Agroalimentare made in Italy: contrastando il falso, esportazioni triplicate

Record di esportazioni per il 2011, ma anche la persistenza di prassi illecite, colpevoli di bloccare la libera iniziativa economica

Pizza, mafia e mandolino. Ci siamo quasi: stereotipi che si confermano, primati che ci incoraggiano, stime che un po’ sorprendono e spiragli di ripresa. In questo sembra riassumersi l’attuale contesto dell’agroalimentare italiano.

Cominciamo con un dato positivo: stando ad un’analisi diffusa da Coldiretti e basata sugli andamenti registrati nel commercio estero agroalimentare dall’Istat, il valore delle esportazioni nel settore avrebbe raggiunto nei primi nove mesi del 2011 il suo massimo storico, arrivando a circa 30 miliardi, con una crescita di 9 punti percentuali. Destinatari di tali esportazioni sono stati principalmente i Paesi dell’Unione Europea, dove si sono concentrati i 2/3 del fatturato estero complessivo (con un rialzo dell’8%), gli Stati Uniti, dove l’esportazione del Made in Italy nelle tavole ha incrementato il proprio valore di dieci punti percentuali, e i mercati emergenti come quelli asiatici, dove l’aumento è stato addirittura del 18%, arrivando quasi a toccare la quota statunitense.

A rafforzare il proprio trend di crescita sono stati soprattutto i comparti più tradizionali dell’agroalimentare Made in Italy: il vino, ad esempio, ha aumentato il proprio valore d’esportazione di 25 punti percentuali; il formaggio – soprattutto grana e parmigiano reggiano, i più apprezzati – di ben 26 punti; l’olio di oliva ha registrato un +9%, la pasta un +7%, stabile, invece, l’ortofrutta.

Colpiscono, tuttavia, alcuni risultati, come quelli riferiti all’export della birra italiana in Gran Bretagna (grande produttrice della bevanda), in crescita record del 18%, o all’export dello spumante in Russia – con un +40% che rende quest’ultima al quarto posto tra i Paesi esteri di destinazione – o, ancora, quelli relativi all’esportazione di formaggi italiani in Francia (+22%), tradizionalmente molto nazionalista in questo ambito.

Le performance positive registrate sui mercati internazionali dal settore più rappresentativo dell’economia reale dimostra” – sottolinea Sergio Marini, Presidente di Coldiretti – “che il Paese può tornare a crescere solo se investe nelle proprie risorse che sono i territori, l’identità, la cultura e il cibo”. Recuperare, dunque, le proprie radici per ridare slancio e vitalità all’economia italiana, puntando sull’esternalizzazione, sulla diffusione all’esterno di modelli produttivi e di consumo: questa, in estrema sintesi, l’interpretazione offerta ai dati riportati. L’agroalimentare – conclude Marini – “è una leva competitiva formidabile per trainare il Made in Italy nel mondo”.

Il prodotto più importante dell’export agroalimentare nazionale si rivela essere il vino, con oltre la metà del fatturato realizzato dalle aziende italiane all’estero nei primi 9 mesi del 2011, stimato in quasi 4 miliardi di euro, con un aumento del 13,6% rispetto all’anno precedente. Cresce parallelamente il numero di ettolitri esportati, arrivando a quota 17 milioni e registrando, di conseguenza, un +13%.

Ad apprezzare il nostro vino sono, come già accennato, principalmente i Paesi dell’Unione europea, con aumenti in valore pari al 13% e con in testa la Germania. Gli Stati Uniti sono, invece, destinatari di poco meno di un quarto del fatturato estero, registrando nel 2011 un aumento record in valore pari al 17%. Sorprendenti gli incrementi registrati nei Paesi asiatici, in particolare in Cina, dove il valore delle esportazioni sembra essere praticamente raddoppiato (+87%).
Tale primato nelle esportazioni sembra stridere, in realtà, con i dati diffusi dall’Istat, ed elaborati da Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo-Alimentare) e Uiv (Unione Italiana Vini), relativamente alla produzione di vino in Italia, stabilizzatasi nel 2011 su livelli ai minimi storici; a fronte di una produzione stimata, a metà dicembre 2011, attorno ai 40 milioni di ettolitri (contro i 42 milioni indicati a settembre), è stata, infatti, registrata una caduta record del 14,2% sul 2010 (quando si erano contati 46,7 milioni di ettolitri).

