Mercato del benessere: quale crisi?

Oltre 70 mila impiegati nel settore e più di 35 mila imprese, soprattutto in Lombardia, per un giro d’affari annuo pari a 21 miliardi. A fronte dell’interesse crescente per wellness e forma fisica, persistono alcune prassi scorrette e un italiano su due risulta obeso o in sovrappeso. Il moltiplicarsi degli esercizi nasconde l’allarme abusivismo

Raccoglie un giro d’affari annuo di oltre 21 miliardi. Coinvolge più di 70 mila addetti e più di 35mila imprese tra centri benessere, trattamenti estetici e palestre. È la fotografia del mercato del wellness in Italia, basata su dati Aiceb Confesercenti, Censis e Coni e diffusa in occasione dell’ottava edizione di “RiminiWellness”, la manifestazione dedicata al fitness, al benessere e allo sport, svoltasi dal 9 al 12 maggio 2013 a Rimini Fiera, col patrocinio di Regione Emilia-Romagna, Provincia e Comune di Rimini. Sulla scia di un settore che sembra tenere piuttosto bene, malgrado la difficile congiuntura economica, la kermesse ha registrato un’ampia affluenza (244.532 visitatori), superiore di 7 punti percentuali rispetto al 2012, con una massiccia partecipazione di Russia, Est Europeo e Turchia.
Più in particolare, secondo le stime rese note, gli istituti di bellezza rappresentano la quota più ampia e redditizia del settore, con circa il 70% delle imprese totali, pari a ben 21 mila unità. Seguono gli hotel e gli agriturismi (sono 4.200), i centri idrotermali e gli stabilimenti per il benessere fisico (2.500). Le piscine e le palestre sono circa 7 mila e gli stabilimenti balneari attrezzati circa 500. Le performance del settore raggiungono livelli ancor più elevati, se si considerano anche i 3.773 esercizi ricettivi presenti nelle solo località termali, che hanno una disponibilità di 148.918 letti (pari al 3,2% del totale letti delle strutture ricettive in Italia) e permettono un giro di presenze turistiche attorno ai 15 milioni l’anno.
Assumendo una prospettiva globale, pare che il maggior numero di centri per il benessere e di utenti degli stessi si trovi negli Stati Uniti. A seguire incontriamo il Giappone, il Regno Unito e la Germania. Un’incoraggiante quinta posizione spetta all’Italia, seguita dalla Spagna.
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Tornando al focus nazionale, la medaglia d’oro per quantità di imprese dedicate alla cura del corpo, va alla regione Lombardia, che raggruppa il 36,1% delle attività complessive: detta in altri termini, quasi un centro benessere su cinque (18,3%) tra quelli attivi in Italia ha sede nella provincia di Milano.
Alcune stime elaborate e diffuse nei giorni scorsi dalla Camera di Commercio di Milano, sulla base di dati del registro delle imprese 2012 e 2011 ), confermano la posizione di leader nel settore benessere detenuta dalla Lombardia. Un settore che qui cresce, infatti, tra il 2011 e il 2012, dello 0,7%, passando da 24.813 a 24.982 imprese attive. Nella Regione il 72% delle ditte individuali operanti nel benessere ha, inoltre, per titolare una donna e un imprenditore su dieci ha meno di trent’anni. In Lombardia è attivo un sesto delle imprese italiane dell’estetica e del benessere, con 16.802 parrucchieri (+0,2%), 5.569 istituti di bellezza (nel 2011 erano 5.476, +1,7%) e 738 palestre (+0,8%). Milano, Brescia e Bergamo risultano le province con il maggior numero di imprese nel settore, rispettivamente con 7.580 (30,3% del totale regionale), 3.338 (13,4%) e 2.917 (11,7%) unità. I livelli di crescita maggiore si riscontrano invece a Monza e Brianza (+1,5% rispetto al 2011), Pavia (+1,4%) e Como (+1,3%).
Continuiamo a occuparci delle elaborazioni sul wellness diffuse a Rimini, concentrando ora l’attenzione sui consumatori di questo florido mercato. Sono circa 40 milioni gli italiani che praticano più o meno regolarmente l’attività sportiva e quasi 11 milioni quelli che spendono o si dichiarano pronti a spendere fino a 1.200 euro all’anno per prodotti e servizi per il proprio benessere fisico. Il 23% della popolazione frequenta abitualmente un centro fitness, l’8,7% delle strutture per la cura del corpo. La fascia di utenti fitness più ampia (il 32%) è quella dei 18-25enni, seguita dalla fascia 26-35 anni (27%), da quella 36-45 anni (21%), 46-55 anni (14%), infine 56-65 anni (6%). Il 41% dei frequentatori di palestre e centri benessere è single, il 54% è sposato o convive e il 5% è divorziato o separato.
A livello territoriale chi è solito frequentare palestre e centri fitness abita soprattutto al Nord (il 56%, contro il 25% di chi vive al Centro e il 19% di chi vive al Sud). Più nel dettaglio, le regioni con il tasso più elevato di utenti sono la Lombardia (19%), il Veneto (11%), l’Emilia Romagna, il Lazio (entrambi al 10%) e la Toscana (8%). Al Sud, buone le percentuali registrate da Campania (6%), Puglia e Sicilia (entrambi al 4%).
Alla base delle acque favorevoli su cui naviga il mercato del wellness vi è un’offerta che sembra diversificarsi con grande rapidità e che propone sempre più centri polifunzionali. Si assiste, inoltre, a una polarizzazione dei consumi, che si rivolgono sempre più verso palestre di fascia alta, capaci di offrire molteplici e differenziati servizi o, in alternativa, verso centri dal profilo low cost. Stando al clima respirato e ai dati diffusi in occasione del RiminiWellness, l’interesse degli italiani verso il benessere e la forma fisica sembra essere, quindi, in costante crescita.
Questo nonostante alcuni comportamenti rischiosi continuino a minacciare la salute nella popolazione: stando al quadro delineato recentemente dall’Istat, in collaborazione con il Cnel, attraverso il primo “Rapporto sul benessere degli italiani”, i problemi di sovrappeso e obesità stanno seguendo una linea crescente, colpendo circa il 45% della fascia maggiorenne. L’abitudine al fumo mostra una lieve flessione, che non riguarda tuttavia i più giovani: se nel 2001 i fumatori erano il 23,7% della popolazione di 14 anni e più, dieci anni dopo tale percentuale, stabile dal 2004, è scesa solo di un punto. Sembrano diffondersi pratiche di abuso nel consumo di bevande alcoliche da parte dei giovani e circa il 40% degli adulti non svolge alcuna attività fisica nel tempo libero, perseguendo uno stile di vita sedentario. Oltre l’80% della popolazione consuma, inoltre, meno frutta e verdura di quanto sia abitualmente raccomandato. Più penalizzate, in simili prassi scorrette, sono le persone di estrazione sociale più bassa e quelle abitanti nel Mezzogiorno. L’allarme lanciato da Istat e Cnel riflette la necessità di impedire che queste cattive abitudini si consolidino e finiscano per influenzare in termini negativi anche le generazioni future.
Le tendenze di recente rilevate sembrano, dunque, collidere tra loro, rilevando, da un lato, un italiano pigro e costretto a lottare continuamente con la bilancia, dall’altra un’attenzione crescente per la salute e la forma fisica. I risultati di un’ulteriore indagine possono forse aggiungere nuovi stimoli alla riflessione, delineando un Belpaese che, per soddisfare la propria ricerca di bellezza, ricorre sempre più alla soluzione più rapida e semplice di tutte, il classico “ritocchino”. La Società internazionale di chirurgia plastica estetica (ISAPS), nel suo “Global study of aesthetic cosmetic surgery procedures in 2011“, colloca l’Italia al sesto posto mondiale per numero di interventi di chirurgia plastica e per quantità di professionisti del settore. Si ricorre al bisturi soprattutto per aumentare il seno e si sta diffondendo il lipofilling, ossia il trapianto del proprio grasso.
Il moltiplicarsi di saloni di bellezza, centri estetici, parrucchieri, solarium e altri centri che si occupano di wellness nasconde, infine, un altro fenomeno sul quale si stanno concentrando le preoccupazioni di varie associazioni di categorie. Si tratta dell’abusivismo, che, oltre a mettere in difficoltà gli operatori del settore, rischia di trasformare quelli che in apparenza potrebbero sembrare degli ottimi affari in rischiosi interventi per i vanitosi utenti. A lanciare l’allarme è, tra le altre, anche l’Unione nazionale CNA Benessere e Sanità, che ha di recente diffuso alcuni dati dell’illegalità a Roma: dei 4 mila nuovi centri di estetisti e acconciatori che annualmente spuntano, ben 2 mila sono abusivi e il giro d’affari generato dal nero è di 15 milioni di euro di evasione fiscale e contributiva.
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Federsanitas: quando l’imprenditore indossa il camice bianco

