Venture capital in Italia: un mercato dinamico e in crescita

Ecco il profilo degli investimenti early stage realizzati nel 2011: 43 nuove operazioni (+ 40% sul 2010), soprattutto in Lombardia e nel settore dell’ICT

Il processo di sviluppo economico di un Paese passa anche attraverso politiche e iniziative capaci di creare un mercato del credito sano e vivace, dove sia reso agevole il momento di incontro tra domanda e offerta. Permettere alle imprese, soprattutto a quelle piccole e medie, un adeguato accesso al credito rappresenta la base fondamentale per favorire processi di innovazione, crescita e incremento occupazionale all’interno dell’iniziativa aziendale.
Il ricorso a soggetti terzi in grado di offrire il necessario sostegno finanziario rappresenta, allora, per le imprese, un metodo efficace e a volte imprescindibile per gestire alcuni passaggi critici del proprio ciclo di vita. Il sistema bancario fatica, infatti, a finanziare, in questo preciso momento storico, attività ad alto contenuto immateriale, per questo sempre più importante diventa l’attività degli operatori di venture capital, capaci di costruire una nuova via per la ricerca di nuove opportunità di business e per la creazione di valore all’interno dell’impresa.
Recentemente il comparto del venture capital ha manifestato la propria vitalità e dinamicità, pur essendo ancora lontano da certi modelli europei, sintomo di una logica economica lontana da movimenti esclusivamente speculativi e votata piuttosto alla crescita attraverso la sperimentazione.
A confermare questa tendenza è la quarta edizione del rapporto di ricerca stilato dall’osservatorio Venture Capital Monitor (VeM) attivo presso la LIUC – Università Cattaneo di Castellanza, presentato lo scorso 16 luglio a Milano. Lo studio – realizzato in collaborazione con AIFI, Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital, con lo studio legale Bird & Bird e grazie al contributo di SICI – Sviluppo Imprese Centro Italia SGR e di Dedalus SpA – vuole rappresentare un utile strumento per l’analisi approfondita delle dinamiche che hanno interessato il mercato del venture capital nel corso del 2011.
Coloro che scelgono di compiere degli investimenti in capitale di rischio, possono farlo nella fase iniziale di creazione dell’azienda (early stage) oppure in un secondo momento (later stage), quando l’azienda è già attiva ma necessita di risorse per espandersi, o quando l’azienda si trova in fase di ristrutturazione aziendale, o è pronta a fare delle acquisizioni. Alla fase di avvio viene ricondotta l’attività propriamente detta di venture capital, mentre quelle di sviluppo e cambiamento aziendale rientrano nel segmento del private equity.
Nel report appena diffuso sono stati in particolare presi in considerazione i soli investimenti “initial” realizzati da investitori istituzionali nel capitale di rischio di matrice privata, classificabili come operazioni di early stage (seed capital e start-up). Esclusi, dunque, dalla rilevazione gli investimenti rientranti nel segmento del later stage (expansion, buy out, replacement e turnaround), oggetto di monitoraggio continuo da parte dell’Osservatorio Private Equity Monitor (PEM).
Il peso che il venture capital ha avuto sull’intero comparto del capitale di rischio italiano risulta, con riferimento al 2011, in crescita: il rapporto ci dice che sono state 43 le nuove operazioni di investimento realizzate nel segmento dell’early stage, contro le 85 operazioni evidenziate dall’osservatorio PEM nel later stage, il che significa che il segmento del venture ha rappresentato, per la prima volta dopo molti anni, oltre un terzo dell’intero mercato (43 su 128 deals totali).
Le 43 operazioni concluse nel 2011 segnano un incremento in termini assoluti di 40 punti percentuali sul 2010 (quando le operazioni realizzate erano state 31) e di oltre 100 punti percentuali sul 2009 (20 deals).
Rispetto alle 43 società target, gli investitori attivi in Italia nel 2011 sono stati complessivamente 23, per un totale di 55 investimenti: in media ciascun operatore ha quindi posto in essere 2,4 investimenti, in forte incremento rispetto agli scorsi anni.
Si è determinato di conseguenza un maggior grado di concentrazione degli investimenti, dato che il 53% degli stessi sono riconducibili ai primi 6 operatori, contro i 9 del 2010 e in linea con i 5 del 2009. Circa un quinto delle operazioni realizzate nel 2011 vede, inoltre, la contemporanea partecipazione di due o più investitori nella medesima società target.
Estrema concentrazione delle operazioni anche a livello geografico: Lombardia e Toscana hanno insieme rappresentato quasi il 50% dell’intero mercato (28% la prima e 21% la seconda). Crescono gli investimenti nel Sud Italia, che arrivano ora a rappresentare il 30% del mercato, contro il 16% del 2010 e il 15% el 2009.
Si conferma la propensione dei venture capitalists ad acquisire partecipazioni significative, ma comunque di minoranza (in media la quota è del 40%). Per l’acquisto di tale partecipazione tuttavia ciascun operatore ha impiegato in media 1 milione di Euro, importo più che dimezzando l’importo del 2010 (2,7 milioni di Euro). Si fa ricondurre tale fenomeno all’aumento, rispetto al passato, degli investimenti in seed capital (quelli cioè funzionali allo sviluppo dell’idea stessa di business, prima ancora che l’azienda nasca): questi hanno riguardato 19 delle operazioni rilevate (pari al 44%), contro le 24 riconducibili alla categoria start-up (56%).
Con riferimento alla deal origination, il 2011 segna un incremento delle iniziative a carattere privato, le quali tornano – dopo un 2010 in decrescita – a rappresentare la quasi totalità del mercato (80%). Seguono gli spin-off universitari (15%) e gli spin-off di matrice corporate (5%), il cui peso è, in entrambi i casi, in calo sul 2010 (quando costituivano rispettivamente il 25% e il 10%).
Per quanto riguarda i settori d’intervento, i 2011 ha visto un nuovo rilancio per l’ICT (40%), in particolare per le iniziative legate alle web e mobile applications (soprattutto quelle riguardanti selezione e segnalazione di offerte su beni di consumo), dopo un 2010 in cui l’ICT sembrava aver perso appeal. Per contro si ridimensionano proprio quei settori predominanti del 2010, cleantech, biofarma e sanità. Il comparto dei beni industriali conquista poi il 15% del mercato, dunque il venture capital comincia a vedere nell’eccellenza manifatturiera nazionale nuove opportunità d’investimento. Seguono cleantech, bio farmaceutico e sanità (tutti con il 9%) e il terziario (7%).
Con riferimento alle dimensioni delle società target, l’ammontare di ricavi (in base all’ultimo bilancio disponibile) risulta pari a circa 1,5 milioni di euro, inferiori rispetto ai 2 milioni di euro del 2010. Il numero di dipendenti delle aziende target è in media pari a 11. Le società target hanno in media all’attivo 2 anni di operatività prima che l’investitore decida di compiere il suo ingresso nella compagine azionaria (il doppio rispetto al passato).
Il report passa infine ad esaminare le caratteristiche legali delle operazioni di investimento realizzate nel 2011.
Con riferimento alla forma giuridica delle società target, prevalgono le srl (56%), seguite dalle spa (42%). Gli investitori hanno sottoscritto in prevalenza partecipazioni dotate di particolari diritti statutari: le azioni di categoria speciale (in caso di investimenti in società per azioni) o le quote dotate di particolari diritti (in caso di investimenti in società a responsabilità limitata) sono state lo strumento finanziario maggiormente utilizzato (72%). Limitato, invece, il ricorso a strumenti finanziari diversi dalle azioni o dalle quote, quali le obbligazioni convertibili o i finanziamenti convertibili in capitale (7%).
Quasi tutti gli statuti esaminati prevedono alcune protezioni a favore dell’investitore in merito alla governance delle società target: diritto di veto su alcune delibere di carattere straordinario da parte dei soci (quali, modifiche statutarie, operazioni sul capitale, distribuzione di dividendi, nomina degli organi sociali) o del consiglio di amministrazione (approvazione di budget e business plan, attribuzione di deleghe agli amministratori, assunzione e remunerazione di dirigenti, acquisto o cessione di asset aziendali, assunzione di finanziamenti); diritto di nominare uno o più componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale; diritto di ricevere un’informativa periodica sulla situazione patrimoniale, finanziaria e di business della target; infine protezione dagli effetti diluitivi sulla propria partecipazione, in caso di successivi aumenti di capitale effettuati ad un valore inferiore a quello sottoscritto dall’investitore (c.d. antidilution).
Oltre la metà degli statuti prevede il diritto di prelazione per limitare il trasferimento delle partecipazioni detenute dai soci diversi dall’investitore. Frequente è anche l’imposizione di un divieto assoluto al trasferimento per un determinato periodo di tempo (di solito, 2 anni per le quote di società a responsabilità limitata e 5 anni nel caso di società per azioni) e del divieto a costituire vincoli sulle partecipazioni (esempio pegni). In alcuni casi il trasferimento delle partecipazioni deve superare il preventivo gradimento dei soci o degli organi sociali.
Le eventuali controversie vengono disciplinate dagli statuti attraverso il ricorso alla clausola compromissoria che delega la competenza delle stesse a un collegio arbitrale o ad un arbitro unico (nel 71% dei casi) piuttosto che al Tribunale del luogo in cui la società ha sede (29%).
Con riferimento infine alla disciplina dell’exit, due sono le clausole maggiormente presenti negli statuti delle società target. In primis si prevede la co-vendita cioè il diritto per l’investitore di partecipare alla vendita nel caso in cui gli altri soci decidano cedere la propria partecipazione (c.d. tag-along) oppure il diritto di obbligare gli altri soci a vendere la loro partecipazione ad un terzo individuato dall’investitore (c.d. drag along). Molto usata anche la liquidation preference, cioè il diritto riservato all’investitore di ricevere, in forma prioritaria rispetto agli altri soci, un importo pari almeno a quanto investito, in caso di liquidazione o cessione a terzi della target.
Il settore del venture capital rappresenta, in conclusione, una risorsa fondamentale per intraprendere la via della crescita. L’attività del venture capitalist non si esaurisce nel semplice apporto di risorse finanziarie, ma egli mette a disposizione dell’azione aziendale anche il proprio know how manageriale, i propri contatti, le proprie collaborazioni e il proprio prestigio, con ricadute positive anche in termini di immagine per l’azienda target. Il mercato italiano di riferimento presenta ancora grandi potenzialità, “il cui pieno sfruttamento” – sottolinea Innocenzo Cipolletta Presidente di AIFI – “dipenderà, da una parte, dalle capacità degli stessi soggetti che ne compongono l’offerta e la domanda e, dall’altra, dal quadro istituzionale e giuridico che il nostro ordinamento riuscirà a predisporre”.
Pubblicato su: PMI-dome
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Il mercato italiano della sicurezza ICT

Hacktivism rivolto a siti governativi, questa la tendenza principale, in una situazione di generale impennata nel numero di attacchi alla sicurezza digitale

L’innovazione tecnologica, in sempre più rapida ascesa, ha portato allo sviluppo di modelli produttivi e di consumo completamente rinnovati, i quali hanno inevitabilmente e radicalmente modificato le nostre vite in qualità di impiegati, imprenditori, semplici cittadini. Nuove prassi, nuovi Know how, nuove tendenze e abitudini, per un processo di trasformazione che deve essere in primis compreso e, cosa ancor più importante, difeso in ogni suo aspetto.

