresenta il device più utilizzato per la lettura (68,6%) e tanto che il formato più sfruttato per fruire i libri virtuali risulta essere l’applicazione (oltre il 51%). Le caratteristiche maggiormente apprezzate nel libro digitale sono l’illustrazione e una bella veste grafica e, a seguire, l’interattività.
I libri digitali vengono usati soprattutto quando si è in viaggio, negli spostamenti in auto o quando occorre intrattenere i bambini (oltre 61%). I libri di carta rimangono i preferiti per le storie della buonanotte (oltre il 71% ne fa uso). Ciò è legato, in particolare, alle aspettative che si hanno quando si sceglie uno dei due mezzi: da un libro cartaceo ci si attende una buona storia, capace di stimolare la fantasia, mentre a un libro digitale si chiede il coinvolgimento, il divertimento, lo stimolo all’autonomia e una capacità educativa.
Nel 50,8% dei casi i bambini leggono libri digitali in compagnia di un adulto, contro il 31,4% che legge da solo ma in presenza di un adulto e un 17,8% che ha un approccio totalmente autonomo. Oltre il 72% di chi usa libri digitali per bambini considera la qualità dei contenuti abbastanza buona o buona. La problematica maggiore rilevata riguarda la carenza di titoli in italiano.
Per trovare buoni titoli digitali, le fonti maggiormente usate sono gli articoli e le recensioni online, seguiti dal passaparola e dai motori di ricerca. Genitori ed educatori sono disposti (oltre il 55% dei casi) a spendere almeno 4,99 Euro per un libro digitale di pregio (solo il 15,8% li scarica esclusivamente se offerti in forma gratuita). Qualità e disponibilità di contenuti in lingua italiana vengono indicati come i due elementi più influenti sulla propensione all’acquisto. Tuttavia ben l’88% di chi ha scaricato libri digitali si è rivolto a contenuti in lingua straniera.
Ci si imbatte, dunque, in conclusione, in un vero e proprio gap generazionale: da una parte abbiamo i piccoli nativi digitali che hanno buona familiarità con la tecnologia, di certo superiore a quella dei propri genitori; questi ultimi, dall’altra parte, riconoscono ancora il fortissimo valore pedagogico della carta. Resta da vedere, dunque, come si evolverà il rapporto tra queste due diverse anime dello stesso fenomeno.

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È boom della musica “liquida” nel Belpaese

Il successo per il lancio in Italia di Spotify si inserisce in un contesto positivo per il mercato digitale musicale tricolore, cresciuto, secondo la FIMI, del 31% nel 2012, arrivando ad un giro d’affari di 36 milioni di euro, trainato da nuove piattaforme e servizi cloud

Come la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, così il mercato musicale italiano e internazionale sembra vivere, negli ultimi tempi, un periodo particolarmente favorevole, sostenuto proprio da ciò che in molti considerano la causa stessa della sua decennale crisi: il digitale.
Dovranno forse ricredersi i vari pensatori convinti che la rete avesse ormai celebrato i funerali dell’industria a note, distrutta dalla pirateria e dai sistemi di file sharing illegale. Il mercato discografico è, infatti, solito incolpare la tecnologia per qualsiasi diminuzione nelle vendite, equiparando di fatto lo scaricare musica tramite sistemi peer to peer, con il furto in un negozio di musica (paragone fuorviante, se si considera che un furto rappresenta una vendita persa, mentre il materiale scaricato rappresenta un nuovo esemplare generato). L’eterno dibattito sulla bontà o meno di queste reti rischia ora di essere svuotato di senso, poiché simili modelli di consumo musicale potrebbero ormai essere considerati quasi obsoleti, soppiantati da altre forme più agevoli e legalissime di fruizione dei contenuti.
Sono passate poco più di due settimane dal lancio nel Belpaese di Spotify (era il 12 febbraio, in concomitanza con il festival di Sanremo) e le prime stime già confermano il successo di pubblico atteso. Nei primi sette giorni di avvio della piattaforma, gli italiani hanno, infatti, ascoltato ben 11 milioni di brani, l’equivalente di 70 anni di musica, con una netta prevalenza per le hit del momento: will.i.am risulta, nel momento in cui scrivo, l’artista più ascoltato in Italia e la sua “Scream & Shout” (feat. Britney Spears) sembra essere la canzone più volte riprodotta; considerando i soli artisti italiani, figurano al primo posto Max Gazzè, preferito in particolare dal pubblico femminile, e, al secondo posto; gli Elio e Le Storie Tese, preferiti invece dal pubblico maschile.
Ma che cos’è Spotify? Per quanti ancora non lo conoscessero, si tratta di uno dei principali servizi di musica on demand in streaming. Per ascoltare musica da pc, tablet o smartphone, basta collegarsi a Spotify e cercare uno tra gli oltre venti milioni di brani a disposizione.
Creato a Stoccolma da Daniel Ek e Martin Lorentzon, come alternativa alla pirateria musicale (anche se molti tratti grafici ricordano il vecchio Napster), raccoglie ora venti milioni di utenti e ben cinque milioni di abbonati. Dal suo lancio originale, nell’ottobre 2008, il servizio è stato notevolmente esteso ed è ora disponibile in venti Paesi, dagli Stati Uniti, alla Nuova Zelanda, passando per Danimarca, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito.
Un modo originale per fruire la musica, che libera dall’onere del download, dunque dalla necessità di occupare migliaia di mega sui propri dispositivi, consentendo l’ascolto in mobilità, con un’elevata qualità sonora, e la condivisione sociale delle proprie preferenze musicali. Tre possibilità d’uso: la versione Free permette l’ascolto da pc in modo completamente gratuito, grazie alla presenza di intermezzi pubblicitari, fino ad un massimo di 10 ore al mese (non più di 5 ascolti per uno stesso brano); la versione Unlimited consente, al prezzo di 4,99 euro al mese, di ascoltare i brani sul proprio computer senza alcuna pubblicità o vincoli di tempo; infine la versione Premium, a 9,99 al mese, garantisce una qualità pressoché perfetta per i brani, che diventano ora fruibili tramite qualsiasi dispositivo mobile (applicazioni compatibili con i sistemi iOS, Android, Windows 8) e disponibili in modalità offline (fino a 9.999 unità, per massimo tre dispositivi, quindi 3.333 brani per dispositivo): in quest’ultimo caso i brani non vengono davvero scaricati, ma rimangono accessibili nella app, anche in assenza di connessione Web, finché si rimane abbonati al servizio.
Oltre a permettere la ricerca e l’ascolto delle proprie canzoni preferite, Spotify consente di creare playlist personalizzate o di ascoltare quelle degli altri, di condividere singole canzoni o intere palylist via messaggio privato o mail, su siti, blog e social network. È possibile, a tal proposito, iscriversi tramite Facebook oppure creando direttamente un account sul sito di Spotify.
L’opzione “radio” crea una rotazione musicale sulla base di un genere o un brano scelto dall’utente, ideale per chi non sa di preciso cosa ascoltare o è alla ricerca di qualcosa di nuovo. “A marzo”, annuncia Veronica Diquattro (trent’anni, responsabile per il mercato italiano dell’azienda, con alle spalle un passato a Google), “arriveranno anche servizi follow per seguire gli account di artisti, celebrità e trendsetter e discovery per scoprire nuova musica in base al tipo di persone che stai seguendo”. Il futuro di Spotify sembra essere, dunque, sempre più orientato al social.
Il modello di business creato da Spotify appare decisamente innovativo. L’offerta musicale è del tutto legale, autorizzata dagli autori e dagli altri attori della filiera musicale (sono stati siglati accordi con le quattro principali etichette discografiche – Emi, Sony Music, Universal e Warner – con Merlin e altre etichette indipendenti, tra cui Made in Italy, Sugar e Pirames International), che vengono retribuiti, quando l’ascolto è per gli utenti gratuito, dalla pubblicità. Il 70% dei ricavi viene dato a case discografiche e collecting societies (Siae), che a loro volta stipuleranno accordi con gli artisti (maggiore è il numero di riproduzioni di un brano, maggiore sarà la percentuale di royalties che l’autore del brano si assicura all’interno di quel 70%). Lo scorso anno Spotify ha distribuito oltre cinquecento milioni di dollari in diritti d’autore.
Il catalogo è piuttosto ampio, variegato e in continuo aumento, anche se persistono le remore di alcuni artisti che preferiscono rendere la propria musica disponibile prima al download (con margini di guadagno più alti rispetto allo streaming) e solo in un secondo momento anche allo streaming (esempi recenti: Coldplay, Adele e The Black Keys). Per ovviare in parte a questo inconveniente, il sistema permette comunque di recuperare i file musicali dal proprio hard disk, rendendoli disponibili all’ascolto direttamente nella piattaforma.
All’artista viene, quindi, offerta la possibilità di aumentare il proprio pubblico e di recuperare quegli utenti che sono soliti ascoltare la sua musica attraverso le reti di file sharing illegale: “Il target sono gli utenti che utilizzano streaming illegale, non certo chi va a comprare il cd”, sottolinea la Diquattro, per far capire l’importanza che il sistema potenzialmente ha, nell’offrire un’alternativa legale alla pirateria, così ampiamente temuta dagli attori del mercato musicale.
Non sono pochi i servizi che, anche in Italia, sembrano fare concorrenza a Spotify: da Playme dell’italianissima Dada, al francese Deezer, da Amazon Mp3 a Google Play Music, oltre agli arcinoti Youtube (e servizi collaterali come Vevo) e iTunes (con il servizio iTunes Match, in attesa del vociferato servizio di streaming).
Si aprono, allora, nuove interessanti prospettive per l’offerta di musica digitale in Italia, dopo le stime positive diffuse nei giorni scorsi con riferimento all’anno da poco conclusosi.
Stando, infatti, ai risultati di una ricerca realizzata da Deloitte per Fimi (Federazione dell’industria musicale italiana), il fatturato del settore digitale – trainato da nuove piattaforme e servizi cloud – sarebbe cresciuto al sell-in (commercio rivolto ai rivenditori) del 31% nel 2012, superando i 36 milioni di euro complessivi.
L’industria discografica ha saputo rispondere alle sfide della tecnologia con importanti partnership e soprattutto, si è confrontata con la rivoluzione digitale solo con le proprie forze, senza incentivi, sostegni economici o contributi, arrivando oggi a poter offrire ai consumatori una vasta gamma di alternative per l’accesso legale ad oltre 25 milioni di brani su decine di piattaforme”, commenta Enzo Mazza, Presidente di FIMI.
Il download di album e singoli è aumentato del 25%, salendo dai 17,7 milioni di euro rilevati nel 2011 ai 22,1 milioni di euro riferiti al 2012. Crescita esponenziale, pari al 77%, per lo streaming video basato sulla pubblicità, con un fatturato che dai 4,5 milioni nel 2011 passa agli 8 milioni nel 2012. Trend positivo anche per i modelli in abbonamento e premium, che innalzano il proprio fatturato di 14 punti percentuali (da 5,2 a 5,9 milioni di euro).
Il mercato digitale rappresenta, allora, il 24% del totale e a dominare tale mercato, fornendo le principali fonti di ricavo, è il digital download (61%), seguito dallo streaming (22%) e dagli abbonamenti (16%).
Segno più, nel mercato italiano, anche per i proventi diversi (new revenue stream: i diritti connessi, il merchandising, le sponsorizzazioni…), in aumento del 29%. I servizi di synchronisation rappresentano il 2% del business musicale complessivo in Italia, mentre i diritti connessi il 10%.
Digitale e nuove fonti di ricavo rappresentano oggi il 45% del mercato totale della musica, a fronte di un 55% relativo al segmento del supporto fisico. L’intero settore musica muove un fatturato pari a 150,9 milioni di euro nel 2012, contro i 158,3 milioni del 2011, segnando un -5% dovuto principalmente alle negative performance del comparto offline tradizionale. Quest’ultimo passa, infatti, da un fatturato di 106,7 milioni del 2011, a 83,5 milioni (-22%): in particolare, il segmento CD/Album perde il 22%, scendendo a 80,2 milioni di euro al sell in. Sale, per contro, il vinile (+46%), pur rimanendo, con quei quasi 2 milioni di euro, un fenomeno ancora limitato rispetto al totale del mercato musicale in Italia.
