Notizie online: da consumarsi preferibilmente entro il…

Una recente sentenza del Tribunale di Ortona condanna la testata online PrimaDaNoi.it al pagamento di 17mila euro quale risarcimento per aver conservato, nel proprio archivio elettronico, una notizia del 2008 ritenuta lesiva dell’altrui privacy. Ecco la declinazione online del diritto all’oblio

La questione centrale è un conflitto tra diritti ugualmente – almeno in termini astratti – meritevoli di tutela normativa e sociale. Alla base vi è un vuoto legislativo colmabile solo in parte dalla giurisprudenza in materia, costretta a scendere a patti con l’interpretazione e la contestualizzazione. In gioco vi è la libertà di informazione, uno dei capisaldi dell’edificio comunitario, una delle conquiste progressive più bramate dall’opinione pubblica, una delle risorse più tenacemente custodite dalla collettività digitale.
LE SENTENZE
L’ultimo capitolo scritto nella storia dell’informazione made in Italy sembra far emergere ancora una volta l’estrema difficoltà che il legislatore italiano ha nel partorire una stabile regolamentazione della rete e pare aver scosso non poco gli animi di quanti continuamente si battono per offrire ai cittadini la solida garanzia di essere informati, in modo limpido e puntuale, circa fatti e misfatti ritenuti socialmente rilevanti. Protagonista della vicenda è il piccolo ma prestigioso quotidiano abruzzese online PrimaDaNoi.it, condannato dal giudice unico del Tribunale di Ortona, Rita Di Donato, al pagamento di un multa di oltre 17mila euro (tra risarcimento danni e spese legali), per aver conservato, nel proprio archivio elettronico, la notizia relativa a un fatto di cronaca, avvenuto nel 2008, all’interno di un ristorante pescarese, che coinvolse i titolari del locale in una vicenda giudiziaria di natura penale, non ancora conclusa.
Il giudice ha accolto, in sostanza, la domanda dei ricorrenti (i titolari), che chiedevano la rimozione della pagina contenente la notizia, preoccupati per il pregiudizio che la stessa avrebbe potuto recare alla loro reputazione personale e professionale e all’immagine del proprio locale. Sottolinea, infatti, il giudice come “la facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico [pubblicato il 29 marzo 2008], molto più dei quotidiani cartacei tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online, consente di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale [il 6 settembre 2010] sia trascorso sufficiente tempo perché le notizie divulgate con lo stesso potessero soddisfare gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica, e che quindi, almeno dalla data di ricezione della diffida, il trattamento di quei dati [relativi ai titolari del ristorante e al nome dell’esercizio] non poteva più avvenire”. Il persistere del trattamento dei dati personali – prosegue il giudice – “ha determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione, e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati (consultabili semplicemente digitando il nominativo del ricorrente e la denominazione del ristorante sul motore di ricerca Google) e alla natura degli stessi dati trattati, particolarmente sensibili attenendo a vicenda penale”. L’articolo era stato già rimosso – è bene precisarlo – dai motori di ricerca, nel 2011, ma non anche dall’archivio del giornale online.
Accolta pure la richiesta di ottenere un risarcimento danni poiché – si legge nella sentenza – il trattamento dei dati personali si è protratto per un periodo di tempo superiore a quello necessario agli scopi – esercizio del diritto di cronaca giornalistica – per i quali i dati sono stati raccolti e trattati”.
Invocando il cosiddetto “diritto all’oblio”, il giudice sembra, dunque, far prevalere la tutela della privacy sul diritto di cronaca, nonostante la notizia diffusa fosse – lo stesso provvedimento lo evidenzia – vera, corretta nella forma e non diffamatoria e nonostante in Italia non esista alcuna legge che formalizzi le condizioni di applicabilità di tale diritto all’oblio. Egli ha imposto, in sostanza, una scadenza alla notizia (pari a due anni e mezzo, nella fattispecie).
La sentenza, datata 16 gennaio 2013, ricalca in realtà una precedente pronuncia da parte del giudice Rita Carosella, dello stesso Tribunale, datata 20 gennaio 2011. In quell’occasione, a suscitare la reazione dei due coniugi ricorrenti era stata la notizia, riportata dal giornale abruzzese, relativa al loro arresto per tentata estorsione continuata in concorso. La posizione dei due era stata poi archiviata e l’articolo, datato originariamente 23 marzo 2006, era stato più volte aggiornato nel corso degli anni, per dare conto dell’intero iter giudiziario, dunque anche dell’archiviazione della vicenda. Per far valere il diritto alla tutela della propria riservatezza, i coniugi avevano scelto in primis di rivolgersi al Garante della Privacy, il quale, tuttavia, si era espresso a favore della permanenza online dell’articolo, considerando che il trattamento dei dati personali era stato effettuato “nel rispetto della disciplina di settore per finalità giornalistiche”. Diversa invece era stata la pronuncia del Tribunale, che impose al giornale di cancellare la notizia e di sborsare 5 mila euro (più le spese legali) ai coniugi per i danni subiti, vista la “durata, gravità e modalità dell’illecito”.