Proprio allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica circa la necessità di “rendere l’ICT più sicura” e “combattere l’illegalita?”, il CLUSIT (Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica) ha di recente pubblicato il Rapporto 2012 sullo stato della sicurezza delle informazioni e dei sistemi in Italia. Si tratta di un tema che, sostiene Danilo Bruschi, Presidente onorario CLUSIT, “sembra dimenticato dai media e, fatto molto più grave, dai decision maker”, nonostante il fenomeno stia “dilagando in termini di severità delle forme di attacco e di dimensioni”.

Ad essere stata delineata è, in particolare, “una realtà paese che nel panorama delle società occidentali risulta essere tra le più arretrate in termini di consapevolezza e pratiche di gestione del rischio informatico”, anche se questo sembra essere dovuto, in parte, al generale ritardo italiano in materia di innovazione e tecnologie ICT.

Eppure, sottolineano i promotori, non esiste, né a livello internazionale né locale, alcun settore strategico che possa dirsi esente da problematiche legate alla sicurezza dei dispositivi informatici. Nel corso dell’anno appena trascorso e dei primi due mesi del 2012, gravissime sono state la quantità e la gravità degli attacchi e degli incidenti informatici registrati. Le stime relative ai ricavi diretti del computer crime market parlano, a livello mondiale, di un valore che va dai 7 ai 10-12 miliardi di dollari all’anno.

Il Rapport CLUSIT ha inteso, allora, sottolinea Gigi Tagliapietra, Presidente CLUSIT, offrire “un importante contributo per assicurare che lo sviluppo della rete, a cui tutti guardano come condizione essenziale alla crescita, possa poggiare su basi sicure, che ne garantiscano la continuità operativa, la qualità e la effettiva fruizione da parte di istituzioni, imprese e cittadini”.

In un contesto di generale aumento degli attacchi informatici, è stato possibile delineare una sorta di quadro relativo alla distribuzione e tipologia degli stessi in Italia, nel periodo compreso tra febbraio 2011 e marzo 2012. A far la parte del protagonista è stato il cosiddetto “attivismo informatico” (hacktivism), alla base di ben 78 attacchi sugli 82 complessivamente rilevati; i restanti quattro sono riconducibili, invece, al Cyber Crime (3 casi) ed al Cyber Espionage.

Con riferimento alla vittima dell’attacco, si nota che nell’oltre 45% dei casi essa è coincisa con siti governativi o di associazioni a carattere politico, in linea, dunque, con la matrice prevalentemente hacktivista. A deludere particolarmente è, poi, il secondo posto tra gli obiettivi, occupato dai siti delle Università; in termini numerici, gli attacchi sono stati solo due, tuttavia è bene sottolineare come, nel solo caso rivendicato il 6 luglio, fossero ben 18 gli Atenei contemporaneamente colpiti. Indipendentemente dalla natura più o meno dimostrativa di tali attacchi e dalla scarsa rilevanza di alcune informazioni trafugate, tale dato esprime l’arretratezza italiana, poiché sono state colpite intimamente delle istituzioni di fondamentale importanza per il nostro paese, prime depositarie della conoscenza necessaria ad una gestione sicura del patrimonio informatico.

L’industria dell’intrattenimento segue, poi, a distanza, nella classifica delle vittime, anche se essa occupa la prima posizione rispetto a tutte le altre categorie; questo soprattutto a causa delle azioni commesse nel gennaio del 2012, sulla scia delle proteste relative al tentativo di far approvare le leggi SOPA/PIPA e alla chiusura di MegaUpload ad opera dell’FBI.

Analizzando il trend annuale degli attacchi, ci si accorge di come esso risenta dell’influenza di fattori esterni: la prima parte del 2011 è stata caratterizzata da azioni di hacktivism legate alla protesta per l’intervento italiano in Libia, contro grandi aziende strategiche e della difesa nazionale. Successivamente, nel periodo maggio-agosto 2011 è stato forte l’impatto emotivo del collettivo LulzSec, che anche qui in Italia ha raccolto proseliti e tentativi di imitazione. Nell’ultima parte del 2011 gli attacchi si sono notevolmente ridotti, per poi riprendere con nuovo vigore a inizio 2012, in corrispondenza alla protesta contro alcune proposte di legge considerate repressive della libertà di espressione in rete. Oltre alle sopracitate SOPA e PIPA, a creare malumori sono stati anche l’ACTA – l’accordo sottoscritto da 22 membri dell’Unione europea e volto a contrastare la contraffazione e la pirateria informatica – e la proposta di legge Fava (declinazione italiana dell’ACTA, poi bocciata alla Camera l’1 febbraio); obiettivi degli attacchi sono stati, in questo caso, quelle organizzazioni considerate depositarie di un ormai obsoleto modello di copyright (SIAE, copyright.it, ministero della Giustizia).

Tra le cause alla base dell’impennata di attacchi nell’ultimo anno, vi sono sicuramente la fruizione, sempre più massiccia, di servizi online tramite dispositivi mobile (un trend inarrestabile, dato che si stima che a fine 2012 il numero di tali dispositivi supererà quello degli abitati del pianeta) e il numero sempre maggiore di utenti connessi ai Social Network, Twitter in particolare (2 milioni i profili a fine 2011), poiché usato primariamente per dare comunicazione dell’esecuzione di un attacco e, nel caso dell’hacktivism, per lo stesso reclutamento di seguaci.

Nonostante tecnologia e normativa vigente spingano sempre più verso una piena convergenza tra identità reale e virtuale, pare che solo il 2% degli utenti web italiani abbia piena consapevolezza dei rischi che certe loro azioni sulla rete possono avere e possieda delle conoscenze adeguate ad attivare processi di protezione, questo stando ad una statistica rilasciata in occasione del Safer Internet Day, lo scorso 7 febbraio. Una simile mancanza di consapevolezza si paga, non solo in termini metaforici, ma anche reali: il cybercrime farebbe sparire dalle tasche degli italiani circa 6,7 miliardi di euro ogni anno (6,1 miliardi per il solo valore del tempo perso dalle vittime per rimediare all’accaduto, 600 milioni per i costi diretti).

Il rapporto CLUSIT ha scelto, poi, di analizzare il mercato italiano della sicurezza ICT, attraverso i risultati di una survey, basata su un campione di 142 aziende italiane di ogni dimensione, delle quali 77 offrono prodotti e servizi ICT (vendors) e 65 utilizzano, invece, tali prodotti e servizi (users).

Innanzitutto un dato incoraggiante emerge dalle dichiarazioni del campione analizzato: il mercato della ICT security sembra destinato a crescere, con un +5% sugli investimenti del 2012 rispetto a quelli del 2011. Se nel 2011 le aziende che hanno aumentato gli investimenti sono state il 19%, nel 2012 esse salgono di ben 5 punti percentuali, arrivando al 24%. Aumentano anche le previsioni di investimenti invariati (dal 68% del 2011 al 70% del 2012), mentre calano, di conseguenza, le ipotesi di riduzione degli investimenti (dal 13% al 6%).

Tra vendors e imprese utenti si riscontrano notevoli divergenze di vedute, dovute in parte al ruolo economico che essi ricoprono (offerta da un lato e domanda dall’altro), in parte ad una concreta diversità  nell’approccio strategico.
Con riferimento alle priorità emergenti nel mercato, secondo i vendors le principali sarebbero la security sui dispositivi personali (tablet, smartphone, pc desk e portatili) e la security nel cloud computing; essi focalizzano, cioè, la loro attenzione in primis sull’evoluzione tecnologica e sulla conseguente riorganizzazione dei processi aziendali.

Per gli Users, invece, l’area di maggiore interesse coincide con l’IT Service management security, vale a dire con i processi di gestione della sicurezza: in questo essi sembrano maggiormente orientati al presente, piuttosto che al futuro.
Se per i vendors la cloud security si piazza al secondo posto, per gli utenti essa occupa la penultima posizione, appena prima di standard e metodologie. La causa va, forse, individuata nel cambiamento organizzativo radicale che la nuova tecnologia impone e che molte aziende non sono, in questa fase economica delicata, disposte a fare.
Anche nei criteri di selezione dei vendors si esprime un punto di vista diverso tra domanda e offerta. Secondo le aziende utenti, la principale caratteristica che deve avere un fornitore per essere scelto è l’affidabilità: storie di successo alle spalle, durata di permanenza sul mercato, solidità finanziaria sono preferibili alla maggiore qualità di servizio e, ancor più, alla maggior convenienza (l’economicità della proposta è solo al terzo posto, al pari di competenza e certificazioni, date ormai per assodate e per questo non ritenute prioritarie).

Opposta la visione dei vendors stessi, i quali vedono proprio nell’economicità il principale criterio di scelta nella fornitura. La qualità per loro è solo al terzo posto, dopo l’affidabilità. Ultima posizione, anche in questo caso, per competenze e certificazioni. Sbagliano, dunque, quei vendors che puntano, nella propria campagna di promozione commerciale, sull’enfatizzazione dell’economicità della propria proposta.

“Riteniamo – dichiarano i promotori del rapporto – che non si sia ancora raggiunta quella consapevolezza che imporrebbe un forte cambiamento nelle scelte di investimento in sicurezza ICT”.

Questo è tanto più vero se si considera che vendors e users nel 2011 hanno mantenuto invariato (61%) o addirittura ridotto (23%) il numero del personale addetto alla security, mentre solo il 16% ha aumentato le risorse. Tale scenario pare, inoltre, destinato, nel corso del 2012, a rimanere abbastanza stabile: la percentuale di aziende che non intendono modificare il numero di addetti salirà al 79%, quelle che prevedono di assumere nuovo personale scendono di un punto (15%), tuttavia diminuiscono al 6% le aziende che ridurranno gli investimenti.

Quali sono, infine, le figure più ricercate nel mercato della sicurezza ICT e quali sono i requisiti professionali maggiormente richiesti?

Le aziende utenti cercano soprattutto figure consulenziali, security auditor, analisti, mentre per i vendors le figure più appetibili sono quelle con competenze tecniche (sviluppatori, amministratori, progettisti). Meno rilevante è, invece, la richiesta di figure di supporto alla gestione, di project e program manager, di advisor.

Tra i requisiti più richiesti dalle aziende al nuovo personale assunto, users e vendors sono concordi nel ritenere che le certificazioni rilasciate da organismi neutrali abbiano un valore più elevato rispetto a 5 anni di esperienza nel settore, caratteristica, quest’ultima, che comunque conquista il secondo posto. Tuttavia per le aziende utenti il possesso di una laurea rappresenta un requisito più importante rispetto alle certificazioni rilasciate da un vendor o ad una esperienza almeno decennale. Per i vendors, invece, è più apprezzabile avere una certificazione rilasciata da altri vendors, mentre si collocano sullo stesso piano laurea ed esperienza almeno decennale.