La crisi dei canali tradizionali è confermata anche dai dati forniti da GfK, che, a fronte di un calo di questi pari a 17 punti percentuali, individua un’impennata del 30% per l’e-commerce, che rappresenta oggi il 7% delle vendite di dischi in Italia.
Con riferimento al mercato fisico – ci dicono infine i dati FIMI – il repertorio italiano continua, anche nel 2012, a fare la parte del leone, occupando il 50,4% del venduto (leggero calo rispetto al 53,8% del 2011) e otto album su dieci nella top ten dei più venduti dell’anno.
L’Italia ha ottime prospettive di sviluppo”, conclude Mazza, “ma molto dipenderà dalla strategia che il prossimo Governo vorrà darsi sull’agenda digitale e sui contenuti online, abbiamo di fronte una grande opportunità, come già dimostrano i dati di Paesi in cui il digitale è centrale nelle politiche di sviluppo e  crescita”.
La curva in salita del mercato musicale digitale italiano è, del resto, proiezione dell’andamento positivo rilevato a livello mondiale: l’Ifpi (International federation of the phonographic industry, ovvero la Federazione internazionale dell’industria fonografica, che raccoglie 1.400 iscritti in tutto il mondo, tra i quali appunto la Fimi) ha da poco pubblicato il suo Digital Music Report 2013, che vede il comparto “liquido” trainare l’intera industria musicale, il cui fatturato globale sale dello 0,3% nel 2012, stabilizzandosi a quota 16,5 miliardi di dollari. Si tratta di una crescita che potrebbe apparire lieve, ma che tuttavia segna un’importante inversione di tendenza, per un comparto che non vedeva un saldo in attivo da ben 13 anni.
Il Digital Music Report di quest’anno riflette il crescente ottimismo nei confronti dell’industria musicale internazionale“, avrebbe sottolineato Frances Moore, chief executive dell’Ifpi, durante la presentazione del Digital Report a Londra. “È difficile ricordare un anno come questo iniziato con una palpabile energia nell’aria”. “Sono risultati” – ha concluso – “ottenuti con molta fatica, dai quali partiremo per operare nel 2013”.
Un ottimismo contagioso, presente sulla bocca di tutti gli attori dell’industria discografica. “Abbiamo tante cose da fare e un sacco di opportunità davanti a noi“, ha commentato il vicepresidente di Warner Music Group, Stu Bergen. “Fino a poco fa” – ha proseguito – “la maggior parte dei nostri utili proveniva da una ristretta cerchia di paesi. Ora, con i canali digitali, possiamo sfruttare il mercato globale più di quanto non sia mai stato fatto fino ad ora“. A insistere sull’importanza di tale dimensione globale è stato anche Edgar Berger, presidente e Ceo di Sony Music Entertainment: “Stiamo già vedendo crescere il mercato dal Brasile alla Scandinavia, dal Canada all’India”. “Credo che questo sia solo l’inizio di una crescita storica del nostro comparto“, ha infine prospettato, ricordando un necessario cambiamento di paradigma: “All’inizio della rivoluzione digitale era usuale sentir dire che il digitale stava uccidendo la musica. Beh, la realtà è che sta salvando la musica”.
Vediamo, allora, rapidamente i numeri di questa “rivoluzione”: il mercato digitale globale delle parole in nota ha conosciuto un incremento del giro d’affari pari a 9 punti percentuali, raggiungendo i 5,6 miliardi di dollari, pari al 34% del mercato complessivo. La storica crisi del settore, dovuta al calo delle vendite fisiche, alla disaffezione verso i negozi di dischi e all’incapacità di offrire alternative valide e legali alla pirateria online, sembra ora essere in parte sanata. Alla base vi sono certamente la crescente diffusione di dispositivi mobile, smartphone e tablet, e il consolidamento di servizi come, appunto, Spotify, iTunes e Deezer, ormai considerati maturi.
Il 62% dei navigatori web del mondo si rivolge a servizi legali per ascoltare e scaricare musica: i downloads sono cresciuti in un anno del 12%, conquistando i 4,3 miliardi di unità e arrivando a rappresentare circa il 70% del totale delle entrate della musica digitale; parallelamente aumentano gli abbonamenti online (+44%).
Un ruolo fondamentale in tutto questo è giocato dai nuovi mercati emergenti: se all’inizio del 2011 i maggiori servizi legali di streaming e download erano attivi in soli 23 Paesi, due anni dopo la copertura ha raggiunto oltre 100 Paesi; le vendite digitali superano, inoltre, quelle fisiche in Paesi come Stati Uniti, Norvegia, Svezia e India e dei segnali molto incoraggianti per il futuro arrivano anche da Africa e Cina, come ha precisato Francis Keeling, global head of digital business di Universal Music Group.
Accanto a queste prospettive favorevoli persiste, tuttavia, l’appello accorato alla lotta contro la pirateria online. L’Ifpi, sulla base di dati forniti da Nielsen e ComScore, evidenzia come un terzo degli utenti acceda ancora a siti per scaricare musica illegalmente. Per tutelare la crescita – sostiene la Federazione – è necessario che i fornitori di servizi Internet blocchino l’accesso ai siti illegali, che i motori di ricerca diano, come esito prioritario delle search, le pagine di siti legali e che gli investitori pubblicitari la smettano di sfruttare i siti pirata come piattaforma per la propria pubblicità.
La contrapposizione frontale tra titolari e fruitori della proprietà intellettuale dovrebbe essere, tuttavia, a mio avviso, superata, agevolando l’accesso ai contenuti protetti attraverso forme lecite di condivisione, capaci di retribuire i titolari dei diritti. Il successo di una piattaforma come Spotify rende ben chiaro come questo sia non solo auspicabile, ma assolutamente possibile.

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Notizie online: da consumarsi preferibilmente entro il…

Una recente sentenza del Tribunale di Ortona condanna la testata online PrimaDaNoi.it al pagamento di 17mila euro quale risarcimento per aver conservato, nel proprio archivio elettronico, una notizia del 2008 ritenuta lesiva dell’altrui privacy. Ecco la declinazione online del diritto all’oblio

La questione centrale è un conflitto tra diritti ugualmente – almeno in termini astratti – meritevoli di tutela normativa e sociale. Alla base vi è un vuoto legislativo colmabile solo in parte dalla giurisprudenza in materia, costretta a scendere a patti con l’interpretazione e la contestualizzazione. In gioco vi è la libertà di informazione, uno dei capisaldi dell’edificio comunitario, una delle conquiste progressive più bramate dall’opinione pubblica, una delle risorse più tenacemente custodite dalla collettività digitale.
LE SENTENZE
L’ultimo capitolo scritto nella storia dell’informazione made in Italy sembra far emergere ancora una volta l’estrema difficoltà che il legislatore italiano ha nel partorire una stabile regolamentazione della rete e pare aver scosso non poco gli animi di quanti continuamente si battono per offrire ai cittadini la solida garanzia di essere informati, in modo limpido e puntuale, circa fatti e misfatti ritenuti socialmente rilevanti. Protagonista della vicenda è il piccolo ma prestigioso quotidiano abruzzese online PrimaDaNoi.it, condannato dal giudice unico del Tribunale di Ortona, Rita Di Donato, al pagamento di un multa di oltre 17mila euro (tra risarcimento danni e spese legali), per aver conservato, nel proprio archivio elettronico, la notizia relativa a un fatto di cronaca, avvenuto nel 2008, all’interno di un ristorante pescarese, che coinvolse i titolari del locale in una vicenda giudiziaria di natura penale, non ancora conclusa.
Il giudice ha accolto, in sostanza, la domanda dei ricorrenti (i titolari), che chiedevano la rimozione della pagina contenente la notizia, preoccupati per il pregiudizio che la stessa avrebbe potuto recare alla loro reputazione personale e professionale e all’immagine del proprio locale. Sottolinea, infatti, il giudice come “la facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico [pubblicato il 29 marzo 2008], molto più dei quotidiani cartacei tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online, consente di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale [il 6 settembre 2010] sia trascorso sufficiente tempo perché le notizie divulgate con lo stesso potessero soddisfare gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica, e che quindi, almeno dalla data di ricezione della diffida, il trattamento di quei dati [relativi ai titolari del ristorante e al nome dell’esercizio] non poteva più avvenire”. Il persistere del trattamento dei dati personali – prosegue il giudice – “ha determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione, e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati (consultabili semplicemente digitando il nominativo del ricorrente e la denominazione del ristorante sul motore di ricerca Google) e alla natura degli stessi dati trattati, particolarmente sensibili attenendo a vicenda penale”. L’articolo era stato già rimosso – è bene precisarlo – dai motori di ricerca, nel 2011, ma non anche dall’archivio del giornale online.
Accolta pure la richiesta di ottenere un risarcimento danni poiché – si legge nella sentenza – il trattamento dei dati personali si è protratto per un periodo di tempo superiore a quello necessario agli scopi – esercizio del diritto di cronaca giornalistica – per i quali i dati sono stati raccolti e trattati”.
Invocando il cosiddetto “diritto all’oblio”, il giudice sembra, dunque, far prevalere la tutela della privacy sul diritto di cronaca, nonostante la notizia diffusa fosse – lo stesso provvedimento lo evidenzia – vera, corretta nella forma e non diffamatoria e nonostante in Italia non esista alcuna legge che formalizzi le condizioni di applicabilità di tale diritto all’oblio. Egli ha imposto, in sostanza, una scadenza alla notizia (pari a due anni e mezzo, nella fattispecie).
La sentenza, datata 16 gennaio 2013, ricalca in realtà una precedente pronuncia da parte del giudice Rita Carosella, dello stesso Tribunale, datata 20 gennaio 2011. In quell’occasione, a suscitare la reazione dei due coniugi ricorrenti era stata la notizia, riportata dal giornale abruzzese, relativa al loro arresto per tentata estorsione continuata in concorso. La posizione dei due era stata poi archiviata e l’articolo, datato originariamente 23 marzo 2006, era stato più volte aggiornato nel corso degli anni, per dare conto dell’intero iter giudiziario, dunque anche dell’archiviazione della vicenda. Per far valere il diritto alla tutela della propria riservatezza, i coniugi avevano scelto in primis di rivolgersi al Garante della Privacy, il quale, tuttavia, si era espresso a favore della permanenza online dell’articolo, considerando che il trattamento dei dati personali era stato effettuato “nel rispetto della disciplina di settore per finalità giornalistiche”. Diversa invece era stata la pronuncia del Tribunale, che impose al giornale di cancellare la notizia e di sborsare 5 mila euro (più le spese legali) ai coniugi per i danni subiti, vista la “durata, gravità e modalità dell’illecito”.
Il giudice Carosella aveva allora sottolineato come, alla data della richiesta di cancellazione da parte dei ricorrenti (circa quattro mesi dopo l’ultima modifica dell’articolo), fosse trascorso tempo sufficienteperché le notizie potessero soddisfare gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica, informare la collettività, creare opinioni, stimolare dibattiti, suggerire rimedi” e come, di conseguenza, il trattamento dei dati non potesse avvenire, se non con “lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza e alla reputazione, stante la peculiarità dell’operazione di trattamento, sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati, e stante la natura degli stessi dati trattati, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale”. Anche in questo caso la sentenza sembra voler offrire una durata temporale – basata su soggettive valutazioni – e una relativa scadenza all’esercizio del diritto di cronaca. Essa consentiva, inoltre, “a costituire memoria storica della collettività”, la conservazione di “una copia cartacea dell’articolo nell’archivio della testata, archivio che tuttavia – come sottolinea PrimaDaNoi.it e come era facile immaginare in tempi di villaggio globale e informazione 2.0 – non esiste.
