Le Startup italiane puntano all’estero

Cresce del 20% il numero di attività che scelgono di svilupparsi fuori dai confini nazionali. In attesa degli effetti del Decreto Sviluppo Bis, la survey Mind the Bridge delinea la morfologia e la geografia dell’intero fenomeno

Per la maggior parte si collocano ancora su un livello progettuale, sono presenti più al Nord che altrove, hanno scelto come ambito di applicazione il Web e l’Ict, si sviluppano attorno a un gruppo di 2 o 3 soci tra i 26 e i 35 anni, sempre più decidono di incorporarsi all’estero e in prevalenza puntano ad una futura operazione di exit.
È il profilo essenziale delle startup italiane che emerge dalla seconda edizione della survey “Startups in Italy: Facts and Trends”, realizzata dalla fondazione Mind the Bridge con il supporto scientifico del CrESIT – Research  Centre for Innovation and Life Sciences Management dell’Università degli Studi dell’Insubria di Varese e presentata lo scorso 26 ottobre da Alberto Onetti (Chairman Mind the Bridge), in occasione della quinta edizione del Venture Camp della fondazione, tenutasi, come da tradizione, presso la sede del Corriere della Sera a Milano. L’indagine ha inteso offrire un quadro dettagliato e aggiornato dell’ecosistema italiano delle startup, cogliendone i tratti fondamentali ed evidenziandone criticità e tendenze.
Quando si parla di startup – ricorda il report – si fa riferimento a nuovi progetti di impresa con una marcata vocazione all’innovazione e forti ambizioni di crescita. Le statistiche nazionali non censiscono questa categoria di imprese, perciò non risulta semplice offrire delle stime certe circa la dimensione del fenomeno e delle valutazioni circa le sue caratteristiche strutturali. A complicare gli intenti d’indagine, vi sono pure una serie di fattori tipici di questa categoria di imprese, come gli elevati tassi di mortalità e i processi di “pivoting” (attraverso i quali i fondatori modificano, anche radicalmente, l’oggetto della propria attività e promuovono, poco tempo dopo, un progetto d’impresa differente, spesso con una nuova denominazione), che ne mutano radicalmente e continuamente la morfologia.
Sono circa 800/1.000 le richieste annuali di finanziamento giunte ai principali fondi e società di investimento, raggruppati intorno all’Italian Venture Capital Hub, mentre è stimato tra le 3 e le 8 mila aziende l’attuale volume complessivo delle startup in Italia. Si tratta di una componente ancora minoritaria dell’universo produttivo italiano, ma di certo connotata da una maggiore dinamicità e da una rapida ascesa.
Quello di Mind the Bridge Foundation è, ad ogni modo, un punto di vista privilegiato, che ha potuto contare sull’analisi delle 166 aziende e dei 369 imprenditori che hanno fatto domanda di partecipazione alla Seed Quest 2012, il suo annuale concorso per business plan, nato allo scopo di selezionare le più innovative e promettenti idee italiane. Dato che il programma Seed Quest si rivolge primariamente ad aziende nelle fasi iniziali del proprio ciclo di vita, la survey focalizza la propria attenzione sul segmento del cosiddetto “early stage”, in cui rientrano appunto le aziende di recente costituzione e in cerca di un primo round di finanziamento, operanti in ambiti innovativi e con intensi piani di crescita.
Si conferma una tendenza rilevata già lo scorso anno: le startup vengono spesso formalmente costituite solo dopo che la business idea sia stata validata e, in alcuni casi, una volta trovati i capitali necessari alla sua realizzazione. Il 59% del campione indagato è costituito da progetti di impresa (“wannabe startup”) che non sono ancora stati strutturati in forma societaria. Le imprese già formalizzate come società sono comunque giovanissime (età media di 1/2 anni) e rappresentano il 36%. Il 5% della popolazione è rappresentato, infine, da corporate spinoff, nuovi progetti avviati, cioè, da aziende già esistenti, allo scopo di supportare processi di diversificazione e innovazione della propria attività.