Smart Cities, le sfide poste dalle “città intelligenti”

Nel corso dello Smau 2011, una serie di incontri e dibattiti dedicati alle Smart Cities impongono un momento di riflessione

Non molti giorni fa la mia attenzione si era soffermata su un video realizzato dalla Bit Editor Srl nel quale si dava voce e animazione ad una notizia relativa alla presentazione di alcuni progetti in materia di efficienza energetica, trasporti e pianificazione, in risposta ad un avviso pubblico del comune di Milano. In quell’occasione mi ero interrogata circa l’efficacia di simili campagne comunicative, mentre le contingenze attuali mi spingono a riflettere sul contenuto specifico veicolato da quella notizia: si è chiusa, infatti, lo scorso venerdì l’edizione 2011 di SMAU, l’evento fieristico milanese dedicato all’Information & Communications Technology, nel corso della quale è stata ospitata una due giorni (giovedì 20 e venerdì 21 ottobre) di laboratori e convegni dedicati al tema delle città cosiddette “intelligenti”, inaugurata da un convegno titolato “Smart Cities nel contesto italiano: le novità e riferimenti normativi europei e italiani, lefonti di finanziamento, le potenzialità di partnership pubblico/private”.

Con il termine “città intelligente” (o “smart city”) si intende un ambiente urbano nel quale sia possibile garantire uno sviluppo economico sostenibile, equilibrato e bilanciato con la domanda di benessere proveniente dalle persone che vi abitano; un ambiente in cui le tecnologie più avanzate strutturano infrastrutture di comunicazione, servizi e applicazioni di avanguardia, allo scopo di semplificare la vita dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni; un  ambiente alla ricerca di soluzioni avanzate nella gestione della mobilità e che punti all’efficienza energetica; un ambiente, in definitiva, interconnesso, sostenibile, confortevole, attraente e sicuro.

I progetti presentati nel video cui si faceva inizialmente riferimento, si inseriscono, allora, nell’iniziativa “Smart Cities and Communities”, promossa dalla Commissione europea e lanciata ufficialmente nel corso di una conferenza tenutasi il 21 giugno scorso a Bruxelles; essa prevede un programma di supporto (si è parlato di un primo finanziamento pari a 80 milioni di euro) rivolto ad un numero limitato e selezionato di città europee che abbiano presentato progetti di sviluppo innovativo, allo scopo di rendere le città del vecchio continente più sostenibili, efficienti, tecnologicamente e socialmente avanzate. In quell’occasione, il commissario europeo per l’Energia, Günther Oettinger, aveva sottolineato come le città abbiano un ruolo fondamentale “per gli obiettivi Ue sul risparmio energetico del 20% entro il 2020 e per lo sviluppo di un’economia a basse emissioni di carbonio entro il 2050, perché il 70% dell’energia dell’Unione viene consumata nelle città. Le città hanno inoltre un enorme potenziale per il risparmio energetico attraverso l’integrazione di tecnologie per favorire un uso efficiente delle risorse”.

Molte città italiane, tra cui appunto Milano (ma anche Bari, Torino Genova, Palermo e Catania e l’intera Sardegna), hanno già presentato la propria candidatura, proponendo investimenti indirizzati al patrimonio edilizio, all’efficacia energetica, alla pianificazione, al trasporto pubblico; sono numerose, quindi, le iniziative di ricerca, sperimentazione e dimostrazione poste in essere in tal senso, anche se non mancano i consueti ideologi del sospetto, i quali mantengono alcune remore circa l’efficacia di tali iniziative, essendo ancora difficile “capire se l’espressione ‘città intelligenti’ si connoterà davvero di nuova materia grigia foriera di soluzioni che coniugano ecologia ed economia, e non piuttosto della mistificazione finanziaria (un benedetto canale di fondi) per le magre casse comunali”.

Al di là dei legittimi sospetti, gli sforzi orientati in una questa direzione rappresentano sicuramente il presupposto fondamentale per l’elaborazione di una reale evoluzione urbana, dall’economia, al turismo, alla socialità, fino alla cultura stessa.

Una conseguenza diretta sarà, poi, la crescita del mercato delle tecnologie che alimentano i programmi di evoluzione in città intelligenti: pare che esso supererà in tutto il mondo i 39 miliardi di dollari nel 2016, contro gli 8 miliardi registrati nel 2010, mentre le città spenderanno complessivamente, in questi cinque anni, 116 miliardi di dollari per sostenere la propria trasformazione. Le stime appartengono ad Abi research, che ha esaminato 50 progetti in tutto il mondo, indagando, in particolare, le tecnologie più utilizzate per rendere una città “intelligente”, in modo da poter azzardare delle previsioni circa le possibili destinazioni dei soldi che verranno investiti. Le caratteristiche comuni a tutte i progetti sembrano essere: un’infrastruttura di rete, delle tecnologie Ict pensate per incrementare il benessere dei cittadini e la competitività delle imprese, l’innovazione, una pianificazione dello sviluppo urbano e regionale, l’attenzione alla sostenibilità sociale e ambientale (attraverso la partecipazione reale dei cittadini alla vita della città). Tuttavia, come aveva sottolineato Larry Fisher, practice director di Abi Research, nel presentare i risultati, i progetti variano molto da città a città e non esiste, dunque, un modello o un approccio unico di riferimento da applicare anche in contesti diversi: “nel lungo termine, l’adozione di standard aperti sarà di importanza fondamentale per le tecnologie che dovranno far funzionare e promuovere lo sviluppo delle Smart cities in tutto il mondo”.

Punto di partenza ideale per la ricerca di un comune denominatore tra i soggetti implicati nel processo, è stato allora, con riferimento al contesto italiano, lo Smau 2011. Svoltosi dal 19 al 21 ottobre a Fieramilanocity, esso rappresenta un “luogo privilegiato di incontro tra fornitori di soluzioni ICT e imprese e pubbliche amministrazioni che le utilizzano” e, nello specifico, la manifestazione dedicata al tema delle Smart Cities, sulla quale vorrei in questa sede soffermarmi, ha permesso ai Sindaci di alcuni Comuni italiani di far conoscere al pubblico la propria esperienza sul tema, i percorsi delineati e i programmi futuri; allo stesso tempo le aziende fornitrici di ICT hanno inteso illustrare le molteplici soluzioni e applicazioni messe a disposizione dallo sviluppo tecnologico, proponendosi come promotrici dell’avanguardia socio-ambientale. Tra le tematiche trattate, troviamo: l’efficienza energetica, il controllo dei consumi, l’edilizia sostenibile, la mobilità, la sicurezza pubblica, il turismo, la valorizzazione dei beni culturali e la ricerca dei finanziamenti necessari per dare avvio ai progetti. La tavola rotonda introduttiva – moderata da Giancarlo Capitani, Professore di Digital Cities & Urban Planning presso il Politecnico di Milano e Presidente di Net Consulting – si è aperta con l’intervento di Pierantonio Macola, Amministratore Delegato Smau, secondo il quale il tema delle Smart Cities “sta sempre più maturando presso gli amministratori locali italiani che intravedono, nell’utilizzo delle tecnologie, un’opportunità per gestire in modo efficiente i servizi al cittadino e, al tempo stesso, operare risparmi di costo destinati a durare nel tempo”; egli ha presentato l’Osservatorio Smau-Anci, realizzato, appunto, in collaborazione con l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, con l’obiettivo di “innescare un vero e proprio cambiamento culturale alla ricerca della ‘via italiana all’innovazione’”, cercando di promuovere “le eccellenze che l’Italia può offrire in questo settore” e facilitando il processo di rinnovamento attraverso “approcci adeguati per lo sviluppo di partnership pubblico-private tarate sulle esigenze dei comuni”.

Parlando per conto dell’Anci, è intervenuto, allora, Alessandro Cattaneo (Sindaco di Pavia), il quale ha cercato di affrontare il tema dal punto di vista delle amministrazioni pubbliche: “i sindaci dell’Associazione cercano costantemente di capire come dare risposta all’equazione solo apparentemente irrisolvibile di riuscire a offrire sempre più servizi con qualità maggiore e costi più ridotti”. Secondo Cattaneo la sfida maggiore e “non più rinviabile” che si pone per le P.A. sarebbe di ordine culturale più che tecnologico, poiché “esiste ancora una certa ritrosia” al pieno utilizzo delle tecnologie necessarie ad affrontare il cambiamento. “Guardare a eventi come questo, che uniscono allo stesso tavolo soggetti pubblici e privati, può configurarsi davvero come un primo banco di prova per apprendere quelle best practice che possono traghettare un progetto pilota fino a raggiungere una più vasta scala”, ha concluso.

Pier Francesco Maran, assessore alla Mobilità, Ambiente e Arredo urbano del comune di Milano, ha sottolineato come “gli investimenti in Smart City non sono […] solo spese ma modi per produrre risparmi che poi rientrano, che si tratti di energia o di rifiuti”; “se i problemi prima venivano impostati solo in ragione della buona volontà oggi esistono soluzioni tecnologiche su misura” e, affinché tali soluzioni si dimostrino efficaci ai fini dello sviluppo   “l’importante è saper declinare le potenzialità offerte dell’innovazione e riuscire ad andare oltre le singole esperienze di eccellenza lavorando in sinergia con altre realtà”.
Capitani, riportando delle stime, ha affermato che “nel 2025 le prime 1000 città del mondo contribuiranno da sole alla crescita di quasi il 70% del PIL mondiale. Questo significa che non si limiteranno solo ad aggregare popolazione ma anche i processi innovativi, diventando primo motore di sviluppo sociale”. Egli ha, allora, evidenziato come in Europa sia in atto “una presa di coscienza nelle trasformazioni delle città in ‘Smart Cities’”, i cui principali ambiti di intervento sono: Sustainable Living, Smart Economy, Smart Mobility, Smart Governance, Smart technologies Sustainable Environment e Smart People/Smart Tourist”. Il contesto italiano sarebbe, tuttavia, caratterizzato da una forte eterogeneità di progetti, non inquadrati in un coordinamento nazionale, i quali richiederebbero “un adeguato piano strategico, una roadmap che individui tempi e modalità di realizzazione e soprattutto una buonaGovernance, ovvero aver ben presente chi possiede le competenze e i poteri per realizzare detti piani”; Capitani arriva, infine, a suddividere i comuni in tre categorie – Anticipatori, Emergenti e Potenziali – in relazione alla loro capacità di candidarsi ad essere città “intelligenti”.

La parola è stata, poi, lasciata ai sindaci di diverse realtà italiane: riportando l’esperienza della propria città, Genova, il sindaco Marta Vincenzi ha parlato di una “necessità” sentita con riferimento alla conversione in una Smart City, “a partire dal nuovo piano urbanistico e dal piano strategico”, auspicando una risoluzione delle conflittualità, l’intensificazione dei rapporti e della rete infrastrutturale e di riuscire, infine, a far emergere il potenziale finora inespresso della popolazione più vecchia. Secondo Michele Emiliano, sindaco di Bari, “aver azzardato una sfida così grande per un sindaco del Sud può sembrare una velleità”, eppure “sono tante le iniziative che abbiamo messo in atto, tra cui il primo piano strategico dell’area metropolitana, l’avvio della pianificazione strategica e il documento preliminare del piano urbanistico generale, con occhi sempre attenti alla sostenibilità ambientale e di bilancio”. Flavio Zanonato, sindaco di Padova, ha presentato i progetti attivati per “la creazione di lavoro qualificato” e per “migliorare la viabilità e il sistema dei trasporti pubblici”; e ancora: gli “investimenti sia come protagonisti che in partnership con centri ricerca, ospedali e centri congressi”, il progetto Socrate, la banda larga, la lotta all’inquinamento attraverso l’aumento del numero di parchi, i mezzi di trasporto ecologici e l’introduzione dei pannelli solari.
Sono intervenute anche alcune aziende impegnate in progetti di sviluppo di Smart Cities. Nicola Ciniero, presidente e amministratore delegato di IBM Italia, ha parlato, ad esempio, dell’importanza di “una visione non monolitica ma sistemica sulla città che veda il cittadino sempre al centro”; “nel nostro peregrinare per l’Italia – ha proseguito – abbiamo riscontrato una situazione migliore di quella che la stampa ci offre. IBM offre anche soluzioni con ritorni sugli investimenti possibili entro un anno solare ma i problemi che restano sono piuttosto legati a chi gestisce l’Agenda Digitale e alla durata dei progetti che devono avere una visione sistemica a 3-5 anni”.