COME NASCE UNA NOTIZIA
Le soluzioni individuate nascondono non poche ambiguità e fanno emergere perplessità e dubbi interpretativi. Per comprendere meglio la questione, facciamo, allora, per un attimo, un passo indietro e cerchiamo di capire come nasce una notizia. La giurisprudenza ha, nel corso degli anni, elaborato tre requisiti al cui rispetto dev’essere subordinato il legittimo esercizio del diritto di cronaca da parte dei giornalisti: dev’esservi innanzitutto un interesse pubblico e attuale alla conoscenza del fatto oggetto di notizia; la verità di questo stesso fatto deve, inoltre, essere oggettiva, o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca (da qui la necessità di verificare accuratamente le fonti e al contempo la rilevanza assunta dalla buona fede del giornalista, il quale, pubblicando notizie che egli crede vere dopo le relative verifiche, mantiene la propria condotta nei limiti del diritto di cronaca); infine la notizia deve rispettare la cosiddetta “continenza espositiva”, la correttezza cioè formale nell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo, improntata a un ideale di obiettività, priva di un preconcetto intento denigratorio e comunque rispettosa della dignità altrui.
Il diritto di cronaca è, come quello di critica e di satira, un diritto di rilevanza costituzionale, protetto da quell’ampio cappello che è l’articolo 21 delle nostra Costituzione (che prevede, in poche parole, la libertà di manifestazione del pensiero). I tre requisiti elaborati sono il frutto della volontà di bilanciare tale garanzia costituzionale con il diritto alla tutela della propria persona, della propria reputazione e della propria riservatezza, anch’essi costituzionalmente previsti.
L’utilità e il rilievo sociale dell’informazione (in sostanza il primo dei requisiti cui prima si faceva riferimento) è, allora, fondamentale affinché questo conflitto tra diritti di pari dignità possa essere in qualche modo superato. Per valutare l’interesse pubblico alla diffusione della notizia non si può ovviamente prescindere dal contesto: esso dipende dal pubblico cui ci si rivolge, dal giornale e dalla pagina in cui si scrive, dal momento storico in cui ci si trova. L’interesse pubblico deve sussistere nel preciso momento in cui si scrive. Esso è il presupposto che impone ad un fatto privato (dunque tutelato dalla privacy) di diventare oggetto legittimo di cronaca, tuttavia una volta che la comunità ne sia stata informata con correttezza, esso ha esaurito la sua funzione e torna alla sua originaria dimensione di fatto privato. Riproporlo sulla ribalta mediatica sarebbe non solo inutile per la collettività, ma addirittura dannoso per i protagonisti in negativo del fatto. In questo meccanismo rientra il “diritto all’oblio”: si tratta di un diritto creato dalla giurisprudenza della Cassazione, tipicamente collocato tra i diritti inviolabili citati da quella norma dinamica che è l’art. 2 della Costituzione. È in sostanza il diritto, che ognuno di noi ha, a non essere più ricordato dalla stampa e dagli altri canali di divulgazione per fatti che in passato sono stati oggetto di cronaca. Un ulteriore fondamento legislativo di tale diritto è stato rinvenuto nell’art. 27, comma 3, della Costituzione, che prevede la funzione rieducativa della pena, la necessità cioè di favorire il reinserimento sociale del condannato.
Vi sono, tuttavia, alcuni fatti ritenuti particolarmente gravi, per i quali l’interesse pubblico alla loro pubblicazione non viene mai meno (si pensi, ad esempio, a fatti che hanno inciso sul corso della storia, come Tangentopoli o l’attentato al Papa).
Parallelamente può succedere che, a distanza di anni, sorga nuovamente un interesse pubblico alla riproposizione della notizia: ciò avviene, in particolare, quando si crea un certo nesso, un collegamento, tra un fatto di cronaca attuale e uno passato sul quale si era in già posato il diritto all’oblio. È il caso del condannato di stupro che, uscito di galera e, dunque, scontata la pena, commette una nuova violenza sessuale, legittimando il giornalista a far riferimento alla precedente condanna nel resoconto dell’evento.
A far scattare il diritto all’oblio non è, allora, il trascorrere di un determinato numero di anni dal verificarsi del fatto (come le sentenze sopra descritte potrebbero lasciare intendere): esso può essere fatto valere nel momento in cui tale fatto passato esaurisce la propria valenza pubblica e non possiede alcun rapporto diretto con la notizia all’ordine del giorno. Se scrivo di una donna dedita alla prostituzione in casa propria, non potrò, ad esempio, ricordare che la precedente proprietaria dell’immobile esercitava, magari vent’anni prima, la stessa professione: se quest’ultima avesse, nel frattempo, cambiato completamente vita e si sentisse turbata dal vedere il proprio nome accostato ad un nuovo fatto di cronaca in cui non c’entra nulla, potrebbe a ragione fare causa al giornalista poco saggio.
… E PER IL WEB?
Il Web sconvolge ovviamente l’intera logica appena descritta, dovendo fare i conti con un’infrastruttura digitale che, per natura, tende a mantenere traccia di ogni singola manifestazione. Nel Web l’informazione può essere decontestualizzata, frammentata, copiata e incollata.
Il fatto di dare una scadenza temporale alla notizia, giustificando la cosa proprio con le peculiarità del mezzo informatico, sembra essere una soluzione non molto illuminata e ben si presta a diventare terreno fertile per le critiche di quanti si battono per la libertà d’informazione. Quanti anni o mesi dovrebbero poi trascorrere prima che si realizzi tale scadenza?
Oggi siamo stati condannati [… ] per aver scritto notizie vere e senza errori. Siamo stati condannati perché ci hanno detto che quello che scriviamo ha una data di scadenza ma nessuno sa dirci qual è questa data”, lamenta la redazione di PrimaDaNoi.it.
In un sistema legislativo che cerca esasperatamente di codificare il comportamento umano in ogni situazione, restringendo quanto più possibile la funzione interpretativa e applicativa della norma (diversamente da quanto avviene nei sistemi “common law”), si determina la strana condizione in cui l’attenzione, in fase di pronuncia, cade più sul cavillo da aggirare che non sul principio da rispettare.
I giudici delle sentenze analizzate dimostrano scarsa sensibilità e padronanza verso il mondo dell’informazione ai tempi del Web. Declinare il diritto all’oblio a simili fattispecie online risulta una forzatura, una storpiatura: stando ai principi enunciati dal Tribunale abruzzese, tutti gli archivi storici delle principali testate italiane e internazionali dovrebbero essere rimossi, poiché inevitabilmente essi conterranno notizie sgradite a qualcuno.
Certo il Web non può essere – d’altro canto – una giustificazione a fare del cattivo giornalismo, eludendo il rispetto delle fondamentali norme deontologiche che regolano la professione. Nei processi comunicativi sottesi alla notizia, i meccanismi temporali hanno un’importanza fondamentale: la notizia diffusa per prima rimarrà sempre quella considerata “vera”, le notizie che seguiranno verranno inevitabilmente percepite dal pubblico come semplici giustificazioni. La notizia di una sentenza di assoluzione a termine di un processo show, rimbalzato da una ribalta televisiva all’altra, non cesserà di mantenere vivi i sospetti sui protagonisti in negativo della vicenda. Proprio per questo il giornalista ha una forte responsabilità, nel valutare l’opportunità o meno di pubblicare nomi, dettagli e retroscena e il modo in cui pubblicarli. I toni sensazionalistici e lo scoop a orologeria non si addicono all’ideale di giornalismo come strumento di informazione e di garanzia per l’opinione pubblica. E tuttavia queste sono questioni più ampie, che coinvolgono l’etica professionale, non riguardano solo la Rete. Solo partendo dai precetti deontologici si potranno risolvere le difficile controversie dell’informazione online, tenute presenti le specificità del mezzo e l’equo bilanciamento tra diritti.
Questa sentenza ci condanna per aver voluto difendere il diritto di ogni cittadino di conoscere e di sapere […]. Ci spiace per i giudici , ma la storia, i fatti, la memoria non si cancellano a colpi di sentenze”.
Pubblicato su: PMI-dome

Multitasking, ibridazione, mobile: le molte anime del consumatore multicanale

Il 2012 segna il passaggio della multicanalità a fenomeno di massa, coinvolgendo il 53% della popolazione italiana. L’e-commerce diventa sempre più ideale per la vendita, la pubblicità rafforza il proprio ruolo chiave nel processo d’acquisto e si creano nuovi bisogni informativi e di relazione per gli utenti

Grazie alla progressiva alfabetizzazione informatica e alla massiccia diffusione delle nuove tecnologie, è mutato radicalmente, negli ultimi anni, il ruolo che l’utente sembra ritagliarsi all’interno del panorama dei media, del commercio e dell’agire aziendale. Non più un semplice bersaglio della filiera, ma parte attiva della stessa, sia in qualità di bisogni che chiedono soddisfazione sia in quanto ago di una bilancia capace di far spostare l’opinione degli altri consumatori, attraverso un nuovo potere che egli ha di divulgare ampiamente la propria esperienza.
Costantemente impegnato a monitorare l’evoluzione del consumatore multicanale e l’influenza di Web e tecnologia nelle dinamiche d’acquisto è l’Osservatorio Multicanalità, frutto della collaborazione tra Nielsen, Nielsen Online, Connexia e School of Management del Politecnico di Milano. Giunto al sesto anno di attività, esso ha presentato lo scorso 13 dicembre, presso il Politecnico di Milano, i risultati dell’indagine 2012 “Dai mass media alla multicanalità di massa?”, con tanto di hashtag ufficiale #OM12.
Il trend che innanzitutto sorprende è quello relativo all’evoluzione attuale della multicanalità, costretta a trasformarsi da fenomeno relativamente di nicchia (nel 2007, anno di fondazione dell’Osservatorio, toccava 15,7 milioni di italiani) a fenomeno di massa, che arriva ora ad interessare il 53% della popolazione over 14 (+13% sul 2011). L’indagine individua l’anno in corso come decisivo per la svolta verso tale inclinazione, trainata dall’inarrestabile diffusione della tecnologia e dal perdurare della crisi economica, la quale costringe sempre più a coinvolgere i consumatori in tutte le fasi del processo d’acquisto.
È un cambiamento radicale, insomma, quello portato dalla rete e dalle sue manifestazioni nello scenario economico-sociale italiano e globale. E il cambiamento – ha sottolineato Cristina Papini, Research & Analytics Director di Nielsen – passa anche attraverso un’istituzione millenaria come la Chiesa, che sembra dare segnali per un’apertura verso il nuovo, consapevole del potere sempre più forte dei new media: “il Papa parlava ai fedeli la domenica da piazza San Pietro, oggi parla ai fedeli chiamandoli amici via Twitter”.
La componente sociale è da sempre molto importante nell’agire aziendale, la differenza è che ora, grazie al successo delle molte piattaforme di social networking, essa è diventata essenziale nelle agende dei responsabili delle aziende e non più soltanto accessoria. Il digitale diventa sempre più essenziale nelle strategie di comunicazione e di vendita. Si pensi, ad esempio, all’advertising online, che – ha evidenziato ancora Papini – “sta crescendo e sta diventando parte del media mix delle aziende”: “solo 4 anni fa, nel 2008, tra le top 100 aziende in Italia investivano online solo 88. Sembra un numero elevato, in realtà oggi tutte e 100 investono online e l’investimento medio per azienda è, in questi 4 anni, triplicato”. Si fa strada una convinzione sempre maggiore, nell’agire aziendale, circa le potenzialità dei nuovi mezzi e, chi ora ci si avvicina, non lo fa in modo timido, ma sempre più massivo.
