Notizie online: da consumarsi preferibilmente entro il…

Una recente sentenza del Tribunale di Ortona condanna la testata online PrimaDaNoi.it al pagamento di 17mila euro quale risarcimento per aver conservato, nel proprio archivio elettronico, una notizia del 2008 ritenuta lesiva dell’altrui privacy. Ecco la declinazione online del diritto all’oblio

La questione centrale è un conflitto tra diritti ugualmente – almeno in termini astratti – meritevoli di tutela normativa e sociale. Alla base vi è un vuoto legislativo colmabile solo in parte dalla giurisprudenza in materia, costretta a scendere a patti con l’interpretazione e la contestualizzazione. In gioco vi è la libertà di informazione, uno dei capisaldi dell’edificio comunitario, una delle conquiste progressive più bramate dall’opinione pubblica, una delle risorse più tenacemente custodite dalla collettività digitale.
LE SENTENZE
L’ultimo capitolo scritto nella storia dell’informazione made in Italy sembra far emergere ancora una volta l’estrema difficoltà che il legislatore italiano ha nel partorire una stabile regolamentazione della rete e pare aver scosso non poco gli animi di quanti continuamente si battono per offrire ai cittadini la solida garanzia di essere informati, in modo limpido e puntuale, circa fatti e misfatti ritenuti socialmente rilevanti. Protagonista della vicenda è il piccolo ma prestigioso quotidiano abruzzese online PrimaDaNoi.it, condannato dal giudice unico del Tribunale di Ortona, Rita Di Donato, al pagamento di un multa di oltre 17mila euro (tra risarcimento danni e spese legali), per aver conservato, nel proprio archivio elettronico, la notizia relativa a un fatto di cronaca, avvenuto nel 2008, all’interno di un ristorante pescarese, che coinvolse i titolari del locale in una vicenda giudiziaria di natura penale, non ancora conclusa.
Il giudice ha accolto, in sostanza, la domanda dei ricorrenti (i titolari), che chiedevano la rimozione della pagina contenente la notizia, preoccupati per il pregiudizio che la stessa avrebbe potuto recare alla loro reputazione personale e professionale e all’immagine del proprio locale. Sottolinea, infatti, il giudice come “la facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico [pubblicato il 29 marzo 2008], molto più dei quotidiani cartacei tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online, consente di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale [il 6 settembre 2010] sia trascorso sufficiente tempo perché le notizie divulgate con lo stesso potessero soddisfare gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica, e che quindi, almeno dalla data di ricezione della diffida, il trattamento di quei dati [relativi ai titolari del ristorante e al nome dell’esercizio] non poteva più avvenire”. Il persistere del trattamento dei dati personali – prosegue il giudice – “ha determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione, e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati (consultabili semplicemente digitando il nominativo del ricorrente e la denominazione del ristorante sul motore di ricerca Google) e alla natura degli stessi dati trattati, particolarmente sensibili attenendo a vicenda penale”. L’articolo era stato già rimosso – è bene precisarlo – dai motori di ricerca, nel 2011, ma non anche dall’archivio del giornale online.
Accolta pure la richiesta di ottenere un risarcimento danni poiché – si legge nella sentenza – il trattamento dei dati personali si è protratto per un periodo di tempo superiore a quello necessario agli scopi – esercizio del diritto di cronaca giornalistica – per i quali i dati sono stati raccolti e trattati”.
Invocando il cosiddetto “diritto all’oblio”, il giudice sembra, dunque, far prevalere la tutela della privacy sul diritto di cronaca, nonostante la notizia diffusa fosse – lo stesso provvedimento lo evidenzia – vera, corretta nella forma e non diffamatoria e nonostante in Italia non esista alcuna legge che formalizzi le condizioni di applicabilità di tale diritto all’oblio. Egli ha imposto, in sostanza, una scadenza alla notizia (pari a due anni e mezzo, nella fattispecie).
La sentenza, datata 16 gennaio 2013, ricalca in realtà una precedente pronuncia da parte del giudice Rita Carosella, dello stesso Tribunale, datata 20 gennaio 2011. In quell’occasione, a suscitare la reazione dei due coniugi ricorrenti era stata la notizia, riportata dal giornale abruzzese, relativa al loro arresto per tentata estorsione continuata in concorso. La posizione dei due era stata poi archiviata e l’articolo, datato originariamente 23 marzo 2006, era stato più volte aggiornato nel corso degli anni, per dare conto dell’intero iter giudiziario, dunque anche dell’archiviazione della vicenda. Per far valere il diritto alla tutela della propria riservatezza, i coniugi avevano scelto in primis di rivolgersi al Garante della Privacy, il quale, tuttavia, si era espresso a favore della permanenza online dell’articolo, considerando che il trattamento dei dati personali era stato effettuato “nel rispetto della disciplina di settore per finalità giornalistiche”. Diversa invece era stata la pronuncia del Tribunale, che impose al giornale di cancellare la notizia e di sborsare 5 mila euro (più le spese legali) ai coniugi per i danni subiti, vista la “durata, gravità e modalità dell’illecito”.
Il giudice Carosella aveva allora sottolineato come, alla data della richiesta di cancellazione da parte dei ricorrenti (circa quattro mesi dopo l’ultima modifica dell’articolo), fosse trascorso tempo sufficienteperché le notizie potessero soddisfare gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica, informare la collettività, creare opinioni, stimolare dibattiti, suggerire rimedi” e come, di conseguenza, il trattamento dei dati non potesse avvenire, se non con “lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza e alla reputazione, stante la peculiarità dell’operazione di trattamento, sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati, e stante la natura degli stessi dati trattati, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale”. Anche in questo caso la sentenza sembra voler offrire una durata temporale – basata su soggettive valutazioni – e una relativa scadenza all’esercizio del diritto di cronaca. Essa consentiva, inoltre, “a costituire memoria storica della collettività”, la conservazione di “una copia cartacea dell’articolo nell’archivio della testata, archivio che tuttavia – come sottolinea PrimaDaNoi.it e come era facile immaginare in tempi di villaggio globale e informazione 2.0 – non esiste.
