L’editoria si tinge di rosa

In un contesto economico caratterizzato dal forte divario tra il ruolo maschile e quello femminile, il settore editoriale sembra favorire sempre più l’ingresso delle donne

In occasione della celebrazione, l’8 marzo, del ruolo della donna nella società italiana, si è da più parti posto l’accento sull’esigenza di ridurre le discriminazioni di genere e i soprusi e di favorire l’ingresso dell’universo femminile nel mondo del lavoro, consentendo, in particolare, alle madri una reale conciliazione tra lavoro e famiglia.

Ad apertura del secondo convegno organizzato lo scorso 7 marzo dalla Banca d’Italia sul ruolo delle donne nell’economia italiana, il governatore Ignazio Visco ha sottolineato la necessità, per il nostro Paese, di ideare e attuare delle riforme strutturali, affinché gli sforzi fatti per il raggiungimento di una stabilità finanziaria possano dirsi realmente efficaci e affinché si possa sperare di raggiungere l’obiettivo, condiviso a livello europeo (strategia “Europa 2020”), di una crescita “intelligente, sostenibile ed inclusiva”.

Tali riforme dovrebbero essere volte a recuperare una serie di divari, primo tra tutti quello relativo all’occupazione femminile. Ricorda Visco come nel Mezzogiorno le donne occupate siano solo tre su dieci e come nel Centro-Nord, dove il tasso di occupazione femminile appare più elevato (55%), lo scarto con il tasso maschile sia di circa 18 punti percentuali; sugli oltre due milioni di giovani che oggi in Italia non studiano, non lavorano e non partecipano a un’attività formativa, prosegue Visco, ben 1,2 milioni sembrano essere donne. Impegno comune dev’essere, allora, quello di comprendere e rimuovere i fattori alla base di questa carenza strutturale, “anche se in qualche caso ciò significa contrastare rendite di posizione o interessi particolari”: “recuperare i divari rispetto alla partecipazione al mercato del lavoro femminile, alla mancata valorizzazione di queste competenze, trasformare una grave debolezza in una straordinaria opportunità è un obiettivo che non possiamo non porci”, “ne va del nostro futuro”.

Stando alle stime recentemente esposte da Bankitalia, vi sarebbe una relazione positiva tra aumento del tasso di occupazione femminile, crescita del PIL e conseguente riduzione del rischio di povertà: un’occupazione al 60%, definito a livello europeo dal Trattato di Lisbona, comporterebbe – anche ipotizzando un effetto negativo della produttività di 0,3 punti percentuali, dovuto ad un ingresso così massiccio di forza lavoro – un aumento del PIL pari al 7%.

Alcuni dati Eurostat hanno, poi, rivelato come, in tutti gli Stati appartenenti all’Unione Europea, il rischio di povertà o di esclusione sociale sia più alto tra le donne che tra gli uomini: seppur più numerose degli uomini (257 milioni di donne, contro 245 milioni di uomini; la proporzione relativa è di 105 donne ogni 100 uomini, proporzione che aumenta con l’avanzare dell’età, arrivando a 138 donne ogni 100 uomini per gli over 65), le donne a rischio di povertà o di esclusione sociale sembrano essere, in base agli ultimi dati disponibili, ben 62 milioni (pari al 24,5% del totale di tutte le donne), contro i 54 milioni di uomini (22,3% del totale). Le differenze più marcate in tal senso si registrano proprio in Italia, dove il rischio è riferito al 26,3% delle donne, contro il 22,6% degli uomini; seguono Austria (rispettivamente 18,4% e 14,7%) e Slovenia (20,1% e 16,5%). Le differenze minori si evidenziano, invece, in Estonia, Lettonia, Lituania e Ungheria, dove il gap è inferiore ad un punto percentuale.

