Il rischio d’impresa in tempi di crisi e mercati globali

Esiste una consapevolezza circa le opportunità derivanti dall’assunzione di rischi, ma le pratiche di gestione sembrano ancora immature: limitata formalizzazione del processo, scarso utilizzo di strumenti software specializzati e nessuna attenzione al rischio di cambio

Nell’attuale contesto economico, caratterizzato da una complessità crescente, testa tra globalizzazione dei mercati e stagnazione di interi settori, quello del rischio sembra essere un concetto sempre più centrale, divenuto perno dell’agire aziendale e fondamento stesso della sfida imprenditoriale. La dimensione del rischio nasconde, accanto a potenziali e inevitabili pericoli, anche e soprattutto una serie di opportunità che, se ben integrate nei processi aziendali, possono permettere di ridurre gli effetti negativi della crisi e far intraprendere la via del rilancio. Questo è tanto più vero quando si fa riferimento alle piccole e medie imprese, il vero motore della nostra economia nazionale (rappresentano oltre il 99% del tessuto imprenditoriale e occupano l’80,3% della forza lavoro nel settore privato non finanziario), che ha subito maggiormente le conseguenze dell’attuale difficile congiuntura economica.
Il profilo di rischio delle imprese non può che risultare alterato da una situazione che impone, sempre più, la ricerca di soluzioni aziendali innovative, l’apertura di nuovi canali di vendita e la penetrazione in mercati prima inesplorati. Comprendere, allora, questo nuovo profilo, valutare, cioè, quali strumenti e competenze mettano attualmente in gioco le imprese italiane per gestire al meglio i rischi cui sono esposte, diventa fondamentale per assorbire le inevitabili perdite e indirizzare l’azione quotidiana all’imperativo della produttività.
Sono stati diffusi nei giorni scorsi i risultati della prima edizione dell’Osservatorio sul Risk Management nelle PMI italiane, realizzato dal Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, nell’ambito delle attività di ricerca della Cattedra Cineas di Global Risk Management, in collaborazione con the FinC – the Finance Centre e con CONFAPI Industria.
Obiettivo dell’indagine era, in particolare, analizzare lo stato dell’arte relativo alle pratiche di gestione del rischio adottate dalle imprese italiane non finanziarie di piccole e medie dimensioni, dunque studiare la loro cultura di rischio, i metodi scelti, evidenziare le aree di rischio più rilevanti, la frequenza dei controlli, l’intensità degli investimenti, la propensione al rischio (risk appetite).
PERCEZIONE
Su un campione di 427 aziende distribuite su tutto il territorio nazionale e appartenenti a tutti i settori dell’economia, si è innanzitutto cercato di indagare la percezione che le imprese hanno del concetto di rischio e della loro esposizione in tal senso.
Ben il 53% del campione lo percepisce come un’opportunità da cogliere e da gestire attivamente, contro un 31% che lo vede come qualcosa di negativo da evitare ad ogni costo e un 16% che non lo considera tra le scelte strategiche, ritenendolo un aspetto marginale rispetto alla gestione del business. In parziale contrasto con tale consapevolezza, emerge come a spingere verso l’adozione di un sistema di gestione del rischio siano soprattutto fattori esogeni.
Il 33% delle imprese considerate afferma il prevalere di un approccio proattivo alla gestione dei rischi, volto, cioè, all’identificazione delle diverse tipologie di rischio e allo studio delle correlazioni esistenti tra dinamiche competitive e fattori di rischio (percentuale che sale al 45% se si considerano le sole aziende che hanno dichiarato di vedere delle opportunità nell’assumere rischi). Nel 25% dei casi si adotta invece una copertura sistematica di specifiche categorie di rischio precedentemente mappate, infine il 15% utilizza solo polizze assicurative e il 27% adotta un approccio reattivo.
Tra le varie tipologie di rischio, sono quelli operativi a essere presi maggiormente in considerazione: si presta attenzione soprattutto (53% del campione) al rischio connesso ai processi aziendali, ossia all’eventualità che qualche imprevisto incida sul corretto svolgimento del core business.
Con riferimento ai rischi strategici, sono invece i rischi di concentrazione e di controparte a essere più considerati (rispettivamente dal 51% e dal 49% del campione). Decisamente inferiori sono le cautele riservate al rischio di reputazione (19%), malgrado la centralità dello stesso per l’immagine e la credibilità verso gli stakeholder, dunque per la sopravvivenza del business. Ancor meno considerati i rischi politici (11%) e normativi (18%), segnale di una norma vista più come obbligo da adempiere che come stimolo al miglioramento delle procedure.
Tra i rischi finanziari, prevalgono quello di credito (60%) e di liquidità (32%), segue il rischio dei tassi d’interesse e solvibilità (30%). Ancora poco considerato è, invece, il rischio di cambio (15%), nonostante la crisi spinga sempre più le imprese a guardare oltre i confini nazionali per rilanciare il proprio business, attraverso lo scambio con Paesi dotati di monete diverse dall’euro. Maggiore attenzione dovrebbe essere dedicata, visto il contesto turbolento attuale, anche al rischio di fluttuazione dei prezzi delle commodity (14%) e a quello di inflazione (7%).
Ma come percepiscono il proprio profilo di rischio le PMI italiane? Il 58% di esse ritiene che sia medio, il 25% lo ritiene basso e il 17% alto. I settori più “rischiosi” sembrano essere quello delle costruzioni e del commercio, rispettivamente con il 29% e il 15% del campione che ritiene alto il rischio (contro l’8% della manifattura e il 4% dei servizi). Il 35% del campione segnala un aumento del proprio profilo di rischio negli ultimi cinque anni e il 25% si aspetta un ulteriore aumento nei prossimi anni. Si intravede comunque una percezione di incertezza: domina, tra le prospettive future, l’idea di un profilo di rischio volatile (37%), mentre è minima la quota di quanti prevedono una diminuzione del rischio (5%).
E come percepiscono, ancora, le PMI italiane, il mercato in cui operano? Il 54% lo vede stabile o in contrazione, il 10% lo considera volatile, il 7% crede che la situazione sia altamente negativa, solo il 13% intravede una crescita e il 16% vede un’elevata competitività.
I dati riflettono – com’è evidente – la stagnazione dell’economia domestica, che spinge le imprese a recuperare competitività, aumentando il volume d’affari: tra le operazioni maggiormente effettuate, negli ultimi tre anni, dalle imprese intervistate, figurano l’ingresso in nuovi mercati, l’ampliamento del portafoglio prodotti e l’apertura di nuovi canali di vendita. Si conferma, di conseguenza, la forte spinta all’internazionalizzazione delle PMI italiane, che riguarda il 59% del campione, e la conseguente inevitabile alterazione del profilo di rischio. Per gestire l’incertezza dei nuovi mercati e ridurre gli eventi inattesi, sempre più importante – ci dicono i promotori dell’indagine – è, anche per le PMI italiane, adottare e ottimizzare delle specifiche tecniche di risk management.
A incrementare il profilo di rischio delle PMI italiane non è, in realtà, solo l’imminenza di una crisi la cui soluzione sembra ancora lontana: essa è certo determinante (e non solo per le aziende che hanno scelto la via dell’internazionalizzazione, ma per qualsiasi attività imprenditoriale costretta a confrontarsi con le difficili dinamiche di mercato), tuttavia contribuiscono anche alcuni fattori tecnologici (l’avvento dei new media e delle nuove tecnologie), l’attenzione crescente all’ambiente e alla dimensione sociale, la normativa sempre più stringente, l’esigenza, in sostanza, di relazionarsi con i mutamenti di ordine culturale.
PROCESSO
Con riferimento alle procedure adottate dalle PMI italiane nell’ambito del risk management, l’indagine rileva come la maggior parte delle aziende interrogate (41%) formalizzino la fase di valutazione dei rischi. Le fasi di identificazione e gestione del rischio sono formalizzate entrambe dal 34% del campione, mentre meno formali – ma pur sempre presenti – sono le fasi di monitoraggio dei fattori di rischio (23%) e di reporting e comunicazione ai vari livelli dell’organizzazione (10%). L’82% delle imprese formalizza, inoltre, meno di tre fasi su cinque, e solo il 3% le formalizza tutte.
In particolare, relativamente alla prima fase di identificazione dei fattori di rischio, si nota come le PMI italiane si basino soprattutto su esperienze passate (49%) e su analisi strutturate dei processi (48%). Seguono checklist (24%) e le ispezioni (22%), mentre marginale è il ricorso a brainstorming (9%), a modelli specifici (FTA, FMEA, HAZOP, HACCP, al 6%), ad analisi swot (5%), a questionari per i dipendenti (3%) e a interviste o focus group (2%).
Nella fase di valutazione dei rischi emerge come siano notevolmente considerati gli impatti di tipo finanziario (63%), molto più di quelli di tipo reputazionale (15%); sono, invece, tenute ancora in scarsa considerazione le probabilità di accadimento (37%). Prevalgono, nella valutazione, tecniche di tipo quantitativo (35%, percentuale che sale al 53% con riferimento alle sole imprese che hanno dichiarato un profilo di rischio alto), rispetto a quelle semi quantitative (14%), qualitative (5%) e pure rispetto a una combinazione di queste tecniche (31%).
Nella fase di gestione, le modalità maggiormente adottate sono, per quanto riguarda i rischi di natura operativa e finanziaria, la riduzione (risk reduction, minimizzare cioè la probabilità di accadimento e l’impatto di eventi rischiosi attraverso tecniche di prevenzione e protezione) e il trasferimento a terzi (risk transfer: si assume una posizione rischiosa opposta a quella da gestire che sfrutti il principio della compensazione per ridurre il rischio complessivo, ad esempio la stipulazione di una polizza assicurativa che copra rischi poco probabili ma notevolmente dannosi, come incendi e catastrofi naturali).  Per gestire i rischi strategici si adottano, invece, data la loro natura, soprattutto i contingency plans (in sostanza dei piani di emergenza alternativi, l’accantonamento di un certo ammontare di risorse finanziarie per intervenire in caso di eventi inattesi e potenzialmente dannosi, al 18%).
Si conferma poi la marginalità della percentuale di imprese che tengono in considerazione il rischio di cambio, anche considerando le sole imprese che effettuano transazioni con Paesi che usano una moneta diversa dall’euro.
Con riferimento alla fase di monitoraggio del processo di risk management, emerge come essa si svolga una o due volte all’anno (rispettivamente nel 32% e nel 37% dei casi), raramente con frequenza maggiore.
Gli indicatori utilizzati per misurare la performance e l’esposizione al rischio dell’impresa non sembrano essere particolarmente sofisticati: si monitorano principalmente il risultato operativo (nel 37% dei casi) e il risultato della gestione ordinaria (28%), mentre si ricorre raramente a EVA (4%), VaR (2%), RAROC (1%), volatilità degli utili e ad altre misure risk-adjusted (5%).
Lo strumento IT maggiormente utilizzato per supportare il processo di risk management è Excel (39%), tuttavia ben il 22% del campione dichiara di non ricorrere a nessun strumento.
RISORSE
Per quanto riguarda i rischi strategici e normativi si rileva una certa corrispondenza tra esposizione percepita e risorse spese per gestirla. Leggero sbilanciamento, invece, con riferimento ai rischi finanziari e a quelli operativi: solo il 41% delle imprese destina risorse primariamente al rischio finanziario, malgrado questo fosse percepito come principale dal 48% del campione; per contro il 46% delle PMI destina risorse al rischio operativo, nonostante esso fosse percepito come principale solo dal 35% del campione. Tale sbilanciamento dipende non tanto da una mancanza di consapevolezza, quanto piuttosto dal costo più elevato imposto dalla gestione di alcune tipologie di rischio.
La spesa media sostenuta dalle aziende per le attività legate alla gestione del rischio aumenta, in valore assoluto, con l’aumentare della dimensione delle imprese, mentre in termini percentuali la tendenza è opposta. Si tratta, dunque, di un aumento meno che proporzionale.
RESPONSABILITÀ E COMUNICAZIONE
Solo l’1% delle imprese interrogate ha previsto, all’interno della propria struttura, un addetto dedicato a tempo pieno alla gestione del rischio. L’11% si rivolge a una figura esterna, mentre la maggior parte (88%) assegna il compito a una figura interna, che si occupa del risk management a tempo parziale. Tale conclusione riflette l’organizzazione tipica delle PMI, dove mancano spesso confini netti tra ruoli e competenze.
La cultura del rischio rappresenta una conquista abbastanza recente, dato che ben il 72% delle imprese adotta tecniche di risk management da meno di 5 anni e solo il 13% da più di 10 anni. Nel 28% dei casi il Consiglio di Amministrazione non è coinvolto nel processo di gestione del rischio, nel 43% esso definisce la strategia, mentre nel 27% monitora che l’esposizione al rischio sia coerente con il profilo desiderato. Il coinvolgimento del CdA aumenta poi all’aumentare della maturità del sistema di gestione del rischio.
Solo l’1% del campione considera il livello di rischio assunto per definire le proprie politiche retributive.
L’85% del campione non ha ancora introdotto alcuna attività formativa rivolta ai dipendenti, anche se il 17% promette un rimedio prossimamente. I corsi di formazione ad hoc rappresentano il metodo maggiormente sfruttato per sviluppare le competenze necessarie di tutti i dipendenti (12%) e dei responsabili della gestione del rischio (23%), mentre il workshop costituisce l’iniziativa prediletta per la formazione di top management (19%).
La dimensione dell’impresa non sembra, infine, influire sulla scelta dei destinatari della comunicazione in materia di rischi aziendali: questa sembra essere rivolta quasi esclusivamente ai diretti interessati, a prescindere dal numero di dipendenti (78% nel caso di imprese con numero di dipendenti compreso tra 10 e 49, 73% nel caso di imprese con numero di dipendenti compreso tra 50 e 249).
La dimensione aziendale non influisce poi molto nemmeno sulle modalità di comunicazione dei rischi, tuttavia si nota – con l’aumentare delle dimensioni – una leggera diminuzione della pratica verbale (dal 65% delle imprese con numero di dipendenti compreso tra 10 e 49, al 43% di quelle con 50-249 dipendenti), a favore della documentazione ad uso interno (da 34% al 52%).
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Ricette italiane alla crisi della pellicola