COME NASCE UNA NOTIZIA
Le soluzioni individuate nascondono non poche ambiguità e fanno emergere perplessità e dubbi interpretativi. Per comprendere meglio la questione, facciamo, allora, per un attimo, un passo indietro e cerchiamo di capire come nasce una notizia. La giurisprudenza ha, nel corso degli anni, elaborato tre requisiti al cui rispetto dev’essere subordinato il legittimo esercizio del diritto di cronaca da parte dei giornalisti: dev’esservi innanzitutto un interesse pubblico e attuale alla conoscenza del fatto oggetto di notizia; la verità di questo stesso fatto deve, inoltre, essere oggettiva, o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca (da qui la necessità di verificare accuratamente le fonti e al contempo la rilevanza assunta dalla buona fede del giornalista, il quale, pubblicando notizie che egli crede vere dopo le relative verifiche, mantiene la propria condotta nei limiti del diritto di cronaca); infine la notizia deve rispettare la cosiddetta “continenza espositiva”, la correttezza cioè formale nell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo, improntata a un ideale di obiettività, priva di un preconcetto intento denigratorio e comunque rispettosa della dignità altrui.
Il diritto di cronaca è, come quello di critica e di satira, un diritto di rilevanza costituzionale, protetto da quell’ampio cappello che è l’articolo 21 delle nostra Costituzione (che prevede, in poche parole, la libertà di manifestazione del pensiero). I tre requisiti elaborati sono il frutto della volontà di bilanciare tale garanzia costituzionale con il diritto alla tutela della propria persona, della propria reputazione e della propria riservatezza, anch’essi costituzionalmente previsti.
L’utilità e il rilievo sociale dell’informazione (in sostanza il primo dei requisiti cui prima si faceva riferimento) è, allora, fondamentale affinché questo conflitto tra diritti di pari dignità possa essere in qualche modo superato. Per valutare l’interesse pubblico alla diffusione della notizia non si può ovviamente prescindere dal contesto: esso dipende dal pubblico cui ci si rivolge, dal giornale e dalla pagina in cui si scrive, dal momento storico in cui ci si trova. L’interesse pubblico deve sussistere nel preciso momento in cui si scrive. Esso è il presupposto che impone ad un fatto privato (dunque tutelato dalla privacy) di diventare oggetto legittimo di cronaca, tuttavia una volta che la comunità ne sia stata informata con correttezza, esso ha esaurito la sua funzione e torna alla sua originaria dimensione di fatto privato. Riproporlo sulla ribalta mediatica sarebbe non solo inutile per la collettività, ma addirittura dannoso per i protagonisti in negativo del fatto. In questo meccanismo rientra il “diritto all’oblio”: si tratta di un diritto creato dalla giurisprudenza della Cassazione, tipicamente collocato tra i diritti inviolabili citati da quella norma dinamica che è l’art. 2 della Costituzione. È in sostanza il diritto, che ognuno di noi ha, a non essere più ricordato dalla stampa e dagli altri canali di divulgazione per fatti che in passato sono stati oggetto di cronaca. Un ulteriore fondamento legislativo di tale diritto è stato rinvenuto nell’art. 27, comma 3, della Costituzione, che prevede la funzione rieducativa della pena, la necessità cioè di favorire il reinserimento sociale del condannato.
Vi sono, tuttavia, alcuni fatti ritenuti particolarmente gravi, per i quali l’interesse pubblico alla loro pubblicazione non viene mai meno (si pensi, ad esempio, a fatti che hanno inciso sul corso della storia, come Tangentopoli o l’attentato al Papa).
Parallelamente può succedere che, a distanza di anni, sorga nuovamente un interesse pubblico alla riproposizione della notizia: ciò avviene, in particolare, quando si crea un certo nesso, un collegamento, tra un fatto di cronaca attuale e uno passato sul quale si era in già posato il diritto all’oblio. È il caso del condannato di stupro che, uscito di galera e, dunque, scontata la pena, commette una nuova violenza sessuale, legittimando il giornalista a far riferimento alla precedente condanna nel resoconto dell’evento.
A far scattare il diritto all’oblio non è, allora, il trascorrere di un determinato numero di anni dal verificarsi del fatto (come le sentenze sopra descritte potrebbero lasciare intendere): esso può essere fatto valere nel momento in cui tale fatto passato esaurisce la propria valenza pubblica e non possiede alcun rapporto diretto con la notizia all’ordine del giorno. Se scrivo di una donna dedita alla prostituzione in casa propria, non potrò, ad esempio, ricordare che la precedente proprietaria dell’immobile esercitava, magari vent’anni prima, la stessa professione: se quest’ultima avesse, nel frattempo, cambiato completamente vita e si sentisse turbata dal vedere il proprio nome accostato ad un nuovo fatto di cronaca in cui non c’entra nulla, potrebbe a ragione fare causa al giornalista poco saggio.
… E PER IL WEB?
Il Web sconvolge ovviamente l’intera logica appena descritta, dovendo fare i conti con un’infrastruttura digitale che, per natura, tende a mantenere traccia di ogni singola manifestazione. Nel Web l’informazione può essere decontestualizzata, frammentata, copiata e incollata.
Il fatto di dare una scadenza temporale alla notizia, giustificando la cosa proprio con le peculiarità del mezzo informatico, sembra essere una soluzione non molto illuminata e ben si presta a diventare terreno fertile per le critiche di quanti si battono per la libertà d’informazione. Quanti anni o mesi dovrebbero poi trascorrere prima che si realizzi tale scadenza?
Oggi siamo stati condannati [… ] per aver scritto notizie vere e senza errori. Siamo stati condannati perché ci hanno detto che quello che scriviamo ha una data di scadenza ma nessuno sa dirci qual è questa data”, lamenta la redazione di PrimaDaNoi.it.
In un sistema legislativo che cerca esasperatamente di codificare il comportamento umano in ogni situazione, restringendo quanto più possibile la funzione interpretativa e applicativa della norma (diversamente da quanto avviene nei sistemi “common law”), si determina la strana condizione in cui l’attenzione, in fase di pronuncia, cade più sul cavillo da aggirare che non sul principio da rispettare.
I giudici delle sentenze analizzate dimostrano scarsa sensibilità e padronanza verso il mondo dell’informazione ai tempi del Web. Declinare il diritto all’oblio a simili fattispecie online risulta una forzatura, una storpiatura: stando ai principi enunciati dal Tribunale abruzzese, tutti gli archivi storici delle principali testate italiane e internazionali dovrebbero essere rimossi, poiché inevitabilmente essi conterranno notizie sgradite a qualcuno.
