Legge e Rete, due binari troppo spesso separati

La chiusura temporanea di Wikipedia, pur suscitando pareri contrastanti, ha imposto una riflessione circa le reali capacità del legislatore nazionale di creare delle regole condivise sulla rete, capaci di distribuire equamente diritti e doveri

Nel 2007 il prestigioso quotidiano britannico “The Times” titolava un articolo dall’intenso piglio sarcastico “Un assalto geriatrico ai blogger italiani”, accusando il disegno di legge cosiddetto “ammazzablog”, presentato da Ricardo Franco Levi – l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e successivo autore della Legge 27 luglio 2011, n. 128, recante “Nuova disciplina del prezzo dei libri”, la cosiddetta “anti Amazon” – e da Romano Prodi – l’allora presidente del Consiglio dei Ministri – di essere figlio di legislatori incapaci a comprendere l’innovazione tecnologica e la filosofia interna alla rete, causa l’eccessiva senilità e la conseguente scarsa conoscenza del mezzo. Le polemiche sul Ddl, rimbalzate dalla rete alle istituzioni, si concentravano, in particolare, sulla definizione data di prodotto editoriale e di attività editoriale e dei relativi obblighi (iscrizione al ROC, aggravante dell’utilizzo del mezzo stampa) in capo ai soggetti coinvolti: una definizione onnicomprensiva, che arrivava ad includere, almeno a livello teorico, anche blog e siti amatoriali, realizzati a puro scopo di intrattenimento, educativo e di informazione e a titolo gratuito. In seguito alle polemiche e a molte altre vicissitudini, Levi preferì cancellare dal disegno il breve capitolo riguardante la rete, ma certamente, da allora, molte sono state le proposte che, nell’intento di offrire un ordine al paventato caos digitale, hanno finito per “imbavagliare” – per usare un termine in auge nella prassi giornalistica corrente in materia – la rete.

Lo sviluppo tecnologico ha permesso la creazione di nuove forme di utilizzazione per le opere letterarie, artistiche e musicali e di nuove modalità di espressione, le quali hanno imposto alle normative vigenti nei vari Paesi di rivedere i propri criteri e le proprie definizione, non potendo più, come un tempo, basarsi sul presupposto dell’identificazione e identificabilità del supporto materiale o sul principio di territorialità, ma dovendo necessariamente confrontarsi con fenomeni quali la smaterializzazione e la delocalizzazione.

Nel cercare di offrire soluzione ai molti problemi implicati dall’ascesa del web, il legislatore italiano si è, tuttavia, posto spesso in un modo che potremmo definire “arrogante”, cercando di calare gli strumenti classici di tutela giuridica in una realtà completamente nuova, una realtà che ha tra i propri imperativi la parità di acceso e di espressione degli utenti. Il legislatore ha quindi dimostrato, in più occasioni, una scarsa conoscenza e sensibilità verso la reale natura del nuovo mezzo, continuando a privilegiare alcuni diritti rispetto ad altri; alla base della questione vi è, infatti, proprio questo nodo: il web sembra porre in conflitto tra loro alcuni diritti ugualmente bisognosi di protezione, protezione che non può essere offerta se non attraverso una totale ridefinizione dei tradizionali metodi valutativi.

Un primo motivo di scontro è rappresentato, ad esempio, dalla necessità, da una parte, di garantire i fondamentali diritti morali e patrimoniali d’autore e, dall’altra, di permettere agli utenti di accedere ai contenuti in modo libero, plasmato sul mezzo: il rispetto dei citati diritti d’autore legittima una compressione di altri diritti fondamentali, come la libertà d’espressione o la tutela della privacy?

La rete è poi, fondamentalmente, un mezzo di comunicazione e come tale non può prescindere dalle opinioni, dai pensieri e dalle manifestazioni dei suoi stessi utenti; si tratta, però, di un mezzo nuovo e non paragonabile ad altri ed è in questo che si inserisce un secondo motivo di scontro: come rimediare ai possibili reati cui gli utenti vanno incontro in nome della propria libera manifestazione del pensiero? Una delle questioni di più delicata risoluzione in tal senso è quella relativa all’applicabilità delle leggi sulla stampa ai siti web e l’assenza di leggi che chiaramente stabiliscano le differenze di diritti e doveri in capo ai siti tenuti da privati e quelli organizzati in forma imprenditoriale crea non pochi problemi interpretativi. Imporre alla rete di indossare delle regole pensate, ad esempio, per la carta stampata significa non cogliere il mutamento in atto o, ancor peggio, perseguire degli interessi personali che vanno nella direzione opposta allo sviluppo. Particolari difficoltà sono state poi espresse nella distribuzione delle responsabilità, in un mezzo che non rende immediata l’individuazione della persona che ha materialmente compiuto un’azione: chi punire, allora, per un reato di diffamazione? Chi per una riproduzione illecita di materiale coperto da diritti d’autore?