“Settimana del cinema” con biglietto a 3 euro, sconti del 40% per gli studenti e un negozio online per la vendita e il noleggio di film: sono queste le soluzioni offerte dalle associazioni del settore cinematografico, per combattere i cali del 2012 nelle presenze in sala e negli incassi

Dopo i continui rinvii, sembra essere ora fissata a febbraio la data d’avvio dell’innovativa piattaforma online per la vendita e il noleggio di film, promossa e gestita dall’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali). Una sorta di negozio online del cinema, che intende offrire una via legale alla condivisione illecita di pellicole coperte da diritti morali e patrimoniali, operata dai “pirati” digitali.
Una nuova potenziale fonte di profitto per l’industria cinematografica, dunque, che – a ben vedere – sembra essere sempre più necessaria, dopo un 2012 chiusosi con segno negativo. Rispetto al 2011, si riducono di 9,9 punti percentuali le presenze in sala (da 101,3 milioni a 91,3 milioni di spettatori) e di 7,97 punti gli incassi (da 661,7 a 608,9 milioni di incassi): lo scarto tra presenze e incassi è dovuto principalmente al maggior numero di film visti in 3D, per i quali si è costretti a pagare un prezzo maggiore.
Resta sostanzialmente invariato il numero di film distribuiti, stimati in 363 nel 2012 (dei quali 127 sono produzioni o coproduzioni italiane e 36 sono film in 3D), contro i 360 del 2011 (125 produzioni o coproduzioni italiane e 36 film 3D).
I dati riportati, relativi al 2012, sono quelli rilevati da CINETEL e presentati lo scorso 15 gennaio a Roma dalle associazioni degli esercenti ANEC (Associazione Nazionale Esercenti Cinema) e ANEM (Associazione Nazionale Esercenti Multiplex) e dai distributori e produttori dell’ANICA.
La tendenza al ribasso è, in fondo, in linea con quella evidenziata anche lo scorso anno da CINETEL (-10,03% sugli incassi e -7,92% sulle presenze rispetto al 2010); manca, tuttavia, nelle stime più recenti, la consolazione che, nel 2011, derivava dal raggiungimento, per il cinema italiano, di una quota di mercato piuttosto ampia e crescente, capace di posizionare i film del Belpaese su livelli di performance impensabili fino a poco tempo prima (38 dei poco più di cento milioni di biglietti venduti nel 2011 erano sono stati staccati per film italiani), parallelamente ad una flessione del cinema americano.
Più in particolare, diminuisce nel 2012 la quota di mercato occupata dai film italiani, con una percentuale di presenze che passa dal 35,5% del 2011 al 25,3% del 2012 e con incassi che si inclinano dal 33,81% del 2011 al 24,02% del 2012. Considerando anche le coproduzioni, i film italiani raggiungono una quota di mercato pari al 26,54% con riferimento alle presenze e al 25,2% per quanto riguarda gli incassi; si tratta tuttavia di numeri in calo sull’anno precedente, quando si stimavano rispettivamente un 37,57% e un 35,64%.
Parallelamente si riducono anche gli spettatori di film americani, che passano dai 47,4 milioni del 2011 ai 46,7 del 2012. Ciononostante aumenta la quota di mercato occupata dai film USA, sia a livello di presenze (si arriva al 51,18% nel 2012, contro il 46,81% del 2011) sia d’incassi (48,58% nel 2011 e 53,21% nel 2012), decretandone la supremazia su tutte le altre produzioni territoriali.
Aumentano comunque gli spettatori di film europei, che passano da una quota di mercato pari al 13,84% nel 2011 a una del 18,34% nel 2012 e crescono allo stesso modo gli incassi del cinema europeo, che arrivano ad occupare il 17,4% del settore (contro il 13,84% dell’anno precedente).
Se si analizzano assieme le produzioni italiane (comprese le coproduzioni) e quelle europee, si nota una riduzione percentuale in termini sia di presenze (dal 51,34% del 2011 al 44,89% del 2012) sia di incassi (dal 49,47% al 42,6%).
Nell’anno appena trascorso, la crisi non sembra, insomma, aver risparmiato nemmeno un settore come quello cinematografico, che – dalla tradizione neorealista, dalla sperimentazione autoriale, fino alla commedia all’italiana e agli spaghetti western – ha saputo, nei suoi tempi d’oro, regalare non poche soddisfazioni allo spirito tricolore e ha contribuito a diffondere un ideale di italianità quale sinonimo di vivacità culturale ed espressiva e di particolare e finissimo gusto estetico. Soffre oggi il cinema italiano, non potendo fare affidamento nemmeno sull’autorità universalmente riconosciuta dei grandi nomi ancora attivi: in base alle ultime stime dell’8 gennaio scorso, “Bella addormentata” di Marco Bellocchio si è fermato a 1 milione e 244 mila euro di incassi, “Reality” di Matteo Garrone a 2 milioni e 76 mila, “Io e te” di Bernardo Bertolucci a 1 milione e 690 mila, infine “È stato il figlio” di Daniele Ciprì a soli 876 mila euro. Nella classifica dei 150 film più visti del 2012, al primo posto, con 4 milioni e 288 mila spettatori, troviamo “Benvenuti al nord”, all’ultimo il lungometraggio d’animazione “Il castello nel cielo” ad opera del visionario Hayao Miyazaki, l’ultimo italiano è “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, Orso d’oro al Festival di Berlino. Non va dimenticato, poi, il fatto che quel riavvicinamento alle opere italiane, evidenziato con particolare enfasi e ottimismo nel 2011, riguardava quasi esclusivamente le commedie (tra i primi 15 film italiani in classifica, solo due erano film d’autore: “This Must Be the Place” di Sorrentino e “Habemus Papam” di Moretti), confinando il cinema tricolore a un genere che, pur essendogli proprio, rischia di vanificare gli sforzi creativi di alcuni talenti emergenti e di compromettere lo stato di buona salute dell’arte cinematografica italiana.
Il divario tra film popolari e film d’autore sembra, allora, allargarsi sempre più e, secondo alcuni, tale tendenza deriverebbe da uno spostamento verso i complessi multisala, capaci di attirare un pubblico poco sensibile al filone autoriale. “Stiamo aprendo un’indagine qualitativa, abbiamo fatto film d’autore troppo complessi e commedie troppo facili”, ha sottolineato, nel corso della conferenza di presentazione, Riccardo Tozzi, presidente ANICA. In questo – ha proseguito – “il cinema francese ci dà un esempio di prodotto popolare realizzato con intelligenza e qualità”.
Non è certo corretto decontestualizzare le stime in negativo del mercato del cinema in Italia e non considerare come alla base vi sia la difficile congiuntura economica generale che ha imposto agli italiani di ridurre la propria propensione alla spesa. Tuttavia il prezzo medio del biglietto sembra essere aumentato, nel 2012, solo dello 0,7% rispetto al 2011 e, più in generale, gli aumenti negli ultimi dieci anni sono stati nettamente inferiori al tasso di inflazione. Questo potrebbe forse significare che, al di là della polemica sul costo del biglietto, sono molte e differenti le problematiche che attraversano il settore, nel nostro contesto nazionale.
Le sfide poste dall’innovazione tecnologica sembrano essere state sottovalutate e trattate secondo canoni anacronistici e inadatti, che non contribuiscono all’arricchimento dell’offerta e alla sperimentazione, ma, al contrario, obbligano a sottomettersi alla logica del già visto e del consenso facile e maintream. Si crea così un circolo vizioso, che, invece di educare il grande pubblico alla complessità di registri e alla qualità espressiva, finisce per relegare la cultura cinematografica di spessore a esclusivo appannaggio della ristretta cerchia di sedicenti intenditori. Ben venga la commedia, anche come cavallo di battaglia del Belpaese, ma non è sicuramente auspicabile che una forma artistica – e in particolare il cinema – si limiti a essere cassa di risonanza di un’unica voce.
Le dita degli addetti ai lavori sono ovviamente tutte puntate, oltre che sulla politica – immobile e incapace di offrire un reale sostegno al settore – sulla pirateria: “Sono a favore dell’innovazione tecnologica solo se porta valore aggiunto non se va a levare all’esistente” tuona Lionello Cerri, presidente ANEC, nel corso della conferenza. Nel suo ragionamento, egli dimentica, tuttavia, di considerare come il fenomeno della fruizione “illegale” online sia ormai talmente diffuso da non poter pretendere che la via per la sua legittimazione possa avvenire in punta di piedi, nel rispetto delle gerarchie distributive formalizzate dal vecchio sistema (il sistema delle cosiddette “finestre”, che impone di lasciar trascorrere un certo lasso di tempo tra l’uscita di un film al cinema e il suo sfruttamento in dvd o in tv). Al contrario, tale fenomeno potrebbe rappresentare una sorta di modello da cui mutuare forme legali di distribuzione, capaci di cogliere la reale natura del mezzo internet e le mutate esigenze degli spettatori.
Nello scaricare e vedere sullo schermo del PC un film ancora presente nelle sale, l’utente non ha oggi nemmeno la percezione di compiere un illecito e questo non per disinteresse, non perché la crisi dell’industria cinematografico non lo coinvolga, ma perché per lui l’esperienza percettiva sperimentata nell’online non preclude in alcun modo quella sperimentata nelle sale del cinema. Può sembrare paradossale, ma in alcuni casi la prima arriva addirittura incentivare la seconda. Ragionare in termini monolitici sulla questione impedisce di trovare delle soluzioni realmente efficaci.
Poniamo il caso, ad esempio, di un giovane abituato a mettersi in fila, paziente, alla cassa di un multisala, per godersi, armato di popcorn e voglia di effetti speciali, l’ultima pellicola sensazionalistica e ben reclamizzata della major di produzione cinematografica statunitense di turno. Il ragazzo, tra un fumetto della Marvel e una Coca Cola in lattina, sente parlare di Bernardo Bertolucci. Non lo conosce, eppure quel nome evoca in lui qualcosa, lo incuriosisce. Compone il nome sulla tastiera e grazie ad una preparatissima Wikipedia scopre che questi è un regista. Mette in download quel famoso “Ultimo tango a Parigi”, guarda interamente la sequenza di fotogrammi e suoni e scopre pure che gli piace. Due settimane dopo, al cinema danno “Io e te” del medesimo regista. Le probabilità che egli scelga di andare a vedere quel film sono ora certamente maggiori rispetto a due settimane fa.
L’esempio è volutamente paradossale, ma intende di cogliere il fulcro dell’intera questione e cioè l’errore che spesso si compie nel valutare il fenomeno della pirateria online. Equiparare il file sharing al furto in negozio pare una congettura eccessivamente semplicistica e del tutto fuorviante. Basti pensare che un furto costituisce, in definitiva, una vendita persa, mentre il materiale scaricato rappresenta un nuovo esemplare generato, che non priva il proprietario originale del materiale stesso. Esistono poi diverse forme nella condivisione in rete, essa non sostituisce semplicemente l’acquisto reale del biglietto, ma può, come nell’esempio riportato, essere funzionale allo stesso o avere un impatto positivo a livello sociale, pur senza danneggiare gli attori coinvolti (è il caso dell’accesso a materiali tutelati dal copyright ma fuori dal mercato) o, ancora, fungere da mezzo pubblicitario per registi e attori emergenti che scelgono di diffondere gratuitamente sulla rete i propri sforzi ideativi, al puro scopo di farsi conoscere. Il rischio è che, sforzandosi di risolvere i problemi creati dal file sharing illegale fine a se stesso, si finisca per distruggere le positive opportunità create dalle altre forme di condivisione.
Con un ragionamento piuttosto grossolano – e forse, lo ammetto, un tantino azzardato – possiamo provare ad immaginare lo status dell’utente tipo, in grado di scaricare e condividere via web le più o meno pregiate fatiche dell’industria cinematografica. Scommetto che nessuno sta pensando ad una madre di famiglia che fatica ad arrivare alla fine del mese e che ripone, dunque, nello scambio illegale di materiale, le proprie speranze per potersi finalmente concedere – e per permettere alla propria famiglia – due orette di svago, in barba ai piangenti bilanci mensili e alle severe regole del mercato. Alla base della condivisione online vi sono per lo più persone di elevata cultura digitale e a spingere verso la fruizione vi è certamente un forte interesse verso l’arte cinematografica. Si tratta, dunque, di persone che possiedono tipicamente i mezzi (culturali ed economici) per mantenere viva l’industria cinematografica e che non hanno alcun interesse a farne decadere il nucleo centrale, che sono – è bene ogni tanto ricordarlo – la qualità espressiva, l’illusione, la comunicazione, la sensazione, l’emozione. Personalmente non conosco nessuno che, dopo aver scoperto il file sharing, abbia smesso di andare al cinema o abbia iniziato ad andarvi con minore frequenza (crisi generale permettendo).
Nell’eterna lotta contro la rete del free, da parte di coloro che detengono i diritti di sfruttamento economico, in gioco sembrano esservi i soli interessi di pochi che sperano di inserirsi a gamba tesa in un sistema che si dimostrano del tutto incapaci di comprendere e sul quale essi pretendono di imporre le proprie chiuse e obsolete convinzioni. Questo non significa che la pirateria debba essere accettata così com’è, la rete non deve diventare il regno del caos, libero da regole e da una equa distribuzione di diritti e doveri. Significa semplicemente sfumare i confini della questione, smetterla di operare una contrapposizione acritica e cercare un sano equilibrio tra i diversi interessi coinvolti.
I segnali positivi comunque ci sono, fa sapere CINETEL. Superato, nel periodo estivo, un calo delle presenze pari al 33%, nella seconda parte dell’anno appena trascorso (dal primo agosto a fine dicembre), la situazione sembra decisamente migliorata, con un incremento del 3,21% nel numero di biglietti staccati e del 5,51% negli incassi (rispetto allo stesso periodo del 2011).
Plausi anche per la scelta, presa dall’industria cinematografica, di anticipare l’uscita dei film dal venerdì al giovedì, in modo da rendere commercialmente valido anche un giorno tradizionalmente considerato infruttuoso in tal senso: nei primi mesi di entrata in vigore di tale prassi (da ottobre a dicembre), le presenze nella nuova giornata di esordio sono aumentate del 15,86% e gli incassi del 23,36%.
Le associazioni – dal canto loro – intravedono lo spazio per incrementare il loro spirito di collaborazione e avviare “iniziative comuni che possano apportare cambiamenti significativi e strutturali al mercato”. Tra gli obiettivi vi è la necessità di incentivare e stabilizzare il consumo di cinema nei mesi estivi, incrementando l’offerta di film nel periodo (impedendo, dunque, che le pellicole finiscano per “cannibalizzarsi” l’un l’altra con uscite troppo ravvicinate) e proponendo particolari eventi di sensibilizzazione e promozione, come la “Festa del Cinema”, una settimana, cioè, a metà maggio, durante la quale il biglietto costerà solo 3 euro.
Un’ulteriore risposta delle associazioni alla crisi è l’adesione alla Carta dello Studente “Io Studio”, promossa dal MiUR, che offre la possibilità a circa 2,5 milioni di studenti delle scuole superiori di avere uno sconto del 40% sul prezzo del biglietto dei cinema nei primi tre giorni della settimana.
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Tra crisi e innovazione, ecco il volto del Natale 2012