Dal punto di vista qualitativo, oltre il 60% della produzione è stato destinato a uno dei 517 vini Docg, Doc e Igt riconosciuti in Italia. Questa tendenza negativa ha imposto una revisione della classifica mondiale dei Paesi produttori di vino, con la conseguente perdita, da parte dell’Italia, della propria supremazia produttiva, a favore della Francia, che, con i suoi 50,2 milioni di ettolitri (in aumento di 11 punti percentuali rispetto al 2010), raggiunge il primo posto. I 39,9 milioni di ettolitri prodotti in Spagna (con un leggero calo del 2%) rende anche questo Paese un potenziale pericolo per l’Italia, essendo lo scarto tra Roma e Madrid pari ad appena 218 mila ettolitri.

Al quarto posto della classifica mondiale dei produttori di vino, si attestano gli Stati Uniti, con 18,7 milioni di ettolitri, in calo di 6 punti percentuali sul 2010 (ha pesato, in particolare, il -10% registrato in California, primo polo produttivo della zona). In calo anche la vendemmia in Argentina, al quinto posto, con un -10% e 14,6 milioni di ettolitri prodotti. L’Australia, in sesta posizione, ha totalizzato all’incirca gli stessi quantitativi del 2010, mantenendosi sui 10 milioni e mezzo di ettolitri. Cresce, invece, a due cifre la produzione nel Cile – con un + 15,5% e oltre 10 milioni e mezzo di ettolitri realizzati – che arriva, così, a raggiungere la settima posizione. Superano i 10 milioni prodotti anche la Cina (in ottava posizione, con 10,4 milioni di ettolitri, in calo di 4 punti percentuali sul 2010) e il Sudafrica (con un +2% sul 2010).
Riprende, dopo un 2010 in forte decrescita – la produzione in Nord Europa e nei Peco (Paesi dell’Europa Centrale e Orientale), tanto da rendere probabile – conclude l’analisi Ismea-Uiv – il fatto che “il 2012 vedrà smorzarsi le forti richieste di vino sfuso effettuate da questi Paesi sia in Italia che in Spagna”: crescono Germania (+28%) e Austria (+45%), ma anche Romania (+31%), Bulgaria (+55%), Ungheria (+27%), Repubblica Ceca e Slovacchia.

Tornando al contesto italiano, si rileva, poi, dal punto di vista dei prezzi di scambio, un aumento – nei primi cinque mesi della campagna di commercializzazione, da agosto a dicembre 2011 – dei valori medi dei vini comuni di oltre 28 punti percentuali, rispetto allo stesso periodo del 2010: per il comparto dei rossi è stato registrato un +28,8% (il prezzo di scambio è stato in media 3,65 euro per ettolitro/grado, franco cantina), mentre per quello dei bianchi un +27,6% (3,81 euro per ettolitro/grado).

I buoni risultati rilevati sul settore esportazioni non sembrano attualmente aver portato adeguati benefici alle imprese agricole, confermando – conclude Coldiretti – le “pesanti distorsioni che permangono nel passaggio degli alimenti lungo la filiera dal campo alla tavola”.

L’andamento positivo delle esportazioni potrebbe, inoltre, essere ulteriormente ottimizzato se si riuscisse a combattere efficacemente la cosiddetta “agropirateria” internazionale e, ancor più, “l’Italian sounding”, la tendenza, cioè, a sfruttare economicamente parole, immagini, denominazioni e ricette che evocano il contesto italiano, pur essendo legate a prodotti alimentari che nulla hanno a che vedere con le produzioni nostrane; a differenza dell’agropirateria, la contraffazione vera e propria perseguibile penalmente, l’Italian sounding si muove in una zona grigia che può essere eliminata solo attraverso regole e accordi internazionali che impongano l’assoluta trasparenza sulla qualità delle materie prime e sui processi produttivi utilizzati dagli operatori dell’intera filiera.