Certo il Web non può essere – d’altro canto – una giustificazione a fare del cattivo giornalismo, eludendo il rispetto delle fondamentali norme deontologiche che regolano la professione. Nei processi comunicativi sottesi alla notizia, i meccanismi temporali hanno un’importanza fondamentale: la notizia diffusa per prima rimarrà sempre quella considerata “vera”, le notizie che seguiranno verranno inevitabilmente percepite dal pubblico come semplici giustificazioni. La notizia di una sentenza di assoluzione a termine di un processo show, rimbalzato da una ribalta televisiva all’altra, non cesserà di mantenere vivi i sospetti sui protagonisti in negativo della vicenda. Proprio per questo il giornalista ha una forte responsabilità, nel valutare l’opportunità o meno di pubblicare nomi, dettagli e retroscena e il modo in cui pubblicarli. I toni sensazionalistici e lo scoop a orologeria non si addicono all’ideale di giornalismo come strumento di informazione e di garanzia per l’opinione pubblica. E tuttavia queste sono questioni più ampie, che coinvolgono l’etica professionale, non riguardano solo la Rete. Solo partendo dai precetti deontologici si potranno risolvere le difficile controversie dell’informazione online, tenute presenti le specificità del mezzo e l’equo bilanciamento tra diritti.
Questa sentenza ci condanna per aver voluto difendere il diritto di ogni cittadino di conoscere e di sapere […]. Ci spiace per i giudici , ma la storia, i fatti, la memoria non si cancellano a colpi di sentenze”.
Pubblicato su: PMI-dome

Ricette italiane alla crisi della pellicola

“Settimana del cinema” con biglietto a 3 euro, sconti del 40% per gli studenti e un negozio online per la vendita e il noleggio di film: sono queste le soluzioni offerte dalle associazioni del settore cinematografico, per combattere i cali del 2012 nelle presenze in sala e negli incassi

Dopo i continui rinvii, sembra essere ora fissata a febbraio la data d’avvio dell’innovativa piattaforma online per la vendita e il noleggio di film, promossa e gestita dall’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali). Una sorta di negozio online del cinema, che intende offrire una via legale alla condivisione illecita di pellicole coperte da diritti morali e patrimoniali, operata dai “pirati” digitali.
Una nuova potenziale fonte di profitto per l’industria cinematografica, dunque, che – a ben vedere – sembra essere sempre più necessaria, dopo un 2012 chiusosi con segno negativo. Rispetto al 2011, si riducono di 9,9 punti percentuali le presenze in sala (da 101,3 milioni a 91,3 milioni di spettatori) e di 7,97 punti gli incassi (da 661,7 a 608,9 milioni di incassi): lo scarto tra presenze e incassi è dovuto principalmente al maggior numero di film visti in 3D, per i quali si è costretti a pagare un prezzo maggiore.
Resta sostanzialmente invariato il numero di film distribuiti, stimati in 363 nel 2012 (dei quali 127 sono produzioni o coproduzioni italiane e 36 sono film in 3D), contro i 360 del 2011 (125 produzioni o coproduzioni italiane e 36 film 3D).
I dati riportati, relativi al 2012, sono quelli rilevati da CINETEL e presentati lo scorso 15 gennaio a Roma dalle associazioni degli esercenti ANEC (Associazione Nazionale Esercenti Cinema) e ANEM (Associazione Nazionale Esercenti Multiplex) e dai distributori e produttori dell’ANICA.
La tendenza al ribasso è, in fondo, in linea con quella evidenziata anche lo scorso anno da CINETEL (-10,03% sugli incassi e -7,92% sulle presenze rispetto al 2010); manca, tuttavia, nelle stime più recenti, la consolazione che, nel 2011, derivava dal raggiungimento, per il cinema italiano, di una quota di mercato piuttosto ampia e crescente, capace di posizionare i film del Belpaese su livelli di performance impensabili fino a poco tempo prima (38 dei poco più di cento milioni di biglietti venduti nel 2011 erano sono stati staccati per film italiani), parallelamente ad una flessione del cinema americano.
Più in particolare, diminuisce nel 2012 la quota di mercato occupata dai film italiani, con una percentuale di presenze che passa dal 35,5% del 2011 al 25,3% del 2012 e con incassi che si inclinano dal 33,81% del 2011 al 24,02% del 2012. Considerando anche le coproduzioni, i film italiani raggiungono una quota di mercato pari al 26,54% con riferimento alle presenze e al 25,2% per quanto riguarda gli incassi; si tratta tuttavia di numeri in calo sull’anno precedente, quando si stimavano rispettivamente un 37,57% e un 35,64%.
Parallelamente si riducono anche gli spettatori di film americani, che passano dai 47,4 milioni del 2011 ai 46,7 del 2012. Ciononostante aumenta la quota di mercato occupata dai film USA, sia a livello di presenze (si arriva al 51,18% nel 2012, contro il 46,81% del 2011) sia d’incassi (48,58% nel 2011 e 53,21% nel 2012), decretandone la supremazia su tutte le altre produzioni territoriali.
Aumentano comunque gli spettatori di film europei, che passano da una quota di mercato pari al 13,84% nel 2011 a una del 18,34% nel 2012 e crescono allo stesso modo gli incassi del cinema europeo, che arrivano ad occupare il 17,4% del settore (contro il 13,84% dell’anno precedente).
Se si analizzano assieme le produzioni italiane (comprese le coproduzioni) e quelle europee, si nota una riduzione percentuale in termini sia di presenze (dal 51,34% del 2011 al 44,89% del 2012) sia di incassi (dal 49,47% al 42,6%).
Nell’anno appena trascorso, la crisi non sembra, insomma, aver risparmiato nemmeno un settore come quello cinematografico, che – dalla tradizione neorealista, dalla sperimentazione autoriale, fino alla commedia all’italiana e agli spaghetti western – ha saputo, nei suoi tempi d’oro, regalare non poche soddisfazioni allo spirito tricolore e ha contribuito a diffondere un ideale di italianità quale sinonimo di vivacità culturale ed espressiva e di particolare e finissimo gusto estetico. Soffre oggi il cinema italiano, non potendo fare affidamento nemmeno sull’autorità universalmente riconosciuta dei grandi nomi ancora attivi: in base alle ultime stime dell’8 gennaio scorso, “Bella addormentata” di Marco Bellocchio si è fermato a 1 milione e 244 mila euro di incassi, “Reality” di Matteo Garrone a 2 milioni e 76 mila, “Io e te” di Bernardo Bertolucci a 1 milione e 690 mila, infine “È stato il figlio” di Daniele Ciprì a soli 876 mila euro. Nella classifica dei 150 film più visti del 2012, al primo posto, con 4 milioni e 288 mila spettatori, troviamo “Benvenuti al nord”, all’ultimo il lungometraggio d’animazione “Il castello nel cielo” ad opera del visionario Hayao Miyazaki, l’ultimo italiano è “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, Orso d’oro al Festival di Berlino. Non va dimenticato, poi, il fatto che quel riavvicinamento alle opere italiane, evidenziato con particolare enfasi e ottimismo nel 2011, riguardava quasi esclusivamente le commedie (tra i primi 15 film italiani in classifica, solo due erano film d’autore: “This Must Be the Place” di Sorrentino e “Habemus Papam” di Moretti), confinando il cinema tricolore a un genere che, pur essendogli proprio, rischia di vanificare gli sforzi creativi di alcuni talenti emergenti e di compromettere lo stato di buona salute dell’arte cinematografica italiana.