In vista delle prossime festività, scatta l’allarme di alcune associazioni sull’inevitabile calo dei consumi e crescono le preoccupazioni degli italiani. Mutano, allo stesso tempo, le prassi d’acquisto dei regali, grazie al Web e al mobile, e dei prodotti per le tavole da imbandire, scelti tra quelli locali

A un mese dalle festività natalizie, si scatenano i sondaggi e le stime per rilevare le tendenze d’acquisto e gli umori degli italiani.
Pare che quello dell’anno in corso sarà un Natale dal volto decisamente rinnovato. E non solo in senso metaforico: tra novembre e dicembre cresceranno del 20% le richieste di trattamenti estetici (botulino, filler riempitivi e peeling) del viso a scopo ringiovanente, secondo quanto rilevato, pochi giorni fa, da Daniela Marciani, docente al master di Dermatologia estetica all’Università Tor Vergata di Roma, nel corso dell’87esimo congresso nazionale della Società italiana di dermatologia Sidemast a Roma. “La maggior parte delle richieste parte dalle donne, ma aumentano gli uomini che ora sono il 30% dei pazienti”, ha aggiunto. Quasi gli italiani volessero rincorrere una maschera che, nascondendo i segni del tempo e della temutissima crisi, sembra poter concedere un’illusione di stabilità e rilanciare l’immortale sensibilità estetica del Belpaese.
Eppure gli effetti della contemporaneità (congiuntura economica e innovazione tecnologica in primis) si fanno sentire e gravano sulle spalle dei cittadini (talvolta – è bene sottolinearlo – le alleggeriscono), spingendo loro a modificare le proprie prassi festive e a rivedere, in parte, le proprie tradizioni, coprendo spesso il tutto con una valenza più morale che pratica. Quasi a dire che a Natale non ogni scusa vale. Sembrano moltiplicarsi, allora, coloro che cercano di compensare il minore investimento economico natalizio con un maggiore investimento emotivo e di autogratificazione: stando ai dati diffusi da Confcommercio, in collaborazione con Format Ricerche, aumenta la percentuale di italiani che considerano i regali di Natale una spesa piacevole da affrontare (49%, contro il 45,8% nel 2011) e parallelamente diminuisce la percentuale di coloro che vedono questo tipo di acquisti come una spesa necessaria di cui farebbe volentieri a meno (dal 42,5% del 2011 all’attuale 31,2%). Solo per il 19,8% i regali rappresentano una spesa del tutto inutile, ma che comunque deve essere affrontata.
Ciò non toglie che sia la preoccupazione lo stato d’animo prevalente tra le famiglie in vista delle spese da affrontare per le festività. Quasi sette italiani su dieci (il 66,4%, contro il 53,5% registrato lo scorso anno) sono, infatti, sicuri che esse risentiranno fortemente della grave crisi economica in atto e saranno per questo vissute in maniera “molto” dimessa (la convinzione prevale soprattutto presso le donne, coloro che hanno un’età compresa tra i 35 ed i 54 anni, le famiglie e i residenti nelle regioni del Centro, del Mezzogiorno e delle grandi aree metropolitane, mentre è meno radicata presso le persone più anziane) e quasi tre italiani su dieci (29%) pensano che tale pessimistica prospettiva sia almeno possibile (contro il 27,4% del 2011). Allo stesso modo diminuisce la percentuale di quanti ritengono che il prossimo Natale non sarà diverso da quello degli altri anni (4,6% contro il 19,1% registrato lo scorso anno).
Al clima di sconforto, si associa anche l’aumento della percentuale di italiani che non faranno i regali di Natale (dall’11,8% del 2011 al 13,7% del 2012), soprattutto tra i residenti nelle regioni del Nord-Est e nelle regioni del Mezzogiorno. Rimane comunque non marginale la quota di italiani che continuerà a farli (86,3%), probabilmente considerando la spesa come inevitabile.
I principali destinatari dei regali sono sempre – ci dicono ancora Confcommercio e Format Ricerche – i familiari più stetti (coniuge, figli, genitori e fratelli, che conquistano il 50,2%) e i parenti in generale (41,3%). I regali saranno poi rivolti a persone con le quali in genere si intrattengono rapporti, anche se non di lavoro (36,3%), agli amici (35,0%) e a persone con le quali si hanno rapporti di lavoro (34,3%). A confermare la ricerca di una sorta di autogratificazione, il 41,4% ha infine dichiarato che farà dei regali a se stesso.
Poco meno di un terzo (28,9%) di coloro che effettueranno i regali di Natale, hanno fatto o faranno i propri acquisti nel mese di novembre (in aumento rispetto al 19,8% registrato lo scorso anno), contro il 71,1% che si muoverà solo a dicembre. Si acquisterà soprattutto presso i punti vendita della grande distribuzione organizzata (68,9%, canale che si innalza di 7,1 punti percentuali sul 2011). Diminuisce la propensione all’acquisto presso i punti vendita della distribuzione tradizionale (51,2%, pari a -8,0% sul 2011) e presso gli outlet (10,1%, pari a -13,9%), mentre aumenta notevolmente l’utilizzo di Internet (28,3%, pari a un incremento di 15 punti percentuali sullo scorso anno).
A confermare l’importanza del web in tal senso è pure una ricerca TNS, commissionata da eBay, che calca ulteriormente la mano e si spinge ad indagare sull’impatto del mobile nelle prassi d’acquisto: pare che quest’ultimo sarà utilizzato da ben il 43% degli italiani in misura maggiore o uguale rispetto allo scorso Natale. Più in particolare il 15% del campione dichiara che utilizzerà il cellulare e il 13% l’iPad. Il 68% di chi intende fare shopping natalizio via mobile, lo farà dal divano, il 24% dal proprio letto, il 14% mentre è in vacanza e l’11% sui mezzi pubblici. Il mobile sembra avere un’importanza strategica non solo per comprare i regali, ma anche per mettere online le proprie inserzioni nei mesi precedenti il Natale e finanziare così le uscite previste.
La spesa media per i regali – rilevano ancora TNS e eBay – sarà quest’anno di circa 200 euro a persona, pari a 38 euro in meno rispetto allo scorso anno, e il numero di regali che ciascun italiano prevede di fare sarà compreso tra 6 e 10. Se a quei 200 euro si aggiungono i 120 euro circa previsti per le decorazioni e il cibo (-27 euro rispetto al 2011), si arriva ad una spesa complessiva per le festività natalizie pari a circa 320 euro a testa. Ovviamente la spesa media per ciascun regalo si differenzia in relazione al destinatario dello stesso: 117 euro per i figli, 99 euro per i partner, 65 euro per i genitori, 58 euro per i fratelli, 50 euro per gli amici, 30 euro per i nonni e 26 euro per i colleghi.
Il peso della crisi torna a farsi sentire anche sulle risposte raccolte da eBay, con 1 italiano su 3 che dichiara di trovare il Natale mediamente o decisamente stressante, con un 31% che cercherà di ridurre al minimo tutte le altre spese per poter sovvenzionare il Natale e un previdente 20% che ha risparmiato durante tutto l’anno per avere maggiore disponibilità a Natale. Il 13% del campione pensa, invece, di usare la tredicesima, nonostante il previsto calo della stessa nel monte gratifiche 2012, come risulta dal 21^ rapporto Adusbef, secondo il quale l’ammontare complessivo delle tredicesime sarà di 34,5 miliardi di euro (0,5 miliardi di euro in meno, pari a -1,4% sul 2011), di cui 9,9 miliardi ai pensionati (-2,9%), 9,20 miliardi ai lavoratori pubblici (come nel 2011), 15,4 mld (-1,9%) ai dipendenti privati (agricoltura, industria e terziario); ben il 90,7% della tredicesima (31,3 mld) sarà – avverte ancora l’Adusbef – destinato alle molte scadenze fiscali di fine anno (4,5 miliardi alla seconda rata dell’IMU, 10,3 miliardi a bollette, ratei e prestiti, 5,3 miliardi a RC Auto, 4,6 miliardi ai mutui, 3,7 miliardi alle tasse di auto e moto, infine 1,9 miliardi al canone Rai), con il risultato che meno di un decimo (il 9,3%, ossia 3,2 miliardi di euro) resterà realmente nelle tasche di lavoratori e pensionati e potrà essere usato per risparmi, regali e viaggi.
I dati eBay confermano poi la tendenza a pensare solo a dicembre agli acquisti, tuttavia diminuisce il numero di persone che intendono muoversi nell’ultima settimana (dal 18% del 2011 all’attuale 11%).
Cosa vorrebbero ricevere gli italiani a Natale? Secondo TNS – eBay al primo posto vi sarebbe un viaggio (24%), seguito da oggetti tecnologici, come navigatori, lettori mp3 o smartphone (12%), da articoli del settore fashion come vestiti, scarpe e accessori (11%, con una peso maggiore delle donne sugli uomini: 14% contro 9%); e cosa preferirebbero invece non ricevere? A pari merito, oggetti per la casa, cosmetici, calze e intimo. La ricerca indaga anche su chi viene considerato il migliore nel fare i regali di Natale: per quasi la metà (48% e soprattutto per gli uomini) sembra essere il partner, per il 16% i genitori, infine per un misero 7% i figli e i fratelli.
Dall’indagine emerge anche una sostanziale differenza di genere nella gestione delle festività: l’80% delle intervistate dichiara, infatti, di occuparsi dei preparativi, parallelamente il 28% degli uomini dichiara che a occuparsene è la compagna. Le donne sembrano, inoltre, essere più previdenti nell’organizzazione (il 25% pensa già a novembre agli acquisti, percentuale che scende al 18% per gli uomini), meno stressate dall’arrivo delle festività (39% contro il 28% per gli uomini) e più “coinvolte” emotivamente, dato che il 72% dichiara di cedere allo shopping personale durante la scelta dei regali da fare (contro il 62% degli uomini).
Lo spirito natalizio sembra incrinarsi (in favore – per vederla in termini positivi – di un ideale di riciclo e riuso) quando si scopre che ben 2 milioni di italiani rivendono i regali indesiderati ricevuti: il 34% degli italiani sembra  ricevere mediamente 1-2 regali non graditi ogni anno (soprattutto da suoceri e parenti acquisti), per un valore medio di circa 54 euro.
Preoccupazione in vista del prossimo Natale vengono poi espresse da molte associazioni italiane. Federconsumatori, riprendendo i dati sul commercio da poco diffusi dall’Istat, sottolinea che “i consumi sono ormai completamente fermi”, a causa soprattutto della “drastica riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, diminuito del -13,2% dal 2008 ad oggi”. Essa avverte, allora, che a risentire della situazione saranno anche le festività natalizie, con una riduzione della spesa totale delle famiglie per i consumi di Natale, prevista nell’ordine dell’11-12% rispetto al 2011. “È giunto il momento – propone infine Federconsumatori – di cambiare rotta, avviando misure di rilancio del potere di acquisto” delle famiglie, “attraverso una detassazione delle tredicesime ed un’immediata anticipazione dei saldi a prima di Natale”.
Secondo Pietro Giordano, segretario generale Adiconsum il persistere del calo delle vendite è dovuto non solo alla recessione con perdita di posti di lavoro e ricorsi a cassa integrazione e mobilità, ma anche a provvedimenti del Governo, il cui risultato è stato caricato pesantemente sulle famiglie aumentando oltre il sopportabile il carico fiscale”. “La necessaria cura di cavallo non può uccidere il cavallo”, conclude, con una metafora ad effetto.
Più ottimista, invece, la Confederazione italiana agricoltori che vede le prossime vacanze natalizie come l’ultima speranza per “ridare un po’ di fiato ai consumi di cibo e bevande”: non ci saranno, secondo la Confederazione, “crolli a tavola, anzi. Ben nove italiani su dieci non taglieranno il budget alimentare per il cenone della Vigilia e per il pranzo del 25 dicembre, preferendo risparmiare su regali e viaggi piuttosto che rinunciare alle tradizioni enogastronomiche”.
Ottimismo in parte confermato da Coldiretti, che, sulla base dell’indagine “Xmas Survey 2012” di Deloitte, stima in 197 euro la spesa media per famiglia per imbandire le tavole delle feste di fine anno 2012 (pari al 36% della spesa complessiva) “con gli alimentari e le bevande che sono l’unica voce di spesa che sostanzialmente tiene (+2,1%) nel tempo della crisi”. Non si rinuncia, insomma, a pranzi e cenoni, tuttavia è cambiato, secondo Coldiretti, il modo di comprare, dato che la preferenza cade ora sui prodotti del territorio e sul Made in Italy, con la precisa volontà di creare ricchezza locale: “Crollano le mode esterofile del passato pagate a caro prezzo come champagne, caviale, ostriche, salmone o ciliegie e pesche fuori stagione a favore dell’aumento dei prodotti Made in Italy magari a chilometri zero”.
La tendenza sembra essere confermata dall’interesse crescente a Natale verso il turismo enogastronomico (ne sono coinvolti, secondo un’indagine Coldiretti/Censis, oltre il 24% degli italiani, che significa oltre 12,2 milioni, di cui oltre 2,3 milioni in modo regolare)
Coldiretti lancia, tuttavia, allo stesso tempo, un allarme contraffazione con riferimento ai regali di Natale: i budget ad essi destinati cadranno del 9% e l’esigenza di risparmiare potrebbe aumentare il rischio in tal senso. Stando ad un sondaggio realizzato online dall’associazione, il 52% degli italiani si dice disponibili ad acquistare prodotti contraffatti, con una netta preferenza per i capi di abbigliamento e gli accessori taroccati delle grandi firme della moda (29%), seguiti dagli oggetti tecnologici (14%) e dai ricambi meccanici (6%), mentre c’è una grande diffidenza nei confronti di medicinali e cosmetici, giocattoli e alimentari (tutte all’1%)”.
Al di là delle buone previsioni per quello enogastronomico, pare che anche il turismo dovrà soffrire gli effetti della congiuntura economica negativa: solo un italiano su cinque (il 22%) partirà tra Natale e Capodanno, mentre otto italiani su dieci (79%) resteranno a casa, secondo quanto emerge da un sondaggio su “Viaggi Natale 2012 e prospettive 2013” condotto da Swg per conto di Confesercenti e Assoturismo. Il 9% partirà per Capodanno, il 5% per Natale e l’8% per un periodo compreso tra il 22 dicembre e il 6 gennaio 2013.
Tra chi deciderà di partire, il 39% alloggerà in albergo o pensione (contro il 36% dello scorso anno), il 35% a casa di parenti o amici (in netto aumento sia sul 2011 che sul 2010), il 22% in bed and breakfast o in una casa in affitto, il 15% in una seconda casa di proprietà, solo il 4% in strutture open air, con un fortissimo calo rispetto al 2010 (16%) e 2011 (18%).
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Editoria e crisi: cala il giro d’affari, diminuiscono i lettori, cresce il digitale