Cerchiamo di conoscere meglio la giovane associazione che rappresenta, all’interno di Confesercenti, le società di gestione di servizi e mezzi in ambito sanitario, attraverso le parole del suo Presidente, Mauro Tomasella

Si chiama Federsanitas e rappresenta l’associazione delle società di gestione di servizi e mezzi in ambito sanitario. Nasce primariamente come espressione degli interessi – un tempo privi di megafono istituzionale – tipici di quell’area dell’odontoiatria che viene gestita da società e che molto spesso ha come investitori di capitali degli odontotecnici. Essa aspira, tuttavia, a rappresentare qualsiasi tipologia di società di servizi sanitari, anche quelle più complesse che inglobano diversi professionisti appartenenti a vari campi della medicina.
Costituitasi il 21 maggio 2012 a Roma, la Federsanitas opera all’interno di Confesercenti e, in particolare, della Federbiomedica, quella macroarea che raggruppa trasversalmente tutte le associazioni di categoria aderenti a Confesercenti e attive nel campo della sanità pubblica e privata. Oltre a Federsanitas, rientrano in Federbiomedica anche Anpi (Associazione nazionale delle parafarmacie italiane), Assosanità (che ingloba quei soggetti di natura privata operanti nel campo dell’assistenza sanitaria), Cio (Collegio italiano odontotecnici), Fio (Federazione italiana ottici), e Fios (Federazione italiana ortopedie sanitarie). Compito di Federbiomedica è assicurare un maggior peso politico alle singole associazioni, coordinando l’attività delle imprese e dei professionisti del comparto bio-medicale e promuovendo l’integrazione tra tutte le esperienze in campo.
Grazie alla Federsanitas, numerosi laboratori d’analisi, cliniche, centri di fisioterapia, ambulatori, poliambulatori, centri dentali, e tutte le altre società di natura privata che offrono assistenza di tipo sanitario attraverso la fornitura di mezzi o servizi, possono ottenere la giusta rappresentanza e la necessaria assistenza in campo legislativo. Gestire simili strutture impone, infatti, il rispetto di precise norme, non sempre facili da interpretare e – cosa ancora più importante – spesso non conosciute da commercialisti e notai, incapaci di offrire una consulenza così specifica. Quanti hanno costituito una società di gestione di servizi, o hanno anche solo avviato il procedimento burocratico per l’apertura di una di queste, possono ora avvalersi della consolidata competenza e dell’accreditata esperienza dei due specialisti messi a disposizione dall’associazione (l’avvocato Silvia Stefanelli  e il dottor Dino Malfi), per comprendere quale sia la forma giuridica più idonea ad esercitare le proprie funzioni, per allineare il proprio statuto alla realtà in cui concretamente si opera e per avere certezze circa adempimenti, termini e scadenze imposte dal legislatore.
Le società di gestione di servizi e mezzi sanitari rappresentano un ottimo strumento a disposizione di molti camici bianchi, per una gestione più snella ed efficiente della propria attività professionale, sotto il profilo amministrativo e fiscale. Esse sfidano la logica tipicamente individualista che caratterizza il settore dei servizi odontoiatrici (e sanitari in generale) e rappresentano forse la risposta interna alla penetrazione e proliferazione in Italia di società gestite da operatori stranieri e caratterizzate da strutture multiprofessionali.
Non pochi sono gli obiettivi dichiarati dall’associazione in sede di costituzione. Vi è, innanzitutto, la volontà di garantire agli iscritti la tutela dei loro legittimi interessi, nei rapporti con il Ministero della Salute, con le Regioni e con le Aziende Sanitarie presenti sul territorio, al fine di giungere ad una sostanziale condivisione del processo decisionale. Si ritiene, infatti, che scelte unilaterali e rappresentative solo di alcune parti abbiano, in passato, finito spesso per penalizzare il settore nel suo complesso.
Si intende poi offrire un quadro di generale eguaglianza nelle opportunità di tutti gli operatori sanitari, rafforzando il ruolo e le prospettive delle realtà meno strutturate e ridimensionando gli iniqui vantaggi derivanti da anacronistiche rendite di posizione. Parallelamente si rincorre una maggior trasparenza nello sviluppo di un nuovo modello di accreditamento, capace di condurre ad una semplificazione delle procedure e ad un utilizzo oculato delle risorse pubbliche.
La Federsanitas si prefigge ovviamente anche l’obiettivo di valorizzare il ruolo dei soggetti privati nel settore sanitario, cercando di far comprendere all’opinione pubblica quanto questi possano risultare fondamentali per garantire l’idonea assistenza ai cittadini in una fase di necessaria accortezza nell’utilizzo del patrimonio pubblico.
In questo senso si vuole consentire lo sviluppo commerciale delle imprese aderenti, favorendo la sottoscrizione di accordi e convenzioni con soggetti rientranti, a vario titolo, nella Confesercenti e facendo pressioni alle istituzioni affinché intervengano per la difesa e la promozione di queste realtà.
L’associazione ha, inoltre, avviato un ciclo di incontri allo scopo di consentire agli interessati un aggiornamento costante circa la normativa del settore, il management e il marketing aziendale. L’ultimo meeting si è svolto a Roma il 4 febbraio scorso e ha riguardato la “Gestione delle problematiche inerenti le ispezioni delle autorità di controllo negli ambulatori”.
Presidente di Federsanitas è attualmente Mauro Tomasella, odontotecnico specializzato, contitolare della Dentalprotesi S.r.l., centro dentale con sede a Conegliano, in provincia di Treviso. A lui abbiamo rivolto alcune domande per cercare di comprendere meglio le motivazioni alla base dell’iniziativa e i traguardi che si intende raggiungere.
Cosa vi ha spinto verso la creazione di Federsanitas? Quale o quali lacune del sistema vi hanno fatto avvertire questa necessità?
La ragione principale è che abbiamo constatato come in tutto il territorio nazionale i commercialisti (chi più chi meno naturalmente) non siano in grado di risolvere correttamente tutte le varie problematiche relative alla gestione. Essi spesso non sono al corrente della legislazione che regolamenta tali particolari soggetti operanti nel campo dell’assistenza sanitaria.
Da chi proviene l’idea e come si è sviluppata? Chi sono i principali promotori?
Il progetto è nato all’interno dell’associazione Cio (Collegio Italiano Odontotecnici) – Confesercenti – Federbiomedica. La sede nazionale si trova a Roma in via Nazionale 60, quindi all’interno della stessa sede nazionale di Confesercenti.
Ovviamente il Cio è costituito da odontotecnici, dunque da soggetti che sono in alcuni casi titolari di un cosiddetto “centro dentale”: si entra, di fatto, in quell’area odontoiatrica che viene gestita da società che molto spesso hanno come investitori di capitali gli odontotecnici.
L’idea è venuta appunto dalla categoria degli odontotecnici e ha ottenuto subito l’appoggio del presidente di Federbiomedica, il signor Alberto Battistelli. Riscontrando le lacune suddette abbiamo pensato di costituire la Federsanitas e, per farlo, ci siamo appoggiati a due professionisti del settore, l’avvocato Silvia Stefanelli, e il dott. Dino Malfi, i quali sono ufficialmente i consulenti dell’associazione, seguendo tutti gli aspetti legislativi e normativi.
Qual è il contributo effettivo di Confesercenti per il raggiungimento degli obiettivi che l’associazione si prefigge?
Il contributo di Confesercenti è soprattutto politico e strutturale, nel senso che possiamo avvertire il peso di questa grande associazione. Abbiamo, inoltre, l’opportunità di utilizzare gli uffici Confesercenti di tutta Italia per esercitare in maniera effettiva.
 