Con riferimento, poi, al tasso di occupazione nei Paesi dell’Europa 27, l’Eurostat ci dice che esso è pari al 63,8% fra le donne (dai 25 ai 64 anni), contro il 77,5% degli uomini, per uno scarto del 13,7%. Le differenze, tuttavia, si riducono in relazione al livello di istruzione: ad un basso livello di istruzione, corrisponde un’occupazione del 43,3% tra le donne e del 65,2% tra gli uomini (21,9% il gap); ad un’istruzione media, il tasso è del 66,6% per le donne e del 79,1% per gli uomini (12,5% il gap); ad un livello di istruzione elevata, infine, il tasso è dell’80,6% fra le donne e all’87,4% fra gli uomini (il gap si riduce al 6,8%). In Italia, in particolare, la percentuale di occupazione sembra essere del 51.4% per le donne e del 75.8% per gli uomini: con un livello di istruzione basso, il tasso di occupazione femminile è del 32.5%, quello maschile del 68%, con una differenza di ben 35,5 punti percentuali; tra coloro che hanno un’istruzione media, lo scarto rimane piuttosto elevato, pari a circa 20 punti percentuali, mentre, tra coloro che possiedono un elevato livello di istruzione, esso si attesta sui 10,6 punti percentuali (73.6% per le donne e 84.2% per gli uomini).

In un contesto di così difficile attuazione per gli ideali di pari opportunità, alcune recenti indagini riferite al contesto italiano sembrano, tuttavia, offrire qualche spiraglio di speranza.

Abbiamo già riportato le stime diffuse dall’Osservatorio dell’imprenditoria femminile di Unioncamere, stando alle quali le imprese rosa presenti in Italia a fine dicembre 2011 sarebbero state quasi 7mila in più rispetto all’anno precedente, con un incremento dello 0,5% e con un saldo complessivo di 1.433.863 imprese femminili (pari al 23,5% del totale imprese italiane); tale incremento ha permesso di compensare le cattive performance registrate dall’imprenditoria maschile, in riduzione, nel 2011, di circa 6mila unità.

Declinando l’attenzione su uno specifico ambito disciplinare, una seconda indagine capace di offrire una fotografia piuttosto rassicurante è quella curata da Gianni Peresson, responsabile dell’Ufficio studi AIE (Associazione Italiana Editori), e da Elisa Molinari; basandosi su dati riferiti al 2011, essa ha inteso, in particolare, analizzare la portata di quote rosa all’interno del settore editoriale, estendendo l’analisi non solo alle pratiche di lettura e di acquisto, ma anche alle tendenze occupazionali e di gestione. Vediamo nel dettaglio quanto emerso.

La distanza tra uomini e donne nella lettura di libri sembra essere oggi pari a 18 punti percentuali, in forte aumento sul 2008 (quando lo scarto era pari a circa 12 punti percentuali, tra il 50% di donne lettrici e il 37,7% di uomini lettori) e, ancor di più, sul 1988 (quando lo scarto era di 6 punti, tra il 39,3% di donne lettrici e il 33,7% di uomini lettori). Questa constatazione sembra essere vera con riferimento a tutte le fasce età; in quelle giovani spesso il divario risulta, anzi, ancor più pronunciato: tra i 18-19enni esso sale a più di 19 punti percentuali (leggono il 63,8% delle ragazze e il 44,5% dei ragazzi), tra i 20-25enni si attesta a quasi 22 punti (62,5% le lettrici e 40,6% i lettori), mentre tra i 15-17enni arriva a quasi 29 punti percentuali (legge il 73,2% delle ragazze, contro il 44,5% dei ragazzi). Tra i più piccoli si riduce, invece, lo scarto: quasi 14 punti per la fascia compresa tra gli 11 e i 14 anni (69,2% lettrici e 55,3% lettori) e soli 4 punti per la fascia tra i 6 e i 10 anni (53,8% le lettrici e 49,8% i lettori).