Un settore che, da sempre considerato anticiclico, sembra ora scontare il difficile peso della congiuntura economica negativa (fatturato in calo del 4,6%), malgrado una diversificazione dell’offerta editoriale e i dati positivi sul versante e-book

È un invito a correre subito ai ripari quello lanciato dal presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE) Marco Polillo dal palco d’onore della Buchmesse, la Fiera internazionale del libro di Francoforte, giunta quest’anno (dal 10 al 14 ottobre 2012) alla sua 64esima edizione. “Non è più il tempo di parole per il mondo del libro. Ci servono fatti”, ha sottolineato. “La tempesta perfetta si è scatenata sul libro, travolto dal calo della domanda e dalle difficoltà di accesso al credito, in un momento in cui gli editori sono chiamati a ingenti investimenti sul digitale”, ha proseguito Polillo. “Non chiediamo soldi […], così come non li abbiamo mai chiesti. Chiediamo, invece, misure sostenibili, per dare opportunità e risposte”: una politica pensata per uno sviluppo reale del libro, capace di dare sostegno alle librerie indipendenti e maggiori risorse alle biblioteche, di introdurre nei programmi scolastici l’educazione alla lettura e di considerare il ruolo centrale degli editori quali “operatori culturali”.
Quella che spaventa Polillo e l’intero mondo dell’editoria è, in fondo, una “tempesta” confermata dai numeri.
Dopo un 2010 caratterizzato da un andamento in positivo (fatturato in crescita di 0,5 punti percentuali), torna, infatti, a riaffacciarsi, sul mercato dell’editoria, l’allarme crisi scattato nel 2008 (quando si è assistito ad una riduzione del fatturato nell’ordine del 4,3%), travolgendo in maniera ancor più ampia un prodotto, il libro, da sempre ritenuto anticiclico.
Il Rapporto 2012 sullo stato dell’editoria in Italia, a cura dell’ufficio studi AIE, fotografa la situazione relativa al 2011 e ai primi nove mesi del 2012 e ufficializza l’ingresso di questo mercato in una zona d’ombra, in linea, per la prima volta, con tutti gli altri beni e segmenti.
Da un fatturato complessivo di 3.470 milioni di euro nel 2010, si è passati, allora, ai 3.309 milioni di euro del 2011, con una flessione pari al 4,6%. Forte la diminuzione delle vendite, in particolare, per i canali trade (librerie, Gdo, edicole, vendita al dettaglio, librerie online e vendita tramite web, e-book), che hanno segnato un -3,7%.
Con riferimento ai generi, si conferma la crescita del segmento bambini e ragazzi, mentre tutti gli altri mostrano segni di sofferenza più o meno marcati: la non-fiction specialistica (dove si concentra l’offerta di saggistica di cultura, accademico-universitaria e professionale) sembra essere il segmento che più risente della situazione negativa, l’editoria scolastica di adozione segna invece una crescita ma piuttosto lieve (+0,2%).
Per quanto riguarda i canali di vendita, nel 2011 diminuisce di 4,2 punti percentuali il fatturato delle librerie, con le librerie di catena che sembrano ormai aver abbondantemente superato la quota di mercato delle soluzioni indipendenti e a conduzione familiare (41,3% le prime, contro il 37,9% delle seconde, capovolgendo la situazione del 2008, quando le prime occupavano il 36% e le seconde il 43,3%). Crolla la Gdo (banchi libri in supermercati e ipermercati), con un -17,9%, calano anche le vendite di libri in edicola (-10%), mentre crescono del 14,2% le vendite on line di libri (si appropriano di una fetta pari al 9,7% dei canali trade) e del 2,3% i collaterali editoriali (quei prodotti diffusi unitamente al bene editoriale principale), spostatisi su offerte “super economiche”. Pur rappresentando un mercato ancora embrionale (12,6 milioni di fatturato nel 2011, pari a un peso dello 0,87% dei canali trade e dello 0,38% del mercato complessivo), cresce notevolmente il canale e-book, che registra un +740% sulle vendite del 2010 e che moltiplica il numero dei titoli disponibili (così come dei dispositivi di lettura in circolazione).
Crescono anche i lettori degli e-book (gratuiti e a pagamento) che, tra la popolazione con più di 14 anni, sono stati stimati, nel 2011, in 1,1 milioni (pari al 2,3% del totale), contro i 691 mila del 2010 (1,3%). Di questi lettori, 567 mila (pari all’1,1%) hanno acquistato almeno un e-book (365 mila nel 2010, pari allo 0,7%). Il dato si dimostra in controtendenza rispetto alla generale riduzione dei lettori in Italia, stimati in 25,9 milioni nel 2011 (-723 mila sul 2010) e in una percentuale pari al 45,3% (contro il 46,8% del 2010) dell’intera popolazione con più di 6 anni.
Buone le performance dell’intero mercato digitale, che coinvolge, oltre agli ebook, anche le banche dati e servizi a carattere editoriale e che rappresenta nel 2011 il 4,8% del mercato libraio. Esso non riesce, tuttavia, a compensare la generale flessione del settore editoriale.
In leggera crescita pure il numero delle case editrici attive in Italia, divenute 2.225 nel 2011 (+0,9% sul 2010), con almeno 10 titoli attivi all’anno e con circa 32 mila addetti. I grandi gruppi editoriali (Mondadori, Rcs, Gruppo GeMS, Gruppo Giunti e Feltrinelli editori), con i loro marchi e le loro imprese collegate, coprono oggi il 13,6% dei titoli pubblicati e distribuiti, contro l’80,4% della piccola e media editoria.
Segno più per la produzione, con 63.800 titoli (+10,8%), 39.000 novità (+8,2%) e 213 milioni di copie (+2,5%), secondo i dati Istat. Rispetto al 2000, tuttavia, si stampano ben 53,9 milioni di copie in meno, nonostante i 3 mila titoli in più. Il prezzo medio del libro di carta è diminuito, nel 2011, di 3,1 punti percentuali, attestandosi a 20,45 euro (al netto dell’Iva al 4%, il prezzo medio è di 19,66 euro).
Praticamente immutato, nel 2011, il giro d’affari dell’export, con 41 milioni di euro e una quota dell’1,2% sul mercato complessivo del libro. Crescono i fenomeni di internazionalizzazione: oltre all’ingresso di alcune case editrici in società straniere, aumentano le vendite dei diritti e le coedizioni con case editrici straniere (a un tasso del 16% medio annuo, passando da 1.800 a 4.629 titoli in dieci anni), che non coinvolgono più solo la narrativa letteraria e d’autore (17%), ma anche di genere (rosa, giallo, fantasy), bambini (25%), saggistica (16%), arte e illustrati (21%). Calano, invece, le traduzioni da varie lingue straniere, che costituiscono il 19,7% dei titoli nel 2011 (erano il 24,9% nel 1997), con il 35,8% delle copie stampate e distribuite riconducibili ad autori stranieri (40,3% nel 2012). Ad alimentare la crescita dei titoli a catalogo sembrano essere, oggi, soprattutto gli autori italiani (+2% di crescita media).
Le stime provvisorie relative al 2012 non fanno che confermare e aggravare i segnali di una crisi strutturale del settore, con 27 mila titoli pubblicati e immessi nel mercato nei primi cinque mesi (pari al 9,1%), contro i 29.900 del corrispondente periodo 2011. Peggiorano anche le performance dei canali trade, con un -8,7% a copie e un -7,3% a valore registrati nei primi nove mesi. In controtendenza, ancora una volta, il segmento e-book, che segna una crescita del 59%, in meno di sei mesi, nel numero di titoli disponibili (si è passati dai 19.884 di fine dicembre ai 31.615 di inizio giugno).
È su tale segmento, così promettente e allo stesso tempo così ostacolato (non solo dalle resistenze di pubblico, ma anche dalle politiche economiche) che si concentrano innanzitutto le speranze degli editori. Il presidente Polillo auspica, infatti, l’estensione anche agli e-book del regime agevolato di IVA al 4%, attualmente previsto per i soli libri cartacei (visto il loro fondamentale ruolo nella promozione della cultura e dell’istruzione). Egli parla di una vera e propria “discriminazione fiscale” tra libri di carta e libri digitali (sottoposti all’IVA ordinaria del 21%), incomprensibile e sempre più dannosa, poiché traducibile in un “disincentivo al consumo e all’innovazione in un settore importante anche ai fini dell’implementazione dell’Agenda digitale europea”.
L’editoria libraria è “l’unico segmento dell’industria culturale dove le imprese europee sono leader nel mondo”, prosegue Polillo, rivolgendo al Governo la richiesta di un aiuto concreto nel mantenere tale posizione di leadership. “Nonostante la crisi, nonostante le difficoltà finanziarie, l’editoria italiana sta dimostrando tutta la sua capacità di innovazione”, come dimostrano alcuni progetti seguiti da AIE: il progetto LIA (Libri italiani accessibili), che punta ad aumentare la disponibilità sul mercato di e-book in versione accessibile per persone non vedenti e ipovedenti; il progetto TISP (Technology and Innovation for Smart Publishing), che prevede di realizzare una piattaforma innovativa frutto della collaborazione tra industria editoriale e fornitori di tecnologia europei.
L’art. 8 della Legge 62 del 2001 (Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali) riconosceva un credito d’imposta pari al 3% del costo sostenuto dalle imprese per gli investimenti in innovazione. Polillo ne chiede, allora “il rifinanziamento, per sostenere il processo di transizione al digitale” e favorire, dunque, la sostenibilità dei molti cambiamenti strutturali che gli editori stanno realizzando “sui propri cataloghi, sui processi interni, sulle attrezzatture, sulla formazione e riqualificazione del personale”.
Un ulteriore ingrediente della ricetta Polillo è “una politica coordinata per il libro”, capace di superare gli eccessivi e frammentati rapporti e interlocutori coinvolti nel settore: “Dobbiamo evitare inutili sovrapposizioni e una svantaggiosa dispersione delle azioni da intraprendere”, sottolinea. Un efficace coordinamento delle azioni a sostegno del libro e della lettura “è l’unico modo per affrontare la crisi del mercato del libro e il dramma dei bassi indici di lettura in Italia”.
Infine la richiesta di una gestione attiva e più avanzata dei diritti d’autore, la cui tutela “deve essere presidiata” e “non deve limitarsi alla protezione e alle sanzioni”, ma difendere e valorizzare l’innovazione.
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Turismo 2012: italiani sentono la crisi

I dati diffusi in questi giorni confermano un andamento negativo per il settore, per contro si rinnovano le abitudini e le esperienze dei turisti, grazie all’innovazione tecnologica e alla rivoluzione culturale in corso