Il divario tra film popolari e film d’autore sembra, allora, allargarsi sempre più e, secondo alcuni, tale tendenza deriverebbe da uno spostamento verso i complessi multisala, capaci di attirare un pubblico poco sensibile al filone autoriale. “Stiamo aprendo un’indagine qualitativa, abbiamo fatto film d’autore troppo complessi e commedie troppo facili”, ha sottolineato, nel corso della conferenza di presentazione, Riccardo Tozzi, presidente ANICA. In questo – ha proseguito – “il cinema francese ci dà un esempio di prodotto popolare realizzato con intelligenza e qualità”.
Non è certo corretto decontestualizzare le stime in negativo del mercato del cinema in Italia e non considerare come alla base vi sia la difficile congiuntura economica generale che ha imposto agli italiani di ridurre la propria propensione alla spesa. Tuttavia il prezzo medio del biglietto sembra essere aumentato, nel 2012, solo dello 0,7% rispetto al 2011 e, più in generale, gli aumenti negli ultimi dieci anni sono stati nettamente inferiori al tasso di inflazione. Questo potrebbe forse significare che, al di là della polemica sul costo del biglietto, sono molte e differenti le problematiche che attraversano il settore, nel nostro contesto nazionale.
Le sfide poste dall’innovazione tecnologica sembrano essere state sottovalutate e trattate secondo canoni anacronistici e inadatti, che non contribuiscono all’arricchimento dell’offerta e alla sperimentazione, ma, al contrario, obbligano a sottomettersi alla logica del già visto e del consenso facile e maintream. Si crea così un circolo vizioso, che, invece di educare il grande pubblico alla complessità di registri e alla qualità espressiva, finisce per relegare la cultura cinematografica di spessore a esclusivo appannaggio della ristretta cerchia di sedicenti intenditori. Ben venga la commedia, anche come cavallo di battaglia del Belpaese, ma non è sicuramente auspicabile che una forma artistica – e in particolare il cinema – si limiti a essere cassa di risonanza di un’unica voce.
Le dita degli addetti ai lavori sono ovviamente tutte puntate, oltre che sulla politica – immobile e incapace di offrire un reale sostegno al settore – sulla pirateria: “Sono a favore dell’innovazione tecnologica solo se porta valore aggiunto non se va a levare all’esistente” tuona Lionello Cerri, presidente ANEC, nel corso della conferenza. Nel suo ragionamento, egli dimentica, tuttavia, di considerare come il fenomeno della fruizione “illegale” online sia ormai talmente diffuso da non poter pretendere che la via per la sua legittimazione possa avvenire in punta di piedi, nel rispetto delle gerarchie distributive formalizzate dal vecchio sistema (il sistema delle cosiddette “finestre”, che impone di lasciar trascorrere un certo lasso di tempo tra l’uscita di un film al cinema e il suo sfruttamento in dvd o in tv). Al contrario, tale fenomeno potrebbe rappresentare una sorta di modello da cui mutuare forme legali di distribuzione, capaci di cogliere la reale natura del mezzo internet e le mutate esigenze degli spettatori.
Nello scaricare e vedere sullo schermo del PC un film ancora presente nelle sale, l’utente non ha oggi nemmeno la percezione di compiere un illecito e questo non per disinteresse, non perché la crisi dell’industria cinematografico non lo coinvolga, ma perché per lui l’esperienza percettiva sperimentata nell’online non preclude in alcun modo quella sperimentata nelle sale del cinema. Può sembrare paradossale, ma in alcuni casi la prima arriva addirittura incentivare la seconda. Ragionare in termini monolitici sulla questione impedisce di trovare delle soluzioni realmente efficaci.
Poniamo il caso, ad esempio, di un giovane abituato a mettersi in fila, paziente, alla cassa di un multisala, per godersi, armato di popcorn e voglia di effetti speciali, l’ultima pellicola sensazionalistica e ben reclamizzata della major di produzione cinematografica statunitense di turno. Il ragazzo, tra un fumetto della Marvel e una Coca Cola in lattina, sente parlare di Bernardo Bertolucci. Non lo conosce, eppure quel nome evoca in lui qualcosa, lo incuriosisce. Compone il nome sulla tastiera e grazie ad una preparatissima Wikipedia scopre che questi è un regista. Mette in download quel famoso “Ultimo tango a Parigi”, guarda interamente la sequenza di fotogrammi e suoni e scopre pure che gli piace. Due settimane dopo, al cinema danno “Io e te” del medesimo regista. Le probabilità che egli scelga di andare a vedere quel film sono ora certamente maggiori rispetto a due settimane fa.
L’esempio è volutamente paradossale, ma intende di cogliere il fulcro dell’intera questione e cioè l’errore che spesso si compie nel valutare il fenomeno della pirateria online. Equiparare il file sharing al furto in negozio pare una congettura eccessivamente semplicistica e del tutto fuorviante. Basti pensare che un furto costituisce, in definitiva, una vendita persa, mentre il materiale scaricato rappresenta un nuovo esemplare generato, che non priva il proprietario originale del materiale stesso. Esistono poi diverse forme nella condivisione in rete, essa non sostituisce semplicemente l’acquisto reale del biglietto, ma può, come nell’esempio riportato, essere funzionale allo stesso o avere un impatto positivo a livello sociale, pur senza danneggiare gli attori coinvolti (è il caso dell’accesso a materiali tutelati dal copyright ma fuori dal mercato) o, ancora, fungere da mezzo pubblicitario per registi e attori emergenti che scelgono di diffondere gratuitamente sulla rete i propri sforzi ideativi, al puro scopo di farsi conoscere. Il rischio è che, sforzandosi di risolvere i problemi creati dal file sharing illegale fine a se stesso, si finisca per distruggere le positive opportunità create dalle altre forme di condivisione.