Non poche sono le opportunità del multiscreen (multischermo), della simultaneità, cioè, nell’uso di diversi devices per accedere ai contenuti. “I dati più recenti ci dicono che tra i possessori di iPad, il 45% fa shopping mentre guarda la televisione”, ha proseguito Papini. Affinché l’esperienza si faccia realmente ed efficacemente multicanale, è necessario permettere all’utente di portare a termine nella sua interezza la fruizione, consentendogli, ad esempio, di effettuare l’acquisto all’interno della propria esperienza di navigazione multicanale, senza imporgli di doversi spostare. Cambia, quindi, il paradigma di riferimento, poiché si “comprime il processo d’acquisto”, che diventa sempre più rapido e veloce. Una comunicazione aziendale efficace sarà, dunque, in grado di ridurre notevolmente i tempi impiegati dal consumatore per dare seguito al proprio desiderio di acquisizione. Ciò impone una maggiore sinergia tra comunicazione e canale distributivo, tra comunicazione e processo di organizzazione aziendale e si traduce in una grandissima opportunità per le imprese, ma, allo stesso tempo, in un elemento di ulteriore complessità.
Altro aspetto fondamentale del fenomeno multiscreen è l’interazione: gli utenti, mentre sono esposti ai contenuti prodotti dall’azienda, mentre sono bersaglio delle sue campagne comunicative, possono condividere, riportare le proprie esperienze, interagire. Viene superato, dunque, il rapporto tradizionale azienda-consumatore, si arriva a toccare il vissuto dei consumatori stessi. Le aziende non possono fare a meno, a questo punto, di sfruttare questo vissuto, comprendendo pienamente i confini e le prospettive delle trasformazioni in corso.
Emblema della possibilità di creare un legame esperienziale tra azienda e consumatore in Italia è stato, nelle scorse settimane, lo show televisivo X Factor: il successo del legame creato attraverso meccanismo di votazione, applicazione e tweet da condividere, ha reso il telespettatore protagonista della rappresentazione e ha permesso di superare il muro del milione di telespettatori nel corso della serata conclusiva (quota molto elevata per un canale pay).
A rendere possibile l’esperienza multiscreen sono ovviamente i canali mobile, divenuti ormai parte integrante della vita personale e aziendale. In Italia gli smartphone sono diffusi tra oltre la metà della popolazione (56%), superando addirittura gli Stati Uniti (50%). La penetrazione dei tablet è del 5%, percentuale ancora contenuta, tuttavia con ampissimi margini di crescita. Il mobile costringe a trasformare ancor di più il paradigma d’acquisto, consentendo a chiunque di comprare dove e quando vuole, liberando dai vincoli del negozio fisico e pure da quelli dell’hardware fisso della propria casa e del proprio ufficio.
Integrazione, mobilità e ibridazione rendono sempre più sfumato il confine tra mondo fisico e virtuale. La crescita esponenziale dell’e-commerce fa sì che i retailer si sentano minacciati dalle vendite online e dalle offerte sempre più vantaggiose da esse proposte. Nel contesto statunitense si diffondono pratiche di concorrenza sempre più spinta tra i settori dell’off e online, tra le quali il showrooming (i retailer online forniscono delle app che consentono al consumatore di controllare il prezzo praticato dai retailer offline e incentivano, quindi, l’acquisto online al prezzo più conveniente) e il pricematching (l’utente che si reca nel negozio fisico può consultare una app che indica il prezzo online e, se questo è più basso di quello offline, può chiedere alla cassa che gli venga applicato).
Cambiano le esperienza di vendita, costrette a modellarsi sulle mutate esigenze degli utenti. Secondo i risultati di una ricerca conclusasi poche settimane fa per conto di Marco Polo Expert – ricorda infine Cristina Papini – il punto di vendita ideale per il consumatore mantiene le sue caratteristiche base (poter toccare con mano i prodotti, poter provare, potersi rivolgere a un addetto per farsi consigliare, ma non dirigere, dato che consumatore arriva al punto vendita già informato), integrandole con formule innovative, che consentono, ad esempio, di andare a ritirare dei beni precedentemente ordinati online, di prenotare online un prodotto al momento out of stock, di leggere direttamente dal cartellino le recensioni e le esperienze degli altri utenti, di accedere a contenuti multimediali relativi al prodotto o di pagare direttamente attraverso il proprio cellulare.
La rivoluzione digitale sembra aver messo nelle mani del consumatore una sorta di nuovo potere, che le aziende sono costrette a prendere in considerazione, adattando il prodotto, la comunicazione, la distribuzione e il prezzo alle esigenze di tale potere.
I consumatori digitali rappresentano oggi la parte prioritaria della popolazione italiana e ciò comporta lo sviluppo di nuove sfide non solo per le aziende ma anche per coloro che si occupano professionalmente di analizzare il fenomeno: “I consumatori digitali sono diventati troppi, mettendo in crisi il sistema di riferimento usato in questi anni per studiarli”, ha rilevato Christian Centonze, Targeting & Segmentation Manager di Nielsen. Da qui la scelta dell’Osservatorio di cambiare prospettiva, limitando l’approfondimento al solo segmento degli utenti della rete. L’oggetto di studio non sarà dunque, più, da questa edizione in poi, l’intera popolazione italiana, ma – ad oggi – quei 31 milioni di consumatori digitali “evoluti”. “Se fino ad oggi bastavano due variabili per classificare i consumatori multicanale – essenzialmente quanto sono importanti le tecnologie digitali nel determinare il mio comportamento d’acquisto e quanto le utilizzo in modo interattivo […] – adesso queste variabili non bastano più, ne servono almeno altre due: la prima è la propensione all’e-commerce, la seconda, ancora più importante, è il ruolo dei devices mobile nella propensione all’acquisto”, ha sottolineato sempre Centonze. Utilizzando queste quattro variabili si passa dalla precedente definizione di due stili d’acquisto all’identificazione di quattro distinti comportamenti di consumo multicanale, raccolti in altrettanti cluster.
Troviamo innanzitutto i cosiddetti Newbie, che, pari a 5,3 milioni di individui, rappresentano i neofiti dell’approccio multicanale. Dal punto di vista sociodemografico, questo cluster è caratterizzato da una prevalenza di donne (60%), dalla presenza consistente di over 55 (34%), infine da una scolarità e una disponibilità economica adagiata sulla media italiana. Sotto il profilo psicografico, si tratta di individui con comportamenti piuttosto tradizionali: sono abitudinari, dedicano gran parte del tempo libero alla cura della casa e della famiglia, si dimostrano poco aperti all’innovazione, rappresentano un target ancora sostanzialmente televisivo, utilizzano un cellulare classico, non si impegnano per un processo d’acquisto particolarmente strutturato o pianificato, ma sono semplicemente orientati ad un prezzo basso. In questo segmento l’intensità di utilizzo del mezzo digitale non è particolarmente forte, si determina una multicanalità poco sviluppata, che si traduce in una bassa interazione con le aziende e con gli altri utenti, nella presenza di forti barriere all’accesso di un’esperienza e-commerce e nel ruolo ancora marginale dei devices mobili nel processo d’acquisto. La cosa interessante è che questo è un cluster molto piccolo: ciò significa che la multicanalità rappresenta una soluzione radicale, una volta che l’utente decide di intraprenderla, la abbraccia in modo massivo.
Gli Old Style Sufer, pari a 7,7 milioni di consumatori, si caratterizzano per un approccio al web “vecchio stile” e strumentale, pensato per agevolare il proprio processo d’acquisto. Dal punto di vista sociodemografico, si nota una moderata prevalenza di uomini (54%) e di giovani (gli under 35 sono il 35%), una scolarità medio alta e un reddito in media. Giovanili anche nell’atteggiamento: gli Old Style Surfer sono razionali e pianificatori, amano le novità, hanno fiducia nella tecnologia e nel progresso, nel tempo libero fanno sport, navigano molto in rete e giocano ai videogames; non sono particolarmente inseriti nel processo d’acquisto (non amano, infatti, fare shopping), ma utilizzano le tecnologie per rendere più efficiente tale processo e spendere, così, meno tempo possibile. Questi utenti sono ben immersi nella multicanalità, tuttavia il loro approccio non si discosta molto da quello tipico dei neofiti: bassa interazione con le aziende, leggono le opinioni di altri utenti ma non interagiscono a pieno con loro, hanno una propensione media all’e-commerce e i devices mobili possiedono un ruolo marginale nel loro processo d’acquisto.
I Social Shopper sono i veri protagonisti dell’attuale scenario digitale, rappresentano il gruppo più numeroso, pari a 10,7 milioni, e si caratterizzano per il forte ruolo che la rete gioca nella loro esperienza di spesa. Dal punto di vista sociodemografico, anche tra essi vi è una prevalenza di uomini (56%), una scolarità medio alta e un reddito in media; ben il 58% appartiene alla fascia degli over 45. Centonze li definisce il “ceto medio illuminato”: sono curiosi, amano le novità, l’innovazione e la tecnologia, praticano attività culturali, il bricolage, navigano molto su internet, sono persone estroverse e al tempo stesso solide e razionali; sono i veri professionisti dello shopping, il loro processo d’acquisto risulta particolarmente strutturato e la tecnologia è la loro migliore alleata nella costante ricerca della “smart choice”, ossia di acquisti intelligenti (coupon, deal, offerte vantaggiose) e del miglior rapporto qualità/prezzo. Utilizzano le nuove tecnologie in modo non solo intenso, ma anche particolarmente maturo: interagiscono in modo elevato con le aziende, partecipano attivamente alle discussioni con gli altri utenti, hanno una propensione medio-alta all’e-commerce, tuttavia anche per loro il ruolo dei devices mobili è piuttosto marginale nel processo d’acquisto. Sono proprio la numerosità e il profilo dei Social Shopper ad attestare come ormai la multicanalità possa essere definita un fenomeno di massa.
Infine gli Hyper Reloaded, che sono 7,6 milioni e rappresentano la punta massima del consumatore multicanale. Si tratta di un cluster fortemente maschile (59%), concentrato nelle fasce centrali d’età (i 25-44enni rappresentano il 57%) e con un livello socioeconomico alto (alta scolarità e ottima disponibilità di reddito). Gli Hyper Reloaded possiedono il profilo del consumatore ideale: sono estroversi, eclettici, sperimentatori, alla ricerca di avventura, di divertimento e dei più recenti devices tecnologici; hanno una vita sociale molto intensa, spendono il proprio tempo libero in svariate attività in e outdoor, viaggiano spesso all’estero e passano molto tempo fuori casa. Il loro processo d’acquisto è molto strutturato, possiedono un elevato fabbisogno informativo e rincorrono la “smart choice”, ma sono disposti a spendere in misura elevata. Utilizzano in modo assiduo le nuove tecnologie, che permettono loro un’interazione medio-alta con le aziende, una partecipazione attiva alle discussioni con gli altri utenti e un’alta propensione all’e-commerce. Per questo cluster i devices mobili sono fondamentali nel processo d’acquisto.
Ad essi sarà necessario guardare per comprendere come si evolverà lo scenario della multicanalità in Italia, da ciò l’importanza che la dimensione mobile dovrà avere nell’orientare le risorse e gli investimenti ideativi delle aziende: “Se da una parte i Social Shopper testimoniano la rilevanza della multicanalità nel presente, dall’altra gli Hyper Reloaded prefigurano quali traiettorie evolutive possiamo immaginare per la multicanalità nel futuro e in particolare come tali traiettorie siano intimamente connesse al crescente ruolo che smartphone e tablet si stanno ritagliando nel processo d’acquisto degli italiani”, ricorda ancora Centonze.
Cresce in maniera esponenziale l’e-commerce: Internet diventa per il 56% dei rispondenti il canale di vendita adatto alle proprie esigenze personali e migliora la percezione dell’esperienza d’acquisto online: tra gli elementi considerati positivi, vi sono la comodità (41%), convenienza (27%, in crescita di 3 punti percentuali sul 2011), assortimento (29%, +4%) e shopping experience (18%, +4%); migliorabili gli aspetti di percezione relativi a sicurezza e post vendita (comunque in crescita).