Ci spieghi un po’ meglio quali sono le società che rientrano in Federsanitas e cosa le distingue dalle altre strutture tipiche dell’assistenza sanitaria. 
La Federsanitas offre uno spazio, prima inesistente, all’area odontoiatrica gestita da società che possono essere ambulatori, poliambulatori, centri dentali. La forma migliore è sicuramente la S.r.l. Il fatto che, ad esempio, la società sia gestita da odontotecnici può rappresentare un grande vantaggio, perché si va ad instaurare un solido lavoro di equipe, un’unione più stretta tra medico ed odontotecnico, che, al giorno d’oggi, è, secondo noi, imprescindibile per l’ottenimento di un risultato clinico protesico adeguato alle esigenze del paziente.
In che modo pensate sia utile valorizzare il ruolo di soggetti privati nell’ambito della tutela della salute (una tutela di rilevanza pubblica)? Non si rischia di trasformare l’attività medica in un business, dove a prevalere è più la logica dei costi e dei ricavi che non la salute del paziente?
Penso ciò possa portare solamente a dei vantaggi, sia per i vari professionisti che operano in ambito sanitario, sia per il cittadino-paziente. Gestire una parte della sanità in forma privata dovrebbe comportare soprattutto una maggiore qualità dei servizi volti agli utenti, poiché gli operatori possono svolgere il loro lavoro specialistico con la massima trasparenza e usufruendo concretamente di tutti gli strumenti tecnologici a disposizione.
È chiaro che vengono svolte in questa forma solo alcune attività sanitarie, di solito quelle più specializzate, che quindi non possono andare a coprire totalmente la domanda sul territorio.
Noi non intendiamo dare un profilo utilitaristico alle nostre attività, ma questo non ci può preservare da eventuali realtà – che tutt’oggi sono presenti – in cui si tende a sfruttare la situazione, se non addirittura a esercitare esclusivamente in funzione del denaro. Non si può scherzare con la salute, questo per noi di Federsanitas è un imperativo ed è per questo che vogliamo avere al nostro interno solo persone responsabili e veramente impegnate nel perseguire questo modo di pensare e di agire.
Qual è la posizione degli ordini professionali rispetto a questa associazione e alle realtà che essa tutela? 
Non abbiamo avuto, al momento, nessuna particolare lamentela, anzi, la partecipazione e le richieste di iscrizione sono arrivate e molto numerose, considerando che l’associazione è nata il 21 maggio 2012.
Incontrate alcune particolari difficoltà, diffidenze o resistenze (magari anche di natura culturale)?
Assolutamente no. Sotto tutti i punti di vista, abbiamo avuto solamente attestati di stima per aver pensato di creare questa associazione.
Un’informazioni di servizio: come ci si può iscrivere alla vostra associazione?
Per avere delle informazioni di carattere generale, gli interessati possono telefonarmi al numero 3204189175 oppure scrivermi una mail all’indirizzo mtomasella67@gmail.com. Dopodiché ci si dovrebbe recare alla sede Confesercenti più vicina e chiedere di effettuare l’iscrizione.
Voi offrite garanzie agli iscritti. Cosa vi aspettate in cambio da loro? Quale contributo auspicate da parte degli associati? 
Sono convinto che il miglior contributo da parte di un associato per la propria associazione sia quello di partecipare attivamente alla stessa, portare nuove idee, creare contatti interessanti, promuovere iniziative che diano la possibilità di aggiornamenti costanti sulle normative, il management, il marketing, proporre alle istituzioni nuovi modelli di rappresentatività.
Chi sono i professionisti che fungono da consulenti per gli iscritti? Riesce brevemente a fornirci delle “referenze”?
Come accennavo prima, i due consulenti ufficiali sono il dott. Dino Malfi e l’avvocato Silvia Stefanelli. Con entrambi abbiamo creato una “convenzione”, in forza della quale tutti gli associati Federsanitas possono rivolgersi a loro per avere indicazioni a livello legislativo e normativo. Giusto per fare un paio di esempi, l’iscritto che voglia avere informazioni precise o ricevere indicazioni sul proprio statuto, può rivolgersi all’avv. Stefanelli, mentre, se si cercano delucidazioni sulle normative che regolano la scelta degli spazi per le varie attività all’interno della società di servizi, si può interrogare il dott. Malfi
La Stefanelli è un avvocato cassazionista esperto in diritto sanitario e legislazione da prodotto. Il dott. Malfi è un esperto sulla consulenza nelle normative tecniche.
A quasi un anno dalla costituzione, è in grado di offrirci una stima circa il numero di iscritti e circa i principali traguardi raggiunti?
Ad oggi contiamo circa sessanta società iscritte e abbiamo già organizzato due incontri ufficiali a Roma, presso la sede nazionale. Il primo è stato fatto con la Stefanelli e Malfi ed era titolato “La società di gestione di servizi sanitari in ambito odontoiatrico, aspetti legali”, il secondo trattava la “Gestione delle problematiche inerenti le ispezioni delle autorità di controllo negli ambulatori”. Stiamo organizzando un nuovo incontro, per poter effettuare il quale ci siamo rivolti direttamente a un colonnello della Guardia di Finanza: si preannuncia essere davvero molto interessante e prevediamo già un’ampia partecipazione anche di società di servizi sanitari polifunzionali.
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Occupazione sempre più a rischio nelle Pmi

La Cgia di Mestre stima in 202 mila i posti di lavoro a rischio nel secondo semestre 2012, 172.000 dei quali coinvolgerebbero le pmi. Confesercenti rileva come la contrazione occupazionale riguardi soprattutto il lavoro autonomo, che rischia si perdere la tradizionale funzione di “schock absorber” della disoccupazione