Con un ragionamento piuttosto grossolano – e forse, lo ammetto, un tantino azzardato – possiamo provare ad immaginare lo status dell’utente tipo, in grado di scaricare e condividere via web le più o meno pregiate fatiche dell’industria cinematografica. Scommetto che nessuno sta pensando ad una madre di famiglia che fatica ad arrivare alla fine del mese e che ripone, dunque, nello scambio illegale di materiale, le proprie speranze per potersi finalmente concedere – e per permettere alla propria famiglia – due orette di svago, in barba ai piangenti bilanci mensili e alle severe regole del mercato. Alla base della condivisione online vi sono per lo più persone di elevata cultura digitale e a spingere verso la fruizione vi è certamente un forte interesse verso l’arte cinematografica. Si tratta, dunque, di persone che possiedono tipicamente i mezzi (culturali ed economici) per mantenere viva l’industria cinematografica e che non hanno alcun interesse a farne decadere il nucleo centrale, che sono – è bene ogni tanto ricordarlo – la qualità espressiva, l’illusione, la comunicazione, la sensazione, l’emozione. Personalmente non conosco nessuno che, dopo aver scoperto il file sharing, abbia smesso di andare al cinema o abbia iniziato ad andarvi con minore frequenza (crisi generale permettendo).
Nell’eterna lotta contro la rete del free, da parte di coloro che detengono i diritti di sfruttamento economico, in gioco sembrano esservi i soli interessi di pochi che sperano di inserirsi a gamba tesa in un sistema che si dimostrano del tutto incapaci di comprendere e sul quale essi pretendono di imporre le proprie chiuse e obsolete convinzioni. Questo non significa che la pirateria debba essere accettata così com’è, la rete non deve diventare il regno del caos, libero da regole e da una equa distribuzione di diritti e doveri. Significa semplicemente sfumare i confini della questione, smetterla di operare una contrapposizione acritica e cercare un sano equilibrio tra i diversi interessi coinvolti.
I segnali positivi comunque ci sono, fa sapere CINETEL. Superato, nel periodo estivo, un calo delle presenze pari al 33%, nella seconda parte dell’anno appena trascorso (dal primo agosto a fine dicembre), la situazione sembra decisamente migliorata, con un incremento del 3,21% nel numero di biglietti staccati e del 5,51% negli incassi (rispetto allo stesso periodo del 2011).
Plausi anche per la scelta, presa dall’industria cinematografica, di anticipare l’uscita dei film dal venerdì al giovedì, in modo da rendere commercialmente valido anche un giorno tradizionalmente considerato infruttuoso in tal senso: nei primi mesi di entrata in vigore di tale prassi (da ottobre a dicembre), le presenze nella nuova giornata di esordio sono aumentate del 15,86% e gli incassi del 23,36%.
Le associazioni – dal canto loro – intravedono lo spazio per incrementare il loro spirito di collaborazione e avviare “iniziative comuni che possano apportare cambiamenti significativi e strutturali al mercato”. Tra gli obiettivi vi è la necessità di incentivare e stabilizzare il consumo di cinema nei mesi estivi, incrementando l’offerta di film nel periodo (impedendo, dunque, che le pellicole finiscano per “cannibalizzarsi” l’un l’altra con uscite troppo ravvicinate) e proponendo particolari eventi di sensibilizzazione e promozione, come la “Festa del Cinema”, una settimana, cioè, a metà maggio, durante la quale il biglietto costerà solo 3 euro.
Un’ulteriore risposta delle associazioni alla crisi è l’adesione alla Carta dello Studente “Io Studio”, promossa dal MiUR, che offre la possibilità a circa 2,5 milioni di studenti delle scuole superiori di avere uno sconto del 40% sul prezzo del biglietto dei cinema nei primi tre giorni della settimana.
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Beverage nel Belpaese: per la crescita, puntare sulla salute

Il piacere della tavola si sposa sempre più con l’attenzione degli italiani al proprio benessere fisico e alla sostenibilità delle proprie scelte di consumo, delineando nuove direttive per l’innovazione nel mercato delle bevande

Attenzione alla salute: sembra essere questo l’imperativo per quanti operano nel settore del Beverage destinato al largo consumo. Le stime più recenti confermano, infatti, l’attenzione posta sui benefici della tavola da un consumatore sempre più consapevole, nonostante le tasche meno gonfie di un tempo.
Da qui l’invito lanciato da SymphonyIRI Group (che si occupa di fornire soluzioni innovative e servizi a supporto della crescita e del profitto delle aziende del largo consumo) e rivolto alle imprese operanti nel settore, affinché si orientino verso la realizzazione e distribuzione di prodotti ancor più funzionali e salutistici. A conclusione di un’analisi relativa al mercato delle bevande a base di frutta, il gruppo ha sottolineato come vi sia un’attenzione particolare da parte degli utenti al proprio benessere psicofisico e alla sostenibilità delle proprie scelte fruitive, in un ideale di salute pubblica che sembra fortificare – almeno nelle intenzioni – la ricerca di un’elevata qualità di vita.
Questo si traduce anche nelle possibili soluzioni di packaging, con un successo di pubblico sempre maggiore per quegli imballaggi capaci di ridurre gli sprechi e, una volta esaurita la loro sostanza, di facilitare il loro recupero e smaltimento. Lo stile di vita sempre più frenetico impone lo sviluppo di unità di vendita sempre più piccole (confezioni monodose e monoporzione per evitare che si creino avanzi), capaci di privilegiare funzionalità, praticità, facilità di apertura-chiusura, di trasporto e di conservazione. Il consumatore appare sempre più attratto dalle versioni meno caloriche, tuttavia non dimentica di considerare il giusto rapporto qualità-prezzo. Per raggiungere questo nuovo consumatore, soddisfare le sue reali esigenze – e sostenere, dunque, le vendite – le parole chiave per gli operatori dovranno essere “innovazione” e “differenziazione”, il che significa segmentare il mercato e offrire prodotti nuovi, specificatamente pensati per ciascun segmento.
Le abitudini alimentari degli italiani sembrano essere mutate negli ultimi anni: intervistata di recente in merito, la quasi totalità (90%) della community di trnd Italia (società di marketing partecipativo, specializzata nelle strategie di passaparola), composta da oltre 78.000 persone, ha dichiarato di essere attenta a un’alimentazione sana e corretta. Nel carrello della spesa si trovano sempre più frutta, verdura e cibi biologici. Aumentano le conoscenze in ambito nutrizionale: l’85% degli intervistati ha dichiarato di essere ferrato nella materia e quasi l’80% di tenere alla linea e di essere molto interessato al tema “diete”. Il 45% del campione sembra consumare alimenti con poche calorie o comunque a basso contenuto di colesterolo, il 24% mangia esclusivamente cibi senza additivi e il 10% preferisce il cibo biologico. La metà degli italiani (48%) mangia frutta tutti i giorni e il 41% la consuma comunque spesso. Per il 40% la verdura compare quotidianamente nel proprio piatto. Per contro la metà del campione è solita mangiare al fast-food e usufruire di un servizio take-away almeno una volta al mese. Il caffè – bene o male che faccia, su questo gli esperti sembrano ancora divisi – rimane un piacere irrinunciabile. Il 76% degli italiani beve, inoltre, succhi di frutta per assumere più vitamine.
