Il nuovo approccio alla pubblicità in rete prevede l’utilizzo delle tracce relative alla nostra navigazione, con inevitabili ripercussioni a livello di privacy
“Non stai pagando per il prodotto che usi perché il prodotto sei tu”: era questo il messaggio lanciato qualche settimana fa da un’inchiesta condotta da Stefania Rimini per la trasmissione televisiva “Report”. I toni erano parsi a molti un po’ troppo allarmistici, e probabilmente lo furono, tuttavia ciò che si era colta è una questione di estrema importanza, da non sottovalutare quando si parla di navigazione in rete. Il riferimento era a come le più famose e diffuse piattaforme virtuali siano interessate ad ottenere informazioni su di noi e sulle nostre abitudini per sfruttare tali informazioni a vari scopi, primo fra tutti quello pubblicitario.
Nell’esperire il mezzo virtuale, lasciamo traccia di tutto ciò che facciamo e da questa traccia deriva, dunque, la descrizione degli interessi, delle consuetudini, dei modi di essere e di pensare che ci sono propri; una simile descrizione è dotata di un potenziale economico piuttosto rilevante per molte aziende, le quali, avvalendosi, allora, di un potentissimo strumento come Internet, cercano di analizzare il mercato per poi captare nuovi possibili consumatori e instaurare con loro relazioni di business. Il limite raggiunto da questa prassi ormai diffusa è rappresentato dalla cosiddetta “pubblicità comportamentale”, o “behavioural advertising”, e dall’intento di puntare su un target ben ristretto, selezionato e fortemente interessato che lo contraddistingue, il “behavioural targeting”.
Il Gruppo di lavoro istituito in virtù dell’articolo 29 della direttiva 95/46/CE (l’organo consultivo indipendente dell’UE per la protezione dei dati personali e della vita privata), in un parere adottato il 22 giugno 2010 allo scopo di offrire un quadro giuridico di riferimento per la materia, ha definito la pubblicità comportamentale come quella basata “sull’osservazione del comportamento delle persone nel tempo”: essa intende “studiare le caratteristiche del comportamento delle persone attraverso le loro azioni (frequentazione ripetuta di certi siti, interazioni, parole chiave, produzione di contenuti online, ecc.) al fine di elaborare un profilo specifico e quindi inviare messaggi pubblicitari che corrispondano perfettamente agli interessi dedotti”.
Offrendo agli inserzionisti un quadro estremamente dettagliato dell’attività online svolta dall’interessato (siti web e pagine specifiche visitate, durata di permanenza, ordine di visualizzazione dei vari elementi, ecc.), la pubblicità comportamentale si differenzia da quella contestuale, molto diffusa in rete, la quale, al contrario, si fonda su delle informazioni “istantanee” relative alla navigazione, cioè sui contenuti visualizzati in quel preciso momento: con riferimento ai motori di ricerca “il contenuto puo? essere dedotto dalle parole chiave della ricerca effettuata, dalla ricerca precedente o dall’indirizzo IP dell’utente (se indica la probabile ubicazione geografica dell’utente)”. Altro metodo usato per creare messaggi promozionali mirati in rete è la pubblicità segmentata, cioè “selezionata in base a caratteristiche note dell’interessato (eta?, sesso, ubicazione, ecc.), fornite dallo stesso nella fase di registrazione a un sito”.
La pubblicità comportamentale, in sostanza, distingue gli utenti tra quelli potenzialmente interessati alla sua azione promozionale e quelli sui quali tale azione cadrebbe presumibilmente inascoltata. Per farlo utilizza delle forme di elaborazione lato client, tipicamente dei marcatori detti “tracking cookie”: si tratta di un breve testo alfanumerico che viene archiviato, e successivamente recuperato, da un fornitore di rete pubblicitaria, nell’apparecchiatura terminale dell’utente che visita una particolare pagina rientrante nella sua rete, consentendo, in questo modo, al fornitore di creare un profilo del visitatore, profilo che verrà usato per trasmettere messaggi pubblicitari personalizzati. C’è da dire che la maggior parte dei browser web offre la possibilita? di bloccare tali cookie o di attivare sessioni private di navigazione che in automatico eliminano i cookie; per questo i fornitori di rete pubblicitaria hanno iniziato a sostituire quelli tradizionali con i “flash cookie”, che non possono essere cancellati attraverso le normali impostazioni di privacy previste dal browser web (pratica chiamata“respawning”). Di particolare interesse, proprio in materia di cookie, risulta un documento ufficiale redatto da ENISA, l’Agenzia Europea per la sicurezza delle informazioni e della rete, dal titolo “Bittersweet cookies. Some security and privacy considerations“.