Se sul piano nazionale sono stati recentemente scoperti la falsa mozzarella di bufala dop, vino ed olio etichettati come doc e dop senza documenti di tracciabilità, a livello internazionale le più copiate al mondo – prosegue Coldiretti – sono le denominazioni Parmigiano Reggiano e Grana Padano (con “il Parmesan diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone”, o il “Parmesao in Brasile, il Regianito in Argentina, Reggiano e Parmesao in tutto il Sud America, ma anche Pamesello in Belgio o Parmezan in Romania”), ma anche il Romano, l’Asiago e il Gorgonzola, prodotti negli Stati Uniti; anche alcuni marchi storici trovano una loro imitazione estera, come la mortadella San Daniele e il prosciutto San Daniele prodotti in Canada; e ancora: vino “tarocco”, come il barbera bianco romeno o il Chianti californiano, l’olio Romulo venduto in Spagna con tanto di lupa capitolina, imitazioni di soppressata calabrese e pomodori San Marzano negli States, il provolone del Wisconsin, il pesto tailandese “Spicy thai” e una strana “mortadela” siciliana prodotta in Brasile. Gli esempi sono molti e capaci di strappare facilmente un sorriso, ma si tratta pur sempre di un riso piuttosto amaro: stando, infatti, alle stime riportate da Coldiretti (sulla base della prima relazione sulla contraffazione nel settore alimentare, elaborata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale e presentata nel corso di un incontro presso la sede romana di Coldiretti, lo scorso giovedì 19 gennaio 2012, al quale hanno partecipato, tra gli altri, il Ministro per le Politiche Agricole Mario Catania, il Procuratore Antimafia Pietro Grasso e il Presidente della Coldiretti Sergio Marini), il falso alimentare Made in Italy fatturerebbe ben 60 miliardi di euro, con tre prodotti alimentari italiani falsi su quattro. A spingere verso una simile prassi ingannevole è la volontà dei produttori esteri di assicurarsi un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, potendo contare sulla risonanza positiva che certi nomi detengono, sul sistema di valori riconosciuti e apprezzati a livello internazionale che essi veicolano. Si tratta di un vero e proprio danno – non solo economico, ma anche di immagine – inflitto alla nostra industria agroalimentare, banalizzata nella sua autentica tradizione ed eccellente qualità.

Con una radicale azione di contrasto al falso Made in Italy, che porti ad un recupero delle quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari delll’“Italian sounding”, le esportazioni agroalimentari potrebbero addirittura triplicare, pareggiando la bilancia commerciale del settore. Si stima, inoltre, che dalla lotta alla contraffazione potrebbero derivare fino a trecentomila nuovi posti di lavoro.

Secondo i dati Coldiretti/Eurispes contenuti nella relazione sulla contraffazione, il volume d’affari delle agromafie ammonterebbe oggi a ben 12,5 miliardi di euro, pari al 5,6% dell’intero business criminale.

Le imprese agricole e i consumatori – precisa la Coldiretti – subiscono l’impatto devastante delle strozzature di filiera su cui si insinua un sistema di distribuzione e trasporto gonfiato e alterato troppo spesso da insopportabili fenomeni di criminalità che danneggiano tutti gli operatori. L’effetto è un crollo dei prezzi pagati agli imprenditori agricoli, che in molti casi non arrivano a coprire i costi di produzione, e un ricarico anomalo dei prezzi al consumo che raggiungono livelli tali da determinare un contenimento degli acquisti”.

Dal campo alla tavola, il prezzo dei prodotti viene triplicato, anche a causa dell’illecito intervento della malavita organizzata: le agromafie reinvestono i loro proventi soprattutto in attività agricole, “nel settore della trasformazione alimentare, commerciale e nella grande distribuzione”, condizionando la libera iniziativa economica e incrementando la concorrenza sleale. Oltre ad un aumento dei prezzi, le conseguenze negative per i consumatori riguardano anche la qualità dei beni acquistati, spesso spacciati come Made in Italy, ma ottenuti in realtà con materie prime importate e di bassa qualità.