Si dirà che interi settori d’eccellenza sono stati posti in ginocchio dall’attuale congiuntura economica negativa. Si sosterrà anche che la colpa è certo della crisi, ma che alla base vi è pure l’inadeguatezza politica di un Paese che non ha saputo sfruttare le proprie risorse e rilanciarle in forma nuova e fruttuosa. Ci si consolerà infine notando come alcuni segnali lascino intravedere il tanto atteso spiraglio di innovazione sorto dalle ceneri delle sempre più ridotte disponibilità finanziarie.
Sta per chiudersi la stagione estiva di quello che verrà da molti ricordato come l’annus horribilis del turismo nel Bel Paese ed è giunto il momento di fare i primi bilanci. Gli italiani, dopo aver frugato per bene nelle proprie tasche, hanno deciso di rinnovare il proprio approccio alle vacanze e, complice un’alfabetizzazione informatica di base abbastanza diffusa, hanno adottato nuovi modi e nuove prassi per godere della propria pausa estiva.
Rivela un sondaggio condotto da Assoviaggi-Confesercenti (l’associazione di categoria che riunisce le agenzie di viaggio, attraverso le quali passa il 25-30% del turismo outgoing italiano) come la crisi abbia influenzato pesantemente il quadro di riferimento: nell’estate 2012 – spiega Amalio Guerra, presidente di Assoviaggi – “le agenzie di viaggio hanno registrato una diminuzione del 30%. È il terzo anno consecutivo: dalla stagione estiva 2010 a quella di quest’anno si è perduto il 50% del giro d’affari”.
Le minori disponibilità economiche hanno spinto quest’anno gli italiani a modificare le proprie tempistiche di prenotazione, attendendo fino all’ultimo minuto, con la conseguenza che il periodo di maggiore attività per le agenzie di viaggio è stata la seconda metà di luglio, anziché giugno, come da tendenza ormai consolidata. La scelta della meta è stata allora compiuta soprattutto in base alla disponibilità di posti e al costo. Gli italiani hanno riscoperto il piacere delle vacanze in Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, con Campania, Puglia e Calabria in testa, attratti dalle promozioni, dalla convenienza e dalla sicurezza offerte dalle tre regioni. Sulla Sicilia ha invece pesato la cancellazione dei voli della compagnia Wind Jet. Ambite sono state le grandi città europee (Spagna, Baleari e Canarie), mentre sono calate le prenotazioni rivolte alla Grecia (qui resistono solo le isole) e ancor di più quelle rivolte a Tunisia, Marocco, Turchia ed Egitto (il Mar Rosso era in precedenza una delle mete più gettonate), per i timori legati all’instabilità politica e sociale. Cresce invece l’Oriente, soprattutto l’Indonesia, le cui isole attraggono per la convenienza dei prezzi offerti. Poco movimento, infine, verso gli Stati Uniti o il Sud America.
Con riferimento alla tipologia di viaggio, le agenzie rilevano una sostanziale tenuta delle crociere, in particolare di quelle dirette verso lidi mediterranei, questo a causa di un sostanziale taglio dei prezzi, con conseguente calo di fatturati e margini per il settore. Cresce poi il turismo “fai da te”, nella scelta autonoma della combinazione “volo + hotel”: le mete preferite sono state, in questo caso, le grandi città europee raggiunte da voli low-cost, tra le quali spiccano Parigi, Londra e Valencia; tiene bene anche il turismo autogestito diretto alla Croazia e alle mete di montagna (comunque in calo rispetto alle altre destinazioni).
La crisi ha aggravato le difficoltà tipiche del settore del turismo intermediato, con fatturati trascinati verso il basso dalla paura del crollo dell’euro, dall’aumento del costo della benzina e dalle sempre più ridotte disponibilità economica: “La situazione del settore è aggravata dai rapporti con Tour Operator e vettori” – sottolinea Guerra – “con una giungla di tariffe che rende ancora più complesso interagire tra clienti che cercano di spendere meno e fornitori che invece sperano di fare profitto. Per questo molte agenzie di viaggio si vendono costrette a ridurre i costi: qualcuna ha cominciato a non confermare il personale con contratti a termine, e da settembre si penserà anche a misure più drastiche”.
A conferma l’andamento negativo del turismo in questa ultima stagione estiva sono stati nei giorni scorsi anche i dati diffusi dalle associazione a tutela dei consumatori italiani: Adusbef e Federconsumatori hanno rilevato come solo il 34% degli italiani sia partito per una vacanza di almeno una settimana e come il 36% abbia invece optato per soluzioni mordi e fuggi, cercando spesso ospitalità presso amici e parenti. Sembra aumentare il fenomeno del pendolarismo verso le mete balneari, soprattutto nei fine settimana, con conseguente crescita dei disagi e delle segnalazioni relative ai disservizi nei treni (carrozze vecchie, assenza di aria condizionata, carenza di igiene).
La causa viene identificata nella caduta del potere d’acquisto delle famiglie, la soluzione viene auspicata nella previsione di un piano di rilancio complessivo del settore turistico, nella riduzione della tassazione, nell’investimento in sviluppo e crescita, indispensabili – sostengono Rosario Trefiletti (Federconsumatori) e Elio Lannutti (Adusbef) – ai fini di un rilancio generale dell’economia.
Non lasciano spiragli di fiducia, infine, nemmeno le stime degli albergatori. Cescat (Centro studi casa ambiente e territorio di Assoedilizia) e Aiaga (Associazione italiana amici grandi alberghi) rilevano, nel periodo luglio-settembre 2012, un giro d’affari del turismo di 30 miliardi di euro, pari ad una riduzione media del 2% con tendenza al 3% (quinto anno di recessione per il settore in Italia). Il dito è puntato in questo caso su “una inadeguata politica di promozione e di sostegno e della crisi economica che colpisce il turismo domestico rappresentante ben il 60% del totale”, come evidenzia il presidente Achille Colombo Clerici. Poco più del 40% degli italiani si reca in vacanza, a fronte del 48% del 2008, segnando così un ritorno al livello della metà degli anni Novanta; la media di permanenza in vacanza è di 12 giorni, mentre è incrementata la spesa media, passando dai circa 820 euro del 2011 agli oltre 900 euro, complice l’aumento dei costi di ristoranti, carburanti e autostrade. I lavoratori autonomi e il loro indotto hanno concentrato in agosto le proprie ferie, mentre la vacanza scaglionata nel corso di tutto il periodo estivo risulta appannaggio prevalente dei lavoratori dipendenti. Le vacanze in agosto sono aumentate dal 52 al 55%, tuttavia negli ultimi 5 anni si è parallelamente assistito ad un incremento del 50% tra coloro che rimangono in città a ferragosto (che rappresentano il 15 % della intera popolazione delle città). La meta principale (64%) per queste vacanze estive è stato il mare (prevalentemente in Emilia Romagna, Toscana, Puglia, Calabria). Calo del 12% nelle presenze in albergo, concentrate negli esercizi di medio-alto livello; incrementi, per contro, registrati presso gli hotel a 2 stelle (dal 6% del 2011 all’attuale 16%). Unico dato positivo è quello occupazionale, con decine di migliaia le persone, soprattutto giovani, che hanno trovato lavoro stagionale (da 2 a 6 mesi) con compensi da 500 a 2.000 euro al mese.
Amari erano stati a inizio mese anche i pronostici di Federalberghi, spingendo il presidente Bernabò Bocca a lanciare il suo allarme per il calo “generalizzato e devastante”, che “a memoria storica non si era mai visto”, per “uno dei settori che potrebbe, se opportunamente supportato, rappresentare il primo volano per la ripresa economica del Paese”, e a richiedere “a Governo e Parlamento lo stato di crisi del settore, unico strumento tecnico-giuridico per mettere in moto, auspichiamo, quella scossa indispensabile per definire mezzi e misure dei quali il turismo non può più fare a meno”.
Il turismo tuttavia, non sembra subire i soli effetti negativi della difficile congiuntura economica, ma, più di altri comparti, gode anche di quelli positivi dettati dall’evoluzione nelle dinamiche fruitive ed economiche generata dalla rete. Il viaggio viene sempre più percepito dagli utenti come un’esperienza condivisa, che si estende prima e dopo il viaggio in sé e arriva ad abbracciare blog, recensioni online, social network e applicazioni mobile. Le nuove piattaforme digitali mettono a disposizione delle risorse conoscitive pressoché illimitate e a disposizione di chiunque gratuitamente. Tali risorse sono implementate dal basso e, proprio per questo, amplificano l’importanza e l’eco dell’antico “passaparola” e richiedono, per contro, un’accurata operazione di ricerca e selezione da parte dell’utente. Molte sono state nelle ultime settimane le dita di albergatori e ristoratori puntate contro siti come TripAdvisor, colpevoli di ospitare commenti anonimi, dunque potenzialmente pericolosi, e di aver generato presunte operazioni di ricatto, scambio e crowdturfing, capaci di condizionare gusti e scelte degli utenti in modo utilitaristico, allo scopo di soddisfare gli interessi particolari di alcuni operatori. Affianco a strategie di marketing lodevoli che cercano nella validazione sociale dal basso lo sviluppo positivo della propria online reputation, se ne sono sviluppate altre malevole che si fondano sulla compravendita opportunistica di commenti e recensioni positive e negative da distribuire a seconda della convenienza, pur in assenza di riscontri concreti con la realtà delle cose.
Al di là delle comprensibili motivazioni degli operatori indispettiti da una cattiva recensione considerata ingiusta, al di là delle dichiarazioni di totale impegno nel combattere le “frodi” nelle valutazioni degli utenti, da parte del team dirigenziale di TripAdvisor, ciò che albergatori, ristoratori e tutti gli addetti del settore turismo non possono fare, se vogliono dimostrarsi realmente competitivi, è continuare a considerare la rete come un semplice canale aggiuntivo attraverso il quale veicolare la propria offerta, da affiancare a volantini, annunci e cartellonistica. Internet ha infatti cambiato radicalmente le regole del viaggiare, rappresenta lo strumento principale per chiunque decida di muoversi, condiziona l’intero processo fruitivo, dalla scelta della meta, alla raccolta di notizie utili, fino alla divulgazione delle proprie esperienze: si riduce la distinzione tra chi produce e chi consuma contenuti informativi e si accorciano le distanze tra reale e virtuale, Il nostro viaggio nasce nell’online, attraverso informazioni e consigli ricercati su travel blog e site reviews quali TripAdvisor, HolidayCheck e Zoover, visualizziamo in anteprima gli scenari dei quali saremo poi protagonisti attraverso siti di photo sharing (come Flickr, Pinterest e Followgram) o di video sharing (YouTube e Vimeo giusto per citare i più famosi), rileviamo su Google Maps le distanze utili alla pianificazione, ricerchiamo sui molti Skyscanner, eDreams, Expedia e lastiminute.com le migliori combinazioni di volo e pernottamento. Giunti a destinazione, ci lasciamo guidare da smartphone e tablet nella visita, dispositivi capaci di farci percepire una realtà cosiddetta “aumentata”, grazie alle numerosissime mobile applications o sfruttando i Qr code. Grazie a Facebook, Twitter, Instagram, Foodspotting, Foursquare condividiamo in tempo reale, con i nostri amici virtuali, stati d’animo, foto di panorami mozzafiato o di piatti golosi e la nostra stessa posizione. Inseriamo a nostra volta recensioni e commenti positivi o negativi sulle strutture che ci ospitano, infine, al rientro, ci aspetta l’immancabile album “Vacanze estate 2012” da pubblicare sulle piattaforme di social networking cui siamo iscritti, con decine di foto che ci auguriamo possano stupire i nostri contatti. Le funzionalità del web 2.0 incrementano, dunque, in definitiva, l’esperienza del viaggio, imponendo – per gli amanti delle definizioni – lo sviluppo del concetto di social travelling, alla cui base vi è una logica relazionale. Lab42 e MDG Advertising hanno di recente sviluppato due infografiche che, pur non riferite al contesto italiano, tentano di spiegare il fenomeno, svelandone, dati alla mano, la portata. Sempre nuove sono le formule ideate per gli utenti in rete e cresce in queste ore l’attesa per il possibile esito dell’annunciato acquisto, da parte di Google, di Frommer’s, il brand della casa editrice John Wiley & Sons che raccoglie oltre 300 pubblicazioni cartacee di guide turistiche e un sito web visitatissimo nel quale sono presenti non solo le guide ma pure migliaia di recensioni, e suggerimenti; tale acquisto, unito a quello di Zagat (portale dedicato alla ristorazione), avvenuto lo scorso anno, lascia supporre la volontà di Mountain View di creare qualcosa di  realmente innovativo per il settore turismo.
Riuscire a far fronte ad un simile contesto di reciproca contaminazione tra realtà concreta e digitale non sembra essere cosa semplice e non si può certo dire che tutti gli addetti del settore si siano dimostrati pronti: il cambiamento, prima ancora che tecnologico, è culturale. Costruire relazioni e incrementare la fiducia nella propria azione imprenditoriale dovrebbe essere lo scopo di ogni attività promozionale posta in essere dagli operatori del turismo e a poco servono le indignazioni urlate, le accuse o le missioni punitive rivolte a piattaforme comunque potenzialmente utili al proprio business.
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Investimenti pubblicitari: boom per il digitale