Con riferimento alle categorie merceologiche più acquisite online, accanto a quelle storicamente affini al commercio elettronico (ricariche telefoniche, prodotti di editoria, elettronica di consumo, viaggi, ticketing…), crescono notevolmente l’abbigliamento, che si colloca al secondo posto (il 29% di chi ha fatto shopping online si è collocato in questa categoria), e i prodotti per la cura della persona, che rappresentano la prima categoria di largo consumo acquistata online.
In relazione agli strumenti di pagamento utilizzati, la carta di credito tradizionale si conferma il metodo più diffuso (31% di chi ha effettuato acquisti online), ciononostante alcuni metodi alternativi hanno conosciuto uno sviluppo sensibile, come PayPal (29%) e sprepagate (22%).
L’Osservatorio ha cercato, inoltre, di quantificare la disponibilità crescente degli italiani a fare e-commerce, chiedendo agli intervistati se negli ultimi 6 mesi avessero effettivamente acquistato beni o servizi in rete: a rispondere positivamente è stato in media il 46% del campione, pari a 14,4 milioni di italiani, con una propensione all’acquisto irrisoria da parte dei Newbie (14%, pari a 0,7 milioni di individui), ridotta da parte degli Old Style Surfer (41%, pari a 3,2 milioni di persone) e consistente da parte dei Social Shopper (50%, cioè 5,4 milioni di individui) e soprattutto degli Hyper Reloaded (66%, pari a 5,9 milioni di utenti).
Con quale device si fa e-commerce in Italia? Da questo punto di vista emerge il divario rispetto allo scenario oltreoceano, con quel 92% di transazioni che ancora avvengono tramite pc tradizionale. Tuttavia notevoli sono i margini di crescita per i tablet, considerando che essi si posizionano al secondo posto per utilizzo in fase d’acquisto (4%), sopravanzando gli smartphone (3%), nonostante la loro bassissima diffusione tra la popolazione italiana rispetto ai telefoni cosiddetti intelligenti.
L’indagine ha inteso poi rilevare la sede virtuale dell’acquisto: il 34% del campione compra direttamente sul sito di chi produce il prodotto o il servizio, decretando, di fatto, una contrazione della filiera della vendita, quella che Centonze chiama “disintermediazione”. Aumenta parallelamente la fiducia per i venditori che operano esclusivamente online, con il 31% di surfer che affermano di aver acquistato sul sito di un e-store e il 10% che ha sfruttato un sito di social shopping. Tutte queste tendenze sembrano minacciare i punti vendita e le catene tradizionali, ancorati nell’online a una misera percentuale del 15% di utenti che acquistano sul loro sito.
Il processo d’acquisto sotteso all’online risulta – ci dice ancora l’Osservatorio – completamente diverso rispetto a quello tradizionale, definendosi in forma sostanzialmente monomediale: il 54% di coloro che hanno fatto shopping online dichiara di essere venuto a conoscenza del prodotto o servizio acquistato proprio attraverso la rete, contro un 11% che deve l’acquisto al passaparola di amici e parenti e un 10% alla televisione. Più in particolare, lo strumento virtuale più utilizzato sembra essere il motore di ricerca, tuttavia, spostandosi sui cluster più avanzati, salgono di rilevanza anche tutte le altre fonti di informazione: per i Social Shopper, ad esempio, i motori di ricerca (31%) sono seguiti dalle newsletter (18%), dal passaparola online (17%) e dall’advertising online (7%); quest’ultimo diventa addirittura la seconda fonte più importante per gli Hyper Reloaded (22%), dopo i motori (28%) e prima di adv (17%) e newsletter (10%). Un processo d’acquisto, quindi, certamente monocanale, ma abbastanza complesso e articolato.
Con riferimento al ruolo della rete nella ricerca di informazioni su beni e prodotti – al di là del processo d’acquisto vero e proprio – rimane pressoché stabile la quota di quanti vedono il Web come fonte principale in tal senso (84%) e aumenta la quota di quanti lo utilizzano per confrontare i prezzi (dal 74% del 2010 al 78% del 2012). Le informazioni vengono ricercate da casa per il 78% del campione (percentuale che sale all’84% con riferimento ai Social Shopper e addirittura al 93% per gli Hyper Reloaded), dall’ufficio per il 21%, in mobilità per il 18% e direttamente nel punto vendita per un misero 17%: si tratta di una svolta epocale rispetto all’approccio tradizionale che vede il punto vendita come principale referente del potenziale cliente.
I siti dedicati ai confronti tra i prodotti si confermano, per gli utenti, la fonte d’informazione più rilevante sul Web (55%), seguiti, subito dopo, dalle opinioni degli altri utenti (54%), opzione in forte crescita rispetto agli scorsi anni. Alle porte del 2013 sembrano essere, dunque, gli stessi consumatori il mezzo prioritario che le aziende devono sfruttare per ottenere la sperata fiducia nell’affidabilità dei propri prodotti e servizi. Al terzo posto tra le fonti considerate più affidabili, vi sono i siti delle aziende (40%) e articoli di esperti e opinion leader (28%).
Al centro dello sviluppo multicanale dell’agire imprenditoriale, vi è allora il cliente, i cui giudizi e la cui interazione arrivano oggi ad influenzare notevolmente lo stesso processo d’acquisto: aumentano negli anni le percentuali di quanti apprezzano la lettura delle opinioni di altri consumatori (dal 58% del 2010, al 62% del 2010, fino al 68% del 2012) e quella di coloro a cui piace partecipare attivamente alle discussioni online su prodotti e servizi (dal 23% del 2010, al 24% del 2011, fino al 27% del 2012). Tra le principali categorie merceologiche in cui il buzz gioca un ruolo chiave, troviamo l’elettronica di consumo, i ristoranti/locali, i viaggi e i prodotti alimentari. Un commento positivo letto su Internet può, in definitiva, spingere un qualsiasi utente a comprare il bene oggetto di commento, al contrario un giudizio negativo può facilmente indurre ad abbandonare l’acquisto. Questa consapevolezza è alla base del clamore suscitato nei mesi scorsi dai presunti fenomeni di scambio di commenti e crowdturfing su piattaforme quali TripAdvisor, in grado di deviare, proprio grazie alla massiccia e attiva presenza degli utenti, gusti e scelte generali, a favore di alcuni operatori e a discapito di altri.
Il consumatore reso così forte dall’innovazione tecnologica non sembra, tuttavia, mettere in crisi il mondo della comunicazione pubblicitaria, che, al contrario, continua a giocare un ruolo chiave nel processo decisionale d’acquisto. La televisione si conferma il mezzo che maggiormente invoglia a comprare (40%, contro il 37% del 2011), seguita dal punto vendita (23%, stabile rispetto al 22% del 2011) e da Internet (17%, contro l’11% dello scorso anno). Tutti e tre i mezzi comunque si dimostrano, con riferimento a questo parametro, in crescita rispetto al 2011, con un tasso che raggiunge per la rete quasi il 50%.
Se si scompongono questi dati in relazione ai cluster individuati, si nota come comunicazione sullo schermo televisivo e su Internet siano correlate positivamente in termini di efficacia (tanto più è efficace è l’una, tanto più lo sarà l’altra), creando una logica di sinergia più che di competizione tra i mezzi (sinergia che esclude però i punti vendita, le cui comunicazioni risultano inefficaci per invogliare l’acquisto degli Hyper Reloaded)
A ciò è legato il fenomeno del multitasking, che sembra assumere quest’anno dimensioni enormi: 8,4 milioni di individui passano almeno la metà del tempo davanti alla televisione con un PC, 5,7 milioni con un cellulare e 1,4 milioni con un tablet. Complessivamente, allora, utilizza un qualsiasi device per almeno la metà del tempo trascorso davanti alla tv ben il 34% del campione, pari a 10,6 milioni di individui, con una netta prevalenza degli Hyper Reloaded.
Questo dato rischia di imporre un cambiamento radicale negli obiettivi da dare ad una qualsiasi comunicazione pubblicitaria aziendale: se fino a ieri – ha sottolineato infine Centonze – lo scopo di uno spot televisivo “era sedimentarsi nella testa del consumatore sperando poi di influenzare il suo comportamento d’acquisti più in là, adesso un altro obiettivo concreto diventa quello di influenzare il suo comportamento subito, magari portandolo a interagire”.
Mobile e multi-tasking sembrano essere, dunque, in definitiva, i due grandi fenomeni capaci di trasformare ulteriormente il processo d’acquisto degli utenti.
Lo scenario delineato appare piuttosto stimolante per il tessuto imprenditoriale italiano, la sfida in capo all’agire aziendale non riguarda soltanto un cambiamento del media mix pubblicitario (in cui cresce la quota di internet, pari ormai al 13,1% del totale investimenti pubblicitari), ma impone di prendere in seria considerazione i mutamenti nei comportamenti d’acquisto multicanale dei diversi cluster, progettando di conseguenza opportune strategie: “I nuovi segmenti di consumatori multicanale pongono sfide importanti alle imprese. Conoscerli in dettaglio è importante per evitare di bombardarli di informazioni su tutti i canali ma per coinvolgerli in esperienze nuove di interazione con l’impresa, che creino un legame più profondo con la marca” – ha dichiarato Andrea Boaretto, Head of Marketing Projects School of Management Politecnico di Milano – “specialmente in un periodo come l’attuale in cui le marche vivono una crisi di identità e di capacità di essere rilevanti per i consumatori”, facendo leva solo su promozioni e sconti.
In questo contesto” – ha evidenziato in conclusione Giovanni Pola, Managing Director di Connexia – “per le aziende dialogare con i consumatori proponendo contenuti e iniziative di engaging non è più sufficiente. Il consumatore si vuole vedere premiato per ‘spendere’ il proprio time budget nella relazione con l’azienda. Come dire ‘Ci tieni a me? Dimostramelo non solo a parole’. Ecco che mantenere una relazione stretta basata su interessi comuni e premiare questa relazione in modo tangibile con iniziative di rewarding diventa fondamentale
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Ecosistema media Italia: personalizzazione e integrazione

La televisione e la radio si confermano i media più diffusi, ma mutano le esperienze fruitive, che sempre più vedono protagonisti il Web e il mobile. Decolla la “app economy”, boom di rete e piattaforme social, segno meno per la carta stampata, positivo l’andamento degli e-book
Personalizzazione e integrazione. Sembrano essere queste le parole d’ordine nell’evoluzione del panorama mediatico italiano. L’individuo si pone sempre più al centro delle proprie prassi fruitive, rafforza la propria presenza in qualità di lettore, telespettatore e radioascoltatore e si fa contenuto egli stesso. Declinazione 2.0 del Web, crescita esponenziale del social networking, miniaturizzazione dei dispositivi hardware, proliferazione delle connessioni mobile e delle applicazioni: sono alcuni dei fattori che hanno imposto la centralità dell’io nell’attuale modo di intendere i media. Un io che si fa al tempo stesso soggetto e oggetto delle sempre più complesse logiche comunicative. A ciò si aggiunge una progressiva commistione tra le funzionalità di mezzi di divulgazione un tempo considerati unici e indivisibili.
L’istituto di ricerca Censis ha rilasciato pochi giorni fa il suo 46esimo “Rapporto sulla situazione sociale del Paese”, relativo all’anno in corso. Nato come strumento di analisi e interpretazione di fenomeni, processi, tensioni e bisogni sociali emergenti, lo studio ha inteso approfondire, tra gli altri, proprio il settore media e comunicazione, tracciandone la fisionomia, le criticità e le prospettive, in un contesto teso tra crisi e spiragli di innovazione.