Oltre a leggere di più, le donne sembrano anche frequentare maggiormente i canali di vendita: il 54% di chi acquista libri in Italia è di sesso femminile (contro il 46% riferito al sesso maschile) e il volume degli acquisti di libri è pari al 57% per le donne, contro il 43% per gli uomini.

Il report passa poi ad analizzare la situazione occupazionale in Italia nel mondo editoriale, confrontandola innanzitutto con quella europea: nel 2001 il tasso di occupazione femminile in Italia risultava essere del 41,1%, quello europeo del 54,3%, nel 2006 le percentuali erano rispettivamente del 46,3% e del 57,2%, mentre nel 2009 esse sono del 49,7% e del 62,5%; nel 2009 il gap di genere appare in diminuzione di 2,5 punti percentuali sul 2004, con riferimento al contesto italiano, e di 2,9 punti, con riferimento al contesto europeo.

Cresce la presenza di donne non solo nelle attività redazionali e di segreteria, ma anche nei ruoli direttivi; mentre nel 1991 coprivano il 27% degli incarichi direttivi e nel 2008 il 36%, nel 2011 esse arrivano a coprirne il 40,2%. Negli ultimi vent’anni sono, quindi, aumentate le quote rosa in tutte le attività considerate di direzione: in quella tradizionale di ufficio stampa (dal 1991 a oggi si è registrato un +21,5%) in quella di direttore commerciale (+18,1% tra 1991 e 2011), in quella di direttore editoriale (+47,3%) e, infine, in quella di presidente, amministratore delegato, amministratore unico e direttore generale (+98%).

Ancor più incoraggianti sembrano essere le prospettive future del ruolo femminile in editoria, dato che i nuovi ingressi di donne si sono attestati, da un decennio, all’incirca al 60% (nel 2011 essi risultano, in particolare, il 64%).

Le donne sono, inoltre, più attente all’aggiornamento professionale, poiché ben 12 punti percentuali le separano dai colleghi uomini, nella scelta di frequentare corsi (56% contro 44%).
A registrare gli esiti migliori è soprattutto la piccola editoria, dove la presenza femminile in ruoli direttivi è oggi superiore di nove punti rispetto alla media del settore (49% rispetto a 40%), in aumento di tre punti sul 2008. I ruoli, in particolare, che hanno visto una presenza femminile maggiore rispetto alla media sono stati quello di direttore editoriale (nel 2011 le donne sono il 13,9%, registrando un +51,4% sul 2008) e di direttore commerciale (le donne sono il 7,7%, pari al +23,1% sul 2008).

L’analisi si concentra, infine, sul mondo delle librerie: le libraie risultano essere il 71,8%, sopravanzando notevolmente gli uomini (28,2%).

Questa fotografia 2012 “conferma e accentua – sottolinea Gianni Peressonle tendenze che avevamo visto nel 2009”. Le ragioni di simili incrementi degli addetti in gonnella nel settore editoriale sono da rilevare nelle “maggiori abilità” e “competenze nel gestire le relazioni e nell’organizzare il lavoro”, necessarie in “alcune attività – dall’ufficio stampa a quelle editoriali, fino alla gestione della libreria”. “Senza dimenticare – prosegue Peressan – una miglior cultura di base – hanno letto di più rispetto ai loro coetanei maschi lungo tutta la carriera di studio – qualcosa significherà! – e una maggior curiosità e flessibilità. Si tratta – conclude – di paradigmi concettuali oggi ancor più importanti di fronte ai cambiamenti che le nuove tecnologie pongono davanti alle imprese editoriali”.

Un modo diverso di fare libri? Si interrogano i promotori. Forse.
Dal canto nostro possiamo sperare che la particolare sensibilità e la forte intuizione tradizionalmente attribuite alla figura femminile siano in grado di apportare intensi benefici ad un’industria che, tra conferme positive e stime disattese, sarà costretta ad affrontare sfide sempre più impegnative, dettate dallo sviluppo tecnologico e dal mutamento delle prassi fruitive e d’acquisto tra gli utenti.