Vediamo ora nel dettaglio le stime sul mercato delle bevande analcoliche GDO, emerse dalla recente indagine di SymphonyIRI Group. Nell’anno terminante a novembre 2012, il trend appare abbastanza positivo a livello di vendite, sia a valore (+0,4%) sia a volume (+0,6%). Si tratta di un settore fortemente stagionale e dipendente dalle condizioni climatiche (l’estate incentiva la voglia di bevande dissetanti): i risultati complessivamente positivi sono frutto anche del caldo anomalo registrato nei mesi di giugno, luglio e agosto 2012, quando gli andamenti crescenti sono arrivati a toccare picchi del +7%, +8%, colmando le contrazioni degli altri mesi.
A crescere a livello di volume è soprattutto la vendita di acqua minerale (+1,9%), ma tengono anche gli energy drinks (+0,7%). Stabile anche il giro d’affari per le categorie che hanno aumentato maggiormente i prezzi (Isotoniche, Tea e Gassate). Per contro risultano negativi gli andamenti per le bevande a base di frutta, sulle quali SymphonyIRI Group concentra in particolare la propria lente d’analisi.
Nel 2012 sono stati venduti oltre 516 milioni di litri di bevande a base di frutta, con una flessione del -4,3% rispetto al 2011; il giro d’affari complessivo è stato di 688 milioni di euro, pari ad una riduzione del -2,6% sull’anno precedente. Oltre a riflettere gli effetti della lamentata crisi economica, la stagnazione in valore sembra essere il risultato di un’attività promozionale davvero intensa: quasi il 45% delle vendite in volume di succhi di frutta negli ipermercati e supermercati viene fatta in promozione.
Le quote maggiori di mercato sono ottenute, più in dettaglio, dai succhi di frutta tradizionali (UHT, ad alta conservazione), che valgono circa 456 milioni di litri (-3,5% rispetto al 2011), per un fatturato che si aggira intorno ai 606 milioni di euro (-1,3%). Peggiori le performance relative alle bibite alla frutta – che nel 2012 hanno venduto 49 milioni di litri (-9,3%) per un giro d’affari di 46 milioni di euro (-7%) – e soprattutto ai succhi di frutta freschi, che subiscono una flessione del -14,4% nei volumi venduti (pari a 11 milioni di litri) e del -16,4% nel giro d’affari (pari a circa 3 milioni di euro).
A trascinare la contrazione è il segmento degli smoothies freschi (si tratta di frullati molto cremosi), che aveva conosciuto un momento di grande successo nei primi due anni dal suo lancio in Italia nel 2008 e che ora quasi dimezza il proprio giro d’affari (-48,3%) e il proprio volume di vendita (-48%), portandosi rispettivamente a poco più di 8 milioni di euro e a poco più di 1 milione di litri venduti: la perdita di appeal presso il consumatore può essere dovuta al prezzo medio solitamente elevato. Resistono di più gli smoothies UHT, probabilmente grazie alla loro funzionalità (non hanno bisogno di essere refrigerati): rappresentano l’unico segmento delle bevande a base di frutta con un andamento moderatamente positivo a volume (+1,2%), nonostante il calo nel giro d’affari (-6,6%).
Con riferimento ai canali di distribuzione del solo comparto succhi di frutta UHT, scopriamo che ben il 65% delle vendite in volume si concentra nei supermercati (-2,4% sul 2011), il 18% negli ipermercati (-4,4%) e il restante 17% nelle piccole superfici a libero servizio (-7%).
Per quanto riguarda il packaging usato per i succhi di frutta, emerge come sia il brik 200 ml il formato più venduto: esso raccoglie un terzo (il 33,2%) del giro d’affari del segmento e il 28,7% del volume di vendite. Si rafforzano il brik da 1 litro (+2,6% nelle vendite in valore) e il brik da 1,5 litri (+8,7% nelle vendite in valore e +3,4% nelle vendite in volume). Leggera sofferenza per il confezionamento in plastica, sia da 1 litro (-3,3% a valore e -4,3% a volume), che da 750 ml (-2,7% a valore e -4,1% a volume). Pur continuando a rappresentare il 9,7% del volume di vendita del segmento, il brik da 2 litri prosegue la propria parabola discendente (-7,5% a valore e -10,9% a volume). Il favore di pubblico, in questo mercato, per il brik cartonato (che può essere recuperato e riciclato), risponde probabilmente proprio a quel desiderio di sostenibilità cui si faceva in precedenza riferimento.
Sempre riguardo al solo segmento dei succhi di frutta, ci si accorge di come siano i gusti polposi e tradizionali (pera, pesca, albicocca, mela) ad occupare la quota maggiore di mercato – sia in termini di volume (41,9%) sia in termini di valore venduto (43,3%) – non di molto superiore comunque alla quota occupata dai gusti non polposi (41,6% a volume e 39% a valore); questi ultimi registrano inoltre performance leggermente migliori rispetto ai gusti polposi (-3,1% a volume, contro un -3,8% per i gusti polposi, e +0,3% a valore, contro -2,%). Il restante 17,7% del mercato a valore dei succhi di frutta e il 16,5% del mercato a volume è rappresentato dai succhi 100% UHT. Tra i gusti polposi, particolarmente buona la performance della mela (+4% a volume). Stabile l’ACE (13% del mercato a volume) e in crescita (seppur ancora di nicchia) il mirtillo, i frutti rossi, i frutti blu, i frutti di bosco e la carota:
Nel 2012 sembrano mutare – ci dice infine SymphonyIRI – la conformazione e il posizionamento degli attori coinvolti nella vendita delle bevande a base di frutta: si accentua la sostituibilità tra le marche e diventa sempre più difficile per il consumatore individuare dei veri e propri premium price, dei marchi capaci, cioè, di imporre un prezzo particolarmente elevato ottenendo comunque un vantaggio competitivo sugli altri, potendo ad esempio contare su una qualità superiore (presunta o reale che sia) o su un universo valoriale particolarmente caro al consumatore.