David Bevilacqua, amministratore delegato di Cisco, ha parlato di un approccio sistemico e di larga scala, necessario per evitare che questo tipo di progetti si limitino a rimanere pilota: “in Italia abbiamo tante piccole eccellenze che però non si mettono mai a sistema. Grandi investimenti magari sono impossibili ma progetti con rapidi ritorni sugli investimenti no, soprattutto quando entrano in gioco le partnership tra pubblico e privato. E poi ci sono i fondi europei”; Bevilacqua ha invitato, allora, tutti i player ad “uscire dalle logiche del ‘dopodomani’ e iniziare a cambiare mentalità”, “per riuscire ad allargare il mercato anziché entrare in competizione” ed ha auspicato “un nuovo ‘umanesimo’ che rimetta l’uomo al centro per migliorare i servizi”.

Secondo Pietro Scott Jovane, amministratore delegato di Microsoft Italia, “il tema Smart City deve essere inquadrato in un sistema di priorità che porti a comprendere come la città vuole diventare fra 10-15 anni”; “una ‘Smart City’ dovrebbe interrogarsi quando prende decisioni su alcuni dei temi più importanti, come l’istruzione, la multiculturalità, l’inquinamento, il benessere. E la tecnologia, in quanto abilitatore, può essere di aiuto in questo senso, grazie anche al cloud che permette di portare tecnologia facilmente e in tempi rapidi, che si usa e si paga solo in base all’effettivo consumo”. Occorre tuttavia “che le amministrazioni capiscano l’importanza di avere una quota sempre maggiore di cittadini che sanno adoperare queste tecnologie che possono fungere da collante in società sempre più multiculturali”.

Infine Gianfilippo D’Agostino, responsabile public sector di Telecom Italia, pur non trovando che la situazione italiana sia “così indietro dal punto di vista tecnologico”, ha sottolineato come “la sostenibilità di cui si parla” debba essere “non solo ambientale ma anche economica e sociale affinché si possa parlare davvero di ‘Smart City’”.

A conclusione di questa carrellata di riflessioni, mi piacerebbe esporre il punto di vista, assolutamente condivisibile, offerto poche settimane fa da Carlo Ratti e Anthony Townsend per la rivista “Scientific American”. Stando ai due esperto, sarebbe il rapporto sociale, e non l’efficienza, “la vera killer app per le città. Anche se gli edifici più significativi sono quelli su cui basiamo la conoscenza di diverse città, nella realtà la gran parte della loro struttura fisica è stata elaborata dalle persone comuni. L’evoluzione delle città si è democratizzata, decentrata e adattata, proprio come la vita sociale ed economica”. Proprio tale evoluzione dovrebbe, allora, fungere la lezione per le Smart Cities del futuro: “imponendo un disegno preordinato, gli amministratori che centralizzano la pianificazione spesso non sono in grado di costruire una città che soddisfi le esigenze dei cittadini, che ne rifletta la cultura e che crei quell’integrazione di attività che caratterizza i grandi luoghi”; inoltre “le visioni top-down finiscono per ignorare l’enorme potenziale innovativo che proviene dalle persone”, poiché “annullano le capacità di inventare nuove idee per migliorare le città” e forniscono solamente “soluzioni preconfezionate piuttosto che materiali grezzi con cui costruire il tessuto fisico e sociale delle ‘città intelligenti’”.

I due arrivano, infine, ad auspicare “nuovi approcci all’efficienza”, che non si focalizzino, cioè, unicamente sull’efficienza – finendo per “ignorare le finalità civiche come la coesione sociale, la qualità della vita, la democrazia e il primato della legge” – ma che puntino a “migliorare la socialità mediante la tecnologia”.

 

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Italia digitale tesa tra decrescita e opportunità emergenti

Il Rapporto Assinform 2011 delude le previsioni di crescita e delinea una situazione di reale incertezza circa il futuro del mercato ICT italiano, anche se non mancano i segnali positivi. Ecco un’analisi dettagliata

I dati emersi dal Rapporto Assinform 2011, e presentati a Milano il 20 giugno 2011 sembrano confermare un quadro di forte incertezza per il settore ICT italiano, tra delusione delle previsioni di crescita e nuove opportunità emergenti: ripercorrere i punti principali della “fotografia piuttosto dettagliata” (come l’ha definita il direttore Federico Barilli) fatta da Assinform ci aiuterà sicuramente a comprendere meglio i pregi, le carenze e le contraddizioni del nostro contesto nazionale.

Assinform è una delle associazioni più numerose di Confindustria, inquadrando oltre 500 imprese (tra dirette e territoriali), sintomo del fatto che “l’IT è un settore estremamente importante in Italia”: in particolare esso risulta il quarto per importanza, con 390 mila addetti e quasi 100 mila imprese.

Come sottolinea innanzitutto il presidente Paolo Angelucci in una delle slide di presentazione, il Rapporto Assinform, “giunto alla sua 42esima edizione”, “rappresenta un punto di riferimento consolidato ed esaustivo per l’analisi del settore ICT in Italia, a confronto con le principali economie mondiali: abbiamo cercato di dare al rapporto oltre che al classico ruolo di enumeratore dei risultati, anche un ruolo di momento di discussione sulle prospettive future”.

Il quadro del mercato italiano ICT è stato interpretato alla luce di alcuni risultati dell’andamento congiunturale: ogni tre mesi Assinform realizza una survey sui propri associati, basandosi su un campione significativo dell’industria italiana; la composizione dell’ultimo panel era di 43 aziende (su circa 180,) equamente distribuite tra piccole, medie e grandi imprese, e il mercato rappresentato da questo panel era di 4,423 miliardi di Euro: si tratta delle risposte di circa il 20% del mercato italiano, quindi una percentuale piuttosto significativa. Con riferimento a tale analisi, si è in primo luogo cercato di cogliere il confronto tra l’andamento globale degli ordini nella rilevazione di febbraio, relativa al 31 dicembre dell’anno scorso, e l’andamento della rilevazione di aprile, relativa al 31 marzo: “da una grandissima positività […], la migliore da quando è partito il panel (attualmente noi siamo alla decima rilevazione), si è passati sempre ad un un ottimismo, perché siamo passati dall’82% di aumento di ordini al 53% di aumento degli ordini”, però le imprese che giudicano come “molto migliorato” l’andamento degli ordinativi, è passata dal 64,7% al 7,3%. Quindi “mentre a dicembre c’era una grande euforia sull’andamento degli ordini, adesso a marzo si è ridimensionata”, e questo anche in relazione alle dimensioni dell’azienda: “c’è un ottimismo meno forte nelle piccole, buono nelle medie e migliore nelle grandi; però mentre a febbraio il 100% delle grandi imprese prevedeva un aumento degli ordinativi, attualmente solo il 58%” lo prevede. “Non sono dati negativi – continua Angelucci – ma c’è sicuramente un ridimensionamento delle aspettative”.

L’analisi è stata estesa anche alla valutazione del sentiment sul budget e sulle previsioni di spesa dei clienti Assinform (“ciò che noi associati Assinform pensiamo che i nostri clienti siano disposti a spendere”), dividendo tale valutazione in due parti: spesa corrente e nuovi progetti o investimenti. Con riferimento alla prima parte, si nota un andamento costante da circa un anno e mezzo, nel senso che il 40% delle imprese continua a dichiarare di voler risparmiare sulla spesa corrente. Con riferimento, invece, alla seconda parte, si è toccato il massimo dell’ottimismo nel febbraio 2011, quando si pensava che il 65% dei clienti Assinform “volesse investire o spendere di più in nuovi progetti; questo dato purtroppo si è ridimensionato e siamo tornati indietro esattamente di 15 mesi”. “È come se – commenta Angelucci – il clima […] non [di] pessimismo, ma di nebulosità del futuro (sia quello economico, che quello finanziario, che quello politico), faccia sì che le imprese […] abbiano ridimensionato le prospettive di investimento”. Tutto questo con inevitabili e pesanti ripercussioni nel futuro e nella vitalità del tessuto imprenditoriale italiano.

Sono stati poi ripercorsi gli elementi fondamentali del piano digitale nazionale, dell’“Agenda digitale per l’Italia”, ricordando l’importanza della cosiddetta “Agenda UE 2020”, quella serie di “obiettivi comuni a tutta Europa, che noi dobbiamo porci”, punto di riferimento per tutti gli stati membri. Tuttavia, uno dei limiti di tali obiettivi – evidenzia Angelucci – è che essi sono quasi tutti di natura quantitativa; secondo Assinform, invece, ci si dovrebbe porre anche degli obiettivi di natura qualitativa e uno dei mezzi con i quali l’associazione pensa di poter incidere in tal senso è la neonata “Confindustria digitale”: si tratta di una nuova Federazione ICT, creata da quattro associazioni (Assotelecomunicazioni-Asstel, Anitec, Aiip e Assinform) con l’appoggio di Confindustria e “chiamata a elaborare e proporre un progetto di digitalizzazione del Paese”, portando all’attenzione di tutti gli stakeholder, sia quelli centrali sia quelli periferici, i diversi problemi e le numerose opportunità che derivano dall’adozione di un’agenda digitale.

Si è posto, inoltre, l’accento sulla diffusione definita “carsica” dell’ICT nel Paese, intendendo, con tale definizione, il fatto che imprese, pubbliche amministrazioni e cittadini hanno adottato in modo pervasivo e spontaneo le tecnologie ICT.
Sulla base degli elementi sin d’ora rilevati, Angelucci si è interrogato sulle strade da percorrere, giungendo alla conclusione che sia necessario innanzitutto assumere la consapevolezza della situazione e dell’uso delle tecnologie e subito dopo passare all’azione concreta, dando delle regole ben precise. In particolare, tre sono i filoni di interventi necessario, diretti al raggiungimento di tre specifici obiettivi.

Il primo riguarda l’efficienza dei servizi pubblici, il che significa: servizi condivisi e cooperazione applicativa tra le PA, accesso semplificato ai servizi (anche a pagamento), attivare un processo di switch-off (cioè di passaggio “forzato” ai servizi on-line) per le imprese e per i cittadini, che riduca  drasticamente il cartaceo; semplificazione, digitalizzazione e sburocratizzazione sono le tre parole d’ordine.