Il giudice Carosella aveva allora sottolineato come, alla data della richiesta di cancellazione da parte dei ricorrenti (circa quattro mesi dopo l’ultima modifica dell’articolo), fosse trascorso tempo sufficienteperché le notizie potessero soddisfare gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica, informare la collettività, creare opinioni, stimolare dibattiti, suggerire rimedi” e come, di conseguenza, il trattamento dei dati non potesse avvenire, se non con “lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza e alla reputazione, stante la peculiarità dell’operazione di trattamento, sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati, e stante la natura degli stessi dati trattati, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale”. Anche in questo caso la sentenza sembra voler offrire una durata temporale – basata su soggettive valutazioni – e una relativa scadenza all’esercizio del diritto di cronaca. Essa consentiva, inoltre, “a costituire memoria storica della collettività”, la conservazione di “una copia cartacea dell’articolo nell’archivio della testata, archivio che tuttavia – come sottolinea PrimaDaNoi.it e come era facile immaginare in tempi di villaggio globale e informazione 2.0 – non esiste.
COME NASCE UNA NOTIZIA
Le soluzioni individuate nascondono non poche ambiguità e fanno emergere perplessità e dubbi interpretativi. Per comprendere meglio la questione, facciamo, allora, per un attimo, un passo indietro e cerchiamo di capire come nasce una notizia. La giurisprudenza ha, nel corso degli anni, elaborato tre requisiti al cui rispetto dev’essere subordinato il legittimo esercizio del diritto di cronaca da parte dei giornalisti: dev’esservi innanzitutto un interesse pubblico e attuale alla conoscenza del fatto oggetto di notizia; la verità di questo stesso fatto deve, inoltre, essere oggettiva, o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca (da qui la necessità di verificare accuratamente le fonti e al contempo la rilevanza assunta dalla buona fede del giornalista, il quale, pubblicando notizie che egli crede vere dopo le relative verifiche, mantiene la propria condotta nei limiti del diritto di cronaca); infine la notizia deve rispettare la cosiddetta “continenza espositiva”, la correttezza cioè formale nell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo, improntata a un ideale di obiettività, priva di un preconcetto intento denigratorio e comunque rispettosa della dignità altrui.
Il diritto di cronaca è, come quello di critica e di satira, un diritto di rilevanza costituzionale, protetto da quell’ampio cappello che è l’articolo 21 delle nostra Costituzione (che prevede, in poche parole, la libertà di manifestazione del pensiero). I tre requisiti elaborati sono il frutto della volontà di bilanciare tale garanzia costituzionale con il diritto alla tutela della propria persona, della propria reputazione e della propria riservatezza, anch’essi costituzionalmente previsti.
L’utilità e il rilievo sociale dell’informazione (in sostanza il primo dei requisiti cui prima si faceva riferimento) è, allora, fondamentale affinché questo conflitto tra diritti di pari dignità possa essere in qualche modo superato. Per valutare l’interesse pubblico alla diffusione della notizia non si può ovviamente prescindere dal contesto: esso dipende dal pubblico cui ci si rivolge, dal giornale e dalla pagina in cui si scrive, dal momento storico in cui ci si trova. L’interesse pubblico deve sussistere nel preciso momento in cui si scrive. Esso è il presupposto che impone ad un fatto privato (dunque tutelato dalla privacy) di diventare oggetto legittimo di cronaca, tuttavia una volta che la comunità ne sia stata informata con correttezza, esso ha esaurito la sua funzione e torna alla sua originaria dimensione di fatto privato. Riproporlo sulla ribalta mediatica sarebbe non solo inutile per la collettività, ma addirittura dannoso per i protagonisti in negativo del fatto. In questo meccanismo rientra il “diritto all’oblio”: si tratta di un diritto creato dalla giurisprudenza della Cassazione, tipicamente collocato tra i diritti inviolabili citati da quella norma dinamica che è l’art. 2 della Costituzione. È in sostanza il diritto, che ognuno di noi ha, a non essere più ricordato dalla stampa e dagli altri canali di divulgazione per fatti che in passato sono stati oggetto di cronaca. Un ulteriore fondamento legislativo di tale diritto è stato rinvenuto nell’art. 27, comma 3, della Costituzione, che prevede la funzione rieducativa della pena, la necessità cioè di favorire il reinserimento sociale del condannato.