La Commissione parlamentare d’inchiesta ha verificato, in particolare, come le nostre tasse finanzino addirittura la realizzazione di prodotti italiani solo nel nome, attraverso la “Società italiana per le imprese all’Estero Simest s.p.a.”, controllata dal ministero dello Sviluppo economico, senza alcun beneficio per il nostro Paese, ma incrementando, anzi, i comportamenti di concorrenza sleale prima descritti. Tali attività di delocalizzazione sottraggono opportunità di lavoro e occupazione al sistema Italia: è il caso dell’azienda casearia Lactitalia (partecipata da Simest al 29,5%), che produce in Romania formaggi con nomi italiani Caciotta e Pecorino, e della vendita all’estero del salame calabrese prodotto negli Stati Uniti e venduto a New York dalla salumeria Rosi del Gruppo Parmacotto.

Non è politicamente, economicamente e moralmente accettabile” – conclude il Presidente Sergio Marini – “che lo Stato, che rappresenta tutti i cittadini italiani, finanzi direttamente o indirettamente la produzione o la distribuzione di prodotti alimentari che contaminano il valore del territori facendo concorrenza sleale a tutte le produzioni tipiche vere espressioni di quei territori”; è per questo motivo che “la lotta alla contraffazione e alla pirateria” devono rappresentare per le istituzioni “un’area di intervento prioritaria per recuperare risorse economiche utili al Paese” e a “generare occupazione”.

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Il Brasile: la meta ideale per il Made in Italy

KPMG ha monitorato la presenza imprenditoriale italiana in territorio brasiliano, attualmente in fase di forte sviluppo e rafforzamento economico

“Si è soliti affermare che il Brasile sia il Paese del futuro, e sempre lo sarà. Tuttavia sembra che ora il futuro del Paese sia arrivato. Recentemente definito la ‘prossima superpotenza economica mondiale’, non c’è nulla, neppure una crisi economica mondiale, che possa porre fine alla crescita del Paese”.

Sono le parole con cui KPMG ha presentato un approfondimento tematico – dal titolo “What does it take to win in Brazil?” – sulle possibili strategie e i modelli innovativi per entrare nel mercato brasiliano.

Data la forte stabilità della crescita in Brasile, supportata da uno sviluppo demografico intenso, dall’ascesa della classe media, dalla stabilità finanziaria e dagli acuti investimenti nelle infrastrutture, non stupisce il fatto che molte imprese stiano prendendo in considerazione la possibilità di espandere il proprio business in questa terra e, certo, le ultime stime sembrano dar ragione a simili intuizioni imprenditoriali: si parla, per i prossimi anni, di un aumento annuale del PIL superiore ai 4,6 punti percentuali, inoltre il Brasile rappresenta la settima economia mondiale, le fluttuazioni del tasso di cambio del real e l’inflazione sono sotto controllo da oltre dieci anni.

Negli ultimi tre anni, 45 milioni di brasiliani si sono spostati nella classe media e, con questa loro ascesa ad un nuovo status sociale, si sono venute a creare delle rinnovate opportunità di consumo: gli appartenenti alla nuova classe – sottolinea KPMG – “stanno comprando di tutto, dai telefoni cellulari ai frigoriferi, stanno usando internet con una frequenza maggiore rispetto alla precedente classe media e stanno comprando case per la prima volta nella loro vita”; essi rappresentano la forza trainante per la crescita del mercato consumer. Il piccolo consumo privato dovrebbe raggiungere la media annua del 7,8%, superando l’inflazione, stimata per il 2014 al 4,5%.