Nuove prospettive buie per l’occupazione italiana giungono da alcuni accreditati centri di ricerca. L’incertezza per il perdurare di molte criticità nel nostro sistema e la sfiducia per le scelte di governo in materia di politica economica e sociale sembrano non placarsi nel comune sentire dell’imprenditoria nazionale, con conseguenze potenzialmente distruttive per la dinamica del mercato del lavoro. A pagarne le spese maggiori pare saranno soprattutto le aziende di piccole e medie dimensioni e il lavoro autonomo, che potrebbero perdere il proprio ruolo tradizionale di ammortizzatore sociale, di “schock absorber” cioè della disoccupazione. Parallelamente a simili considerazioni, alcuni recenti dati sembrano suggerire delle strade formative da percorrere in via preferenziale per avere migliori possibilità d’assunzione. Andiamo però con ordine.
La Cgia (Associazione artigiani e piccole imprese) di Mestre ha stimato in 202.000 unità i posti di lavoro a rischio in Italia nel secondo semestre dell’anno in corso. Di questi, circa 30.000 sono da ricondurre a lavoratori occupati in grandi aziende che hanno aperto un tavolo di crisi presso il ministero dello Sviluppo Economico, gli altri 172.000 riguardando invece persone alle dipendenze di piccole e medie imprese. La stima, frutto dell’elaborazione di dati Istat e di previsioni firmate Prometeia, va dunque ad aggiungersi al quadro già piuttosto nero delineato un paio di settimane fa dall’Istituto nazionale di statistica, che ha visto, nel secondo trimestre 2012, un aumento del 38,9% nel numero di disoccupati, rispetto allo stesso periodo del 2011 (soprattutto a Sud, dove sono stati individuati 339.000 disoccupati in più) e un incremento di 2,7 punti percentuali nel tasso di disoccupazione (dato dal rapporto tra le persone in cerca di un lavoro e la corrispondente popolazione di riferimento, esclusi gli inattivi), che si assesta ora al 10,5%. Il parallelo calo dell’occupazione (-0,2%, pari a 48.000 occupati in meno) è stato ricondotto principalmente a un calo dell’occupazione maschile (-1,5%, cioè -199.000 unità), compensato solo in parte dal protrarsi di un andamento positivo per l’occupazione femminile (+1,6%, pari a 151.000 unità). È scattato l’ennesimo allarme occupazionale tra i giovani (con un tasso di occupazione che scende dal 45% del secondo trimestre 2011 al 43,9% del secondo trimestre 2012, per i 15-34enni, e dal 19% al 18,9% per i 15-24enni), al quale si è contrapposto un aumento dell’occupazione per gli over 50, soprattutto per quelli a tempo indeterminato.
La previsione della Cgia non fa, allora, che aumentare il pessimismo per un mercato di lavoro ben poco vivace, la cui dinamica appare fortemente influenzata dal perdurare di alcune criticità e debolezze, lanciando nuovi segnali di incertezza a neodiplomati e neolaureati, alla ricerca di una crescita professionale. “Premesso che negli ultimi quattro anni la variazione dei posti di lavoro riferiti alla seconda parte dell’anno è sempre stata negativa” – ha dichiarato Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia – “la stima riferita al 2012 è comunque migliore solo al dato di consuntivo riferito al 2009”. Se, infatti, nel 2009 la forza lavoro diminuiva la propria consistenza di ben 290.166 unità nella seconda metà dell’anno, nel 2010 i posti di lavoro persi furono 74.870 e, nel 2011, 139.365, improntando un andamento in salita che, appunto, raggiungerà nel corso del 2012 un punto piuttosto elevato. La variazione occupazione dell’anno in corso ha conosciuto, in particolare, un incremento di 1,1 punti percentuali (pari a 243.734 posti) nel secondo trimestre, rispetto al primo e vedrà, al contrario, un decremento di 0,8 punti percentuali (-178.000 unità) nel terzo trimestre sul secondo e di 0,1 punti (-24.000) nel quarto trimestre sul terzo.
L’aspetto probabilmente più drammatico della stima targata Cgia riguarda la prospettiva occupazionale delle piccole e medie imprese: “Purtroppo” – ha proseguito Bortolussi – “in queste ore non si sta consumando solo la drammatica situazione dei lavoratori dell’Alcoa o dei minatori del Carbosulcis, ma anche quella di decine e decine di migliaia di addetti delle Pmi che rischiano di rimanere senza lavoro”. “Le ristrutturazioni industriali avvenute negli anni ’70, ’80 e nei primi anni ’90 presentavano un denominatore comune”, ha rilevato ancora. Il fatto, cioè, che “chi veniva espulso dalle grandi imprese spesso rientrava nel mercato del lavoro perché assunto in una pmi. Oggi anche queste ultime sono in difficoltà e non ce la fanno più a creare nuovi posti di lavoro”.