Con riferimento alle aree di business, il report rileva come la maggior parte delle startup italiane sia attiva in ambito Web (49%) e nell’Information and Communication Technologies-ICT (21%), mentre il 4,8% si concentra su consumer products e il 3,6% circa su electronics&machinery. Meno rilevante numericamente il settore delle clean technologies (1,2%) e quello del biotech/life sciences (0,6%). Il rimanente 19% di imprese opera in altri settori di attività, soprattutto quelli di servizio. Si nota una relazione inversa tra numero di imprese operanti in un ambito e livello di investimenti richiesti per avviare il progetto di impresa in quel particolare ambito.
La maggior parte delle startup (52%) è localizzata nel Nord Italia, il 21% nel Centro e il 15% nel Sud e nelle Isole (percentuale, quest’ultima, in crescita del 50% rispetto allo scorso anno). Anche quest’anno Lombardia (25%, soprattutto Milano) e Lazio (18%, soprattutto Roma) si confermano le regioni a maggiore densità di startup, seguite da Emilia Romagna e Veneto (9%).
Con un incremento di 20 punti percentuali rispetto allo scorso anno, ben l’11% delle startup italiane ha scelto di incorporarsi all’estero (ad attrarre maggiormente sono Stati Uniti e Regno Unito), dato che evidenzia, da una parte, la forte mobilità di queste imprese scarsamente radicate nel territorio, dall’altra la bassa competitività del nostro paese nell’attrarre investimenti in questo settore. Forti sono, in tal senso, le attese circa gli esiti effettivi delle “Misure per la nascita e lo sviluppo di imprese start-up innovative”, previste dal Governo con il Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179 (in G.U. n. 245 del 19.10.12), recante “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese” (si tratta del cosiddetto “Decreto Sviluppo Bis”): sono in molti ad augurarsi che il rinnovato contesto normativo possa agevolare la costruzione e la crescita delle startup e dunque attenuarne la fuoriuscita dal territorio italiano.
In realtà – ha sottolineato Marco Marinucci, fondatore e direttore esecutivo di Mind the Bridge, presente al Venture Camp – dove le aziende si sviluppino è un falso problema, l’importante è metterle in condizione di poterlo fare”. “Non bisogna – ha aggiunto Alberto Onetti – demonizzare la mobilità che, di per sé, non è un fattore negativo da censurare a tutti i costi: il recente caso di Decisyon dimostra come un’incorporazione all’estero possa fare da volano anche in Italia, moltiplicando crescita e occupazione”. Si tratta di un’azienda software fondata da un italiano, Franco Petrucci, con sede nel Connecticut e sviluppo tecnologico totalmente insediato a Latina, che ha raccolto 15 milioni di dollari dal fondo di private equity americano Axel Johnsons Inc e da altri investitori statunitensi e britannici.
Dal punto di vista di un investitore, conta la qualità del team e il valore che i prodotti portano ai clienti”, ha dichiarato Erik Jansen, presidente di Decisyon, anch’egli al Venture Camp. “L’Italia ha professionalità tecnologiche incredibilmente di talento. E Decisyon ne è un ottimo esempio. Il nostro investimento nell’azienda contribuirà a trasformare questa società italiana di successo in un leader mondiale nel software per le imprese”.
Per quanto riguarda i fattori in grado di influenzare la localizzazione di una startup, troviamo al primo posto il network di contatti (69%), seguito dalla possibilità di accedere a risorse umane altamente specializzate, come ingegneri, programmatori, manager (57%), dalla qualità della vita, dal luogo di residenza di uno dei founders (entrambe al 52%) e dalla prossimità ai centri di ricerca (40%). L’accesso al capitale (43%) si colloca solo al quinto posto, segno di come, per l’avvio e lo sviluppo d’impresa, contino soprattutto le relazioni e le competenze.
Cosa si colloca all’origine della business idea? Nel 67,3% dei casi vi è la ricerca, in particolare quella applicata, che da sola raggiunge il 27,3%, contro il 7,3% della ricerca di base. Si conferma così indirettamente il ritardo del sistema universitario italiano con riferimento al technology transfer, vista la difficoltà del mondo accademico di tradurre le grandi potenzialità di ricerca in impresa. Lo stimolo per la genesi di una startup proviene infine, nel 50% dei casi, dal posto di lavoro.