Due realtà (legge da una parte e rete dall’altra) che appaiono inconciliabili, sia per tempistiche sia per logiche sottese, e che probabilmente lo sono, se non a patto di una riformulazione, quella che buona parte del popolo della rete chiede da più anni a gran voce.

Un popolo che, bisogna ammetterlo, non resta a guardare, non si lascia controllare passivamente, ma reagisce promuovendo raccolte firme, petizioni, proteste, linkando, informando, copiando e incollando, riuscendo persino, talvolta, ad ottenere ascolto. È questa, ridotta ai minimi termini, la questione Wikipedia, che nei giorni scorsi ha scosso le coscienze dei più. Molti i plausi all’iniziativa provocatoria e dimostrativa di oscuramento, molti anche i biasimi, ma certo tutti sono stati costretti ad ammettere la forza d’impatto che, nel bene o nel male, avrebbe avuto una simile soluzione, se fosse stata definitiva.

Fondata da Jimmy Wales e Larry Sanger, “Wikipedia” rispecchia, in parte, l’antico mito della biblioteca universale, un luogo privilegiato in cui concentrare e archiviare l’intero scibile umano; essa si autodefinisce come “un’enciclopedia multilingue collaborativa, online e gratuita, nata con il progetto omonimo intrapreso da Wikimedia Foundation, una organizzazione non a scopo di lucro statunitense. Etimologicamente Wikipedia significa cultura veloce, dal termine hawaiano wiki (veloce), con l’aggiunta del suffisso di origine greca -pedia (formazione)”. A fare la forza di Wikipedia sono il suo carattere collaborativo e gratuito, il suo essere un sistema aperto e continuamente modificabile, la trasversalità ed eterogeneità delle tematiche trattate e la chiarezza espositiva (anche grazie ai continui rimandi tra una voce e l’altra). Essa è in grado di colmare le lacune informative di qualsiasi utente, ma ovviamente – nessuno ha mai osato affermare il contrario – sono necessari ulteriori approfondimenti su fonti ufficiali o maggiormente autorevoli, ai fini di studio e ricerca.

Sono bastati un paio di giorni – quelli in cui qualunque voce dell’enciclopedia è stata sostituita da un comunicato stampa di allarme e protesta contro il comma 29 dell’art.1 del Ddl sulle intercettazioni in discussione in Parlamento in questi giorni – perché qualunque utente della rete si trovasse spiazzato dall’essere impossibilitato a capire cosa significhi quel termine o a conoscere i dettagli di quella vicenda. Un sito presente in oltre 200 Paesi al mondo decide di scioperare proprio in Italia, mettendo ulteriormente in dubbio la credibilità internazionale di cui gode la nostra attuale classe dirigente.

Il comma 29 incriminato, il nuovo “ammazzablog”, recita: “per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”.

L’intenzione pare essere, dunque, quella di estendere a tutti i gestori di “siti informatici”, l’applicabilità dell’obbligo di rettifica disciplinato dall’articolo 8 della Legge 8 febbraio 1948, n. 47, la vecchia legge sulla stampa: secondo un meccanismo piuttosto contorto, si continua ad adattare l’impostazione di una legge ideata dall’assemblea costituente ad un contesto storico e sociale radicalmente cambiato, invece di pensare ad un aggiornamento della legge stessa in relazione alle caratteristiche specifiche del mezzo digitale. La legge sulla stampa disponeva, come noto, gli adempimenti a cui sono soggette le pubblicazioni nel nostro ordinamento ed era stata integrata, per quanto riguarda l’ambito virtuale, dalla Legge 7 marzo 2001, n. 62, con la quale il legislatore aveva inteso espandere gli obblighi di registrazione alle testate telematiche, sollevando legittimi dubbi su che cosa dovesse essere ritenuto una testata telematica e sulla necessita? di estendere anche ai siti amatoriali gli stessi obblighi.

Con il comma 29, l’obbligo a rettificare tempestivamente ogni genere di informazione pubblicata, fondata che sia o meno la richiesta, se non rispettato, potrebbe portare il gestore ad incorrere in una sanzione fino a dodicimila Euro.