Come si può facilmente intuire, il problema principale connesso ad una simile tecnica promozionale è rappresentato dall’implicita lesione della privacy per l’utente, spesso del tutto inconsapevole dell’elevata invasività nel tracciamento dei propri comportamenti. Stando all’interpretazione fornita nel parere del Gruppo di lavoro articolo 29 – teso a sottolineare come “tale pratica non debba essere attuata a spese del diritto della persona al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati” – i fornitori di reti pubblicitarie sono vincolati all’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche, la “direttiva e-privacy” (2002/58/CE), modificata dalla direttiva 2009/136/CE che avrebbe dovuto ricevere (ma non ha ricevuto) attuazione nel territorio italiano entro il 25 maggio 2011; secondo le indicazioni fornite dalla direttiva, si renderebbe necessario il consenso preventivo ed informato dell’interessato, per poter memorizzare od accedere ad informazioni archiviate nella sua apparecchiatura terminale. L’obbligo è riferito alla generica protezione di un aspetto della vita privata, perciò si applica a qualunque tipo di informazione, non solo ai dati di natura personale. Ad ogni modo, poiché la pubblicità comportamentale si basa “sull’uso di identificatori che consentono la creazione di profili utente molto dettagliati, considerati nella maggior parte dei casi dati personali”, si dovrebbero adottare in aggiunta anche i dettami della “direttiva privacy” (95/46/CE), relativi ai diritti degli interessati, alla qualità dei dati, alla sicurezza dei trattamenti ed ai limiti per il trasferimento internazionale dei dati. Nell’ordinamento italiano il riferimento è ovviamente al cosiddetto “Testo Unico sulla privacy”, il D.Lgs. 196/2003.
Le impostazioni dei browser e i meccanismi di opt-out attualmente messi a disposizione non sembrano essere adeguati, trasmettendo “il consenso soltanto in circostanze assai limitate”; l’auspicio è che i fornitori di reti pubblicitarie provvedano alla creazione di meccanismi di opt-in preliminare che “richiedano un’azione positiva dell’interessato” dalla quale “risulti la volontà di ricevere cookie o dispositivi analoghi e di accettare il conseguente monitoraggio del comportamento di navigazione ai fini della trasmissione di pubblicità personalizzata”. Sembra essere, inoltre, insufficiente, dal punto di vista dell’obbligo informativo, la semplice menzione dell’uso della pubblicità comportamentale all’interno delle condizioni generali del sito o dell’informativa sulla privacy, rendendosi, piuttosto, necessario comunicare agli utenti in modo semplice e chiaro tutti i dettagli del trattamento.
Lo scorso 14 aprile lo IAB, l’Associazione internazionale dedicata allo sviluppo della comunicazione pubblicitaria interattiva, ha varato un autoregolamento assieme ad alcune tra le principali aziende mondiali che si servono della pubblicità comportamentale (ad esempio Google, Yahoo, Aol, Yell, assente importante Facebook), imponendo loro di comunicare agli utenti se e quando utilizzino tale modalità promozionale. Ad affiancare l’iniziativa, fu creato anche un sito chiamato youronlinechoices, all’interno del quale gli utenti possono trovare facili spiegazioni e chiarimenti in merito al behavioural advertising e dove è possibile anche disattivare la pubblicità comportamentale delle società iscritte all’autoregolamentazione.
L’augurio è, allora, che si trovi il modo migliore per offrire una connotazione limpida ad una forma di comunicazione promozionale certamente positiva per molti aspetti, essendo ritagliata sull’utente, ma potenzialmente lesiva della volontà di riservatezza di questo utente, per non vederci costretti a protegger la nostra privacy ricorrendo a soluzioni tanto drastiche quanto paradossali, come lo è stato il Seppukoo, o suicidio virtuale…
Pubblicato su: PMI-dome