Con riferimento ai fattori motivazionali che spingono a creare una startup, vi è innanzitutto la volontà di risolvere un problema vissuto in prima persona (ad esempio un prodotto o un servizio insoddisfacente, un bisogno insoddisfatto), che attiene i cosiddetti “user entrepreneurs” e rappresenta il 77% del campione. Vi è poi anche la voglia di cambiare, migliorandolo, un mercato esistente o uno spazio di mercato al momento non presidiato (68%). Anche il desiderio di autodeterminazione (essere cioè il “boss” di se stessi, per il 53% dei casi) e di auto-realizzazione (51%) inducono ad affrontare la nuova sfida imprenditoriale.
Si conferma poi il fondamentale ruolo dei supporters, cioè delle persone che hanno sostenuto l’imprenditore nella finalizzazione dell’idea di business e nelle fasi iniziali di costituzione d’impresa: la famiglia conta per il 48% del campione, gli amici per il 43% e i colleghi di lavoro per il 38%.
La survey ha indagato poi sul profilo medio dello startupper italiano: si tratta di una persona di 33 anni, di sesso maschile (nell’89% dei casi), dotata di un livello di istruzione abbastanza elevato e di un bagaglio di esperienze lavorative e imprenditoriali. Più in particolare, il 52% degli imprenditori ha una laurea di primo livello (nel 6% dei casi conseguita all’estero) e il 42% circa ha anche una laurea specialistica (nel 9% dei casi all’estero). Il 10% ha anche un PhD (dottorato di ricerca) o un MBA (Master in Business Administration) e, di questi, l’87% ha studiato in Italia, mente il 13% all’estero (in primis negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Spagna, in Francia e in Svizzera). La maggior parte degli startupper è nata al Centro Nord (48% al Nord e 23% al Centro), mentre solo il 24% al Sud o nelle Isole (il restante 5% all’estero). Il divario territoriale aumenta ancor di più se si considera il luogo di residenza degli imprenditori.
Circa l’80% degli startupper ha avuto un’esperienza da lavoratore dipendente (in media pari a 8/9 anni) prima dell’avvio della propria attività imprenditoriale (il 17% di questi ha anche trascorso un periodo lavorativo all’estero) e ben il 25% dei founder non è alla sua prima startup (dato che conferma anche in Italia il fenomeno dell’imprenditorialità seriale), mentre solo il 19% sono gli startupper alla prima esperienza lavorativa e imprenditoriale. L’8% degli imprenditori seriali ha dichiarato una exit, mentre l’87% si dichiara ancora coinvolto nell’iniziativa precedente ( “parallel entrepreneur”). L’8% delle precedenti startup era stato fatto all’estero, però solo il 50% di queste è rimasto fuori confine, mentre il 50% è rientrato o prevede di rientrare in Italia. Limitato il contributo dei ricercatori universitari alla creazione di imprese (solo l’8% degli startupper ha precedenti esperienze in ambito accademico).
Le startup sono costruite intorno ad un gruppo in media di 2/3 soci, di un’età compresa tra i 26 e i 35 anni ed impiegano 4/5 dipendenti: si tratta quindi, in prevalenza, di gruppi imprenditoriali che aggregano competenze differenti e generano un contributo, in termini di occupazione, non elevatissimo, ma pur sempre importante in prospettiva. Il 39% dei founders dichiara di aver conosciuto i propri soci sul posto di lavoro, il 32% in base a rapporti di amicizia preesistenti e il 26% in ambito universitario. Solo nel 10% dei casi il gruppo imprenditoriale si allaccia a quello familiare.