Da qui deriva l’accorato appello della Cgia al Governo, affinché intervenga per eliminare gli ostacoli alla crescita delle piccole realtà imprenditoriali, le quali “continuano ad essere l’asse portante della nostra economia”: fondamentale – sostiene Bortolussi – è innanzitutto “recepire in tempi brevissimi la Direttiva europea contro il ritardo dei pagamenti, per garantire una certezza economica a chi, attualmente, viene pagato mediamente dopo 120/180 giorni dall’emissione della fattura”. Per ridare slancio alle attività aziendali, di primaria importanza sarebbe poi agevolare l’accesso al credito, poiché “l’assenza di liquidità rischia di buttarle fuori mercato”. Ultimo ingrediente della ricetta anticrisi proposta dall’associazione è l’alleggerimento del carico fiscale “premiando anche i lavoratori dipendenti, altrimenti sarà estremamente difficile far ripartire i consumi interni”.
Non meno ottimistiche sembrano poi le prospettive occupazionali per il prossimo anno. Stando al rapporto Confesercenti-RefIl quadro macroeconomico per l’economia italiana” – presentato lo scorso mercoledì 12 settembre, presso la sede nazionale di Confesercenti, dal Presidente Marco Venturiil 2013 vedrà un probabile rallentamento della crisi, tuttavia una serie di stime in negativo lasciano poco spazio a eccessive speranze: Pil in discesa di 0,4 punti percentuali, consumi nazionali al -0,9%, investimenti al -1,6% e, soprattutto, un tasso di disoccupazione che raggiungerà quota 11,1%.
Secondo Confesercenti, inoltre, la contrazione occupazionale sembra essere molto più forte nel lavoro autonomo che in quello dipendente; la diminuzione dei consumi ha, infatti, colpito duramente una quota importante del lavoro indipendente tradizionale, rappresentato da commercianti al dettaglio, artigiani e microimprenditori. Il periodo di intensa recessione conosciuto dal settore edilizio (costituito in gran parte da lavoratori indipendenti e microimprese) ha, in particolare, accresciuto il fenomeno. Il risultato sono, allora, oltre 100.000 lavoratori costretti a interrompere la propria attività, “non potendo in molti casi – sostiene Confesercenti – “contare su alcuna forma di protezione sociale e di sussidio contro il rischio della disoccupazione”. Si tratta di una svolta considerata quasi epocale, in base alla quale il lavoro autonomo perde la sua tradizionale funzione nel nostro paese, quella cioè di ammortizzatore sociale, in grado di assorbire una quota elevata della disoccupazione, attraverso forme di autoimpiego. Anche il lavoro autonomo subisce, dunque, in definitiva, la debolezza dell’attuale congiuntura economica.
L’allarme per le ditte individuali è stato lanciato, poi, anche domenica scorsa al convegno di Confesercenti a Perugia, dove si è rilevato come in cinque anni, dal 2006 al 2011, il tasso di sopravvivenza di tali imprese dopo i primi cinque anni di attività sia diminuito del 6,8%, passando dal 63,8% al 57%. Nello stesso periodo, il tasso di sopravvivenza a 5 anni per le società di persone è diminuito invece del 4% (passando dal 63% al 59%), mentre per le società di capitali, il tasso risulta positivo del 4,6%. Complessivamente il tasso di sopravvivenza risulta negativo per 3,3 punti percentuali. “Senza una serie di interventi mirati”, ha evidenziato l’associazione,  “ rischiamo un’accelerazione del declino dell’imprenditorialità italiana, con alti costi sociali”, visto appunto il ruolo di “schock absorber” della disoccupazione. Con l’attuale crisi del lavoro – ha proseguito – “saranno sempre di più i disoccupati che tenteranno di inventarsi imprenditori per tornare nel mondo produttivo ” . Se è giusto, da una parte, favorire la creazione di nuove imprese, è “altrettanto giusto preoccuparsi di stabilizzare il radicamento di quelle esistenti, favorendo in questo modo il mantenimento dell’occupazione che c’è”: “Con il decreto-crescita, il Governo ha agito per favorire l’avvio di nuove imprese, garantendo ai giovani sotto i 35 anni la possibilità di aprire una Srl con un solo euro di capitale e senza sostenere spese notarili. Al provvedimento, però, non si è accompagnato un contestuale intervento teso a stabilizzare le imprese già attive”, ostacolate sempre più “dall’aumento dei costi e della pressione fiscale, dal crollo dei consumi e dalla stretta del credito”.
Da un sondaggio realizzato da Swg (società che si occupa di ricerche di mercato, di opinione, istituzionali, studi di settore e osservatori) per Confesercenti emerge, inoltre, che nei prossimi cinque anni saranno circa un quarto (23%) le Pmi costrette a chiudere la propria attività, contro un 43% che manterrà inalterata la propria situazione economica e un misero 17% che potrà godere di una certa espansione.
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Turismo 2012: italiani sentono la crisi