Il secondo obiettivo è rappresentato dall’innovazione nelle imprese: Assinform chiede “che venga rafforzato il concetto di utilizzo del credito d’imposta come misura coerente e costante, perché il credito d’imposta automatico è l’unica cosa che ci consente di rispettare i tempi dell’innovazione”. L’associazione, dal canto suo, deve “avere più stretti contatti e fare più sistema con le grandi filiere produttive” del Made in Italy (moda-tessile, alimentare, legno-arredo…), partendo dall’esperienza dei distretti e delle reti; questo perché lo sviluppo dell’economia italiana sarà legata principalmente all’expert, possibile solo attraverso un sistema di reti integrato, nel quale l’IT potrebbe fungere da “collante”. Assinform si dovrà, quindi, adoperare per attivare progetti basati sull’ICT, allo scopo di facilitare l’aggregazione per contesto produttivi tra grandi medie e piccole imprese.

Terzo e ultimo canale d’intervento coinvolge l’infrastrutturazione avanzata: la banda larga attualmente disponibile è sufficiente solamente per uso privato, per le imprese non sembra esserci abbastanza banda, soprattutto con riferimento ai distretti, dove “è indispensabile avere reti ad alta velocità, cioè reti ottiche”.

Allo scopo ottenere una reale integrazione, sarà necessario uno sforzo comune per combattere la disomogeneità nell’elaborazione e attuazione delle agende digitali da parte delle varie regioni italiane, con l’intento ultimo di giungere ad un allineamento delle agende digitali regionali all’agenda nazionale; questo sarà possibile, ovviamente, solo attraverso l’utilizzo di piani condivisi e tra loro coerenti e con lo sfruttamento delle best practices: “io credo – rivela Angleucci – che copiare in questo settore non sia mai un male, anzi un bene, e possibilmente […] copiare migliorando”.

Utilizzando un’azzeccatissima metafora, Giancarlo Capitani (amministratore delegato NetConsulting, che ha illustrato nel dettaglio i risultati del rapporto Assinform) descrive la situazione attuale del mercato ICT utilizzando “l’immagine del baco da seta che diventa farfalla: […] il baco a farfalla non perde la natura del baco, ma è un’evoluzione del baco”. Mentre, tuttavia, in natura questa metamorfosi avviene in quattro giorni, nel settore considerato questo processo di cambiamento è molto più faticoso e lento: nella fase attuale si assiste al passaggio dall’ICT tradizionale, come lo conosciamo, ad un’era digitale, quindi, rimanendo nella metafora, “dalla solidità un po’ vintage del baco, alla leggerezza e alla velocità della farfalla”. Vediamo, allora, un mercato fatto “a macchie”, con punti di crescita e di rallentamento, anche se una simile disomogeneità non rappresenta una prerogativa italiana, ma rappresenta un andamento generalizzato.

Il mercato mondiale dell’ICT nel 2010 è tornato ai livelli di crescita pre-crisi, ma anche in questo caso ragioniamo “a macchie”, a diverse velocità di sviluppo, con la zona Asia-Pacifico che ha quasi raggiunto l’Europa per dimensioni del mercato ICT, grazie alla presenza, in molti Paesi, di una classe media sempre più consistente e in grado di imporre un simile indice di sviluppo. Con riferimento alla crescita in volumi, complessivamente gli acquisti di tecnologie sono stati molto massicci: nel 2010 sono stati venduti quasi 1,5 miliardi di telefoni cellulari, 300 milioni di smartphone, 340 milioni di IPC; questo si è ripercosso nell’aumento del parco utenza legato alle nuove tecnologie: 2 miliardi di utenti internet (450 milioni solo in Cina), 537 milioni di utenti per la banda larga, quasi 5,3 miliardi gli utenti di cellulari (su una popolazione di 6,5 miliardi), 500 milioni gli utenti Facebook (ca. 18 milioni in Italia), 175 milioni gli utenti Twitter (1,3 in Italia). Questo indica che “siamo entrati nella fase di digitalizzazione di massa a livello mondiale”, ricorda Capitani.

Con riferimento non tanto alla penetrazione, ma soprattutto all’uso e al consumo delle nuove tecnologie, nel 2010 ci si è trovati di fronte ad una popolazione digitale ormai dipendente da tali tecnologie, costantemente connessa e, per questo, sempre più in grado di interagire e influenzare le scelte delle pubbliche amministrazioni, delle imprese e delle banche. Per questo motivo le nuove strategie di convergenza al digitale non sono più disegnate dai grandi strateghi dell’ICT, dai vendor ICT, ma sono le stesse modalità, gli stessi stili di utilizzo innovativo che impongono una ridefinizione dell’innovazione tecnologica e della formazione dell’ecosistema digitale.

Limitando la prospettiva al solo mercato italiano, è ovvio che la realtà delineata si ridimensioni e i tassi di sviluppo si appiattiscano: nel 2010 l’andamento di crescita ha conosciuto un segno negativo, con un – 2,5% rilevato, e all’interno di tale andamento, il settore dell’IT è decresciuto dell’1,4% e quello delle TLC del 3% (rispetto al -2,3% evidenziato nel 2009). A tal proposito si rileva un fenomeno in parte nuovo, secondo il quale a pagare il prezzo della decrescita sarebbero soprattutto le TLC mobili, con un -3,2%, rispetto al -2,6% riportato dal segmento del fisso. A nulla sembra servire, allora, il recupero di quasi dieci punti percentuali da parte dell’IT (“non è stato un anno bello – ha sottolineato Angelucci – anche se è stato un forte recupero rispetto all’anno precedente che vedeva un -8 addirittura”), visto che i tassi di crescita italiana non reggono il confronto con quelli registrati dagli altri grandi Paesi del mondo (che pure, lo abbiamo detto, sono legati a logiche definite “a macchia”, dunque non uniformi).

Si registrano degli andamenti costantemente negativi, in primis per il settore dei servizi, dovuti innanzitutto alla mancanza di nuovi progetti innovativi che diano un impulso significativo alla domanda e anche al permanere del processo vizioso di down pricing delle tariffe professionali, processo che sta rendendo il nostro Paese protagonista di un fenomeno di nearshoring, tale per cui numerose aziende straniere cominciano a trovar economicamente conveniente spostare in Italia, dove i costi sono convenienti, i propri processi di produzione. Non sembra essere sufficiente, per supplire le carenze in tal senso, il miglior andamento registrato nell’ambito del software e la tenuta di quello dell’hardware (grazie anche ai nuovi tablet pc).

Accanto a quelli che Capitani ha definito dei “bachi”, troviamo – è bene sottolinearlo – pure qualche “farfalla”. Ecco allora che un andamento positivo si riscontra in quei 13 milioni di accessi a banda larga, in crescita di quasi il 7%, ma anche nel numero di Sim che, nel nostro Paese hanno superato quota 95 milioni, a fronte di 46 milioni di utenti. Gli operatori virtuali di telefonia mobile (Mvno) hanno raggiunto, poi, i 3,7 milioni di utenti, anche se l’unico interlocutore realmente importante sembra essere Poste Italiane.

Con riferimento, poi, all’ultimo trimestre del 2011, la tendenza del mercato italiano continua a deludere le aspettative, disattendendo il segno positivo, nonostante la crescita dell’economia italiana, ma in linea con l’andamento di alcuni fondamentali indicatori rilevati dall’Istat: i consumi e la spesa corrente della Pubblica amministrazione sono fermi rispettivamente allo 0,7% e allo 0,1%, con investimenti fissi lordi in crescita di un solo punto e mezzo percentuale.
Più in particolare, il settore dell’Information Technology ha subito una nuova battuta d’arresto in questo intervallo di tempo, con un -1,3% registrato (contro il -2,9% nel primo trimestre 2010). La scomposizione della domanda rivela, in realtà, andamenti diversi: cresce dello 0,4% (contro un -1,5% del 2010) la parte software, dove la componente middleware si conferma la più dinamica, poiché di supporto a iniziative di datacenter trasformation e implementazione di architetture cloud; come nel primo trimestre del 2010, la parte hardware decresce (-2,1%, contro un -2,3% del 2010), evidenziando livelli di vendite superiori al milione di pezzi per tutto il 2011 ma solo per i tablet pc. I servizi it si attestano a -1,5% (-3,8% nel 2010) e l’assistenza tecnica a -2,9% (-4,9% nel 2010).

Il calo più forte, comunque, si è registrato nel settore delle TLC, con un -4,2%.
Con riferimento alle imprese che utilizzano la banda larga, la media italiana si attesta all’83%, definendo il nostro Paese a metà nella classifica europea: più precisamente, Calabria, Sardegna, Basilicata, Puglia, Molise e Trentino, con 77%, si collocano in posizioni inferiori (affiancandosi a Rep.Ceca, Irlanda, Ungheria), mentre Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, con oltre l’86%, si collocano nella parte alta (confrontandosi con Paesi come la Germania, la Gran Bretagna e la Svezia).
Complessivamente considerata, comunque, l’Italia digitale si situa al di sotto delle medie raggiunte dai 27 paesi Ue: le Pmi che vendono online sono il 3,8%, contro la media europea del 13,4%; le imprese che acquistano online sono il 16,5%, contro 26,4%; la popolazione che usa frequentemente Internet è il 45,7%, contro 53,1%; la popolazione che usa servizi di online banking è il 17,6%, contro 36%; i cittadini che usano servizi di eGovernment sono il 17,4%, contro 31,7%; le famiglie con accesso a banda larga sono il 48,9%, contro 60,8%; le famiglie con accesso a Internet sono il 59%, contro 70,1%; la popolazione che acquista online è il 14,7%, contro 40,4%; il fatturato delle imprese attraverso eCommerce rappresenta il 5,4%, contro 13,9%.

Bisogna quindi essere ottimisti o pessimisti per il futuro? Partendo dal presupposto che l’imprenditore deve, per definizione, essere ottimista, ci dice Angelucci, l’analisi di alcuni ulteriori dati impone una riflessione sulle prospettive future.

Tali dati mostrano un Paese che, malgrado tutto “si sta strutturando”: gli accessi broadband si sono attesti nel 2010 intorno ai 13,2 milioni, con una crescita quasi del 10% in un anno; gli utenti internet mobili (6,2 milioni) sono aumentati di 44,4 punti percentuali in un anno; il numero di app medio per ogni utente smartphone è stato di 30; l’e-commerce, dove le carenze del contesto italiano sono piuttosto accentuate, è cresciuto del 14%; l’advertising del +15%; 1,3 milioni sono stati gli account su Twitter e 17,8 milioni gli utenti di Facebook, dei quali 4 miloni hanno preferito la soluzione mobile; l’anno scorso sono stati venduti circa 430.000 di tablet, mentre quest’anno tra gli 800mila e gli 1,2 milioni. Tutti questi dati sottolineano il fatto che “gli italiani sono più veloci di chi dovrebbe fare la politica industriale: noi abbiamo le infrastrutture, allora dobbiamo utilizzarle”. Il valore del cloud computing in Italia è stato stimato l’anno scorso in 130 milioni di Euro e si prevede che nel 2013 tale cifra possa salire a 410 milioni, con una crescita annuale di quasi 50 punti percentuali: “è un nuovo modo di fare informatica, è un nuovo modo di fruire, soprattutto, informatica e quindi c’è tutta un’opportunità di crescita” (Angleucci).