La forma di finanziamento più diffusa (58%) tra le startup è il bootstrapping (capitali raccolti dal gruppo dei fondatori tra le risorse possedute direttamente o all’interno del nucleo familiare o della rete di conoscenti). Un 8% ha avuto accesso a grants (finanziamenti in genere destinati al supporto di attività di ricerca in ambito universitario), un 6% dei fondi proviene da banche e fondazioni, mentre un ulteriore 6% è stato finanziato da altre imprese di natura non finanziaria. Il 16% ha reperito investimenti in equity da investitori terzi, in prevalenza angels (8%, si tratta di persone fisiche che in genere effettuano investimenti in forma associata) e seed funds (7%, fondi di investimento focalizzati su aziende early stage e su attività di incubazione ed accelerazione). Solo una quota molto limitata ha avuto accesso a venture capital (1,2%, fondi di investimento specializzati nel capitale di rischio). Le startup che hanno già raccolto capitale (in qualsiasi forma) sono circa il 70% ed, eliminando i valori estremi della distribuzione dei finanziamenti, si rileva come l’investimento medio si attesti sui 65 mila euro. La maggior parte di questi finanziamenti viene utilizzata per il product engineering (75%), per investimenti in marketing & sales (57%), Research and Development – R&D (38%) e, in minima parte, per spese generali e amministrative.
Infine le richieste e gli obiettivi delle startup italiane: la maggiore parte è alla ricerca di capitali (69% seed investment e 59% venture capital), ma anche di partner strategici che possano supportare le varie fasi di sviluppo (50%). Il 57% punta ad una exit, attraverso la cessione di impresa (Mergers and acquisitions – M&A), mentre il 32% non ha obiettivi di vendita. Un 10% pensa ad un IPO (Initial Public Offering).
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Venture capital in Italia: un mercato dinamico e in crescita

Ecco il profilo degli investimenti early stage realizzati nel 2011: 43 nuove operazioni (+ 40% sul 2010), soprattutto in Lombardia e nel settore dell’ICT

Il processo di sviluppo economico di un Paese passa anche attraverso politiche e iniziative capaci di creare un mercato del credito sano e vivace, dove sia reso agevole il momento di incontro tra domanda e offerta. Permettere alle imprese, soprattutto a quelle piccole e medie, un adeguato accesso al credito rappresenta la base fondamentale per favorire processi di innovazione, crescita e incremento occupazionale all’interno dell’iniziativa aziendale.
Il ricorso a soggetti terzi in grado di offrire il necessario sostegno finanziario rappresenta, allora, per le imprese, un metodo efficace e a volte imprescindibile per gestire alcuni passaggi critici del proprio ciclo di vita. Il sistema bancario fatica, infatti, a finanziare, in questo preciso momento storico, attività ad alto contenuto immateriale, per questo sempre più importante diventa l’attività degli operatori di venture capital, capaci di costruire una nuova via per la ricerca di nuove opportunità di business e per la creazione di valore all’interno dell’impresa.
Recentemente il comparto del venture capital ha manifestato la propria vitalità e dinamicità, pur essendo ancora lontano da certi modelli europei, sintomo di una logica economica lontana da movimenti esclusivamente speculativi e votata piuttosto alla crescita attraverso la sperimentazione.
A confermare questa tendenza è la quarta edizione del rapporto di ricerca stilato dall’osservatorio Venture Capital Monitor (VeM) attivo presso la LIUC – Università Cattaneo di Castellanza, presentato lo scorso 16 luglio a Milano. Lo studio – realizzato in collaborazione con AIFI, Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital, con lo studio legale Bird & Bird e grazie al contributo di SICI – Sviluppo Imprese Centro Italia SGR e di Dedalus SpA – vuole rappresentare un utile strumento per l’analisi approfondita delle dinamiche che hanno interessato il mercato del venture capital nel corso del 2011.
Coloro che scelgono di compiere degli investimenti in capitale di rischio, possono farlo nella fase iniziale di creazione dell’azienda (early stage) oppure in un secondo momento (later stage), quando l’azienda è già attiva ma necessita di risorse per espandersi, o quando l’azienda si trova in fase di ristrutturazione aziendale, o è pronta a fare delle acquisizioni. Alla fase di avvio viene ricondotta l’attività propriamente detta di venture capital, mentre quelle di sviluppo e cambiamento aziendale rientrano nel segmento del private equity.
