Politiche fiscali differenziate, incentivi, cambiamento culturale, ricerca di investitori istituzionali: ecco alcune delle ricette proposte ad Convegno alla Sda
Nel corso del convegno dal titolo “Trends in the European securities industry and the implications for the Italian financial community”, tenutosi il 24 gennaio alla Sda Bocconi, sono stati presentati i risultati di una ricerca commissionata da Emittenti Titoli e Assonime, dai quali si deduce come il processo di quotazione sia percepito dalle aziende come un processo ad alto (55,3%) se non altissimo (13,1%) costo.
“Serve una forte riforma fiscale che consenta di far crescere il capitale di rischio nelle piccole e medie imprese tenendo bene a mente che queste ultime sono distinte e dunque vanno trattate come tali”. Il Presidente di Assonime e di Bnl, Luigi Abete, ne è convinto: alla base della difficoltà nel portare le piccole e medie imprese in Borsa vi sarebbe una vera e propria questione di natura “culturale”, legata primariamente ai costi troppo elevati – sia in termini di ammissione a piazza Affari, sia, soprattutto, in termini di riorganizzazione strutturale richiesta – implicati in un simile processo. “Se l’impresa per andare in Borsa deve darsi una struttura differente, occorre darle una motivazione per farlo”: “sostanzialmente le aziende in Borsa non ci vanno perché non conviene”. In Italia ci sarebbero meno aziende quotate rispetto a Polonia e Grecia e, stando ai dati Istat riportati da Abete, solo 85.287 imprese hanno più di 20 dipendenti e, tra queste, 3.500 hanno più di 250 dipendenti, mentre ben 82.000 hanno da 20 a 250 dipendenti, rientrando nella comune definizione di “piccole e medie imprese”: “è chiaro che fra di loro non sono omogenee. Per varare delle strategie vere di aiuto, occorre raggruppare queste aziende in gruppi diverse e pensare delle strategie mirate, se no si fa soltanto propaganda”.
Delle politiche fiscali mirate, differenziate per categoria (dunque per tipologie ed esigenze), degli incentivi fiscali forti e una svolta sul lato della cultura manageriale (che si deve “aprire al fatto di gestire anche realtà che non controllano al cento per cento come nel caso delle aziende quotate”): sono queste le principali ricette che Abete propone per aiutare concretamente le micro, piccole e medie aziende nel loro processo di quotazione, e per permettere, quindi, lungo questa via, un miglioramento interno alla piazza finanziaria italiana, rendendola capace di porsi in reale competizione con gli altri Paesi europei.
Abete ha sottolineato anche come le imprese italiane, per stare al passo con i competitori, dovrebbero puntare maggiormente sull’innovazione di prodotto, “ma – ha puntualizzato – l’innovazione di prodotto non si può fare a debito, deve essere applicata da un soggetto che ha la capacità patrimoniale per potersi permettere anche di sbagliare e la piccola e media impresa italiana non ha questa capacità”.
Il distacco del nostro Paese dal resto del mondo sarebbe dovuto – ha ricordato dal canto suo il Presidente di Assosim, Michele Calzolari – anche all’incapacità di cogliere il processo di innovazione finanziaria in corso, che ha condotto allo sviluppo di sistemi elettronici e alla frammentazione tra diverse piattaforme, alternative al mercato centralizzato. “Se tanti tentativi di portare le Pmi in Borsa sono falliti è perché si è sempre prestata più attenzione al lato dell’offerta che a quello della domanda” e nessun ente istituzionale italiano si è dimostrato propenso all’investimento strutturale nelle small cap.
Anche Piero Gnudi, Presidente di Emittente Titoli nonché dell’Enel, ha rilevato come la struttura del mercati di capitali italiana sia, caso più unico che raro, dominata dal retail: “In Italia il 70% delle azioni è detenuto da investitori individuali”, mentre gli investitori istituzionali pesano solo per il 28% sul mercato azionario, un dato lontanissimo dalla media europea del 65% e ancor più lontano da quella inglese dell’80%, come ricorda Enrico Granata, direttore centrale di Abi. La condanna di quest’ultimo si muove allora in direzione di una fiscalità che penalizza i fondi italiani rispetto all’estero, poiché colpisce il guadagno maturato, anziché quello realizzato. Sarebbe corretto, invece, agevolare i fondi che investono in small cap: “siamo consapevoli che la coperta è corta ma finché si continuerà a premiare l’indebitamento e a non incentivare la patrimonializzazione delle aziende, non se ne esce”.
Secondo Gnudi, infine, “va semplificato il sistema regolatorio, anche perché abbiamo visto che alla fine questa montagna di regole è servita a poco e chi voleva fare il furbo lo ha potuto fare”.
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