Il Brasile dovrebbe, inoltre, trarre beneficio da ciò che è stato chiamato “bonus demografico”, che starebbe ad indicare l’aumento, nei prossimi 20 anni, dell’attuale popolazione giovanile in età da lavoro, capace di produrre ricchezza e potenziare, di conseguenza, la crescita economica. L’età media di 29 anni dovrebbe arrivare a 34 nel 2020 e a 38 nel 2030, una trasformazione simile a quella avvenuta in precedenza negli Stati Uniti. Tale bonus sarà il risultato di una riduzione dei tassi di natalità: la quota di abitanti fino a 14 anni si ridurrà, mentre la parte produttiva di popolazione (dai 15 ai 64 anni) sarà in continua espansione.

Secondo gli economisti Cassio Turra e Bernardo Queiroz dell’Università federale di Minas Gerais (UFMG), il potenziale di crescita del Brasile, esclusivamente a seguito di tale bonus demografico, sarebbe di 2,5 punti percentuali all’anno.

Il reddito personale disponibile è destinato a crescere a un tasso dell’1,5%, mentre la disoccupazione pare diminuirà ad un tasso del 3,0%.

La forza di questa nuova economia del consumo dovrà essere sostenuta da politiche economiche capaci di offrire innanzitutto stabilità. Dal 2008 a oggi, nel pieno della crisi internazionale, il Brasile ha viaggiato in controtendenza, arrivando ad inserirsi in quella rosa di dodici Paesi (Bolivia, Filippine, Ecuador, Uruguay, Colombia, Giamaica, Indonesia, Hong Kong, Libano, Israele e Angola sono gli altri undici) che hanno ottenuto dei giudizi migliorativi dalle tre principali agenzie di rating (Moody’s, Standard and Poor’s e Fitch).

Ad aprile 2011 la Fitch ratings ha promosso il Brasile da BBB- a BBB, parlando di un percorso di crescita nel medio termine che resterà “relativamente robusto” e riconoscendo i meriti del ministro della Finanza brasiliana Guido Mantega, secondo il quale il rating positivo rifletterebbe, appunto, la solidità che l’economia brasiliana ha saputo dimostrare negli ultimi anni. Per confermare e rilanciare questo trend di crescita, il settore pubblico e quello privato sono ben consapevoli della necessità di realizzare massicci investimenti nelle infrastrutture: dal 2007 è in corso, ad esempio, la costruzione a São João da Barra del Superporto do Açu, un progetto il cui budget è stimato attorno ai 3 miliardi di reais e che è stato sviluppato dalla società di logistica LLX, alla quale si sono poi aggiunti altri investitori brasiliani e stranieri. L’impianto verrà presumibilmente completato entro il 2012, sviluppandosi su un’area complessiva di 90 chilometri quadrati, e la sua funzione sarà di stimolo agli scambi commerciali, dunque di sviluppo del business locale: alcune stime parlano di oltre 50.000 posti di lavoro generati, aumento del PIL dell’area di 500 punti percentuali, incremento stesso della popolazione che raggiungerà i 250.000 abitanti entro il 2025, rendendo necessaria la costruzione di 84.000 nuove case.

Complessivamente gli investimenti realizzati in infrastrutture ammontano a 1.100 miliardi di reais, pari, peraltro, solo a un terzo dell’importo complessivo necessario da qui al 2022; per i Mondiali di calcio 2014 e per le Olimpiadi 2016 si stima che il Brasilia arriverà a spendere circa 28 miliardi di euro.

Gli investimenti esteri diretti al Brasile, poi, sono notevolmente aumentati negli ultimi anni, sintomo di un crescente interesse economico mondiale nei confronti di questa terra.

L’invito rivolto alle imprese italiane da parte di KPMG – il “network globale di società di servizi professionali, attivo in 150 paesi nel mondo con 138 mila persone” – è, allora, a puntare sul Brasile per l’internazionalizzazione della propria attività professionale nei prossimi quattro, cinque anni. Esso è, infatti, tra quelli emergenti, il Paese che maggiormente dimostra di apprezzare i marchi italiani: “è la spendibilità del Made in Italy – sottolinea Roberto Giovannini, partner KPMG – dal design al cibo, passando per la moda. In nessun altra parte del mondo è così apprezzato come in Brasile. La somiglianza di gusti è notevole, i supermercati brasiliani sono pieni di prodotti italiani a prezzi folli, e non c’è nessun bisogno di riposizionare l’offerta. In Cina, per intenderci, la pizza per antonomasia è quella americana di Pizza Hut, e gli spaghetti sono quelli di riso. In Brasile non c’è possibilità di malinteso”.