Si è cercato anche di capire quale percentuale della domanda ICT provenga da componenti classiche e quale da componenti innovative. Nei servizi di telecomunicazioni, la componente innovativa dal 2009 al 2010 è aumenta del 4,7%, quindi, mentre nel 2009 la componente innovativa occupava il 27,7% (pari a 9.475 milioni di Euro) della totalità dei servizi telco, nel 2010 ha raggiunto il 30% (pari a 33.070 milioni); di conseguenza, la componente cosiddetta “classica” è diminuita del 6,4% (da un valore di 24.740 milioni di Euro, ad un valore di 23.145 milioni). Il valore complessivo stimato per il settore telecomunicazioni era di 34.215 milioni nel 2009 e di 33.070 nel 2011, con una diminuzione del 3,3%. “Vuol dire che è un Paese che è pronto per fare un salto di qualità”.

Tuttavia le incertezza in merito alle previsioni sul 2011 non cadono, oscillando tra una prospettiva pessimistica ed una ottimistica: nel primo caso, di sostanziale conferma del quadro attuale, il mercato ICT continuerà a scendere di circa 4,5 punti percentuali, con il settore delle TLC in maggior spinta verso il basso (-5,8%) e il settore IT in discesa attenuata (-0,8%). Nel caso, invece, in cui l’economia nazionale migliorasse e si attivassero fruttuose politiche di innovazione, la crescita del mercato ICT si potrebbe attestare ad un -0,1%, con un -0,6% per le TLC e un +1,3% per il mercato IT.
Il problema centrale – suggerisce sapientemente Angelucci – non è tanto capire se sia meglio essere ottimisti o pessimisti nei confronti della situazione presente e futura del mercato ICT italiano: “bisogna essere semplicemente innovatori”!

 

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Imprese italiane e ICT: fotografia di una situazione in penombra

Una lettura approfondita dei dati Istat sulla diffusione dell’ICT nelle imprese italiane rivela, accanto a un’informatizzazione di base che pare raggiunta, numerose lacune e mancanze

È uno scenario all’apparenza confortante quello delineato dall’Istat in merito alla diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle imprese con almeno 10 addetti e attive nel settore industriale e dei servizi. Si parla di una diffusione di base “ampiamente consolidata”, facendo riferimento a quel 95,1% di imprese che hanno dichiarato di utilizzare il computer e a quel 93,7% di imprese che possiedono una connessione ad Internet.

Tuttavia, superando l’iniziale entusiasmo, frutto di una lettura superficiale dei dati rilevati, ci si accorge di come la situazione italiana presenti, accanto a risultati davvero positivi, anche numerose carenze e debolezze, sintomo della mancata comprensione, da parte delle imprese, circa le reali e piene potenzialità dei mezzi a loro disposizione.

Entriamo, allora, un po’ più nel dettaglio, sottolineando, innanzitutto, che lo studio in questione fa riferimento a gennaio 2010 per quanto riguarda l’uso dell’ICT, e al 2009 per quanto concerne il commercio elettronico e l’utilizzo on-line dei servizi offerti dalla Pubblica Amministrazione.

Il 77,3% delle imprese utilizza una rete aziendale per connettere i propri computer, sia essa interna (Intranet), esterna (Extranet) o una semplice rete locale (LAN). Il territorio nazionale sembra essere largamente fornito di connessione Internet, con leggeri scarti compresi tra la copertura al 95% del Nord-ovest e quella al 91,4% del Mezzogiorno; leggere sono anche le differenze di copertura rilevate con riferimento alla dimensione delle imprese: dal 93,3% delle imprese con meno di 50 addetti al 99,8% di quelle più grandi.

Imprese con almeno 10 addetti per tipologia di rete utilizzata e classe di addetti

Sempre a proposito di disponibilità delle tecnologie di base, un primo dato dovrebbe già indurre ad abbandonare i toni ottimistici: si apprende che, in media, solo il 42,6% degli addetti (quindi quattro su dieci) utilizza un supporto informatico per lo svolgimento delle proprie mansioni, una percentuale che, certo, sale a circa il 90% nel settore tecnologico, che ma che scende al 26,5% nell’ambito delle costruzioni, al 20,2% nelle attività di servizi alle imprese – quali noleggio, ricerca di personale, vigilanza – e al 12,1% nel campo dei servizi di ristorazione.

Veniamo alle modalità di accesso alla rete: l’83,1% delle imprese utilizza connessioni fisse in banda larga e l’84% delle imprese si collega a Internet tramite connessioni veloci fisse o mobili; ciò nonostante preme evidenziare come tre aziende su dieci abbiano dichiarato di utilizzare ancora una connessione meno veloce (dunque modem o Isdn), del tutto inadatta, quindi, a seguire i ritmi di lavoro aziendale, spesso piuttosto frenetici.

Modesta la diffusione nell’uso di connessioni mobile, che coinvolge il 23% delle imprese e risulta piuttosto disomogenea, strettamente legata sia alla dimensione aziendale (si passa da una percentuale di utilizzo del 19,9% per le imprese con meno di 50 addetti, ad una del 71,1% per quelle con oltre 249), sia all’attività economica svolta (ad esempio: 41,7% per le imprese di telecomunicazioni, 8,6% per i servizi di ristorazione). Sempre con riferimento al mobile, prevalgono le connessioni veloci con tecnologia di terza generazione UMTS, CDMA2000, HSDPA (18,6%) rispetto a quelle mobili non in banda larga, come GSM, GPRS, EDGE (11,6%).

Il Web rappresenta, o almeno dovrebbe rappresentare, per ciascuna azienda, uno strumento fondamentale a livello operativo e commerciale; si è cercato, allora, di capire quanto le aziende diano effettivo seguito a tale consapevolezza: pare che un buon 86,6% usufruisca della rete per accedere a servizi bancari o finanziari on-line, il 65,5% per ottenere informazioni sui mercati, il 55,3% per ottenere servizi e informazioni in formato digitale, il 50,9 per cento per acquisire servizi post-vendita. Solo il 22,6% delle imprese considera la rete per proporre progetti di formazione e istruzione del personale, evidenziando una certa diffidenza nello sfruttamento di canali alternativi a quelli tradizionalmente utilizzati in questo ambito e, di conseguenza, dimostrando una certa incapacità nell’approfittare pienamente delle numerose possibilità offerte dalla rete.

L’83,7% delle imprese utilizza la rete per usufruire dei servizi offerti on-line dalla Pubblica Amministrazione, mentre il 77,7% usufruisce di quelli di tipo non informativo (nelle imprese con almeno 50 addetti, la percentuale di imprese che utilizza i servizi on-line della PA raggiunge oltre il 95%). Un aspetto in parte negativo riguarda, tuttavia, il tipo di servizi utilizzati per la maggior parte, cioè quelli con un minor grado d’interattività: ottenere informazioni (75,6%) e scaricare moduli dai siti della PA (72,5%). Solo particolari settori (come quello ICT con il 68,6% e come i servizi di fornitura  energia e acqua con il 66,1%) sembrano essere capaci di sfruttare i canali davvero interattivi messi a disposizione dalla PA (svolgimento di procedure amministrative interamente per via elettronica, inoltro di moduli compilati via web…).

Imprese con almeno 10 addetti per tipologia di servizio pubblico on-line utilizzato nel corso del 2009 e classe di addetti

Siamo costretti ad evidenziare, inoltre, con riferimento all’intensità di utilizzo della Rete, un primo segnale del forte divario esistente tra piccole (meno di 50 addetti) e grandi (con più di 250 addetti) imprese, in questo caso nell’ordine del 30%.

Tale divario digitale emerge prepotentemente nel corso della ricerca, aggravandosi anche in relazione alla maggiore complessità della tecnologia analizzata: l’utilizzo delle reti Intranet riguarda il 21,3% delle piccole imprese, con quote crescenti all’aumentare della dimensione aziendale, fino a raggiungere il 74,4% nelle grandi unità. Allo stesso modo l’utilizzo di reti Extranet ha interessato il 15,1% delle piccole imprese e il 54,6% di quelle più grandi, mentre i sistemi operativi open source sono stati usati dal 13,9% delle piccole e dal 49,3% delle grandi imprese. Il divario persiste pure in relazione a servizi per i quali non sono necessarie particolari competenze tecniche, come la firma digitale, con percentuali di sfruttamento rispettivamente del 21,7 e del 50%.

Nel contesto digitale il primo e forse più importante biglietto da visita per l’azienda è certamente il sito web: ecco, quindi, che la ricerca arriva ad indagare anche alcuni aspetti ad esso legati. Per prima cosa pare che solo sei imprese su dieci ne possiedano uno, anche se la percentuale sale al 90% considerando le sole aziende con almeno 250 addetti. Il dato varia poi anche in relazione al territorio (65% al Nord, 60,2% al Centro, 51,1% al Sud e Isole) e al settore di riferimento: le presenze maggiori si misurano nell’ICT (80,7%), nei servizi di alloggio (96,8%) e nelle agenzie di viaggio (92,4%). La scarsità nella disponibilità di servizi complessi all’interno dei siti aziendali – quali la personalizzazione dei contenuti da parte dei fruitori (2,5%), la possibilità di progettare prodotti (4,2%) e di effettuare ordini e prenotazioni on-line (13,6%) – rivela la difficoltà nel seguire i dettami del cosiddetto Web 2.0 e la propensione a considerare il sito semplicemente come una risorsa aggiuntiva e utile all’attività quotidiana, non un punto strategico di crescita e innovazione.

Imprese con almeno 10 addetti per tipologia di servizi offerti sul sito web

Stando ancora all’indagine, il sito web rappresenterebbe, poi, lo strumento preferito utilizzato per lo scambio elettronico di informazioni con clienti e fornitori (16,4 per cento), funzionale al processo organizzativo. A tal proposito, il 63,2% delle imprese scambia elettronicamente informazioni con altre imprese in un formato che ne consente il trattamento automatico, mentre il 21,8% condivide per via elettronica informazioni con clienti e fornitori sulla gestione della filiera produttiva. Si scambiano soprattutto informazioni relative alla ricezione di fatture elettroniche (54,4%), con elevate differenziazioni settoriali.

Per quanto riguarda invece lo scambio di informazioni all’interno dell’impresa, sembra che il 40,8% delle imprese condivida automaticamente per via elettronica le informazioni relative agli ordini di vendita ricevuti in qualsiasi forma e il 33,9% quelle relative agli ordini di acquisto trasmessi.

Imprese con almeno 10 addetti che condividono al proprio interno informazioni su ordini di vendita-acquisto per tipologia di funzione aziendale con cui vengono condivise

Solo tre imprese su dieci adottano applicazioni software ERP (Enterprise Resource Planning) per la condivisione di informazioni con altre aree funzionali interne e solo il 23,4% delle imprese utilizza applicazioni di gestione del front office con riferimento alla raccolta, condivisione e analisi delle informazioni ottenute sulla clientela (CRM, Customer Relationship Management).