Questo a causa – l’abbiamo detto – di una spinta promozionale che sale al 44,3% delle vendite, guadagnando 2,5 punti percentuali sul 2011. L’aumento coinvolge soprattutto il canale supermercati (+3 punti percentuali, pari al 45% delle vendite) e fa sì che ben il 54% delle vendite negli ipermercati avvenga in via promozionale (+1,5 punti sul 2011).
Cresce più della media la pressione promozionale per le private label (ovvero il marchio del distributore, che contraddistingue quei prodotti venduti sotto il marchio di un dettagliante o distributore solitamente organizzato in catene di supermercati, ipermercati o gruppi di acquisto, come alternativa ai prodotti a marchio privato), mantenendosi tuttavia a livelli più bassi (37,6%) rispetto all’industria di marca.
Le marche private continuano nel 2012 ad avere un ruolo rilevante nei succhi UHT: esse rappresentando quasi il 34% del volume di vendita del mercato (-1,7% sul 2011) e il 30% del suo giro d’affari (+1,6%). Il potere delle marche rimane comunque piuttosto forte e nel complesso il settore presenta un forte tasso di concentrazione, con i primi tre produttori (Conserve Italia, Parmalat e Zuegg) che rappresentano ben il 53% del mercato in termini di valore. Le marche sembrano, inoltre, portare innovazione e mostrare una certa vitalità, lanciando nuove tendenze, come prodotti dietetici e biologici.
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La politica dei tweet: timidi tentativi tricolori

Dall’iniziativa #MontiLive al flop di @sapevicheSilvio, passando per l’#opencamera di Sarubbi, la ricerca del consenso passa ormai, anche in Italia, per i cinquettii. I politici in larga parte subiscono il social, ma non mancano piccoli traguardi

Sempre più la rete diventa sede privilegiata per il dibattito politico. Cresce la community dei cosiddetti cives.net, di coloro, cioè, che navigano per informarsi sui vari quotidiani online o per discutere di politica su blog, forum e piattaforme social, sfruttando le moltissime opportunità del Web come luogo di coinvolgimento civico. A confermare, nei giorni scorsi, la tendenza è stato l’Osservatorio Demos-Coop, che ha inteso tracciare il profilo sociodemografico e l’orientamento politico di questi cittadini 2.0. Se nel 2010 essi rappresentavano il 24,8% dei cittadini, la loro portata quantitativa sembra essersi ulteriormente rafforzata negli ultimi due anni, consolidandosi al 28,9% nel 2012, contro una percentuale del 14,3% (piuttosto stabile) per gli infonauti (quanti cioè si limitano a informarsi attraverso i quotidiani online e non partecipano alle discussioni politiche in rete) e una percentuale del 15,1% (in leggera crescita) per gli internauti (coloro che navigano per varie ragioni, non per informarsi o discutere di politica).
I cives.net sono persone particolarmente interessate alla politica, molto attive anche nell’offline e con un orientamento principale a sinistra. È, tuttavia, un “non-partito”, il MoVimento 5 Stelle, a catalizzare il maggior numero di cives.net nella propria base elettorale (47,7%, ai quali si aggiunge una percentuale del 12,5% riferita agli infonauti che aderiscono al movimento), dimostrando, quindi, i limiti dell’etichetta “antipolitica” spesso affidata ai sostenitori di Grillo.
Sono lontani, dunque, i tempi in cui le varie personalità coinvolte nella scena politica mondiale potevano lanciare ammonimenti e puntare dita contro la rete o limitarsi a considerarla una scocciatura da tenere semplicemente sotto controllo. La potenza del leader si misura oggi anche attraverso la sua influenza virtuale, rendendo quanto meno auspicabile una presenza diretta – o almeno presunta tale – nel rinnovato villaggio globale. Nell’elaborata macchina che porta alla creazione del consenso collettivo, un ruolo sempre più cruciale è giocato dai social ed è sufficiente evocare la foto del famoso abbraccio tra Obama e Michelle (la più retweettata di sempre) per rendersene conto.
A dicembre 2012 ben il 75% dei capi di stato e dei primi ministri mondiali (164 i Paesi analizzati) usavano Twitter come strumento di comunicazione politica, secondo uno studio realizzato dall’istituto di ricerca politica Digital Policy Council. Appena nel 2011 la percentuale era del 42%. Al primo posto tra i più potenti del cinguettio vi sarebbe proprio il Presidente degli Stati Uniti d’America (oltre 25 milioni di follower, twitta dal 3 maggio 2007), seguito a distanza dal Presidente venezuelano Hugo Chávez (3,8 milioni di follower e una presenza su Twitter dall’aprile 2010), e dal Presidente turco Abdullah Gul (2,5 milioni, sulla piattaforma dal settembre 2009).
Grandi assenti, nella classifica, i leader italiani, banalmente anche a causa della loro età media, decisamente più alta rispetto a influencer come la regina di Giordania, Rania (al quarto posto, con 2,4 milioni di follower), la presidente argentina Cristina Kirchner (al settimo posto, con 1,4 milioni di follower), il presidente dell’Ecuador Rafael Correa (al quindicesimo posto), i primi ministri australiano e canadese Julia Gillard e Stephen Harper (rispettivamente al ventesimo e ventunesimo posto).
In realtà, negli ultimi giorni, Twitter pare entrare a gamba tesa nella campagna elettorale per le prossime elezioni politiche italiane, ma i toni finora rilevati nel Belpaese sono molto lontani da quelli tipicamente previsti dall’apparato comunicativo della piattaforma e poco funzionali alla logica collaborativa e sociale ad essa sottesa. I politici italiani sembrano più “subire” il famoso uccellino che non sfruttarlo per un proprio tornaconto in termini di immagine e, in definitiva, di voti.