I dati diffusi in questi giorni confermano un andamento negativo per il settore, per contro si rinnovano le abitudini e le esperienze dei turisti, grazie all’innovazione tecnologica e alla rivoluzione culturale in corso

Si dirà che interi settori d’eccellenza sono stati posti in ginocchio dall’attuale congiuntura economica negativa. Si sosterrà anche che la colpa è certo della crisi, ma che alla base vi è pure l’inadeguatezza politica di un Paese che non ha saputo sfruttare le proprie risorse e rilanciarle in forma nuova e fruttuosa. Ci si consolerà infine notando come alcuni segnali lascino intravedere il tanto atteso spiraglio di innovazione sorto dalle ceneri delle sempre più ridotte disponibilità finanziarie.
Sta per chiudersi la stagione estiva di quello che verrà da molti ricordato come l’annus horribilis del turismo nel Bel Paese ed è giunto il momento di fare i primi bilanci. Gli italiani, dopo aver frugato per bene nelle proprie tasche, hanno deciso di rinnovare il proprio approccio alle vacanze e, complice un’alfabetizzazione informatica di base abbastanza diffusa, hanno adottato nuovi modi e nuove prassi per godere della propria pausa estiva.
Rivela un sondaggio condotto da Assoviaggi-Confesercenti (l’associazione di categoria che riunisce le agenzie di viaggio, attraverso le quali passa il 25-30% del turismo outgoing italiano) come la crisi abbia influenzato pesantemente il quadro di riferimento: nell’estate 2012 – spiega Amalio Guerra, presidente di Assoviaggi – “le agenzie di viaggio hanno registrato una diminuzione del 30%. È il terzo anno consecutivo: dalla stagione estiva 2010 a quella di quest’anno si è perduto il 50% del giro d’affari”.
Le minori disponibilità economiche hanno spinto quest’anno gli italiani a modificare le proprie tempistiche di prenotazione, attendendo fino all’ultimo minuto, con la conseguenza che il periodo di maggiore attività per le agenzie di viaggio è stata la seconda metà di luglio, anziché giugno, come da tendenza ormai consolidata. La scelta della meta è stata allora compiuta soprattutto in base alla disponibilità di posti e al costo. Gli italiani hanno riscoperto il piacere delle vacanze in Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, con Campania, Puglia e Calabria in testa, attratti dalle promozioni, dalla convenienza e dalla sicurezza offerte dalle tre regioni. Sulla Sicilia ha invece pesato la cancellazione dei voli della compagnia Wind Jet. Ambite sono state le grandi città europee (Spagna, Baleari e Canarie), mentre sono calate le prenotazioni rivolte alla Grecia (qui resistono solo le isole) e ancor di più quelle rivolte a Tunisia, Marocco, Turchia ed Egitto (il Mar Rosso era in precedenza una delle mete più gettonate), per i timori legati all’instabilità politica e sociale. Cresce invece l’Oriente, soprattutto l’Indonesia, le cui isole attraggono per la convenienza dei prezzi offerti. Poco movimento, infine, verso gli Stati Uniti o il Sud America.
Con riferimento alla tipologia di viaggio, le agenzie rilevano una sostanziale tenuta delle crociere, in particolare di quelle dirette verso lidi mediterranei, questo a causa di un sostanziale taglio dei prezzi, con conseguente calo di fatturati e margini per il settore. Cresce poi il turismo “fai da te”, nella scelta autonoma della combinazione “volo + hotel”: le mete preferite sono state, in questo caso, le grandi città europee raggiunte da voli low-cost, tra le quali spiccano Parigi, Londra e Valencia; tiene bene anche il turismo autogestito diretto alla Croazia e alle mete di montagna (comunque in calo rispetto alle altre destinazioni).
La crisi ha aggravato le difficoltà tipiche del settore del turismo intermediato, con fatturati trascinati verso il basso dalla paura del crollo dell’euro, dall’aumento del costo della benzina e dalle sempre più ridotte disponibilità economica: “La situazione del settore è aggravata dai rapporti con Tour Operator e vettori” – sottolinea Guerra – “con una giungla di tariffe che rende ancora più complesso interagire tra clienti che cercano di spendere meno e fornitori che invece sperano di fare profitto. Per questo molte agenzie di viaggio si vendono costrette a ridurre i costi: qualcuna ha cominciato a non confermare il personale con contratti a termine, e da settembre si penserà anche a misure più drastiche”.
A conferma l’andamento negativo del turismo in questa ultima stagione estiva sono stati nei giorni scorsi anche i dati diffusi dalle associazione a tutela dei consumatori italiani: Adusbef e Federconsumatori hanno rilevato come solo il 34% degli italiani sia partito per una vacanza di almeno una settimana e come il 36% abbia invece optato per soluzioni mordi e fuggi, cercando spesso ospitalità presso amici e parenti. Sembra aumentare il fenomeno del pendolarismo verso le mete balneari, soprattutto nei fine settimana, con conseguente crescita dei disagi e delle segnalazioni relative ai disservizi nei treni (carrozze vecchie, assenza di aria condizionata, carenza di igiene).
La causa viene identificata nella caduta del potere d’acquisto delle famiglie, la soluzione viene auspicata nella previsione di un piano di rilancio complessivo del settore turistico, nella riduzione della tassazione, nell’investimento in sviluppo e crescita, indispensabili – sostengono Rosario Trefiletti (Federconsumatori) e Elio Lannutti (Adusbef) – ai fini di un rilancio generale dell’economia.
Non lasciano spiragli di fiducia, infine, nemmeno le stime degli albergatori. Cescat (Centro studi casa ambiente e territorio di Assoedilizia) e Aiaga (Associazione italiana amici grandi alberghi) rilevano, nel periodo luglio-settembre 2012, un giro d’affari del turismo di 30 miliardi di euro, pari ad una riduzione media del 2% con tendenza al 3% (quinto anno di recessione per il settore in Italia). Il dito è puntato in questo caso su “una inadeguata politica di promozione e di sostegno e della crisi economica che colpisce il turismo domestico rappresentante ben il 60% del totale”, come evidenzia il presidente Achille Colombo Clerici. Poco più del 40% degli italiani si reca in vacanza, a fronte del 48% del 2008, segnando così un ritorno al livello della metà degli anni Novanta; la media di permanenza in vacanza è di 12 giorni, mentre è incrementata la spesa media, passando dai circa 820 euro del 2011 agli oltre 900 euro, complice l’aumento dei costi di ristoranti, carburanti e autostrade. I lavoratori autonomi e il loro indotto hanno concentrato in agosto le proprie ferie, mentre la vacanza scaglionata nel corso di tutto il periodo estivo risulta appannaggio prevalente dei lavoratori dipendenti. Le vacanze in agosto sono aumentate dal 52 al 55%, tuttavia negli ultimi 5 anni si è parallelamente assistito ad un incremento del 50% tra coloro che rimangono in città a ferragosto (che rappresentano il 15 % della intera popolazione delle città). La meta principale (64%) per queste vacanze estive è stato il mare (prevalentemente in Emilia Romagna, Toscana, Puglia, Calabria). Calo del 12% nelle presenze in albergo, concentrate negli esercizi di medio-alto livello; incrementi, per contro, registrati presso gli hotel a 2 stelle (dal 6% del 2011 all’attuale 16%). Unico dato positivo è quello occupazionale, con decine di migliaia le persone, soprattutto giovani, che hanno trovato lavoro stagionale (da 2 a 6 mesi) con compensi da 500 a 2.000 euro al mese.