A commentare i dati esposti è intervenuto Paolo Angelucci, Presidente Assinform, l’associazione italiana per l’Information Technology, il quale, piuttosto ottimista, propone delle soluzioni per giungere ad una reale ottimizzazione del settore: «i dati Istat portano a diverse considerazioni. Innanzitutto, il tasso di alfabetizzazione informatica è ormai molto positivo. L’obiettivo è ora fornire dei servizi internet che siano adeguati alle esigenze delle imprese». Angelucci individua, in particolare, tre possibili poli di crescita. «Il primo riguarda la dematerializzazione dei rapporti tra le imprese e la pubblica amministrazione. Se molti strumenti sono già a disposizione, per esempio la posta elettronica certificata, occorre tuttavia che le regole esistenti vadano applicate. Come secondo punto c’è bisogno di un aumento dell’offerta di servizi e prodotti in rete, e per questo è necessario che arrivi un cambiamento culturale. Terzo punto: mi auspico un aumento dello scambio delle informazioni tra imprese in rete, con la creazione di marketplace e di distretti virtuali di aziende. Per risolvere questa esigenza – conclude – servirebbero interventi di sistema da parte delle istituzioni, come per esempio la creazione di fondi strutturali ad hoc»

L’ottimismo di Angelucci deve, tuttavia, scontrarsi con quelli che sono, forse, i dato più negativi rilevati dall’indagine, quelli cioè relativi al commercio elettronico. Pare, infatti, che solamente il 35,9% delle imprese abbia effettuato acquisti on-line nel 2009, percentuale che sale in riferimento alle imprese di maggiore dimensione (59,1%) e a quelle del Nord-ovest (circa il 39,2%). In particolare la figura 5 evidenzia le attività economiche per le quali l’acquisto elettronico è più importante, capeggiate dalle imprese di telecomunicazioni.

Imprese con almeno 10 addetti che effettuano acquisti on-line nelle migliori prime cinque attività economiche

Ancor più bassa è la percentuale riferita alle vendite on-line realizzate dalle imprese (5%), per un valore complessivo pari al 5,4% del fatturato totale.

Le agenzie di viaggio, i servizi di alloggio e l’editoria sono tra le attività che ricorrono con maggiore frequenza alle vendite on-line, mentre il comparto della fabbricazione di autoveicoli è quello che registra la più alta percentuale di fatturato on-line (34,1%).

Imprese con almeno 10 addetti che effettuano vendite on-line nelle ”migliori” prime quattro attività economiche

 Per quanto riguarda, infine, le politiche di sicurezza Ict, l’indagine conferma come solo una minima parte delle realtà aziendali si attivi per la protezione dei dati (il 29,4% dispone di una politica di sicurezza formalmente definita e di un programma di revisione regolare), con forti differenziazioni settoriali e dimensionali (maggior incidenza nelle telecomunicazioni e nelle grandi aziende). Tra le procedure adottate, la più diffusa sembra essere l’autenticazione tramite l’utilizzo di password di tipo ‘forte’ (64%), seguita dal backup dei dati all’esterno (41,8%).

Dall’analisi riportata, complessivamente considerata, si deduce come, in realtà, siano notevoli le lacune del contesto imprenditoriale italiano in materia di ICT. Due ulteriori considerazioni finali non potranno che avvalorare tale consapevolezza.

La prima riguarda il fatto che l’indagine è stata limitata alle imprese con più di dieci dipendenti: se la si fosse estesa all’intero tessuto imprenditoriale italiano, le percentuali sarebbero, forse, molto più preoccupanti.

Valore delle vendite on-line delle imprese con almeno 10 addetti nelle “migliori” prime quattro attività economiche

La seconda considerazione riguarda, invece, il paragone con i dati resi disponibili pochi giorni fa da Eurostat, relativi all’utilizzo delle tecnologie ICT nelle imprese di tutta Europa, nello stesso arco temporale analizzato dall’Istat. Il tasso medio di penetrazione della rete Internet in Europa è del 94%, con ovvi scarti tra le grandi imprese (99%) e le piccole (ferme al 94%). Tale scarto è ancor più evidente in riferimento alle connessioni a banda larga (96% contro 83%) e alla banda larga mobile (67% contro 22%).

Certo la nostra media nazionale risulta perfettamente in linea con quella europea, ma questi dati ridimensionano inevitabilmente l’ottimismo iniziale, che avevamo detto essere proprio di una lettura superficiale dei risultati dell’indagine Istat, e impongono di valutare le reali eccellenze europee (Finlandia, prima in classifica con un tasso di penetrazione pari al 100%, Islanda, Olanda, ma anche Belgio, Germania, Slovacchia e Spagna. L’Italia si colloca al ventesimo posto). Con riferimento al commercio elettronico, poi, l’Italia risulta essere quartultima nella classifica europea relativa alla percentuale di fatturato realizzato tramite questa modalità, in testa solo a Romania, Bulgaria e Cipro.

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Confindustria: entro il 2015 superamento del Digital Devide

In occasione del “Summit 2010 – col ferro e col silicio” si è riflettuto sul rapporto tra imprese e digitalizzazione, sostenendo la necessità di un cambiamento nell’impostazione e di interventi rivolti più specificatamente al territorio

Gestire il passaggio da una situazione di Digital Divide ad una di Digital Prosperity: questo l’obiettivo dichiarato da Confindustria, in occasione del “Summit 2010 – col ferro e col silicio”, organizzato da Aib (Associazione industria bresciana) e Csmt (Centro servizi multisettoriale e tecnologico).

Stando a quanto dichiarato da Gabriele Galateri di Genola, delegato di Confindustria per le Comunicazioni e la Banda Larga, oltre che Presidente di Telecom Italia, fondamentale sarebbe «realizzare entro il 2015 il superamento del divario digitale, garantendo una copertura a 20 mega su tutto il territorio e ultrabroadband per i grandi centri urbani e le aree a forte concentrazione industriale, completando la digitalizzazione della Pa».

L’incontro, presso la sede di Aib, ha riunito rappresentanti e top manager di aziende medio-grandi, responsabili Cio delle multinazionali, vertici della Camera di commercio locale, Università di Brescia, docenti del Politecnico di Milano, come l’Amministratore delegato Cefriel Alfonso Fuggetta, Andrea Masini dell’Hec (l’Ecole des hautes études commerciales Paris). Esso è stato occasione di riflessione sulle opportunità di creazione o trasformazione del business messe a disposizione dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nella profonda convinzione che le PMI italiane possano riemergere più forti dall’attuale situazione di cosiddetta “crisi”, grazie anche – e forse soprattutto – all’uso sapiente e innovativo delle tecnologie ICT. Digitale e banda larga sono, sottolinea ancora Galateri di Genola, «strategici per la competitività del paese, con Confindustria impegnata in un progetto di sistema che si traduce in efficienza aziendale, risparmio, dematerializzazione cartacea e business».

Pare che le aziende e gli apparati decisionali italiani stiano iniziando a cogliere l’importanza strategica dei sistemi informatici, investendo risorse e sforzi lungo questo percorso di digitalizzazione; «gran parte delle nostre proposte sono state recepite nel piano del ministro Romani per l’abbattimento del digital divide e nel Piano e-gov 2012 del ministro Brunetta. Tuttavia, ad oggi, anche a causa della crisi economica, questi piani sono stati realizzati solo in parte». Il problema pare essere soprattutto di impostazione: il processo di informatizzazione viene ancora considerato esclusivamente un veicolo di innovazione, non uno strumento utile alla riorganizzazione della gestione, funzionale alla costruzione di nuovi modelli di business. Secondo Galateri di Genola ciò avverrebbe a causa della scarsa «alfabetizzazione digitale».

Conferma il professor Fuggetta: «l’ICT nelle aziende è stato considerato per molto tempo come un’insieme di strumenti per far funzionare meglio l’impresa a supporto dei metodi classici. Era utilizzato soprattutto per la gestione interna e per il sito web ma non incideva direttamente sul funzionamento dell’impresa. Oggi l’informatizzazione aziendale ha però un ruolo diverso, è entrata pesantemente in tutti gli aspetti della vita dell’impresa».

È un divario dal doppio volto, insomma, quello esistente tra chi ha accesso alle tecnologie dell’informazione e chi ne è escluso, implicando non solo carenze nel lato tecnico, ma anche in quello della consapevolezza sulle reali potenzialità. Si pensi, ad esempio, ai risparmi che deriverebbero dalla dematerializzazione dei documenti cartacei della Pa, o dall’utilizzo di fascicoli sanitari elettronici, posta elettronica certificata, firma digitale e fatturazione elettronica. «Secondo il IV rapporto della Fondazione PromoPA il costo delle pratiche burocratiche per una piccola impresa è pari al 7% del proprio fatturato» continua Gabriele Galateri. «In Europa occidentale secondo una analisi di Forrester Research, si passerà dai 68 miliardi di euro del 2009 ai 114,5 miliardi del 2014 per le vendite realizzate con commercio elettronico. E in Europa è stimato un tasso di crescita dell’11% per le vendite online». «Per ogni euro investito nel settore Ict si sviluppa un euro e 45 di Pil (dati Ocse) e gli investimenti in Ict hanno contribuito al 50% della crescita della produttività europea negli ultimi 15 anni».

Da qui la necessità di inserirsi nel flusso di una nuova coscienza gestionale, che faccia dell’ICT il proprio punto di forza: pur conservando «la personalizzazione dei codici e dei procedimenti, per non perdere specificità rispetto alla concorrenza», considera Andrea Masini, «è necessario capire che l’informatizzazione può cambiare il modello di business».

Come strategia per superare il gap digitale nelle piccole e medie imprese, Confindustria sta sviluppando, in collaborazione con Aldo Bonomi (vicepresidente per le Politiche Territoriali) un progetto per la creazione di distretti industriali e, in generale, intende rendere più forte la propria presenza sul territorio, così da poter cogliere e dare soddisfazione alle reali esigenze, anche di natura finanziaria, in capo alle aziende.

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Rapporto Asstel sulla filiera TLC/ICT: un mercato in declino

Presentato al convegno Asstel su “Le Telecomunicazioni per l’Italia” un rapporto che rivela una contrazione nel fatturato degli operatori di TLC di circa 3 miliardi, con ripercussioni su tutta la filiera

Si è tenuto mercoledì 27 ottobre a Roma il convegno Asstel (l’Associazione che rappresenta la filiera delle comunicazioni elettroniche nel sistema Confindustria) su Le Telecomunicazioni per l’Italia: occasione di confronto tra gli operatori del settore, i sindacati, il Governo, il Parlamento e le Autorità, l’incontro ha inteso approfondire le tematiche più attuali nel mondo delle telecomunicazioni e delle tecnologie ICT, per cogliere l’importanza di un loro sviluppo a beneficio dell’intero Paese.

È nell’ambito di tale convegno che sono stati presentati i risultati del primo rapporto sulla filiera TLC/ICT realizzato dalla società di analisi Analysys Mason; un rapporto che evidenzia una situazione in continuo declino, un mercato che dal 2006 continua a perdere colpi, vista la contrazione, anche nell’ultimo semestre, di oltre due punti percentuali (2,3%), rispetto allo stesso periodo del 2009. La colpa non sembra essere attribuibile alla crisi internazionale, che ha solo accentuato una contrazione di natura strutturale; a pesare sono, invece, l’inarrestabile declino del traffico voce, il ritardo nella banda larga rispetto agli altri paesi europei, il difficile equilibrio con i nuovi protagonisti del Web e l’avvento dei cosiddetti grandi attori esterni.