Secondo lo studio “Comunicare Domani” curato da AssoComunicazione, il settore starebbe subendo un momento di crisi generale, con la previsione di un 2012 in chiusura al -7% nella raccolta. Crescono per contro le formule più innovative, in testa il Video Adv
La convergenza al digitale ha imposto agli utenti, sempre più evoluti, una necessaria riformulazione nei modelli fruitivi di contenuti e informazioni. La rete diventa sempre più un canale preferenziale per il consumo di quanto veicolato un tempo da altri media più tradizionali. Mutano le pratiche di lettura, mutano le esperienze e le percezioni. Mutano, di conseguenza, anche i comportamenti di quanti, tra tutti i media resi disponibili dallo sviluppo tecnologico, devono scegliere quali e in quale formula veicolare il proprio messaggio promozionale, il proprio credo aziendale.
AssoComunicazione (l’associazione che riunisce le imprese operanti nel campo della consulenza di comunicazione), ha presentato lo scorso venerdì a Milano i risultati del suo annuale studio “Comunicare Domani”: condotto su 133 attività di comunicazione operanti in territorio italiano, esso ha inteso delineare un quadro generale relativo agli investimenti in ambito pubblicitario, alle evoluzioni e ai nuovi scenari che si stanno affacciando in questo ambito.
Il dato generale è di un settore in crisi, che prevede di chiudere il 2012 con una contrazione di circa 7 punti percentuali nella raccolta pubblicitaria (per un valore di 8.650 milioni di euro, la cifra più bassa dell’ultimo decennio).
All’interno di tale trend negativo pare, tuttavia, sia possibile rilevare un andamento dal segno opposto, con riferimento al digitale: gli investitori sembrano, infatti, essere sempre meno interessati ai media tradizionali, a favore delle nuove opportunità digitali (TV Sat e Digitale terrestre, Internet, Video Outdoor). Per queste ultime le previsioni parlano di un 2012 in chiusura positiva addirittura in doppia cifra (+12,7%), con il 15,1% degli investimenti totali ad esse destinate (pari a ben 1.309 milioni di euro): i settori trainanti si confermano Automotive e Finanza-Assicurazioni, ma si registra un forte incremento anche per il comparto Alimentare.
Crescono con la stessa intensità Web/Display Advertising (spazi pubblicitari a pagamento) e Email, da una parte, Search advertising Classified/Directories (pubblicità per categorie) dall’altra, facendo segnare entrambe le formule un +13%: sulla prima le aziende investiranno, nel 2012, 545 milioni di euro, sulla secondo 681 milioni.
Un fenomeno destinato a diventare protagonista nel prossimo futuro è poi il Video Advertising, che registrerà nel 2012 un’esponenziale aumento degli investimenti, pari al +93%, pur restando in termini assoluti ancora su cifre limitate (le stime parlano di 88 milioni di euro di investimenti).
La potenza di questo nuovo mezzo è stata del resto rilevata a gran voce nel corso dello Iab Seminar 2012, l’evento tenutosi il 28 giugno scorso a Milano, che ha focalizzato quest’anno la propria attenzione proprio sul tema del Video Advertising. Nella sua presentazione, Fabiano Lazzarini, General Manager di IAB Italia, ha evidenziato come, a fronte di un cambiamento dei modelli di consumo dei media, anche la pianificazione pubblicitaria stia modificando i propri confini. Ad oggi, ha riportato, il 2,5% degli investimenti pubblicitari si sta spostando dalla TV al Video Online, mezzo che permette di pianificare seguendo logiche simili a quello che è da sempre il media preferito dagli italiani. A ciò si aggiunge il fatto che esso offre numerose opportunità ai diversi attori coinvolti nella filiera pubblicitaria: i creativi, ad esempio, possono realizzare campagne che viaggiano in rete al di là dei vincoli spazio-temporali e le aziende possono diventare fornitrici di contenuti e raccontare storie che gli utenti si scambiano, manipolano e modificano per creare nuovi originali spunti. Il Video Adv rappresenta, allora, oggi – secondo Lazzarini – il 10,5% della pubblicità display, pari a 455,6 milioni di euro, e nel 2012 egli prevede un aumento degli investimenti pari all’85%, raggiungendo gli 89 milioni di euro (si tratta di stime leggermente diverse rispetto a quelle riportate da AssoComunicazione, ma la sostanza rimane invariata).
In aumento, malgrado rimanga ancora poco utilizzato, è anche il Mobile Adv (8%), con 38 milioni di euro che dovrebbero essere elargiti dagli investitori nel 2012. Segno più anche per la formula Performance (pagamento in base alle visualizzazioni), con 46 milioni di euro previsti per l’anno in corso, pari a 8,5 punti percentuali di aumento sul 2011.
Con riferimento alla composizione assoluta degli investimenti pubblicitari nel mezzo digitale, l’indagine Assocomunicazione ci dice che la quota maggioritaria (52%) è occupata da Search advertising e Classified/Directories, seguita da Web/Display Adv e Email (41,6%). La market share per Performance è poi del 3,5%, quella per il Mobile Adv del 2,9%.
E sui canali televisivi?
Il mercato degli investimenti pubblicitari starebbe, dunque, vivendo una profonda trasformazione, fondata sul ridimensionamento della propria portata, a causa della persistente congiuntura economica negativa, e, allo stesso tempo, sulla ridistribuzione delle risorse alla propria base.
Se è vero, infatti, che la televisione continua ad essere, anche nel 2012, il mezzo prediletto dagli investitori italiani, la market share occupata da questo canale sembra essere in calo, passando dal 52% del 2011 al 51% dell’anno in corso. La flessione è conseguenza diretta della contrazione prevista nella raccolta di investimenti, pari a -8,6% (cioè a 4.411 milioni di euro destinati al media).
I due big players del mercato, Rai e Mediaset, vedono una decisa riduzione degli investimenti nei loro canali “tradizionali”, rispettivamente del 12,2% e del 11.2%. Nonostante la buona crescita dei rispettivi canali digitali, sia Rai che Mediaset chiudono, inoltre, in negativo il 2012, con un -10,9% previsto per la RAI (pari a 967 milioni di euro di investimenti) e un -9,6% per Mediaset (pari a 2628 milioni). Continueranno comunque a rappresentare il 38% del totale investimenti pubblicitari.
Secondo le previsioni, La7 e La7D incrementeranno anche nel 2012 la loro raccolta pubblicitaria (+7,9%, pari a 202 milioni di euro), seppur in misura più contenuta rispetto al 2011.
Soffrono, oltre alle TV generaliste, anche quelle locali, segnando un calo di raccolta pari al 51,9%. Per contro, TV Satellitare e Digitale faranno registrare degli andamenti positivi, con quote a loro destinate rispettivamente al +6,4% e al +6,6%. A influire sul dato sono, da una parte, l’abbiamo visto, il processo di convergenza al digitale, che spinge a una crescita dell’audience, dall’altra l’ampliamento dei canali, dunque dell’offerta proposta.
La stampa ancora resiste
Al secondo posto per quota di mercato si posiziona poi ancora la stampa, tuttavia essa continua a subire perdite piuttosto rilevanti di tale quota (canalizza nel 2012 il 22,1% della raccolta, in calo di 11,9 punti percentuali sul 2011). Più in particolare, nel comparto Quotidiani, gli investimenti, pari a 1.153 milioni di euro, sono in continua e forte flessione (-11,5%). Sia il settore FMCG (beni di largo consumo) che gli altri comparti continuano a ridurre, infatti, l’utilizzo di questo mezzo.
Soffre in maniera ancor più netta il settore della free press, facendo segnare perdite a doppia cifra (-43% sulla free press nazionale). A tagliare decisamente gli investimenti, sono anche e soprattutto i settori Finanza/Assicurazioni e GDO, dunque i tradizionali main spender di questo media.
Infine il reparto Periodici, dove la raccolta pubblicitaria si attesta per il 2012 sui 758 milioni, facendo registrare una contrazione sul 2011 di 12,6 punti percentuali, nonostante le molte iniziative editoriali multipiattaforma che coinvolgono i nuovi tablet e devices. Anche il settore Abbigliamento, investitore di primo rilievo per questo mezzo, inizia a disinvestire, facendo segnare un -10% nel primo trimestre 2012.
Si difendono tutti gli altri canali
Al terzo posto per quota di mercato si posiziona poi il digitale (15,1%), al quarto la radio (5,9%). Per quest’ultimo mezzo è prevista una chiusura al -6% nel 2012 (pari a 507 milioni di euro), dato tuttavia positivo, se paragonato al -12% registrato nel 2011. Le posizioni riguadagnate dipendono in larga parte dalle buone performance delle radio commerciali, che passano dal -9% nelle raccolte pubblicitarie del 2011 al -3% del 2012 (pari a 303 milioni di euro), grazie soprattutto a un ampliamento della loro offerta, caratterizzata ora da una più ampia personalizzazione dei progetti e da una comunicazione multipiattaforma. Migliora la situazione anche per le radio locali, che da -19% si collocano nel 2012 a -8,5% (pari a 135 milioni di euro). Peggiorano invece le prestazioni di Radio Rai, che da -9% arriva addirittura -14% (raccolta pari a 70 milioni di euro).
Al quinto posto per market share abbiamo poi il comparto “Esterna” (5,5%), dove continua la flessione degli investimenti pubblicitari, con la previsione di un -14% per il 2012 (pari a 475 milioni di euro). Tutti i comparti “classici” sembrano essere in crisi: -21,7% per i poster (pari a 100 milioni di euro), -12,2% per la dinamica (pari a 87 milioni di euro), -16,2% per le maxiaffissioni (48 milioni) e -14,1% per i circuiti tematici (15 milioni). Segno meno anche per l’arredo urbano (-13,3%, pari a 91 milioni investiti) e gli aeroporti (-9,6%, cioè 76 milioni di euro), mentre registrano performance positive i formati più innovativi come i Video OOH (+8,6%, pari a 22 milioni di euro).
Sesta e ultima posizione per quota di mercato occupata dal cinema (0,4%), dove si assiste ormai da tempo ad una vera e propria emorragia di investimenti, nonostante il rinnovamento del mezzo legato a digitalizzazione, 3D e al recente rilascio al mercato dei software di pianificazione. Si prevede in particolare per il 2012 una chiusura negativa a -25%.
Cambiano dunque, nell’era della multimedialità, le formule adottate dagli investitori per le proprie scelte di advertising, in riflesso al rinnovarsi delle politiche fruitive dell’utente e al mutare dell’approccio che lega questo stesso utente al mezzo. Come dimostra, ad esempio, la ricerca “Interactive Europe”, diffusa l’11 giugno 2012 da Cbs Outdoor Italia, azienda specializzata nel settore dell’advertising out of home, sembra essersi totalmente modificato il modo che il consumatore ha di interagire con la pubblicità. Riferendosi alle campagne pubblicitarie in esterna, i promotori del report rilevano come l’81% degli italiani reagisca ad esse in diversi modi, andando online per cercare ulteriori informazioni sui contenuti pubblicizzati (38%), cliccando “Mi piace” sulla pagina Facebook del marchio (17%) e comprando il prodotto (34%). L’interazione aumenta fino all’85% nel caso degli utilizzatori di smartphone o tablet, confermando il ruolo crescente del mobile, nel dare visibilità ai brand e nel coinvolgimento delle audience, sempre più in movimento.
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Imprenditori: 36 suicidi da inizio anno… 12 solo nel Veneto

Hanno creato una certa risonanza i dati diffusi dalla Cgia di Mestre, con un invito, rivolto alle istituzioni nazionali, ad intervenire. Una questione così drammatica non può, tuttavia, ridursi ad un semplice rapporto di causa-effetto

Un tema certo difficilissimo da trattare, di recente salito alla ribalta dei mezzi di informazione grazie alla forza dirompente dell’accusa. Una questione spesso liquidata in un rapporto di causa-effetto che, oltre a nascondere una scarsa capacità di analisi, banalizza, a mio avviso, delle dinamiche in realtà molto complesse e a volte impenetrabili.

Le cronache dei molti suicidi in queste ultime settimane ci stanno forse aiutando a salutare definitivamente anche l’ultimo tabù rimasto nella nostra società, quello della morte. L’idea perversa di autoinfliggersi una pena così estrema non può sicuramente essere compresa in pieno e tantomeno spiegata, la stessa Chiesa si è dimostrata inadeguata nel darne una connotazione morale, la stessa legislazione (o almeno quella italiana) ha rinunciato a punire chi, alla fine dei conti, tenta di attivare un processo socialmente scorretto, il cui scopo è togliere la vita ad un cittadino; per contro punisce, giustamente, chi istiga o agevola il suicidio di qualcun altro. I titoli dei principali quotidiani italiani sembrano, allora, voler scatenare un vero e proprio processo mediatico contro chi ha istigato, appunto, questi aspiranti (e non solo) suicidi. Imputato: la crisi economica.

La Cgia (l’Associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre ha tentato – strategicamente sostiene qualcuno – di tradurre la questione in numeri, quasi a voler offrire una dimostrazione empirica degli effetti distruttivi procurati dall’attuale congiuntura economica negativa. Il quadro delineato appare inevitabilmente allarmante. Stando ai dati diffusi lunedì 7 maggio dalla Cgia, infatti, sarebbe salito a 34 il numero di suicidi tra gli imprenditori italiani avvenuti in questa prima parte del 2012.

Il numero sale addirittura a 36, se si contano anche i due casi avvenuti in seguito al conteggio fatto dall’associazione: il commerciante 48enne di Bologna impiccatosi lunedì nel retrobottega del negozio di articoli casalinghi del quale era co-titolare, probabilmente a causa – si è detto dalla questura e hanno ripetuto i giornali – delle pendenze fiscali con Equitalia; poi l’imprenditore 60enne titolare a Cesate, al confine tra le province di Milano e Varese, di un’azienda a conduzione familiare in crisi (organizzava corsi di formazione professionale per società di telecomunicazioni), trovato martedì senza vita da alcuni passanti nel parco delle Groane, con un biglietto in cui motivava il gesto con le difficoltà a pagare i debiti.
Tra questi 36 casi, ben 12 (pari a circa il 33,3% del totale)  hanno riguardato i titolari d’azienda del Veneto. Da gennaio 2009, dunque dall’inizio di questa ondata di crisi, sono stati ben 37, stima ancora la Cgia, i suicidi per motivi economici registrati nel solo Veneto tra i piccoli imprenditori.

Difficile comprendere pienamente le cause di queste tragedie, tuttavia esse, prosegue l’associazione mestrina, rivelano tutte un comune denominatore, il grande senso di ingiustizia, cioè, che questi imprenditori stanno subendo, “vuoi per il mancato pagamento da parte dei committenti, siano essi amministrazioni pubbliche o imprese private, vuoi per la mancanza di liquidità, visto che molti istituti di credito, anche se l’azienda risulta essere sana e solvente, si vedono chiudere inaspettatamente i rubinetti del credito”, come sottolinea il segretario della CGIA Giuseppe Bortolussi.

Da qui la richiesta di porre rimedio, a livello nazionale, a “questa escalation” che “sembra non aver fine”, attraverso un fondo di solidarietà per l’erogazione di mutui in favore di piccoli e medi imprenditori “in chiara situazione di difficoltà economica e finanziaria e privi di accesso al credito bancario o ai quali siano stati revocati affidamenti da parte di banche o intermediari creditizi”.