Allo scopo di sviluppare le relazioni bilaterali tra Italia e Brasile dal punto di vista economico, scientifico e culturale e con la volontà di consolidare la già favorevole presenza del made in Italy in Brasile, i due capi di Stato, il Presidente Lula e il Presidente Belusconi, hanno ufficializzato, attraverso la Dichiarazione Congiunta del 29 giugno 2010 a San Paolo, il cosiddetto “Momento Italia-Brasile”, un ricco programma di eventi, inaugurato il 15 ottobre a Rio de Janeiro; esso prevede circa 474 manifestazioni che si svolgeranno in 18 stati della Federazione brasiliana e che si concluderanno a giugno del prossimo anno. Ad ottobre avranno invece luogo a Roma la quinta edizione della Conferenza Italia-America Latina e il sedicesimo meeting internazionale dal tema “Rapporti economici e integrazione di Brasile e Italia”, organizzato dalla Lide (l’associazione imprenditoriale che riunisce le più grandi aziende che operano in Brasile, presieduta dall’uomo d’affari brasiliano Joao Doria Jr.) insieme a Confindustria (dal 5 all’11 ottobre) e al quale parteciperanno 160 Ceo di imprese brasiliane.

KPMG ha, allora, monitorato, per conto della Farnesina, la presenza economica dell’Italia in Brasile, tenendo conto anche dei cosiddetti “assenti ingiustificati” (cioè aziende che, pur non essendoci, potrebbero trarre esclusivamente beneficio da una presenza massiccia nel territorio) e realizzando un e-book che verrà presentato nel corso dell’appuntamento romano. Qualche anticipazione: si contano attualmente quasi 600 aziende italiane in quel territorio, un terzo delle quali comprendono veri e propri impianti produttivi, mentre circa 220 sono le filiali commerciali. La maggior parte di queste aziende (più della metà) si situa nella zona di San Paolo ed è inserita nel settore della meccanica. Quelle di piccole e medie dimensioni sono 450. I settori nei quali si è consolidata la presenza italiana sono: alimentare (con una crescita annua del 3,7%), materiali da rivestimento (crescita annuale del 5,5%), infine tessile e nautico.

Tuttavia, sottolinea Giovannini, non tutte le aziende italiane potrebbero trarre vantaggio dall’inserimento in questo nuovo mercato, poiché se, da una parte, tale vantaggio viene assicurato alle imprese operanti nel made in Italy più tradizionale, dall’altra parte, le aziende che si muovono in altri settori non devono sottovalutare la presenza di competitors troppo forti o aggressivi: “chi fa elettrodomestici no, per esempio – spiega – perché un marchio italiano non ha nessun vantaggio competitivo su Bosch o su Whirpool, e in più non gode nemmeno di un forte supporto da parte del Sistema Paese”.

Altro fattore critico è rappresentato dalla complessità del sistema fiscale brasiliano (imposte federali, statali e municipali e regole che variano da un paese all’altro); la maggiore difficoltà di inserimento in questo mercato da parte degli imprenditori stranieri è rappresentata dalle tasse e dagli ingenti dazi imposti: “in Brasile la capacità di consumo aumenta spaventosamente di giorno in giorno – prosegue Giovannini – il Governo lo sa ed è per questo tenta di favorire la crescita delle imprese nazionali proteggendole dalla concorrenza estera. In media, i dazi fanno raddoppiare il prezzo di una merce così come arriva ai confini brasiliani”.

Due sono, allora, secondo KPMG le categorie di imprese che primariamente dovrebbero entrare nel mercato brasiliano: “quelle che possono permettersi, accanto al prodotto di punta di fascia alta, una seconda linea dal prezzo più contenuto ma pur sempre con l’appeal del marchio made in Italy; e, in secondo luogo, quelle che vanno a produrre direttamente in Brasile».