Nel report appena diffuso sono stati in particolare presi in considerazione i soli investimenti “initial” realizzati da investitori istituzionali nel capitale di rischio di matrice privata, classificabili come operazioni di early stage (seed capital e start-up). Esclusi, dunque, dalla rilevazione gli investimenti rientranti nel segmento del later stage (expansion, buy out, replacement e turnaround), oggetto di monitoraggio continuo da parte dell’Osservatorio Private Equity Monitor (PEM).
Il peso che il venture capital ha avuto sull’intero comparto del capitale di rischio italiano risulta, con riferimento al 2011, in crescita: il rapporto ci dice che sono state 43 le nuove operazioni di investimento realizzate nel segmento dell’early stage, contro le 85 operazioni evidenziate dall’osservatorio PEM nel later stage, il che significa che il segmento del venture ha rappresentato, per la prima volta dopo molti anni, oltre un terzo dell’intero mercato (43 su 128 deals totali).
Le 43 operazioni concluse nel 2011 segnano un incremento in termini assoluti di 40 punti percentuali sul 2010 (quando le operazioni realizzate erano state 31) e di oltre 100 punti percentuali sul 2009 (20 deals).
Rispetto alle 43 società target, gli investitori attivi in Italia nel 2011 sono stati complessivamente 23, per un totale di 55 investimenti: in media ciascun operatore ha quindi posto in essere 2,4 investimenti, in forte incremento rispetto agli scorsi anni.
Si è determinato di conseguenza un maggior grado di concentrazione degli investimenti, dato che il 53% degli stessi sono riconducibili ai primi 6 operatori, contro i 9 del 2010 e in linea con i 5 del 2009. Circa un quinto delle operazioni realizzate nel 2011 vede, inoltre, la contemporanea partecipazione di due o più investitori nella medesima società target.
Estrema concentrazione delle operazioni anche a livello geografico: Lombardia e Toscana hanno insieme rappresentato quasi il 50% dell’intero mercato (28% la prima e 21% la seconda). Crescono gli investimenti nel Sud Italia, che arrivano ora a rappresentare il 30% del mercato, contro il 16% del 2010 e il 15% el 2009.
Si conferma la propensione dei venture capitalists ad acquisire partecipazioni significative, ma comunque di minoranza (in media la quota è del 40%). Per l’acquisto di tale partecipazione tuttavia ciascun operatore ha impiegato in media 1 milione di Euro, importo più che dimezzando l’importo del 2010 (2,7 milioni di Euro). Si fa ricondurre tale fenomeno all’aumento, rispetto al passato, degli investimenti in seed capital (quelli cioè funzionali allo sviluppo dell’idea stessa di business, prima ancora che l’azienda nasca): questi hanno riguardato 19 delle operazioni rilevate (pari al 44%), contro le 24 riconducibili alla categoria start-up (56%).
Con riferimento alla deal origination, il 2011 segna un incremento delle iniziative a carattere privato, le quali tornano – dopo un 2010 in decrescita – a rappresentare la quasi totalità del mercato (80%). Seguono gli spin-off universitari (15%) e gli spin-off di matrice corporate (5%), il cui peso è, in entrambi i casi, in calo sul 2010 (quando costituivano rispettivamente il 25% e il 10%).
Per quanto riguarda i settori d’intervento, i 2011 ha visto un nuovo rilancio per l’ICT (40%), in particolare per le iniziative legate alle web e mobile applications (soprattutto quelle riguardanti selezione e segnalazione di offerte su beni di consumo), dopo un 2010 in cui l’ICT sembrava aver perso appeal. Per contro si ridimensionano proprio quei settori predominanti del 2010, cleantech, biofarma e sanità. Il comparto dei beni industriali conquista poi il 15% del mercato, dunque il venture capital comincia a vedere nell’eccellenza manifatturiera nazionale nuove opportunità d’investimento. Seguono cleantech, bio farmaceutico e sanità (tutti con il 9%) e il terziario (7%).
Con riferimento alle dimensioni delle società target, l’ammontare di ricavi (in base all’ultimo bilancio disponibile) risulta pari a circa 1,5 milioni di euro, inferiori rispetto ai 2 milioni di euro del 2010. Il numero di dipendenti delle aziende target è in media pari a 11. Le società target hanno in media all’attivo 2 anni di operatività prima che l’investitore decida di compiere il suo ingresso nella compagine azionaria (il doppio rispetto al passato).