Amari erano stati a inizio mese anche i pronostici di Federalberghi, spingendo il presidente Bernabò Bocca a lanciare il suo allarme per il calo “generalizzato e devastante”, che “a memoria storica non si era mai visto”, per “uno dei settori che potrebbe, se opportunamente supportato, rappresentare il primo volano per la ripresa economica del Paese”, e a richiedere “a Governo e Parlamento lo stato di crisi del settore, unico strumento tecnico-giuridico per mettere in moto, auspichiamo, quella scossa indispensabile per definire mezzi e misure dei quali il turismo non può più fare a meno”.
Il turismo tuttavia, non sembra subire i soli effetti negativi della difficile congiuntura economica, ma, più di altri comparti, gode anche di quelli positivi dettati dall’evoluzione nelle dinamiche fruitive ed economiche generata dalla rete. Il viaggio viene sempre più percepito dagli utenti come un’esperienza condivisa, che si estende prima e dopo il viaggio in sé e arriva ad abbracciare blog, recensioni online, social network e applicazioni mobile. Le nuove piattaforme digitali mettono a disposizione delle risorse conoscitive pressoché illimitate e a disposizione di chiunque gratuitamente. Tali risorse sono implementate dal basso e, proprio per questo, amplificano l’importanza e l’eco dell’antico “passaparola” e richiedono, per contro, un’accurata operazione di ricerca e selezione da parte dell’utente. Molte sono state nelle ultime settimane le dita di albergatori e ristoratori puntate contro siti come TripAdvisor, colpevoli di ospitare commenti anonimi, dunque potenzialmente pericolosi, e di aver generato presunte operazioni di ricatto, scambio e crowdturfing, capaci di condizionare gusti e scelte degli utenti in modo utilitaristico, allo scopo di soddisfare gli interessi particolari di alcuni operatori. Affianco a strategie di marketing lodevoli che cercano nella validazione sociale dal basso lo sviluppo positivo della propria online reputation, se ne sono sviluppate altre malevole che si fondano sulla compravendita opportunistica di commenti e recensioni positive e negative da distribuire a seconda della convenienza, pur in assenza di riscontri concreti con la realtà delle cose.
Al di là delle comprensibili motivazioni degli operatori indispettiti da una cattiva recensione considerata ingiusta, al di là delle dichiarazioni di totale impegno nel combattere le “frodi” nelle valutazioni degli utenti, da parte del team dirigenziale di TripAdvisor, ciò che albergatori, ristoratori e tutti gli addetti del settore turismo non possono fare, se vogliono dimostrarsi realmente competitivi, è continuare a considerare la rete come un semplice canale aggiuntivo attraverso il quale veicolare la propria offerta, da affiancare a volantini, annunci e cartellonistica. Internet ha infatti cambiato radicalmente le regole del viaggiare, rappresenta lo strumento principale per chiunque decida di muoversi, condiziona l’intero processo fruitivo, dalla scelta della meta, alla raccolta di notizie utili, fino alla divulgazione delle proprie esperienze: si riduce la distinzione tra chi produce e chi consuma contenuti informativi e si accorciano le distanze tra reale e virtuale, Il nostro viaggio nasce nell’online, attraverso informazioni e consigli ricercati su travel blog e site reviews quali TripAdvisor, HolidayCheck e Zoover, visualizziamo in anteprima gli scenari dei quali saremo poi protagonisti attraverso siti di photo sharing (come Flickr, Pinterest e Followgram) o di video sharing (YouTube e Vimeo giusto per citare i più famosi), rileviamo su Google Maps le distanze utili alla pianificazione, ricerchiamo sui molti Skyscanner, eDreams, Expedia e lastiminute.com le migliori combinazioni di volo e pernottamento. Giunti a destinazione, ci lasciamo guidare da smartphone e tablet nella visita, dispositivi capaci di farci percepire una realtà cosiddetta “aumentata”, grazie alle numerosissime mobile applications o sfruttando i Qr code. Grazie a Facebook, Twitter, Instagram, Foodspotting, Foursquare condividiamo in tempo reale, con i nostri amici virtuali, stati d’animo, foto di panorami mozzafiato o di piatti golosi e la nostra stessa posizione. Inseriamo a nostra volta recensioni e commenti positivi o negativi sulle strutture che ci ospitano, infine, al rientro, ci aspetta l’immancabile album “Vacanze estate 2012” da pubblicare sulle piattaforme di social networking cui siamo iscritti, con decine di foto che ci auguriamo possano stupire i nostri contatti. Le funzionalità del web 2.0 incrementano, dunque, in definitiva, l’esperienza del viaggio, imponendo – per gli amanti delle definizioni – lo sviluppo del concetto di social travelling, alla cui base vi è una logica relazionale. Lab42 e MDG Advertising hanno di recente sviluppato due infografiche che, pur non riferite al contesto italiano, tentano di spiegare il fenomeno, svelandone, dati alla mano, la portata. Sempre nuove sono le formule ideate per gli utenti in rete e cresce in queste ore l’attesa per il possibile esito dell’annunciato acquisto, da parte di Google, di Frommer’s, il brand della casa editrice John Wiley & Sons che raccoglie oltre 300 pubblicazioni cartacee di guide turistiche e un sito web visitatissimo nel quale sono presenti non solo le guide ma pure migliaia di recensioni, e suggerimenti; tale acquisto, unito a quello di Zagat (portale dedicato alla ristorazione), avvenuto lo scorso anno, lascia supporre la volontà di Mountain View di creare qualcosa di  realmente innovativo per il settore turismo.
Riuscire a far fronte ad un simile contesto di reciproca contaminazione tra realtà concreta e digitale non sembra essere cosa semplice e non si può certo dire che tutti gli addetti del settore si siano dimostrati pronti: il cambiamento, prima ancora che tecnologico, è culturale. Costruire relazioni e incrementare la fiducia nella propria azione imprenditoriale dovrebbe essere lo scopo di ogni attività promozionale posta in essere dagli operatori del turismo e a poco servono le indignazioni urlate, le accuse o le missioni punitive rivolte a piattaforme comunque potenzialmente utili al proprio business.
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Federalismo fiscale, Confesercenti: “si paga di più”