Gli utenti italiani dei media, ad uno sguardo generale, sembrano essere un po’ degli “Esploratori, per dirla con una delle tipizzazioni scelte da Jean Marie Floch per il suo noto studio sui percorsi effettuati dai viaggiatori della metropolitana. Il semiologia francese (tra i primi a sperimentare un approccio socio-semiotico allo studio dei comportamenti di consumo e dei processi comunicativo-pubblicitari) definisce gli Esploratori come coloro che valorizzano la discontinuità, che ricercano e apprezzano i “percorsi” discontinui, le variazioni, rimanendo comunque attaccati a dei valori di riferimento, preferendo cioè ritrovare quanto già conoscono piuttosto che scoprire qualcosa di completamente nuovo.
I dati Censis sui consumi mediatici degli italiani nel 2012 evidenziano, allora, come gli unici mezzi di comunicazione capaci di riscuotere un successo crescente e di incrementare la propria utenza di riferimento siano proprio quelli che sostanzialmente integrano le funzioni dei vecchi media in una rinnovata dimensione Web. Si pensi, ad esempio, agli smartphone, frutto di un connubio tra il classico telefono e le potenzialità aggiuntive del Web, o ai tablet, che uniscono, in un’unica esperienza percettiva, la tradizionale visione a schermo da TV, la lettura di libri e giornali, la visualizzazione da PC e la navigazione in rete.
Regina incontrastata tra i media continua a essere la televisione, con un pubblico di utenti che sostanzialmente coincide con la totalità della popolazione (il 98,3%, con un incremento dello 0,9% nell’utenza complessiva rispetto al 2011). Cambiano tuttavia le modalità scelte per guardare la TV, il telespettatore diventa sempre più protagonista dell’esperienza percettiva, creando spesso palinsesti totalmente personalizzati: si consolida il successo delle TV satellitari (+1,6% di utenza), si diffondono le mobile TV (+1,6%) e le Web TV (+1,2%).
La crescita di queste ultime, nonostante i forti ritardi infrastrutturali presenti nel territorio nazionale, è del resto confermata da numerose stime, come quelle costantemente prodotte e diffuse dall’Osservatorio Altratv.tv, che vedono il Belpaese al sesto posto, a livello europeo, per consumo di questo tipo di contenuti, con 642 Web TV attive. In una recente indagine, realizzata in collaborazione con la Fondazione Rosselli, l’osservatorio ha previsto che i servizi video in rete frutteranno, entro il 2012, ben l’8% del fatturato totale della televisione, percentuale che, entro il 2020, dovrebbe salire addirittura al 10%. Questo grazie soprattutto ai forti investimenti nel settore da parte dei grandi player mondiali.
Il percorso verso la personalizzazione del consumo diventa ancor più rapido se si considera il solo segmento più giovane della popolazione: ci dice il Censis che oggi un quarto degli italiani collegati alla rete (il 24,2%) ha l’abitudine di guardare i programmi dai siti Web delle emittenti televisive e il 42,4% cerca tali programmi su YouTube (o altri siti simili), per ritagliare un’esperienza totalmente su misura; tra gli internauti 14-29enni, tali percentuali salgono, allora, rispettivamente al 35,3% e al 56,6%.
Anche la radio rimane un mezzo a larghissima diffusione, raggiungendo l’83,9% della popolazione, con un tasso di crescita del 3,7% rispetto al 2011. Anche in questo caso a risultare vincente è la commistione tra esperienze percettive un tempo separate: a fronte di un calo di 2,7 punti percentuali nel consumo di radio tradizionale e di 1,7 punti percentuali nell’utilizzo di un mezzo digitale di prima generazione come il lettore portatile di file MP3, si rileva un incremento del 2,3% tra coloro che ascoltano la radio via Web tramite il PC (il 10,1% della popolazione) e dell’1,4% tra coloro che la ascoltano per mezzo dei cellulari (il 9,8% della popolazione).
Proprio i telefoni cellulari (utilizzati ormai da 8 italiani su 10) aumentano ulteriormente la propria utenza complessiva (+2,3% sul 2011), venendo utilizzati ormai da 8 italiani su 10 (81,8%), anche grazie agli smartphone (+10% in un solo anno), la cui diffusione è passata dal 15% del 2009 al 27,7% del 2012.
È ancora la fascia dei 14-29enni a innalzare la media di diffusione degli smartphone (54,8%) e pure quella dei tablet (13,1%, contro il 7,8% riferito alla media nazionale). È di certo un’utenza ancora di nicchia quella dei tablet, tuttavia si notano interessanti trend e margini di crescita.
Nel primo semestre 2012 il traffico dati registrato sulle carte SIM è cresciuto del 12,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; si contano ben 21 milioni di schede che effettuano traffico dati e il volume medio prodotto da ciascuna di esse è del 21% in più rispetto al 2011.
Decolla di conseguenza la cosiddetta “App Economy”: nell’ultimo anno il 37,5% di chi usa smartphone o tablet ha scaricato applicazioni e il 16,4% ha dichiarato di averlo fatto spesso (il restante 21% qualche volta). Tra le molteplici funzionalità messe a disposizione da questo ecosistema digitale, le più apprezzate sembrano essere quelle riferite alla dimensione ludica: in cima alla classifica delle app più scaricate figurano i giochi (ricercati dal 63,8% di chi ha scaricato applicazioni). Seguono informazioni meteo (33,3%), informazioni stradali (32,5%) – con un utilizzo prevalente da parte del pubblico maschile (40,6%) rispetto a quello femminile (21,5%) – e mondo della condivisione e dei social network (27,4%). Il download di applicazioni per le news interessa il 25,8% della popolazione di riferimento, soprattutto uomini (29,5%), 45-64enni (30,7%) e più istruiti (31,3%). Il 23,8% ha scelto app multimediali, il 23,2% app per telefonare e inviare messaggi istantanei via Internet, infine il 16,2% ha preferito scaricare app relative al settore trasporti, turismo e viaggi.
Il mezzo che complessivamente registra nel 2012 il tasso di crescita maggiore sul 2011 è Internet (+9%), con una penetrazione che passa dal 53,1% al 62,1% (e che solo dieci anni fa, nel 2002, era pari al 27,8% della popolazione). Il dato sale notevolmente nel caso dei giovani (90,8%), delle persone più istruite, diplomate o laureate (84,1%), e dei residenti delle grandi città, con più di 500.000 abitanti (74,4%).
Continua parallelamente la crescita dei network sociali: il 66,6% delle persone che hanno accesso a Internet risulta iscritto a Facebook (lo scorso anno la stima era del 49%), pari al 41,3% dell’intera popolazione e al 79,7% dei giovani tra i 14 e i 29 anni. YouTube, che nel 2011 raggiungeva un tasso di diffusione pari al 54,5% delle persone con accesso alla rete, arriva ora al 61,7% (cioè al 38,3% della popolazione complessiva). Messenger raggiunge il 14% dell’utenza Web (9,2% del totale), Twitter l’8,8% (5,4% del totale).
Segno meno anche quest’anno per la carta stampata: i lettori di quotidiani registrano un -2,3% rispetto al 2011 e passano da un tasso di diffusione del 67% nel 2007 a una penetrazione che coinvolge il 45,5% degli italiani. Per contro, guadagnano quote i quotidiani online (+2,1% sul 2011), arrivando al 20,3%. Perdono lettori anche free press (-11,8%, con una penetrazione pari al 25,7% della popolazione), i settimanali (-1%, diffusione al 27,5%) e l’editoria libraria (-6,5%, utenza del 49,7%).
Meno della metà degli italiani, insomma, legge almeno un libro all’anno e diminuiscono i cosiddetti “lettori forti” (quelli che di libri ne leggono almeno dieci all’anno), che passano dal 25,6% (su un totale di lettori del 59,4%) di soli cinque anni fa all’attuale 13,5% (dei 49,7% lettori complessivi); crescono di conseguenza i lettori occasionali (che leggono uno o al massimo due libri all’anno), saliti dall’11,2% del 2007 al 41,1% del 2012.
Nella fascia dei più giovani si aggrava l’allontanamento dalla carta stampata, con i lettori di quotidiani fermi al 33,6% (contro il 35% del 2011) e lettori di libri bloccati al 57,9% (contro il 68% del 2011).
Positivo – prosegue il Censis – l’andamento degli e-book, con un +1% che, tuttavia, non si dimostra in grado di invertire lo scenario buio. I lettori abituali (almeno tre e-book letti all’anno) sono appena lo 0,7% della popolazione, ma aumenta il numero di titoli digitali immessi sul mercato dalle case editrici (37.662 a settembre 2012, contro i 19.884 di dicembre 2011) e il 37% delle novità editoriali viene oggi pubblicato anche in versione e-book.
Alcuni tenui segnali di ripresa sono stati, inoltre, di recente individuati da Nielsen, che ha stimato una perdita di 7,5 punti percentuali sui consumi di libri a fine ottobre (pari a 82milioni di euro di spesa in meno): si tratta di una perdita importante, che tuttavia lascia spazio all’ottimismo, se si considera che il mercato registrava un -11,7% a fine marzo e un -8,6% a inizio settembre.
Inizia poi a farsi strada una nuova tendenza, quella del self publishing, cioè l’auto-pubblicazione di libri: secondo l’Aie (Associazione Italiana Editori), nel 2011 sarebbero stati rilasciati 1.924 codici Isbn direttamente ad autori per auto-pubblicazioni e sarebbero circa 40.000 i titoli auto-pubblicati attualmente in catalogo, pari al 5% di tutti i titoli in commercio (dei quali 6.500 sono stimati essere in formato e-book).
A fare da contraltare alla riduzione dei consumi di quotidiani è il successo dei portali Web d’informazione generica (che non fanno cioè riferimento a testate giornalistiche), utilizzati ormai da un terzo degli italiani (il 33% nel 2012); non sarebbe, dunque, il bisogno di informazione a essere diminuito, bensì sarebbero mutate le vie scelte per soddisfare tale bisogno. Gli esperti del Censis parlano di “autoreferenzialità dell’accesso alle fonti di informazioni”, intendendo la deriva alla personalizzazione che ha subito, nel tempo, attraverso la rete, l’esperienza di lettura degli utenti della notizia. Il rischio è, allora, che il Web diventi uno strumento per cercare conferma alle opinioni, ai gusti e alle preferenze che già si possiedono, facendo cadere il mito romantico di un’informazione capace di sollevare la riflessione a prescindere da preconcette convinzioni.
L’intensa diffusione nell’utilizzo del Web e delle piattaforme social ha posto, infine, non poche problematiche in tema di privacy, vista l’immensa quantità di dati e informazioni personali messa – più o meno consapevolmente – a disposizione dagli stessi utenti ogni giorno. Lo studio Censis ha inteso, allora, indagare anche su questo rovescio di medaglia, rilevando come ben il 75,4% di chi accede a Internet ritenga vi sia un rischio concreto di violazione in tal senso. In particolare, il 23,5% teme la registrazione da parte dei motori di ricerca dei propri percorsi di navigazione, il 21,4% si preoccupa della possibile acquisizione e dell’utilizzo a scopi commerciali di proprie informazioni, da parte delle applicazioni utilizzate, il 14,7% teme la geolocalizzazione, la possibilità cioè che alcune applicazioni possano registrare la propria posizione.
Esistono, poste queste premesse, delle soluzioni al problema della riservatezza in rete? Il 54,3% degli italiani ritiene che siano necessarie maggiori tutele, attraverso una normativa più severa che preveda sanzioni e rimozione dei contenuti sgraditi; il 29,3% pensa, al contrario, che sia impossibile garantire la privacy nella virtualità, dove non vi è distinzione tra pubblico e privato; l’8,9% ritiene di poter tranquillamente sacrificare la privacy sull’altare della condivisione e dei benefici che ne derivano; infine un residuale 7,6% crede non ci siano rischi e che le attuali regole a garanzia siano sufficienti.