La scelta migliore sarebbe l’acquisizione di un’attività già avviata, o la partnership con una società locale; a quegli investitori che, tuttavia, preferiscano partire da zero con le sole proprie forze, si consiglia di andare oltre Rio e San Paolo: «lungo la costa – conclude Giovannini – ci sono molti stati che si stanno rendendo competitivi a colpi di incentivi finanziari e fiscali. Di solito, ogni stato li riserva solo ad alcuni settori: la Bahia, per esempio, offre condizioni vantaggiose per l’auto, per la trasformazione della plastica e per la metallurgia. Tra gli stati più aggressivi segnalerei Santa Catarina, Parà, Maranhão».

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Istituito il Registro nazionale delle Imprese Storiche

Le imprese che operano nello stesso settore merceologico e ininterrottamente da più di 100 anni, possono chiedere l’iscrizione nel registro che sarà reso disponibile sul sito di Unioncamere

“Incoraggiare e premiare quelle imprese che, nel tempo, hanno trasmesso alle generazioni successive il loro patrimonio di esperienze e valori imprenditoriali”: questo lo scopo dichiarato, in una nota della Camera di Commercio di Ravenna, nell’istituzione e promozione, da parte di Unioncamere, del Registro Nazionale delle Imprese Storiche.

Il sistema camerale ha scelto, non a caso, di implementare un simile programma di valorizzazione in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, rivolgendosi, in particolare, a tutte le imprese di qualsiasi forma giuridica e operanti in qualsiasi settore economico, purché iscritte nel Registro delle imprese e attive da non meno di 100 anni, in modo ininterrotto, nell’ambito dello stesso settore merceologico. Si precisa poi che tale requisito temporale viene maturato al 31 dicembre di ciascun anno.

Le imprese che soddisfino i requisiti appena elencati e che siano interessate all’iscrizione al Registro nazionale – che sarà reso disponibile sul sito istituzionale di Unioncamere – devono presentare, alla Camera della provincia in cui hanno sede legale, la domanda d’iscrizione, utilizzando l’apposita modulistica, disponibile sul sito web della Camera di Commercio www.ra.camcom.it o presso l’ufficio Promozione e comunicazione della stessa Camera (Viale Farini 14, dal lunedì al venerdì dalle 8:30 alle 12:00).

Le domande dovranno essere presentate direttamente (o inviate a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento) a tale ufficio, oppure potranno essere inviate dalla casella di posta elettronica certificata dell’impresa alla casella protocollo@ra.legalmail.camcom.it.

Si sottolinea, inoltre, che tali domande potranno essere inviate entro e non oltre il 28 febbraio 2011 (per le raccomandate farà fede il timbro postale).

L’iscrizione, completamente gratuita, comporta l’invio, assieme al modulo, di una “breve relazione sulla vita dell’azienda dalla costituzione ad oggi, dalla quale si evinca, in particolare, la continuità storica dell’impresa”; di “copia della documentazione storica utile a dimostrare la data di avvio dell’attività o della costituzione, qualora queste non coincidano con quelle risultanti dalla visura camerale”; infine di “eventuale copia di pubblicazioni e/o documentazione storica, sulle origini e sulla storia dell’impresa”. Qualsiasi ulteriore materiale documentale di tipo storico o di rilevanza artistica (fotografie, disegni, rappresentazioni grafiche di marchi…) sarà considerato particolarmente importante ai fini dell’iscrizione.

L’iniziativa ha certo un intento prevalentemente celebrativo, ma non meno importante è, ciononostante, la sua valenza sociale nel promuovere una speciale e utilissima riflessione sui caratteri storici, culturali, politici e antropologici che denotano e connotano il sistema produttivo e imprenditoriale del nostro Paese. Un momento di approfondimento, quindi, in merito ai casi di successo del cosiddetto “made in Italy”, divenuto ormai simbolo di qualità, pregio e creatività.

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