Pubblicato su: PMI-dome

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Il successo degli imprenditori in gonnella

Le imprese in rosa aumentano di quasi 9mila unità nel settembre 2011

Mi permetto […] di fare presente che […] sono affidati a personalità femminili ministeri di grande rilievo: il ministero dell’Interno, il ministero della Giustizia e il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con delega alle Pari opportunità”.

Sono le parole pronunciate dal neopresidente del Consiglio, Mario Monti, nel presentare – dopo aver accettato l’incarico del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano – la lista dei ministri eletti; sono parole rimbalzate dai principali siti di informazione online alle prime pagine dei quotidiani cartacei; parole che, a ben vedere, dovrebbero servire ad interrogarsi sul perché, alle porte del 2012, si sia ancora costretti a precisare, e quasi giustificare, la presenza di donne ai vertici direttivi statali.

La parabola del bunga bunga e la tendenza tipicamente italiana alla mercificazione del corpo femminile per scopi commerciali non hanno di certo contribuito a dare reale corso agli ideali di pari opportunità professati dalle menti più illuminate. Tuttavia alcuni dati diffusi recentemente dall’Osservatorio dell’imprenditoria femminile di Unioncamere sembrano comprovare un riscatto effettivo del ruolo delle donne nell’economia e nella società italiane, evidenziando, in particolare, la forza effettiva del loro voler fare impresa. Lo stesso Monti, del resto, ha fatto più volte riferimento, nei suoi discorsi di insediamento, alle donne, viste come reale motore del Paese. Vediamo di seguito qualche cifra significativa.

1.435.716: questa, secondo Unioncamere, la “quota rosa” complessiva dell’imprenditoria italiana nel terzo trimestre 2011, pari al 23,4% del totale aziende (6.134.117) e contro una quota di imprese a conduzione maschile di 4.698.401 unità. Le concentrazioni maggiori, in termini assoluti, si registrano in Lombardia (193.903 imprese, pari al 13,5% del totale imprese rosa), in Campania (149.471, cioè il 10,4%), in Lazio (143.012, 10,0%), Sicilia (115.404, 8,0%), Piemonte (112.555, 7,8%), Veneto (110.447, pari al 7,7%) ,Toscana (100.351, 7,0%) ed Emilia Romagna (98.551, cioè 6,9%).

Consideriamo ora la questione in termini di variazioni temporali dei dati.
Alla fine di settembre 2011 le imprese femminili sarebbero aumentate di quasi 9 mila (precisamente 8.814) unità rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, segnando un incremento di 0,6 punti percentuali; per comprendere l’ampiezza del dato è sufficiente confrontarlo con quello riferito alle nuove imprese maschili sorte, pari a 9.980 unità, in aumento di 0,2 punti percentuali nel periodo considerato. Su un saldo totale di nuove imprese registrate alle Camere di commercio tra settembre 2010 e settembre 2011 pari a 18.794 (+0,3% rispetto al 2010), le nuove realtà femminili rappresentano, allora, una fetta piuttosto consistente, il 47%.
Si sottolinea, poi, la maggiore dinamicità della componente imprenditoriale femminile, con quindici regioni che registrano variazioni positive, delle quali nove superiori alla media: solo Basilicata (-1,4% e -245 imprese feminili), Molise (-1,1% e -117 imprese), Valle D’Aosta (-1,1%, con -39 realtà), Sicilia (-0,4% e -479 aziende) e Liguria (-0,1%, con -51 imprese) sembrano aver risentito della crisi, presentando percentuali di decremento rispetto al 2010.
Le risalite maggiori per l’imprenditoria rosa dell’ultimo anno si sono manifestate soprattutto in Lazio, con un +1,4% di nuove realtà, pari, in termini assoluti, a 1.934 unità; seguono Umbria (+1,3%, con 311 nuove imprese), Calabria (+1,2% e 542 aziende) e Veneto (+1,2%, 1.280 nuove entità), con dei segni più che, a differenza del Lazio, sono stati di portata maggiore rispetto all’imprenditoria maschile.
Considerando, invece, le nuove imprese in termini assoluti, sono le regioni a più diffusa presenza di imprese a collocarsi in cima alla classifica; seguono, allora, il Lazio: la Lombardia (+1.411 pari al +0,7%), il Veneto, la Toscana (+1.080, pari a +1,1%) e l’Emilia Romagna (+1.054, +1,1%).