“Chiediamo – esorta Bortolussi – al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di intervenire facendo capire che le istituzioni sono vicine a chi quotidianamente è chiamato, tra mille difficoltà, a fare impresa”.

La stessa sollecitazione, mossa un paio di mesi fa alla Regione Veneto, aveva condotto la giunta ad approvare, lo scorso 17 aprile, l’istituzione di un fondo soprannominato “fondo anti-suicidi”, su proposta dell’assessore allo Sviluppo economico Isi Coppola (Pdl). Con tale piano sono state, di fatto, estese le finalità del fondo di rotazione istituito presso Veneto Sviluppo S.p.A. (destinato in origine alle sole aziende interessate ad investire) anche a quelle imprese che possono dimostrare di avanzare crediti dalla pubblica amministrazione o da altre aziende private. Esso prevede finanziamenti agevolati da 25 a 500 mila euro (300 mila euro per le imprese artigiane non manifatturiere): con questi fondi regionali si interviene fornendo il 50% del finanziamento (l’altro 50% dalla banca) e riducendo della metà gli interessi passivi.

Molte stime ufficiali – l’abbiamo visto – hanno dimostrato come sia particolarmente difficile l’attuale situazione dell’imprenditoria italiana, in particolare per quelle realtà di dimensione più piccola e appartenenti al settore artigianale; al di là dei numeri, chiunque se ne sarà concretamente reso conto nell’ambito delle relazioni professionali che quotidianamente allaccia. Posta questa oggettiva considerazione, trovo che la trattazione della tematica “suicidio” non possa ridursi, come molti hanno cercato di fare, ad una semplice questione di azione-reazione. Ognuno di quei 36 imprenditori e delle molte altre persone giunte alla medesima disperata conclusione merita di riappropriarsi della propria dignità di singolo, dietro vi sono delle individualità che per giorni, mesi, anni hanno respirato la tensione e la preoccupazione di una vita percepita come sgretolata. Difficile mantenere il sorriso quando le cose vanno storte, impensabile controllare le emozioni quando i problemi si fanno insormontabili, impossibile ammettere di essere fragili come e più degli altri. Non so se sia la paura o al contrario il coraggio a spingere verso una decisione così insopportabilmente estrema, non è questa la sede migliore per stabilirlo, ma certamente ciò che va detto è che “la crisi” non può essere additata come unica e incontrastata causa del fenomeno. Almeno non con le stime attualmente a disposizione, eccessivamente semplicistiche.

Gli ultimi dati statistici diffusi un paio di mesi fa dall’Istat, riferiti ai suicidi e ai tentativi di suicidio denunciati alle forze dell’ordine italiane, relativamente all’anno 2010, distinguono, tra gli altri, anche i cosiddetti “suicidi per motivi economici”. Tali dati non permettono di riconoscere la professione svolta da queste persone, dunque di capire quando si tratta di imprenditori, tuttavia offrono una testimonianza importante del fenomeno considerato e valgono, per questo, la pena di essere riportati. Secondo l’Istat, allora, i gesti estremi per motivi economici nel 2010 (ultimo anno disponibile) sono stati 187 (182 uomini e 5 donne), mentre i tentativi di suicidio 245 (191 uomini e 54 donne).

La Cgia sottolinea, a questo punto, l’aumento dei numeri rispetto al 2008, quando i suicidi di questo tipo sono stati 150 (141 uomini e 9 donne, il che significa un aumento di 24,6 punti percentuali nel 2010) e i tentativi di suicidio 204 (154 uomini e 50 donne, con un +20% nel 2010). Tuttavia l’associazione dimentica si riportare i dati riferiti al 2009: 198 suicidi per motivi economici (188 uomini e 10 donne) e 245 tentativi (198 uomini e 47 donne). Se si analizza, dunque, la tendenza in corso, in base agli ultimi (pur non aggiornatissimi) dati disponibili, i suicidi per motivi economici sembrano, seppur lievemente, essere in diminuzione.

Nel criticare l’attuale morboso attaccamento mediatico alla tematica del suicidio, molti si concentrano sul cosiddetto “effetto Werther”, il fenomeno di emulazione per il quale la notizia di un suicidio pubblicata nei media provocherebbe una catena di altri suicidi. Non sono molto d’accordo, il compito dei mezzi di informazione dovrebbe essere, appunto, quello di informare, non trovo ci sia nulla di sbagliato nel registrare dei fenomeni che si considerano di rilevanza sociale. Credo però sia necessario prestare una particolare attenzione quando si decide di affrontare un tema così delicato che mette in gioco non una ma moltissime variabili, attenzione che spesso la retorica giornalistica sembra aver dimenticato.

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Le medie imprese italiane resistono alla crisi

I risultati dell’edizione 2012 dell’indagine annuale sulle medie imprese italiane, condotta dal Centro Studi di Unioncamere e dall’Ufficio Studi di Mediobanca

“Proprio grazie alla loro peculiare struttura organizzativa e produttiva, le medie imprese si confermano la punta di diamante del made in Italy all’estero”.

Con queste parole il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, ha presentato lo scorso 13 aprile a Milano i risultati relativi all’undicesima edizione dell’indagine annuale sulle medie imprese industriali italiane, condotta dal Centro Studi di Unioncamere e dall’Ufficio Studi di Mediobanca.

“Le Medie imprese – prosegue Dardanello – rappresentano, anche in questo momento critico, un anello forte della catena organizzativa e produttiva dell’industria italiana. E, pur all’interno di continui percorsi di trasformazione, un nucleo importante mantiene costantemente bilanci in utile e strutture finanziarie solide”. In base alle previsioni formulate, inoltre, la redditività “nel 2012 dovrebbe addirittura aumentare per oltre 1 media impresa su 4”.

Le medie imprese sembrano, infatti, meglio di altre, resistere alla crisi attuale, malgrado persista, nelle percezione di ben il 72% di loro, un problema fondamentale di accesso al credito.

Andiamo però con ordine: oggetto dell’indagine Unioncamere-Mediobanca sono state, appunto, le imprese manifatturiere italiane di medie dimensioni, quelle, cioè, con un numero di dipendenti compreso tra i 50 e i 499 e con un volume di fatturato non inferiore a 15 e non superiore a 330 milioni di euro. In base all’ultimo censimento, esse rappresentano 3220 unità, si concentrano soprattutto nel Nord-Est, nel Centro e il Lombardia e assicurano il 15% circa della produzione manifatturiera italiana a valore (percentuale che sale al 21% considerando anche l’indotto). Le statistiche economico-finanziarie riportate nel rapporto sono il frutto della rielaborazione di dati desunti dai bilanci del periodo 2000-2009.

In questo arco temporale, il bilancio aggregato delle 3220 società considerate si è sempre risolto in utile, nonostante il risultato del 2009 sia stato il più basso, 1,1 punti in meno rispetto al massimo toccato nel 2007. Le esportazioni (nel periodo 2000-2009, con l’aggiunta della stima relativa al 2010) hanno registrato un incremento pari al 55%: nonostante il biennio 2008-2009 abbia conosciuto una decrescita del 18,6%, nel 2010 c’è stato un parziale recupero (+9,9%). La struttura finanziaria delle medie imprese appare solida, il 58,4% di esse merita un rating di tipo “investment grade”, anche se il ricorso alla borsa e al private equity risulta trascurabile (solo lo 0,5% delle società è quotato).

Nel 2009 sono ben 628 le imprese tornate alle piccole dimensioni, mentre 32 sono quelle divenute di grandi dimensioni (contro le 39 che da grandi sono tornate medie). Nell’intero decennio considerato, sono 620 le imprese che hanno oltrepassato la media dimensione, con un aumento parallelo del rischio di fallimento (0,8% il tasso di fallimento per loro, a fronte dello 0,3% delle imprese medie).

Nel decennio analizzato, le medie imprese mantengono il primato di crescita, segnando un incremento del valore aggiunto pari al 20% (contro il -1,8% registrato dalle grandi imprese). Aumenta anche il loro peso nella manifattura nazionale: i dati Istat più recenti (riferiti al 2009) suggeriscono che le medie realtà rappresentano il 14,4% del totale investimenti fissi annui e il 16% delle esportazioni. Nel 2010 le stime relative alle prestazioni di fatturato e margine industriale rimagono comunque al di sotto dei livelli precedenti la crisi.

Nel 2009, per le medie imprese italiane, il Return on Investments (ROI), cioè l’indice di redditività del capitale investito, è stato del 6,1%, contro il 4,5% dei gruppi maggiori. Il turnover del capitale risulta per questi ultimi inferiore di circa 13,5 punti rispetto alle medie aziende. La tassazione continua ad essere punitiva (si stima che l’esclusione del costo del lavoro dall’imponibile Irap produca una riduzione del tax rate di circa 6 punti, da 38% a 32%). Il 29% delle imprese prevede, per il 2012, un aumento della redditività rispetto al 2011.

Due terzi delle medie imprese hanno sede in aree a natura distrettuale: queste sono caratterizzate da una maggiore propensione all’export (che rappresenta il 45,7% del fatturato per le imprese ubicate in distretti veri e propri e il 31,9% per quelle in altri sistemi produttivi locali, contro il 31,5% per quelle localizzate in altre aree) e da una maggiore solidità finanziaria (il 59,6% delle medie imprese con sede nelle province distrettuali raggiungono il livello di “investment grade”, contro il 53,9% delle altre).

Veniamo ora alla congiuntura più recente. Secondo un’indagine svolta a marzo 2012 su un campione rappresentativo delle 3256 medie imprese industriali singole attive al 2009, il 38% di esse prevede, per l’anno in corso, un aumento del fatturato (contro il 50,2% a consuntivo nel 2011) ed il 32,6% un incremento della produzione (contro il 39,7% registrato lo scorso anno).


Forte risulta la propensione all’export: le medie aziende esportatrici sono più del 90%, l’incidenza delle vendite all’estero è pari al 44% del totale e, per il 2012, gli ordinativi esteri sembra saranno in crescita per il 39,8% delle imprese.
“Il continuo impegno nel rafforzamento dell’immagine e del marchio delle produzioni che ci contraddistinguono nel mondo è nel 45% dei casi il sostegno più intenso all’aumento delle esportazioni”, sottolinea Dardanello. All’importanza delle risorse umane proprie delle medie imprese si affiancano, prosegue, “le competenze strategiche dei loro fornitori, che rappresentano una garanzia per la qualità (nel 77% dei casi) e per il contenuto innovativo delle produzioni (nel 37%)”. Anche attraverso l’ispessimento di questo “modello spontaneo di rete”, preannuncia il presidente di Unioncamere, “arriverà quel rafforzamento della presenza all’estero necessario per sostenere la ripresa dell’Italia”.

Le previsioni relative all’andamento del mercato interno sono invece più pessimiste, dato che solo il 15,9% del campione analizzato si aspetta un rialzo rispetto al 2011, contro il 32% di quelle che attendono una flessione. Nel 2011 gli investimenti delle medie imprese sono stati orientati prevalentemente ai macchinari (72,7%), alle apparecchiature informatiche (69,2%), ai software e servizi informatici (68,4%): le stesse direttive che, pare, continueranno ad orientare le linee di investimento del 2012.

Con riferimento alla domanda di credito, il 73% delle medie unità ha richiesto un finanziamento bancario negli ultimi 6 mesi, contro l’81% di un anno fa, ma il 67% di due anni fa. Il 51% di esse dichiara, poi, l’intenzione di richiedere crediti bancari nel primo semestre di quest’anno, per gestire le attività ordinarie (nel 43% circa dei casi), per realizzare nuovi investimenti (34,2%) o implementare quelli già avviati (11,2%), per far fronte ai ritardi nei pagamenti (12%).

Appare, tuttavia, in netta crescita la percezione di difficoltà circa la capacità effettiva di accedere al credito necessario: il 72% delle realtà che intendono farvi ricorso segnala questa problematica (contro il 45% di quelle che nell’ultimo semestre 2011 si sono rivolte alle banche).

“Un tema, quello del credito, da affrontare prioritariamente”, avverte Dardanello. Si tratta di un fronte sul quale si combatte “una battaglia decisiva per tornare a stimolare la crescita di tutto tessuto produttivo. Pur in un momento così difficile, saper scegliere e sostenere quelle progettualità forti, in grado di diffondere esternalità positive sulle rispettive filiere, consentirebbe di minimizzare i rischi sistemici che possono derivare da un ciclo economico troppo lungamente stagnante”. “A questo sforzo – conclude – tutti gli attori, pubblici e privati, sono chiamati a concorrere”.

Infine il capitolo occupazione: se nel 2009 gli addetti assunti all’interno delle medie imprese erano in media 132 e, nel 2011, 165 (compresi stagionali, co.co.pro. e somministrati), nel 2012 si stima una riduzione dell’1,2% (163 unità). Tuttavia circa un quarto del campione continua a creare occupazione e rileva un ampliamento della forza lavoro tra la fine del 2010 e la fine del 2012. Una media impresa su 10 possiede stabilimenti produttivi all’estero e pare che qui, nel 38% dei casi, l’occupazione aumenterà. Non subisce modifiche sostanziali il ricorso ad ammortizzatori sociali, che nel 2012 verranno utilizzati dal 35% delle imprese, contro il 37% nel 2011. Il 17% circa delle aziende adotterà strumenti alternativi per salvaguardare l’occupazione: contratti di solidarietà, modifiche all’orario di lavoro e riqualificazione del personale.

Il richiamo finale del presidente di Unioncamere è alla “coesione e comunione di intenti” di cui necessita il nostro Paese in questo preciso momento storico, oltre “al continuo rinnovarsi di quello spirito di iniziativa e di quel genio della creatività tutto italiano, che tanto è apprezzato nel mondo e che tanto ha contribuito al successo delle nostre medie imprese”.

«Senza gli investimenti non si cresce»

L’UPI conferma come il Documento di economia e finanza pubblica approvato dal Governo impedisca lo sviluppo economico e sostenibile

«Comprendiamo la necessità di assicurare la tenuta dei conti e la decisione del Governo di garantire la stabilità, ma senza gli investimenti non si cresce e si rischia di indebolire ancora di più il tessuto economico del Paese».