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Giornalisti tricolori: troppi, sempre più vecchi, pochi i subordinati

Sono oltre 112.000 le firme in Italia, ma solo il 45% ha una posizione contributiva attiva all’Inpgi e solo 1 su 5 ha un contratto di lavoro dipendente, guadagnando così 5 volte più di un freelance e 6,4 volte più di un Co.co.co.  Approvata la legge sull’equo compenso, si auspica ora una riforma sostanziale della professione

Lo scorso 4 dicembre il voto unanime della commissione Cultura alla Camera ha approvato, dopo mesi di tira e molla, la Legge sull’equo compenso per i giornalisti freelance e i collaboratori autonomi, che intende porre fine al moltiplicarsi, soprattutto in tempi di multicanalità e interattività, degli episodi di sfruttamento tra i professionisti della parola e del pensiero. Si tratta, come si legge all’articolo 1 della stessa legge, della “corresponsione di una remunerazione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione nonché della coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria”. In pratica significa essere pagati tanto quanto si lavora, nel rispetto della propria professionalità e dignità.
La schiavitù è abolita per legge” ha tuonato dal proprio sito l’Ordine dei giornalisti, sottolineando l’importanza di quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, un ulteriore passo verso l’auspicata riforma della professione, dopo l’approvazione del DPR 7 agosto 2012, n. 137, che ha inteso revisionare trasversalmente tutti gli ordinamenti professionali – prevedendo, ad esempio, l’obbligo di formazione permanente e l’istituzione di Collegi di disciplina che si facciano garanti della tutela deontologica della professione – senza tener conto delle specificità e criticità proprie del giornalismo. Che non sono, a ben vedere, così poche e così facilmente superabili: i giornalisti in Italia sono tanti, probabilmente troppi, soprattutto se si accetta il confronto con gli altri paesi; il gap tra le retribuzioni delle firme dipendenti e quelle di autonomi e Co.co.co appare in continuo aumento; sempre più numerosi sono i capelli bianchi nel settore, mentre si riduce il numero dei rapporti professionali.
Questi e altri trends sono stati rilevati, in particolare, dal rapporto La fabbrica dei giornalisti” di Lsdi (Libertà di stampa e diritto all’informazione), aggiornato con i dati relativi al 2011 e presentato lo scorso 30 novembre in un convegno alla Federazione Nazionale della Stampa a Roma.
In controtendenza rispetto a gran parte dei paesi occidentali, in Italia il numero dei giornalisti continua ad aumentare, contando, a inizio ottobre 2012, ben 103.036 professionisti (che diventano oltre 112.000 se si considerano anche gli iscritti all’elenco speciale e gli stranieri), contro i 102.656 del 31 dicembre 2011 e i 100.487 dell’anno precedente. Essi sono il triplo di quelli presenti in Francia (37.286) e quasi il doppio di quelli in Gran Bretagna (circa 50.000) e Stati Uniti (cica 60.000).
Tuttavia, a fine 2011, solo il 45% delle complessive 102.656 firme italiane (pari a 46.243 unità) risultava effettivamente attiva, cioè dotata di una posizione contributiva attiva all’Inpgi (l’ente previdenziale dei giornalisti nel Belpaese); si tratta di una percentuale di mezzo punto superiore a quella registrata nel 2010, quando i giornalisti attivi erano il 44,5% (44.906 su 100.487 iscritti all’Ordine), e di quasi un punto superiore a quella del 2009 (44,1%, cioè 43.300 iscritti).
Di questi 46.243 giornalisti attivi, 19.639 operano con un rapporto di lavoro subordinato e 26.524 sono invece autonomi e parasubordinati (i cosiddetti Co.co.co). È, in particolare, il peso crescente di questi ultimi a determinare gli incrementi registrati. Nel lavoro dipendente le posizioni attive (presso l’Inpgi1) sono calate, infatti, dalle 20.087 del 2009 (46,4% dei 43.300 giornalisti attivi), alle 19.895 del 2010 (44,3% di 44.906), fino alle 19.639 del 2011 (42,6% su 46.243); nel lavoro autonomo, invece, le posizioni attive (presso l’Inpgi2) sono passate dalle 23.213 del 2009 (53,6%), alle 25.011 del 2010 (55,7%), fino alle 26.524 del 2011 (57,4%). Tra il 2010 e il 2011, dunque, i lavoratori autonomi attivi sono aumentati di 6,05% (l’incremento era stato invece del 7,7% nel 2010), mentre quelli subordinati sono scesi dello 0,94%.
Il bacino dei giornalisti retribuiti ufficialmente continua a ingrandirsi, nonostante lo stato di crisi di molte testate, i prepensionamenti e il sostanziale blocco del turn over (i praticanti sono scesi da 1.306 del 2009 a 868): questo proprio grazie alla sola crescita degli autonomi e parasubordinati. Solo il 19,1% degli iscritti all’Ordine – meno di un giornalista su 5 – ha, infatti, un contratto di lavoro dipendente.
Completano il profilo degli iscritti all’Ordine i pensionati, che a fine 2011 erano 6.128 (di cui 5.206 dipendenti con posizione Inpgi1 e 922 autonomi con posizione Inpgi2, complessivamente pari al 6%), e i 50.365 giornalisti senza alcuna posizione Inpgi, pari al 49% del totale.
Com’è noto l’albo dei giornalisti tenuto da ogni Ordine regionale o interregionale è suddiviso in due elenchi principali (oltre agli elenchi speciali): quello dei professionisti, che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione, e quello dei pubblicisti, che svolgono l’attività in modo non occasionale e retribuito, anche se contestualmente ad altre professioni e impieghi. Con riferimento, allora, alla composizione degli attivi, nell’ambito del lavoro subordinato, nel 2011 i professionisti sono passati da 16.193 a 15.908 (-285 unità), diventando il 56,9% dei 27.960 professionisti iscritti all’Ordine, mentre i pubblicisti sono passati da 3.348 a 3.434 (+86 unità), raggiungendo quota 4,7% dei 73.030 iscritti all’elenco pubblicisti.
Fra gli autonomi, invece, i professionisti attivi sono passati dai 4.781 del 2010 (il 17,4% di tutti i professionisti) ai 5.201 del 2011, pari al 18,6% di tutti i professionisti, mentre i pubblicisti sono saliti a 20.260 (il 27,4% di tutti i pubblicisti) da 19.428 (27,3%).
Oltre alla composizione interna, le differenze profonde tra i due diversi segmenti del giornalismo professionale si notano anche a livello di retribuzione: mentre la media annua delle retribuzioni lorde dei giornalisti dipendenti è pari a 62.228 euro, il reddito lordo medio degli autonomi è di 12.456 euro e quello dei parasubordinati è di 9.703 euro. In altre parole, il reddito medio dei giornalisti dipendenti è 5 volte maggiore rispetto a quello degli autonomi e 6,4 volte superiore a quello dei Co.co.co.
Sul piano del lavoro subordinato, se i rapporti di lavoro diminuiscono in termini numerici e nelle fasce più basse peggiorano sul piano del reddito, si registrano, per contro, dei lievi miglioramenti nei compensi delle fasce medio alte. Tanto che, stando ai dati Inpgi1, la retribuzione media lorda dell’intero settore lavoro dipendente sarebbe in crescita sia sul 2009 (quando era pari a 61.620 euro) che sul 2010 (61.865 euro), anche come conseguenza dei miglioramenti contrattuali. Pure le stime Casagit (la cassa che assicurare ai giornalisti e ai loro familiari un sistema integrativo dell’assistenza prestata dal Servizio Sanitario Nazionale con una copertura delle spese sanitarie che prosegue anche dopo il pensionamento e senza limiti d’età) confermano in parte questo trend, mostrando, nel 2011, un lieve aumento (+0,8%) nell’ammontare del contributo medio versato dai giornalisti contrattualizzati.
Una certa stabilità nel lavoro giornalistico dipendente è comprovata anche dallo stato di buona salute del Fondo di previdenza complementare (che si affianca, con adesione volontaria, al regime pensionistico obbligatorio di base dell’Inpgi, attraverso la capitalizzazione individuale delle risorse): si nota – sottolinea Marina Cosi, Presidente uscente del Fondo – “un discreto ricambio demografico (nuovi iscritti stanno rimpiazzando i vecchi contribuenti che lasciano il lavoro, quindi il Fondo) e l’ esistenza di una discreta quantità di lavoratori, soprattutto nella fascia di età fra i 40 e i 50 anni, che girano una parte consistente (anche il 6-7%) del loro salario alla previdenza complementare”.
Si consideri poi il fatto che ben 7.812 dei 19.639 giornalisti subordinati (il 40%) attivi hanno anche un reddito da lavoro autonomo, che non entra nel calcolo della media annua della loro retribuzione come dipendenti, ma che di fatto allarga ancor di più il divario con la condizione reddituale del lavoro autonomo e parasubordinato.
Nel campo del lavoro autonomo alcuni segnali positivi nel 2011 vi sono: la media retributiva dei ‘’liberi professionisti’’ cresce di 2,9 punti percentuali, da 12.187 a 12.586 euro, quella dei Co.co.co del 14,1%, passando da 8.505 a 9.703 euro, infine scende dal 62% al 55,8% la percentuale di denunce sotto i 5.000 euro annui lordi. Una percentuale, quest’ultima, comunque ancora elevata (coinvolge 14.800 giornalisti autonomi). Un lavoratore autonomo su 4 (il 24,4%: 3.663 liberi professionisti e 2.568 Co.co.co) dichiara inoltre redditi compresi fra lo 0 e i 1500 euro. Anche i dati sulle prime pensioni da lavoro autonomo, malgrado i lievi miglioramenti, non sembrano essere troppo rassicuranti: le pensioni sopra il 1.000 euro annui, ad esempio, sono 228 nel 2011 (il 24,2%), con una crescita del 40% rispetto al 2010 (quando erano 162).
Nel 2011 il livello di disoccupazione rimane abbasta stabile (1514 i giornalisti che percepivano l’assegno di disoccupazione, contro i 1527 del 2010), ma cresce in modo esponenziale il ricorso agli altri ammortizzatori sociali, tanto che la spesa dell’Inpgi è cresciuta del 18,9% rispetto al 2010 (+29% per la solidarietà, +144,7% per la cassa integrazione straordinaria)
Il numero dei rapporti di lavoro cala in modo costante dal 2008, passando dai 22.197 di quell’anno ai 21.069 del 2011 (-5,1% e -0,94% solo nel 2011). Gli sgravi contributivi per le aziende che assumano o trasformino rapporti di lavoro a termine o Co.Co.Co in contratti a tempo indeterminato hanno condotto all’instaurazione di soli 207 rapporti di lavoro, supplendo solo lievemente la tendenza in negativo rilevata.
Tendenza confermata anche in questo caso dalla Casagit, che ha visto, dal 2008 al 2011, un calo dei soci attivi di 1.350 unità, dei quali circa 750 soci contrattualizzati e 600 giornalisti professionisti e pubblicisti autonomi che aderivano alla Cassa in forma volontaria. Se nel 2008 i soci con contratto in Casagit erano 17.500, sono passati nel 2011 a 16.819. Solo nel 2011 essi sono diminuiti di 150 unità (nel 2010 erano 16.969), pari a un calo dello 0,8% (comunque meno marcato di quello dell’anno precedente, quando fu del 3%).
La maggiore contrazione riguarda il settore dei contratti Fieg-Fnsi (quelli che producono la parte più consistente della massa retributiva), scesi a 14.951 (pari al 70,1% di tutti i rapporti di lavoro) rispetto ai 15.172 (71,3%) del 2010 (diminuzione dell’1,46%).
Affianco alla riduzione dei soci con contratto di lavoro giornalistico, la Casagit ha rilevato, tra il 2008 e il 2011, un aumento dei soci pensionati di circa 1.200 unità (da 6.362 a 7.533), pari al 18,4%: se nel 2008 essi erano il 22%, oggi sono il 27% di tutti i soci.
Anche all’Inpgi il rapporto fra attivi e pensionati continua a scendere, passando dal 2,58 del 2010 al 2,45 del 2011.