Restringendo la prospettiva alla dimensione provinciale, le variazioni positive più rilevanti stimate nel terzo trimestre 2011 rispetto al 2010 si sono avute a Prato (8.401 imprese nel 2011, contro le 8.163 nel 2010, con un +2,9%), Monza e Brianza (14.350 contro 13.950, pari a +2,9%), Fermo (5.364 contro 5.223, +2,7%), Messina (13.874 contro 13.512, +2,7%) e Arezzo (9.230 contro 9.041, +2,1%). 29, invece, di cui 13 collocate nel Mezzogiorno, le province in cui si registra una riduzione delle imprese a conduzione rosa: le contrazioni maggiori in termini percentuali si hanno a Caltanissetta (-5,7%), seguita da Avellino (-3,2%), Trapani (-2,8%), Vibo Valentia (-2,8%) e Lodi e Palermo (entrambe -2,4%).
Tuttavia “il Mezzogiorno – ci dice Unioncamere – si conferma comunque il territorio con i valori più elevati di femminilizzazione del tessuto imprenditoriale”, intendendo con il termine “femminilizzazione”, “il peso relativo delle imprese femminili sul totale” del tessuto economico. Il tasso maggiore si registra in Molise (30,1%), seguito da Basilicata (27,8%), Abruzzo (27,7%) e Campania (26,9%). Al di fuori del Sud, la regione più femminile è l’Umbria (26%), mentre il primato tra le regioni settentrionali è detenuto dalla Liguria (24,6%).

Unioncamere ha inteso evidenziare anche le variazioni riportate, nell’intervallo temporale che va da settembre 2010 a settembre 2011, in termini di struttura delle imprese a conduzione femminile: ciò che salta all’occhio è il forte trend di aumento delle società di capitali (registrano un +4,1%, contro un +3,0% rilevato per le imprese maschili), mentre salgono di soli 0,2 punti percentuali le impresa individuale (a fronte di un – 0,3% per le imprese maschili), che rimangono comunque la forma giuridica più utilizzata in termini assoluti dalle imprenditrici italiane (60,4% di tutte le iniziative guidate da donne). Calano, invece, le società di persone (-0,7%, contro -2,2% per imprese maschili).