È la terminologia prescelta, “siti informatici”, ad aver sollevato intense critiche e timori in merito all’effettiva portata della disposizione, che potrebbe avere delle implicazioni anche con riferimento alla registrazione e alla presenza di figure quali direttore e vice direttore responsabile per i siti che testate telematiche non sono; inoltre l’individuazione del gestore di contenuti di un sito informatico, al quale rivolgere la richiesta di rettifica, obbliga questo stesso gestore ad identificarsi, seppur non esista attualmente una legge che imponga tale obbligo e ne spieghi le modalità attuative. Non bisogna dimenticare il fatto che la rete rappresenta una piattaforma aperta (Wikipedia ne è l’esempio più plateale) e non una struttura monolitica come, invece, una testata giornalistica cartacea o televisiva. Ulteriori interrogativi si pongono, poi, circa le modalità con cui la parte offesa potrebbe esercitare il suo diritto, non essendoci attualmente il modo di avere prova legale di invio della richiesta.

Non si può non sottolineare come il nostro ordinamento preveda già che, a richiesta del magistrato, i contenuti eventualmente diffamatori vengano rimossi: sarebbe ragionevolmente più efficace operare una rimozione invece che una rettifica, strumento che ha davvero senso solo nei mezzi analogici, poiché serve a porre rimedio ad una soluzione passata non modificabile; sul web tale strumento rischia, al contrario, di ledere ancor più una reputazione, poiché finisce per incrementare la visibilità del contenuto lesivo. Tutto questo denota, è palese, una totale mancanza di conoscenza circa le potenzialità del mezzo internet da parte dei promotori del comma, i quali, inoltre, hanno inteso estendere gli obblighi ma non le garanzie riservate ai media tradizionali, quei media che hanno alle loro spalle un solido corpus legislativo ed organizzativo.

È facile capire, a questo punto, come l’entrata in vigore della disposizione bloccherebbe, di fatto, l’attività dell’enciclopedia online, vista l’ovvia incapacità a garantire tempi di risposta così rapidi per le molte informazioni caricate quotidianamente dagli utenti.

Eppure c’è anche chi si è rallegrato per la momentanea chiusura di Wikipedia, come Alberto di Majo, dalle file del Tempo, secondo il quale “la nuova legge sulle intercettazioni potrebbe avere un merito inaspettato: far scomparire Wikipedia”, accusata di essere “piena di strafalcioni e di fonti incerte” e di aver “fatto impallidire studiosi, spaventato accademici e depistato studenti convinti di avere a portata di mouse una Treccani”. Oppure come Massimiliano Parente (il Giornale), al quale “già solo il principio di Wikipedia fa schifo”: “è la deresponsabilizzazione assoluta, dove viene scambiato per «censura» l’intento di impedire una dittatura dell’anonimato, il contrario della libertà di stampa e di espressione”. Continua: “In generale, d’altra parte, internet funziona così: puoi scrivere tutto su tutto, non devi verificare nulla, non devi rispondere di nulla, non devi firmarti, altrimenti è censura. Inoltre, per paradosso, la fonte non controllata e non controllabile, anziché screditarsi da sola, pretende di essere autorevole”.

Quello che, a mio avviso, simili pareri mancano di comprendere è come la disposizione, così presentata, non faccia che intensificare le incertezze in merito agli obblighi e alle garanzie in capo ai gestori di “siti informatici” e costituisca esclusivamente una forzatura anacronistica. La soluzione non è il caos, non è l’anarchia, la soluzione sarebbe una norma in grado di comprendere davvero la rete. È una rete che, l’abbiamo detto, si ribella e, anche in questa occasione, non sono mancate le mobilitazioni che, dai blog più o meno autorevoli, lungo tutti i canali sociali, sono arrivate a raggiungere i canali istituzionali. Molti, allora, gli emendamenti presentati al comma 29 del Ddl intercettazioni, con la finale approvazione, da parte del comitato dei nove, del testo proposto dall’on. Roberto Cassinelli: tale testo distingue le testate giornalistiche online, registrate ai sensi dell’articolo 5 della legge sulla stampa, dai siti di natura amatoriali, lasciando solo ai primi l’obbligo di rettifica. “Rilevo con grande piacere – afferma Cassinelli in un comunicato ufficiale – che il voto del comitato è stato quasi unanime: solamente l’Italia dei Valori, infatti, se ne è inspiegabilmente discostata”.

Pubblicato su: PMI-dome