Vi sono, tuttavia, alcuni fatti ritenuti particolarmente gravi, per i quali l’interesse pubblico alla loro pubblicazione non viene mai meno (si pensi, ad esempio, a fatti che hanno inciso sul corso della storia, come Tangentopoli o l’attentato al Papa).
Parallelamente può succedere che, a distanza di anni, sorga nuovamente un interesse pubblico alla riproposizione della notizia: ciò avviene, in particolare, quando si crea un certo nesso, un collegamento, tra un fatto di cronaca attuale e uno passato sul quale si era in già posato il diritto all’oblio. È il caso del condannato di stupro che, uscito di galera e, dunque, scontata la pena, commette una nuova violenza sessuale, legittimando il giornalista a far riferimento alla precedente condanna nel resoconto dell’evento.
A far scattare il diritto all’oblio non è, allora, il trascorrere di un determinato numero di anni dal verificarsi del fatto (come le sentenze sopra descritte potrebbero lasciare intendere): esso può essere fatto valere nel momento in cui tale fatto passato esaurisce la propria valenza pubblica e non possiede alcun rapporto diretto con la notizia all’ordine del giorno. Se scrivo di una donna dedita alla prostituzione in casa propria, non potrò, ad esempio, ricordare che la precedente proprietaria dell’immobile esercitava, magari vent’anni prima, la stessa professione: se quest’ultima avesse, nel frattempo, cambiato completamente vita e si sentisse turbata dal vedere il proprio nome accostato ad un nuovo fatto di cronaca in cui non c’entra nulla, potrebbe a ragione fare causa al giornalista poco saggio.
… E PER IL WEB?
Il Web sconvolge ovviamente l’intera logica appena descritta, dovendo fare i conti con un’infrastruttura digitale che, per natura, tende a mantenere traccia di ogni singola manifestazione. Nel Web l’informazione può essere decontestualizzata, frammentata, copiata e incollata.
Il fatto di dare una scadenza temporale alla notizia, giustificando la cosa proprio con le peculiarità del mezzo informatico, sembra essere una soluzione non molto illuminata e ben si presta a diventare terreno fertile per le critiche di quanti si battono per la libertà d’informazione. Quanti anni o mesi dovrebbero poi trascorrere prima che si realizzi tale scadenza?
Oggi siamo stati condannati [… ] per aver scritto notizie vere e senza errori. Siamo stati condannati perché ci hanno detto che quello che scriviamo ha una data di scadenza ma nessuno sa dirci qual è questa data”, lamenta la redazione di PrimaDaNoi.it.
In un sistema legislativo che cerca esasperatamente di codificare il comportamento umano in ogni situazione, restringendo quanto più possibile la funzione interpretativa e applicativa della norma (diversamente da quanto avviene nei sistemi “common law”), si determina la strana condizione in cui l’attenzione, in fase di pronuncia, cade più sul cavillo da aggirare che non sul principio da rispettare.
I giudici delle sentenze analizzate dimostrano scarsa sensibilità e padronanza verso il mondo dell’informazione ai tempi del Web. Declinare il diritto all’oblio a simili fattispecie online risulta una forzatura, una storpiatura: stando ai principi enunciati dal Tribunale abruzzese, tutti gli archivi storici delle principali testate italiane e internazionali dovrebbero essere rimossi, poiché inevitabilmente essi conterranno notizie sgradite a qualcuno.
Certo il Web non può essere – d’altro canto – una giustificazione a fare del cattivo giornalismo, eludendo il rispetto delle fondamentali norme deontologiche che regolano la professione. Nei processi comunicativi sottesi alla notizia, i meccanismi temporali hanno un’importanza fondamentale: la notizia diffusa per prima rimarrà sempre quella considerata “vera”, le notizie che seguiranno verranno inevitabilmente percepite dal pubblico come semplici giustificazioni. La notizia di una sentenza di assoluzione a termine di un processo show, rimbalzato da una ribalta televisiva all’altra, non cesserà di mantenere vivi i sospetti sui protagonisti in negativo della vicenda. Proprio per questo il giornalista ha una forte responsabilità, nel valutare l’opportunità o meno di pubblicare nomi, dettagli e retroscena e il modo in cui pubblicarli. I toni sensazionalistici e lo scoop a orologeria non si addicono all’ideale di giornalismo come strumento di informazione e di garanzia per l’opinione pubblica. E tuttavia queste sono questioni più ampie, che coinvolgono l’etica professionale, non riguardano solo la Rete. Solo partendo dai precetti deontologici si potranno risolvere le difficile controversie dell’informazione online, tenute presenti le specificità del mezzo e l’equo bilanciamento tra diritti.
Questa sentenza ci condanna per aver voluto difendere il diritto di ogni cittadino di conoscere e di sapere […]. Ci spiace per i giudici , ma la storia, i fatti, la memoria non si cancellano a colpi di sentenze”.
Pubblicato su: PMI-dome
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