Infine l’analisi si è dedicata ai settori economici interessati dalle quote rosa. Si sottolineano, in questo senso, due tendenze dal segno opposto: da una parte il rafforzamento di compartimenti tradizionalmente appannaggio del mondo femminile, come quello dell’Istruzione (+462 imprese tra 2010 e 2011, pari ad un +6%), quello della Sanità e Assistenza sociale (+571, +4,3%), quello delle Attività artistiche e di intrattenimento (+554, +3,3%), infine quello delle Attività professionali, scientifiche e tecniche (+1.320 unità, cioè +3.2%). Il commercio, di solida padronanza femminile, registra, invece, solo un leggero +0,1%, con 313 nuove aziende, anche se – bisogna sottolinearlo – il dato riflette l’attuale difficile congiuntura economica; allo stesso modo perde punti anche un altro settore tipicamente rosa, l’agricoltura (-6.441 unità, pari a -2,5%), che, tuttavia, mostra da tempo, complesso considerato, un andamento in negativo.
La seconda tendenza rilevata è la lenta ma costante diffusione della componente rosa in settori a tradizionale vocazione maschile: nelle Costruzioni (1.722 nuove imprese, cioè +2,7%) e nel trasporto e magazzinaggio (+358 realtà, +1,8%).
I dati evidenziati sono stati presentati in occasione dell’avvio del “Giro d’Italia delle donne che fanno impresa”, un’iniziativa promossa da Unioncamere assieme alle Camere di commercio e ai Comitati per l’imprenditoria femminile, con l’intento di creare uno spazio di riflessione, nuove opportunità e progetti di sviluppo economico e sociale: la prima delle sette tappe lungo le quali si svolgerà il “Giro” è stata Macerata, il 14 novembre scorso (Arezzo, Vicenza, Ferrara, Avellino, Reggio Calabria e Aosta sono le altre sedi).
Oggi più che mai – ha dichiarato il Presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanelloa queste imprenditrici occorre guardare con grande attenzione, sostenendole nel loro percorso di rafforzamento. Il loro impegno è una grande risorsa sulla quale il Paese può scommettere per riprendere, dopo la bufera di questi mesi, la via dello sviluppo”.
A ben vedere, questi stessi dati diffusi da Unioncamere si collocano in controtendenza rispetto agli alti livelli di disoccupazione femminile evidenziati, all’incirca un mese fa, dall’Osservatorio sull’imprenditoria femminile curato dall’Ufficio studi di Confartigianato. In quell’occasioni le stime sono state, infatti, tutt’altro che incoraggianti, con un tasso di inattività delle donne italiane pari al 48,9%, contro una media europea del 35,5%: “in pratica – rileva Confartigianato – siamo in ritardo di 23 anni rispetto all’Europa”, visto che “il nostro attuale tasso di inattività delle donne è uguale a quello registrato nel 1987 dai Paesi dell’allora Comunità europea”.
La disoccupazione femminile sembra essere maggiore nel Mezzogiorno: a livello regionale, si evidenzia un record di inattività per la Campania, la quale, con il 68,9%, fa registrare il più alto tasso tra le 271 regioni europee. Sul lato opposto si colloca, invece, la Provincia autonoma di Bolzano, con un tasso del 34,9%.
A livello provinciale è Napoli a segnare un primato in negativo, con un 72,4%, mentre a Ravenna si registra la percentuale più bassa (30,7%).

La causa principale della complessa situazione italiana viene identificate nel “basso investimento in quei servizi di welfare che dovrebbero favorire la conciliazione tra attività professionali e cura della famiglia”; siamo, infatti, al 23° posto per interventi statali rivolti a famiglia e maternità, con il solo 1,3% del PIL destinato a tale scopo, pari a 320 euro ad abitante, cioè 203 euro in meno rispetto alla media europea; si pensi, ad esempio, che in Germania gli investimenti per famiglia e maternità corrispondono al 2,8% del PIL, in Francia al 2,5% e lo scarto si rafforza nel confronto con i Paesi del Nord Europa: in Danimarca la percentuale sul PIL è del 3,8%, in Irlanda del 3,1%, in Finlandia e Svezia è del 3%.
Altre motivazioni all’esclusione delle donne italiane dal mercato del lavoro vengono identificare nella “carenza di servizi pubblici per l’infanzia (asili nido, micronidi o servizi integrativi)”, utilizzati dal solo 12,5% della popolazione, e nella insufficienza di “servizi di cura e assistenza agli anziani” (appena il 4,3% del totale degli individui con almeno 65 anni è trattato in assistenza domiciliare integrata, ADI).
Sono queste, allora, alcune delle più importanti sfide con le quali la nuova formazione “tecnica” di governo dovrà confrontarsi nei prossimi mesi, con la speranza che sappia cogliere realmente l’importanza fondamentale di questa forza colorata (non solo di rosa, ci terrei a sottolineare) in costante ascesa. Misure concrete, dunque, per una voglia di impresa che si è dimostrata altrettanto concreta e potenzialmente fruttuosa per il benessere economico complessivo del Paese.

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