Con queste parole Giuseppe Castiglione, Presidente dell’UPI (Unione delle Province d’Italia), esprime le proprie perplessità circa il Documento di economia e finanza pubblica approvato dal Consiglio dei ministri del 13 aprile e consegnato alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato. In una nota diffusa nel sito dell’UPI vengono, infatti, riportati alcuni elementi di criticità rilevate sia sul Piano di stabilità, sia sul Programma di riforme: innanzitutto la “mancata consultazione e partecipazione di Regioni ed Enti locali alla definizione di obiettivi e finalità del DEF”, che – si afferma – “indica una grave sottovalutazione del ruolo e delle funzioni che i governi locali svolgono nel sistema della finanza pubblica e delle politiche di sviluppo del Paese”; le preoccupazioni maggiori sono espresse, tuttavia, con riferimento alla riduzione negli investimenti.

Trent’anni fa, nei ruggenti anni ‘80, gli investimenti fissi della pubblica amministrazione ammontavano, infatti, al 3,5% del Pil, trainando l’economia italiana, mentre, nel documento da poco varato, il governo prevede una percentuale del 2% per il 2011, destinata a scendere ulteriormente nel 2012 e nel biennio successivo, fino all’1,6%. L’ultimo numero di Finanza locale Monitor – realizzato dal servizio studi e ricerche di Intesa San Paolo e curato da Laura Campanini – sottolinea, allora, come “la dimensione della contrazione” sia “significativa” e sia sintomo di “come già l’aggiustamento fiscale dei primi anni Novanta avesse operato in maniera in parte asimmetrica, penalizzando in proporzione più la spesa per investimenti che quella corrente”. Nel rapporto ci si sofferma, in particolare, sugli effetti negativi di un simile “andamento stagnante della spesa pubblica in conto capitale” e dello “schiacciamento della spesa in conto capitale” rispetto alla spesa corrente; prima di tutto sugli effetti quantitativi sullo stock di capitale pubblico: “dati dell’Istat segnalano una leggera ripresa nei primi anni Duemila rispetto alla caduta degli anni Novanta, ma nel complesso si quantifica un dato prossimo al 50% del Pil”.

Del resto, anche secondo le stime UPI, si sarebbe consolidato, negli ultimi anni, un trend negativo nei bilanci delle Province, con un decremento del 25% nelle risorse destinate agli investimenti; questo a causa soprattutto dei “drastici tagli ai trasferimenti subiti con le manovre economiche e dei vincoli imposti dal Patto di stabilità interno”. Dopotutto “energia e ambiente, infrastrutture e sviluppo, sostegno alle imprese sono temi decisivi per la crescita del Paese”, “ma rischiano di rimanere temi sulla carta se agli Enti locali, che sono deputati alla loro realizzazione, si impedisce di svolgere la propria funzione”.
Ecco allora che gli effetti del calo negli investimenti, non coinvolgono solo una dimensione quantitativa, ma ad essere frenato sarebbe – sottolinea nel rapporto della Campanini – uno sviluppo economico inteso “in senso ampio, associando alla nozione di crescita misurata dal reddito, e quindi da indicatori aggregati come il Pil, quella di sviluppo sostenibile a livello sociale e ambientale”.

Lo stesso rapporto passa poi a considerare i molti aspetti che, sommandosi, vanno a costruire ritardo competitivo e sostenibile nei confronti degli altri Paesi europei. Dopo una forte diminuzione nei precedenti vent’anno, dal 1993 ha ricominciato a crescere il numero di pedoni morti o feriti sulle strade italiane, indice del fatto che le nostre città sono poco vivibili, e il numero di chilometri di metro e ferrovie suburbane rimane ben lontano dagli altri Paesi (Milano è undicesima e Roma diciassettesima per numero di chilometri di metro, mentre sono rispettivamente al dodicesimo e tredicesimo posto per le ferrovie di superficie; la Germania possiede complessivamente 32,3 chilometri di metro e ferrovie suburbane per milione di abitanti con 122 linee, l’Italia 12,5 con 43 linee).

A partire dal 2002, si è registrato, inoltre, una contrazione di un terzo nella spesa per investimenti pubblici nelle scuole, spesa che in media corrisponderebbe a 269 euro pro capite. Persistono, a tal proposito, numerose disparità territoriali: nel nord tale spesa è pari a 342 euro, nel centro a 252 euro e nel mezzogiorno a 195 euro.

Le disparità coinvolgono anche altri aspetti del mondo dell’istruzione, come gli edifici scolastici che necessitano di interventi urgenti di manutenzione: essi rappresentano il 45% degli edifici al sud, il 21 % al nord e il 26% al centro, malgrado il fatto che gli edifici nel mezzogiorno siano in media più recenti degli altri.

Al sud, infine, la percentuale di comuni coperti dal servizio di asilo nido è inferiore al 33% (4% in Molise, 10% in Calabria e 13% in Sardegna e Campania), contro l’82% della Val d’Aosta e il 66% della Toscana.

«È evidente – conclude Castiglione – che con queste scelte non solo non si permette la ripresa della crescita economica, ma si impedisce agli Enti locali di investire in opere che sono invece fondamentali per il Paese, impoverendo l’imprenditoria locale e deteriorando un sistema di infrastrutture che avrebbe invece davvero bisogno di interventi di modernizzazione, messa in sicurezza ed efficientazione».

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Internazionalizzazione: la nuova strada verso la ripresa

Il settimo Rapporto UniCredit Piccole Imprese evidenzia come l’espansione verso i mercati esteri rappresenti la principale leva delle PMI italiane per il superamento della crisi

 

Presentata la settima edizione del Rapporto UniCredit Piccole Imprese dedicato questa volta alla “sfida dell’internazionalizzazione quale strategia di rilancio per il Paese in generale e per il sistema delle piccole imprese in particolare”.

Ciò che ne emerge è come sia cambiato, in seguito alla crisi, il modo in cui si considerano le esportazioni, prima semplice “componente dinamica della domanda aggregata italiana”, ora principale mezzo per giungere a quell’accelerazione della crescita indispensabile per la nostra economia, soprattutto se rivolte ai mercati più dinamici dei Paesi emergenti. Nella situazione attuale, in cui “la produzione viene organizzata dalle medie imprese multinazionali su scala geografica più ampia lungo le fasi di filiere produttive globali”, la relazione tra dinamiche globali e dimensione locale è diventata, per le piccole imprese, “più rilevante e allo stesso tempo più fluida”.

L’analisi – frutto di oltre 6.000 interviste rivolte a piccoli imprenditori italiani e clienti UniCredit e di un questionario pensato per oltre 200 Associazioni di categoria e Confidi – si articola attorno a tre filoni che, in maniera interconnessa, approfondiscono quelle che sono le leve a disposizione delle piccole e medie imprese per affrontare l’importante sfida posta dai mercati esteri: la valorizzazione del territorio, l’innovazione e la rete tra imprese.

Viene innanzitutto delineato il contesto congiunturale in cui operano le piccole imprese: tra aprile e maggio 2009 sembrano essere emersi, seppur in misura meno vivace rispetto ad altri Paesi, i primi segnali di ripresa per l’Italia, mentre si osserva un rallentamento di tali segnali nel secondo semestre 2010.

Dal confronto tendenziale del PIL e delle sue componenti si evidenziano, dopo due anni di contrazione, dei ritmi contenuti di recupero per gli investimenti e per i consumi privati, frenati principalmente dalla debolezza del mercato del lavoro e da una disoccupazione che ha conosciuto nel secondo trimestre 2010 un aumento dal 6% all’8,5%. Si conferma invece il contributo positivo delle esportazioni nette, con un aumento delle vendite all’estero del 9,2%, rispetto al secondo trimestre 2009. Si denota sostanzialmente una generale situazione di incertezza, caratterizzata da un unico elemento positivo: “le imprese esportatrici mostrano maggiore solidità, segno che l’esposizione ai mercati internazionali ha probabilmente comportato cambiamenti rilevanti vantaggiosi”.

Dalla consueta indagine UniCredit per la determinazione dell’indice di fiducia delle piccole imprese (quelle con meno di 50 addetti), emerge poi un grado di fiducia maggiore per gli imprenditori che svolgono attività all’estero, con un indice pari a 94, superiore di tre punti rispetto all’indice sintetico 2010 e di ben sei punti rispetto all’indice espresso dalle aziende non internazionalizzate; una correlazione, a tal proposito, si legge anche tra fiducia e intensità dell’internazionalizzazione: l’indice degli imprenditori intervistati cresce notevolmente al crescere della quota di fatturato realizzata nei mercati esteri. In termini generali l’indice di fiducia sintetico scende di due punti rispetto allo scorso anno, passando da 93 a 91, probabilmente a causa,  rivela il Rapporto, del “protrarsi delle difficili condizioni che da più di un anno caratterizzano il contesto dell’economia globale, e che hanno colpito in maniera diffusa tutti i settori dell’imprenditoria”.

Nonostante le dimensioni contenute delle loro strutture organizzative ed operative, emerge come una parte delle PMI indagate abbia saputo presentarsi all’estero facendo leva sul know how specialistico accumulato nel tempo, su una “filosofia di processo improntata alla qualità e all’utilizzo delle reti d’impresa”: non si esportano solo beni e servizi, ma anche veri e propri modelli di business e, per questa via, si rafforza la valorizzazione del patrimonio territoriale e il successo del made in Italy nel mondo (sul quale, si sottolinea, è necessario puntare, creando dei prodotti quasi “su misura” per i clienti esteri).

Dall’analisi si evidenzia poi quanto sia centrale il ruolo della domanda estera, sia rispetto alla domanda del settore privato (che – si ricorda – “probabilmente rimarrà debole a causa della scarsa crescita demografica e dei problemi connessi, anche in termini di redistribuzione del reddito”), sia rispetto alla componente pubblica, “vincolata da necessità di risanamento del debito”. La crescita dell’Italia pare quindi essere vincolata alla capacità delle aziende di esportare e conquistare crescenti quote di mercato, soprattutto nei Paesi emergenti, dotati di più elevati tassi di crescita. Il confronto a livello internazionale rivela come l’Italia sia ben posizionata dal punto di vista dello scambio di beni e servizi, ma rimanga carente sul lato degli investimenti diretti, a causa della struttura produttiva italiana in cui prevale la piccola dimensione.

Altri due aspetti si rilevano dal punto di vista dei processi di internazionalizzazione: “la relazione biunivoca tra innovazione e commercio estero, e la forte connessione esistente tra miglioramento della produttività e rapido diffondersi delle filiere globali”.
Due risultano, allora, nel futuro, le principali sfide per le PMI: il miglioramento del rapporto qualità/prezzo, puntando sulla qualità del prodotto italiano, e la conquista della nuova classe di consumatori benestanti nei Paesi emergenti, grazie alle produzioni di beni di consumo di fascia medio-alta. Per arrivare a questo, occorre una rinnovata attenzione alle strategie di marketing e comunicazione, che consenta di segmentare il mercato di riferimento ed individuare i target più idonei.
Le PMI, ci dice ancora il Rapporto, sembrano aver reagito alla crisi seguendo due principali strategie: un cosiddetto “upgrading qualitativo”, già avviato con la crisi e proseguito con maggior controllo dei costi, e un “upgrading strategico”, ovvero maggiore “sofisticazione del business e un approccio più elaborato ai mercati secondo strategie di marketing-mix”. Ogni singola impresa punta ad ottenere un vantaggio competitivo legandosi al territorio, inteso come patrimonio conoscitivo, produttivo (soprattutto nel settore della manifattura di qualità) e naturale (soprattutto per quanto riguarda il settore agro-alimentare e quello del turismo).

L’indagine conferma poi come i vincoli di natura dimensionale comportino alcune criticità: la “polarizzazione su un numero limitato di mercati di sbocco”e “l’individuazione di controparti commerciali”. Quest’ultima è spesso frutto di iniziative autonome (passaparola tra imprese, ricerca diretta su internet, la partecipazione a fiere di settore…), non del ricorso a soggetti esterni, forse a causa dell’innata tendenza a “fare da sé; importante, allora, è stato e sarà il contributo dell’attività informativa e di consulenza svolta da soggetti specializzati, banche in primis, per accompagnare le imprese nei loro primi passi verso i mercati esteri.

In un Paese in cui l’incontro con gli investitori istituzionali è ancora difficile e a fronte del profondo mutamento nello scenario globale, appare sempre più fondamentale la concertazione tra attori del territorio. Andrebbero incentivati i meccanismi di imitazione tra imprese di diverse dimensioni in modo che “le più grandi siano spinte a valorizzare al meglio le competenze distintive delle più piccole, e le più piccole riescano a sfruttare maggiormente i propri vantaggi competitivi”. Importante è, inoltre, la creazione di reti di imprese, necessaria “a far massa critica e consolidare il posizionamento competitivo sui mercati internazionali”: attualmente esse non appaiono particolarmente sviluppate, prevalendo, da un lato, dei rapporti a carattere locale e perdendosi, dall’altro, i legami storici.

Al mondo delle imprese, duramente colpito dalla crisi finanziaria, l’indagine di UniCredit ha inteso offrire degli elementi di valutazione in merito ai vincoli e alle opportunità proprie di questo momento di transizione. Il Rapporto rappresenta, allora, un “importante momento di riflessione di UniCredit su come gli attori del territorio – in particolare le imprese, le banche e i mediatori sociali, quali Associazioni di categoria e Confidi – possano affrontare e superare in modo cooperativo l’attuale fase, densa di incognite e difficoltà”; esso, inoltre, sembra offrire un fondamentale contributo “all’individuazione delle strategie territoriali volte a promuovere una crescita sostenibile nel lungo periodo per le piccole imprese, che tengano conto dei punti di forza delle economie locali in un’ottica di competizione globale”.

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