Entriamo un po’ più nel dettaglio, con qualche dato significativo: negli ultimi quattro anni, il fatturato degli operatori di TLC è diminuito di circa 3 miliardi, di cui 1,6 nel fisso e 1,4 nel mobile, segnando un andamento in negativo che si è ripercosso su tutta la filiera. «La penetrazione del mobile si conferma forte, con circa 10 milioni di linee in più e un tasso che sfonda il 150% – ha confermato Ciccone, Associate Partner Analysys Mason – mentre va diversamente per le linee fisse, che sono calate di 5 milioni, ponendoci agli ultimi posti in Europa con il 77% di penetrazione. Anche per la banda larga fissa le notizie non sono buone, con un timido aumento del 7,3% di accessi in più, tra il 2009 e il 2010, e un dato nazionale che supera appena il 51%».

Malgrado i prezzi tutto sommato proporzionati a quelli europei, un’offerta di servizi a banda larga che copre il territorio per l’88% e una velocità di accesso in linea con gli altri Paesi, l’Italia mostra una bassa penetrazione della banda larga fissa, che in Francia è al 76%, in Gran Bretagna al 68%, in Germania al 64% e in Spagna al 56%. La penetrazione della banda larga mobile sembra essere la più alta in Europa, ma non sufficiente a portare il livello totale (fisso più mobile, al 67%) in linea con gli altri Paesi.

Lo studio di Analysys Mason rivela, inoltre, una bassa alfabetizzazione informatica nell’uso del pc e di altri device di accesso alla rete, spesso dovuta ad uno scarso interesse per la tecnologia delle comunicazioni (25%) o ad una difficoltà oggettiva nell’utilizzo dei dispositivi elettronici (41%). Per questo motivo, probabilmente, anche i tassi di utilizzo di servizi di eGovernment, ad esempio, sono tra i più bassi in Europa, 79% contro la media Europea dell’82%.
Nonostante la diminuzione nei margini di guadagno, le imprese italiane hanno comunque continuato a puntare sulla qualità: i livelli d’investimento sono pari al 14%, ponendoci al secondo posto dopo la Gran Bretagna, mentre il costo del personale è rimasto invariato da 5 anni.

Stando al Rapporto, i punti su cui si dovrebbero concentrare le energie e le risorse sono: alfabetizzazione digitale, utilizzo di Internet, banda larga, mercato unico digitale, interoperabilità e standard, ricerca ed innovazione, inclusione digitale. Il tutto nel più breve tempo possibile, con il 50% della popolazione che tra il 2015 e il 2020 deve poter accedere alla banda larga ultraveloce, ai servizi di eCommerce e eGovernment.

«Questo convegno è la prima occasione pubblica di discussione sui temi che uniscono le aziende della filiera delle TLC – ha concluso Stefano Parisi, Presidente di Asstel – Il settore ha fatto molto per il Paese e continuerà a farlo, attraverso un mercato tra i più dinamici e concorrenziali, che ha contribuito in modo consistente alla riduzione dell’inflazione, ha attratto ingenti investimenti esteri e nazionali, assicurato un forte contributo all’erario, sviluppato un nuovo indotto di servizi in outsourcing […]. Le imprese di Tlc sono pronte a fare la loro parte con nuovi investimenti sullo sviluppo delle reti e dei nuovi servizi. Al Governo non chiediamo soldi ma l’impegno a realizzare anche in Italia l’Agenda Digitale per la modernizzazione del nostro sistema economico».

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I giorni dell’ICT

Un doppio appuntamento dedicato all’utenza business del Sud Italia, che intende riflettere su alcune tematiche fondamentali dell’Information & Communication Technology

Sicurezza ICT, Virtualizzazione e VoIP: 3 tematiche, 2 giorni di convegno, 1 area espositiva.

Sono queste le parole chiave con le quali è stato presentato l’evento patrocinato dalla Regione Sicilia che intende trattare ed approfondire alcune tematiche fondamentali dell’Information & Communication Technology, “indispensabili per un ottimale utilizzo delle risorse tecnologiche aziendali”. I prossimi 6 e 7 ottobre l’Astoria Palace Hotel di Via Monte Pellegrino a Palermo sarà, infatti, teatro di una serie di interventi espositivi e comunicativi ad opera di aziende leader ed esperti del settore, con interessanti sessioni demo.

Ad ingresso libero (previa registrazione), quello in oggetto rappresenta il primo di un “consolidato doppio appuntamento dedicato all’utenza business delle regioni Puglia e Sicilia, che si estende in tutta l’area del Sud Italia”, denominato dai suoi promotori (Soiel International in collaborazione con office automation) “I Giorni dell’ICT”.
Dopo Palermo, la seconda tappa del progetto sarà Bari, “capoluogo dinamico e aperto all’innovazione tecnologica”, più precisamente presso lo Sheraton Hotel di Via Cardinale A. Ciasca, il 16 e 17 novembre.

I destinatari ai quali si è cercato di rivolgersi sono, in primo luogo, i responsabili di telecomunicazioni e networking, i direttori dei sistemi informativi e i responsabili sicurezza di aziende pubbliche e private. L’iniziativa potrebbe essere, poi, di forte interesse anche per qualsiasi figura tecnico-commerciale, per gli installatori telefonici ed elettrici, per i system integrator e, infine, per l’utenza finale.

Entrando un po’ più nel dettaglio, possiamo dire che ciascun evento sarà “strutturato in un convegno a sessione plenaria affiancato da un’area demo nella quale si svolgono i momenti di ristoro e contatto con le aziende presenti”.
La prima delle tre macro tematiche sulle quali si cercherà di indagare riguarda le soluzioni per il trasporto di video e voce su protocollo IP. In particolare si parlerà di VoIP, di videosorveglianza su IP e di tutte le possibili alternative di comunicazione in azienda, volte a creare un’unica infrastruttura capace di unificare voce e dati aziendali, con consistenti risparmi di investimento e di gestione

Ci si concentrerà poi sulla questione relativa alla sicurezza digitale, presentando alcuni sistemi di salvaguardia della sicurezza dei dati, delle informazioni e delle comunicazioni aziendali, “con l’obiettivo di soddisfare la richiesta di formazione e informazione di taglio tecnico/applicativo, rivolta alla soluzione delle concrete problematiche che utenti e operatori quotidianamente si trovano ad affrontare”.

Infine si discuterà di virtualizzazione, tematica di forte attualità che rappresenta una novità dell’edizione di quest’anno. Gli organizzatori sottolineano come recenti indagini di mercato abbiano evidenziato il forte impatto che tale fenomeno avrà, nel corso dei prossimi anni, all’interno delle aziende “modificando le dinamiche delle infrastrutture informatiche e di telecomunicazione e i sistemi IT a supporto delle varie attività aziendali”. Particolare attenzione sarà allora riservata ai possibili scenari futuri d’interazione tra “ciò che è dentro l’azienda, anche virtualizzato, e ciò che è possibile fruire acquisendolo dall’esterno in una logica as a service”.

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Cloud computing: le nuvole italiane di Telecom

Presentato a Milano il nuovo progetto di piattaforma cloud computing pensato da Telecom Italia per semplificare l’attività e ridurre i costi di gestione delle imprese e delle amministrazioni pubbliche

L’amministratore delegato di Telecom Italia, Franco Bernabè, è intervenuto ieri al teatro Puccini di Milano per presentare il proprio progetto Nuvola Italiana.

Si tratta di una piattaforma di cloud computing basata su una piena convergenza tra telecomunicazioni ed Information Technology, “un mondo di servizi in grado di semplificare la vita delle imprese pubbliche e private, svincolandole dalla gestione degli aspetti informatici. La Nuvola Italiana comprende infatti l’insieme di infrastrutture e applicazioni che permettono l’utilizzo di risorse hardware e software distribuite in remoto che possono essere utilizzate su richiesta, senza che il cliente debba dotarsene internamente”. Questa la definizione del progetto data nel sito www.nuvolaitaliana.it, ad esso interamente dedicato.

Bernabè ha cercato di evidenziare la portata epocale di quella che lui definisce “una sfida importante“, sottolineando come la propria azienda non possa limitarsi a svolgere il ruolo di semplice “bit carrier-trasportatore di bit”, ma debba “dare servizi, una famiglia di servizi”: “Telecom cambia pelle: non può vivere solo di connettività, ma vuole vendere servizi”.

La soluzione prospettata dovrebbe consentire alle piccole, medie e grandi imprese, ma anche alla pubblica amministrazione, la possibilità di usufruire agevolmente “di infrastrutture e servizi forniti in modalità on demand e pay per use senza dover investire in risorse IT dedicate e in know-how specializzato”. Le aziende potrebbero avere immediata accessibilità a delle risorse che, spostate sulla rete, risulterebbero costantemente aggiornate e ritagliate sulla base delle specifiche esigenze operative, senza necessità di acquistare particolari apparecchi e limitando, quindi, notevolmente (Bernabè parla di una 60-70%) i propri costi di gestione, compresi i costi relativi ai consumi energetici; quest’ultimo aspetto porterebbe anche alla riduzione dell’inquinamento e ad una maggiore sostenibilità ambientale.

Per arrivare a questo è necessario però, stando a Bernabè, modificare lo schema produttivo, abbattendo, prima di tutto, due forti ostacoli presenti nel contesto italiano: la propensione, da un lato, a disporre di un oggetto fisico (un server o un dispositivo di storage) e la scarsa inclinazione, dall’altro lato, a mettere a disposizione di terzi i propri dati aziendali.
Agire in tal senso sulla produttività e sulla competitività italiana sarebbe, secondo Bernabè, un’inevitabile strategia “per uscire dalla crisi congiunturale che stiamo attraversando”, per “colmare il gap che ci divide dalle altre nazioni europee”, causato in gran parte “dalla mancanza di investimenti nel settore ICT”.

La stima è che entro il 2012 il mercato italiano dei servizi “IT managed” erogati in modalità cloud possa generare un giro d’affari di circa 300 milioni di euro, con un tasso di crescita medio annuo 2009-2012 di circa il 20 %. La previsione è di un investimento da parte della Telecom di circa 30 milioni di euro, con l’ obiettivo, piuttosto ottimistico, di raggiungere una quota di mercato del 20-25%.

Come si legge nel comunicato stampa dedicato alla notizia all’interno del sito di Telecom, “con questa nuova iniziativa Telecom Italia conferma ulteriormente il proprio impegno nello sviluppo di servizi e soluzioni ICT innovative in grado di aumentare la competitività di imprese e pubbliche amministrazioni a beneficio dell’intero sistema paese e per una maggiore sostenibilità”.

Al termine della presentazione, una domanda ha costretto Bernabè a tornare sull’accordo tecnico relativo modello infrastrutturale per la rete di nuova generazione, cosiddetto Tavolo Romani, raggiunto tra Telecom e gli operatori di telecomunicazioni alternativi lo scorso venerdì; egli ha affermato che “a prescindere dal comportamento dei provider alternativi, NGN lo realizzeremo noi. Non delegheremo a terzi una responsabilità di infrastruttura che è puramente nostra”.

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