Emerge, dunque, un progressivo invecchiamento della professione giornalistica, determinato, appunto, dalla diminuzione del numero di rapporti, dal sostanziale blocco del turn over, dalla progressione degli stati di crisi e dal flusso costante di prepensionamenti.
Rimane l’incognita sui giornalisti cosiddetti “invisibili”, quelli, cioè, iscritti all’Ordine ma privi di una posizione Inpgi e che, stando agli ultimi dati aggiornati al 1^ ottobre scorso, sarebbero il 46,8% di tutti gli iscritti (escludendo elenco speciale e stranieri), pari a 48.206 unità: “possiamo supporre” – affermano i promotori del report – “che in questa grossa fetta del giornalismo italiano ci sia un’ampia fascia di precariato”, “una miriade di giovani (e meno giovani) inseriti in qualche modo nella macchina della produzione e della distribuzione dell’informazione giornalistica – soprattutto nel segmento dell’ online – che premono verso l’alto nella speranza di raggiungere almeno il traguardo di uno sbocco nel pubblicismo”.
L’auspicio finale è, allora, che si arrivi presto ad una riforma sostanziale della legge istitutiva dell’ordine (una legge che il prossimo anno compirà cinquant’anni, la Legge 3 febbraio 1963, n. 69), capace di superare l’attuale distinzione tra professionisti e pubblicisti, considerata obsoleta, e capace di offrire garanzie certe alle firme italiane e, di conseguenza, agli stessi cittadini, i quali devono poter contare su un’informazione libera, consapevole e trasparente.
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Editoria e crisi: cala il giro d’affari, diminuiscono i lettori, cresce il digitale

Un settore che, da sempre considerato anticiclico, sembra ora scontare il difficile peso della congiuntura economica negativa (fatturato in calo del 4,6%), malgrado una diversificazione dell’offerta editoriale e i dati positivi sul versante e-book

È un invito a correre subito ai ripari quello lanciato dal presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE) Marco Polillo dal palco d’onore della Buchmesse, la Fiera internazionale del libro di Francoforte, giunta quest’anno (dal 10 al 14 ottobre 2012) alla sua 64esima edizione. “Non è più il tempo di parole per il mondo del libro. Ci servono fatti”, ha sottolineato. “La tempesta perfetta si è scatenata sul libro, travolto dal calo della domanda e dalle difficoltà di accesso al credito, in un momento in cui gli editori sono chiamati a ingenti investimenti sul digitale”, ha proseguito Polillo. “Non chiediamo soldi […], così come non li abbiamo mai chiesti. Chiediamo, invece, misure sostenibili, per dare opportunità e risposte”: una politica pensata per uno sviluppo reale del libro, capace di dare sostegno alle librerie indipendenti e maggiori risorse alle biblioteche, di introdurre nei programmi scolastici l’educazione alla lettura e di considerare il ruolo centrale degli editori quali “operatori culturali”.
Quella che spaventa Polillo e l’intero mondo dell’editoria è, in fondo, una “tempesta” confermata dai numeri.
Dopo un 2010 caratterizzato da un andamento in positivo (fatturato in crescita di 0,5 punti percentuali), torna, infatti, a riaffacciarsi, sul mercato dell’editoria, l’allarme crisi scattato nel 2008 (quando si è assistito ad una riduzione del fatturato nell’ordine del 4,3%), travolgendo in maniera ancor più ampia un prodotto, il libro, da sempre ritenuto anticiclico.
Il Rapporto 2012 sullo stato dell’editoria in Italia, a cura dell’ufficio studi AIE, fotografa la situazione relativa al 2011 e ai primi nove mesi del 2012 e ufficializza l’ingresso di questo mercato in una zona d’ombra, in linea, per la prima volta, con tutti gli altri beni e segmenti.
Da un fatturato complessivo di 3.470 milioni di euro nel 2010, si è passati, allora, ai 3.309 milioni di euro del 2011, con una flessione pari al 4,6%. Forte la diminuzione delle vendite, in particolare, per i canali trade (librerie, Gdo, edicole, vendita al dettaglio, librerie online e vendita tramite web, e-book), che hanno segnato un -3,7%.
Con riferimento ai generi, si conferma la crescita del segmento bambini e ragazzi, mentre tutti gli altri mostrano segni di sofferenza più o meno marcati: la non-fiction specialistica (dove si concentra l’offerta di saggistica di cultura, accademico-universitaria e professionale) sembra essere il segmento che più risente della situazione negativa, l’editoria scolastica di adozione segna invece una crescita ma piuttosto lieve (+0,2%).
Per quanto riguarda i canali di vendita, nel 2011 diminuisce di 4,2 punti percentuali il fatturato delle librerie, con le librerie di catena che sembrano ormai aver abbondantemente superato la quota di mercato delle soluzioni indipendenti e a conduzione familiare (41,3% le prime, contro il 37,9% delle seconde, capovolgendo la situazione del 2008, quando le prime occupavano il 36% e le seconde il 43,3%). Crolla la Gdo (banchi libri in supermercati e ipermercati), con un -17,9%, calano anche le vendite di libri in edicola (-10%), mentre crescono del 14,2% le vendite on line di libri (si appropriano di una fetta pari al 9,7% dei canali trade) e del 2,3% i collaterali editoriali (quei prodotti diffusi unitamente al bene editoriale principale), spostatisi su offerte “super economiche”. Pur rappresentando un mercato ancora embrionale (12,6 milioni di fatturato nel 2011, pari a un peso dello 0,87% dei canali trade e dello 0,38% del mercato complessivo), cresce notevolmente il canale e-book, che registra un +740% sulle vendite del 2010 e che moltiplica il numero dei titoli disponibili (così come dei dispositivi di lettura in circolazione).
Crescono anche i lettori degli e-book (gratuiti e a pagamento) che, tra la popolazione con più di 14 anni, sono stati stimati, nel 2011, in 1,1 milioni (pari al 2,3% del totale), contro i 691 mila del 2010 (1,3%). Di questi lettori, 567 mila (pari all’1,1%) hanno acquistato almeno un e-book (365 mila nel 2010, pari allo 0,7%). Il dato si dimostra in controtendenza rispetto alla generale riduzione dei lettori in Italia, stimati in 25,9 milioni nel 2011 (-723 mila sul 2010) e in una percentuale pari al 45,3% (contro il 46,8% del 2010) dell’intera popolazione con più di 6 anni.
Buone le performance dell’intero mercato digitale, che coinvolge, oltre agli ebook, anche le banche dati e servizi a carattere editoriale e che rappresenta nel 2011 il 4,8% del mercato libraio. Esso non riesce, tuttavia, a compensare la generale flessione del settore editoriale.
In leggera crescita pure il numero delle case editrici attive in Italia, divenute 2.225 nel 2011 (+0,9% sul 2010), con almeno 10 titoli attivi all’anno e con circa 32 mila addetti. I grandi gruppi editoriali (Mondadori, Rcs, Gruppo GeMS, Gruppo Giunti e Feltrinelli editori), con i loro marchi e le loro imprese collegate, coprono oggi il 13,6% dei titoli pubblicati e distribuiti, contro l’80,4% della piccola e media editoria.
Segno più per la produzione, con 63.800 titoli (+10,8%), 39.000 novità (+8,2%) e 213 milioni di copie (+2,5%), secondo i dati Istat. Rispetto al 2000, tuttavia, si stampano ben 53,9 milioni di copie in meno, nonostante i 3 mila titoli in più. Il prezzo medio del libro di carta è diminuito, nel 2011, di 3,1 punti percentuali, attestandosi a 20,45 euro (al netto dell’Iva al 4%, il prezzo medio è di 19,66 euro).
Praticamente immutato, nel 2011, il giro d’affari dell’export, con 41 milioni di euro e una quota dell’1,2% sul mercato complessivo del libro. Crescono i fenomeni di internazionalizzazione: oltre all’ingresso di alcune case editrici in società straniere, aumentano le vendite dei diritti e le coedizioni con case editrici straniere (a un tasso del 16% medio annuo, passando da 1.800 a 4.629 titoli in dieci anni), che non coinvolgono più solo la narrativa letteraria e d’autore (17%), ma anche di genere (rosa, giallo, fantasy), bambini (25%), saggistica (16%), arte e illustrati (21%). Calano, invece, le traduzioni da varie lingue straniere, che costituiscono il 19,7% dei titoli nel 2011 (erano il 24,9% nel 1997), con il 35,8% delle copie stampate e distribuite riconducibili ad autori stranieri (40,3% nel 2012). Ad alimentare la crescita dei titoli a catalogo sembrano essere, oggi, soprattutto gli autori italiani (+2% di crescita media).
Le stime provvisorie relative al 2012 non fanno che confermare e aggravare i segnali di una crisi strutturale del settore, con 27 mila titoli pubblicati e immessi nel mercato nei primi cinque mesi (pari al 9,1%), contro i 29.900 del corrispondente periodo 2011. Peggiorano anche le performance dei canali trade, con un -8,7% a copie e un -7,3% a valore registrati nei primi nove mesi. In controtendenza, ancora una volta, il segmento e-book, che segna una crescita del 59%, in meno di sei mesi, nel numero di titoli disponibili (si è passati dai 19.884 di fine dicembre ai 31.615 di inizio giugno).
È su tale segmento, così promettente e allo stesso tempo così ostacolato (non solo dalle resistenze di pubblico, ma anche dalle politiche economiche) che si concentrano innanzitutto le speranze degli editori. Il presidente Polillo auspica, infatti, l’estensione anche agli e-book del regime agevolato di IVA al 4%, attualmente previsto per i soli libri cartacei (visto il loro fondamentale ruolo nella promozione della cultura e dell’istruzione). Egli parla di una vera e propria “discriminazione fiscale” tra libri di carta e libri digitali (sottoposti all’IVA ordinaria del 21%), incomprensibile e sempre più dannosa, poiché traducibile in un “disincentivo al consumo e all’innovazione in un settore importante anche ai fini dell’implementazione dell’Agenda digitale europea”.
L’editoria libraria è “l’unico segmento dell’industria culturale dove le imprese europee sono leader nel mondo”, prosegue Polillo, rivolgendo al Governo la richiesta di un aiuto concreto nel mantenere tale posizione di leadership. “Nonostante la crisi, nonostante le difficoltà finanziarie, l’editoria italiana sta dimostrando tutta la sua capacità di innovazione”, come dimostrano alcuni progetti seguiti da AIE: il progetto LIA (Libri italiani accessibili), che punta ad aumentare la disponibilità sul mercato di e-book in versione accessibile per persone non vedenti e ipovedenti; il progetto TISP (Technology and Innovation for Smart Publishing), che prevede di realizzare una piattaforma innovativa frutto della collaborazione tra industria editoriale e fornitori di tecnologia europei.
L’art. 8 della Legge 62 del 2001 (Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali) riconosceva un credito d’imposta pari al 3% del costo sostenuto dalle imprese per gli investimenti in innovazione. Polillo ne chiede, allora “il rifinanziamento, per sostenere il processo di transizione al digitale” e favorire, dunque, la sostenibilità dei molti cambiamenti strutturali che gli editori stanno realizzando “sui propri cataloghi, sui processi interni, sulle attrezzatture, sulla formazione e riqualificazione del personale”.
Un ulteriore ingrediente della ricetta Polillo è “una politica coordinata per il libro”, capace di superare gli eccessivi e frammentati rapporti e interlocutori coinvolti nel settore: “Dobbiamo evitare inutili sovrapposizioni e una svantaggiosa dispersione delle azioni da intraprendere”, sottolinea. Un efficace coordinamento delle azioni a sostegno del libro e della lettura “è l’unico modo per affrontare la crisi del mercato del libro e il dramma dei bassi indici di lettura in Italia”.
Infine la richiesta di una gestione attiva e più avanzata dei diritti d’autore, la cui tutela “deve essere presidiata” e “non deve limitarsi alla protezione e alle sanzioni”, ma difendere e valorizzare l’innovazione.
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