I “volontari digitali” fedeli a Silvio Berlusconi hanno aperto il 6 dicembre un nuovo account @Berlusconi2013, sulla cui credibilità si sono concentrati non pochi sospetti, data la crescita esponenziale e improvvisa di followers, saliti a Capodanno, in sole 24 ore, da 7 mila a oltre 70 mila; essi sono aumentati ulteriormente nei giorni successivi, per poi ridimensionarsi ieri a poco più di 64 mila unità. “Semplice abbiamo eliminato quelli generati da bot rilassatevi please”, ha cinguettato infine lo staff del Cavaliere per giustificare la tendenza altalenante. Nella serata di domenica si erano moltiplicati poi i malumori per quel presunto tweet postato dal profilo contro Rai3 che “fa cagare… La Gabbanelli [Gabanelli, ndr] sembra la Bindi.. Servi della sx e delle banche… Le porcate della sinistra mai eh? #schifo #tipisinistri”. L’eliminazione del tweet e la smentita dei volontari digitali, subito pronti a gridare allo scandalo e al fotomontaggio, pare non sia stata sufficiente a frenare l’ondata di screenshot, rimbalzata con toni ironici e canzonatori da una vetrina digitale all’altra. Rimanendo sullo stesso schieramento politico, anche Paolo Bonaiuti e Gianni Letta hanno inaugurato lunedì la propria presenza su Twitter, salvo le successive prese di distanza da parte dei diretti interessati: “Non è mio quel profilo, non è mio quel cinguettio demenziale”, ha dichiarato un irritato Letta a TgCom, sottolineando come si tratti di “un falso ignobile e mortificante per chi lo ha fatto, per chi lo ha raccolto e per chi lo ha diffuso”. Parole d’accusa rilanciate in parte anche da Bonaiuti, mortificando, dunque, anche quanto di positivo poteva essere colto dalla creazione di un account certo fake, ma pur sempre a sostegno della propria causa.
Per non parlare poi dell’autogol realizzato dallo staff comunicativo del Cavaliere, attraverso l’account autocelebrativo @sapevicheSilvio, che nelle intenzioni doveva riportare le gloriose gesta del suo passato governo, ma che, nella pratica, è diventato oggetto di una esilarante raffica di tweet amaramente divertenti, riportanti l’hashtag #losapevichesilvio.
Berlusconi ha dovuto così presto dismettere i panni dell’entusiasta comunicatore digitale, indossati poco meno di un mese fa per inaugurare la campagna elettorale, e dichiarare le proprie perplessità verso Twitter: “Useremo le reti, le sto già usando, non so se su Twitter… Perché su Twitter noto anche molte cattiverie inutili e credo che un’affermazione su Twitter potrebbe scatenare un universo di risposte negative”, ha affermato lunedì, nel corso di un’intervista a TgCom.
Il premier tecnico uscente, Mario Monti, ha aperto il proprio account @SenatoreMonti solo il 23 dicembre scorso, dopo le dimissioni, in vista della propria “salita” in campo. Grande eco ha suscitato, in particolare, la sua scelta di confrontarsi in maniera diretta con i potenziali elettori, proprio attraverso il sito di microblogging: nel corso del #MontiLive di sabato scorso, Monti, grazie al suo staff, ha cercato di dare risposta, in 90 minuti, a 16 domande, selezionate tra le molte twittate dagli utenti. In tanti hanno apprezzato il tentativo di apertura, ma non sono mancate le critiche, legate innanzitutto alla scelta di privilegiare, quali soggetti cui rispondere, influencer (@tigella, @nomfup, @daw_blog), esperti (@pierani, @iabicus), giornalisti (@annamasera, retwittata), testate (@tg1online) e associazioni (@progettoRENA), escludendo i cittadini comuni e vanificando, dunque, gli sforzi per una reale partecipazione.
A infastidire sono state pure le scelte stilistiche, in particolare l’uso esagerato di emoticons e di punti esclamativi, probabilmente allo scopo di creare un legame di empatia con i lettori. Esagerato più che altro perché incoerente rispetto alla figura piuttosto impostata di Monti, cui televisione e altri media ci hanno da sempre abituato.
Qualcuno ha criticato anche l’autocelebrazione (un solo retweet usato per un complimento e un “WOW!!” finale rivolto al numero crescente di followers) e l’ostentazione dell’iniziativa, vista l’eccessiva diffusione, da parte dello staff, di foto che ritraevano Monti davanti al computer, intento a twittare.
Dita puntate anche contro quel video storto di 90 gradi e di pessima qualità, presto rimosso. Infine il tempo trascorso tra una risposta e l’altra è stato giudicato eccessivo e il contenuto delle risposte non particolarmente originale.
Al di là degli errori e delle goffaggini, a una figura mediaticamente forte come Monti va certo il merito di aver posto l’accento su una modalità nuova di fare politica, possibile, con molta pratica, anche in Italia. Non messaggi a senso unico, ma partecipazione attiva. E il tentativo sembra anche aver dato alcuni frutti: il profilo ha collezionato ben 1.112 domande, 9.746 retweet, 7603 reply e 1861 tweet e, in sole due ore, è stato raggiunto da 5 mila nuovi followers (superando quota 100.000), ai quali il Professore potrà ora indirizzare i propri messaggi, in vista delle elezioni.
Presentandosi come “Papà di Sofia, Luigi, Luce e Giovanni. Marito di Giovanna. Amante dell’Italia. Ministro della Repubblica” da lunedì è su Twitter anche Corrado Passera, il quale sembra aver esordito rilanciando – in modo, direi, meno goffo – l’iniziativa di Monti, quasi trainato dalla sua scia. Ha ringraziato e interagito direttamente con i followers, sfruttando, in particolare, la risposta data a uno di loro (@LucaTaschin) per lanciare un messaggio – quasi una strizzatina d’occhio – a Oscar Giannino (@OGiannino), il quale ha, a sua volta, rivolto un sguardo virtuale complice al Ministro. Mi pare questa possa, almeno in parte, definirsi comunicazione politica 2.0, capace di fare notizia guardando in termini collaborativi e partecipativi ai cittadini.
Si pensi poi alla figura di Andrea Sarubbi, primo deputato (ora “scaduto” come si autodefinisce, in seguito alla scelta del Pd di non inserirlo nelle liste dei candidati al Parlamento per la prossima legislatura) a raccontare le sedute della Camera in diretta su Twitter, all’interno dell’hashtag #opencamera e occupato spesso a rispondere ai propri follower.
Si tratta – è vero – di una tendenza tutt’altro che consolidata: certo non mancano le presenze apparentemente attive di politici italiani su Twitter (Bersani, Alfano, Casini, Renzi, che ha fatto del Web quasi un mantra della propria campagna per le primarie), ma il livello di interazione con i followers è sempre piuttosto ridotto, il mezzo viene utilizzato come cassa di risonanza per il proprio messaggio propagandistico. Una ribalta alternativa, dunque, a quella televisiva o cartacea. Anche Grillo, che del Web ha fatto il proprio principale campo d’azione, si limita spesso a offrire su Twitter semplici rimandi al proprio blog, chiudendo, di conseguenza, la comunicazione, rifiutando lo scambio reale con sostenitori e oppositori.
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