Il report passa infine ad esaminare le caratteristiche legali delle operazioni di investimento realizzate nel 2011.
Con riferimento alla forma giuridica delle società target, prevalgono le srl (56%), seguite dalle spa (42%). Gli investitori hanno sottoscritto in prevalenza partecipazioni dotate di particolari diritti statutari: le azioni di categoria speciale (in caso di investimenti in società per azioni) o le quote dotate di particolari diritti (in caso di investimenti in società a responsabilità limitata) sono state lo strumento finanziario maggiormente utilizzato (72%). Limitato, invece, il ricorso a strumenti finanziari diversi dalle azioni o dalle quote, quali le obbligazioni convertibili o i finanziamenti convertibili in capitale (7%).
Quasi tutti gli statuti esaminati prevedono alcune protezioni a favore dell’investitore in merito alla governance delle società target: diritto di veto su alcune delibere di carattere straordinario da parte dei soci (quali, modifiche statutarie, operazioni sul capitale, distribuzione di dividendi, nomina degli organi sociali) o del consiglio di amministrazione (approvazione di budget e business plan, attribuzione di deleghe agli amministratori, assunzione e remunerazione di dirigenti, acquisto o cessione di asset aziendali, assunzione di finanziamenti); diritto di nominare uno o più componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale; diritto di ricevere un’informativa periodica sulla situazione patrimoniale, finanziaria e di business della target; infine protezione dagli effetti diluitivi sulla propria partecipazione, in caso di successivi aumenti di capitale effettuati ad un valore inferiore a quello sottoscritto dall’investitore (c.d. antidilution).
Oltre la metà degli statuti prevede il diritto di prelazione per limitare il trasferimento delle partecipazioni detenute dai soci diversi dall’investitore. Frequente è anche l’imposizione di un divieto assoluto al trasferimento per un determinato periodo di tempo (di solito, 2 anni per le quote di società a responsabilità limitata e 5 anni nel caso di società per azioni) e del divieto a costituire vincoli sulle partecipazioni (esempio pegni). In alcuni casi il trasferimento delle partecipazioni deve superare il preventivo gradimento dei soci o degli organi sociali.
Le eventuali controversie vengono disciplinate dagli statuti attraverso il ricorso alla clausola compromissoria che delega la competenza delle stesse a un collegio arbitrale o ad un arbitro unico (nel 71% dei casi) piuttosto che al Tribunale del luogo in cui la società ha sede (29%).
Con riferimento infine alla disciplina dell’exit, due sono le clausole maggiormente presenti negli statuti delle società target. In primis si prevede la co-vendita cioè il diritto per l’investitore di partecipare alla vendita nel caso in cui gli altri soci decidano cedere la propria partecipazione (c.d. tag-along) oppure il diritto di obbligare gli altri soci a vendere la loro partecipazione ad un terzo individuato dall’investitore (c.d. drag along). Molto usata anche la liquidation preference, cioè il diritto riservato all’investitore di ricevere, in forma prioritaria rispetto agli altri soci, un importo pari almeno a quanto investito, in caso di liquidazione o cessione a terzi della target.
Il settore del venture capital rappresenta, in conclusione, una risorsa fondamentale per intraprendere la via della crescita. L’attività del venture capitalist non si esaurisce nel semplice apporto di risorse finanziarie, ma egli mette a disposizione dell’azione aziendale anche il proprio know how manageriale, i propri contatti, le proprie collaborazioni e il proprio prestigio, con ricadute positive anche in termini di immagine per l’azienda target. Il mercato italiano di riferimento presenta ancora grandi potenzialità, “il cui pieno sfruttamento” – sottolinea Innocenzo Cipolletta Presidente di AIFI – “dipenderà, da una parte, dalle capacità degli stessi soggetti che ne compongono l’offerta e la domanda e, dall’altra, dal quadro istituzionale e giuridico che il nostro ordinamento riuscirà a predisporre”.
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