Stando alle stime dell’associazione di categoria, l’addizionale sull’IRPEF introdotta con il federalismo ricadrebbe soprattutto sulle spalle di lavoratori autonomi e piccole medie imprese

Secondo uno studio realizzato dalla Confesercenti, l’addizionale sull’IRPEF introdotta dalla legge sul federalismo fiscale porterebbe i lavoratori autonomi e le piccole imprese a pagare molte più imposte.

Come si legge nel maxi decreto legislativo, che ha avuto il via libera dal consiglio dei ministri il 7 ottobre scorso e che accorpa le nuove disposizioni sulla finanza regionale, provinciale e sui costi standard in sanità, “ciascuna Regione a Statuto ordinario può, con propria legge, aumentare o diminuire l’aliquota dell’addizionale regionale all’IRPEF di base. La predetta aliquota di base è pari allo 0,9% […]. La maggiorazione non può essere superiore:

a) allo 0,5 per cento, sino all’anno 2013;
b) all’1,1 per cento, per l’anno 2014;
c) al 2,1 per cento, a decorrere dall’anno 2015” (art. 5, comma 1).

Stando alla denuncia di Confesercenti, allora, l’attuazione del tanto agognato federalismo fiscale su base regionale potrebbe obbligare le categorie sopraccitate a pagare addizionali regionali fino al 2,1% a partire dal 2015, con un incremento delle imposte IRPEF fino a 1.260 euro l’anno. L’aumento, però, non riguarderebbe le prima due fasce di reddito, cioè i lavoratori dipendenti e i pensionati.

L’addizionale IRPEF potrebbe salire progressivamente fino al 3% (0,9% l’aliquota generale e fino al 2,1% l’aumento possibile delle Regioni) e secondo Confesercenti è “fortemente probabile una rincorsa al rincaro delle aliquote da parte delle regioni, soprattutto quelle (la quasi totalità) con i bilanci in rosso”.

Alcune stime, in particolare, sembrano particolarmente significative: un artigiano o un commerciante che abbia un reddito pari a 20 mila euro, dovrà pagare 420 euro in più l’anno, ipotizzando un’aliquota al 2,1% nel 2015, contro i 100 euro richiesti al lavoratore dipendente di pari reddito. Al crescere del reddito, cresce anche l’esborso: ecco allora che un lavoratore autonomo che guadagni 40 mila euro l’anno, pagherà 840 euro in più, a fronte dei 392 euro in più del dipendente; con 60 mila euro di reddito annuale, invece, si troverà a sborsare 1.260 euro in più, contro gli 812 euro.

Lo studio, realizzato esclusivamente in relazione all’applicazione della percentuale massima possibile, non tiene, tuttavia, conto del fatto che le regioni potranno applicare l’addizionale IRPEF solo se ridurranno, o addirittura elimineranno, l’imposta regionale sulle attività produttive, IRAP, che colpisce il reddito prodotto al lordo dei costi per il personale, degli oneri e dei proventi di natura finanziaria e che, al momento, è determinata a discrezione delle regioni stesse, all’interno di un intervallo compreso tra il 2,9 e il 4,9%.

L’organizzazione dei commercianti ha evidenziato, infine, come, a fronte di eventuali maggiorazioni di aliquota nelle regioni, non sia prevista una riduzione dell’IRPEF erariale.

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